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Mercati: l'impotenza delle Banche
Centrali
13 Febbraio 2008 MILANO
- di Francesco
Arcucci ________________________________________
Ogni espansione economica si
accompagna ad una fase di espansione del credito. La presente
espansione del credito, connessa con un ciclo economico positivo
lunghissimo e caratterizzato da brevissime interruzioni, non poteva
non provocare degli eccessi (un uso smodato del credito)
attraverso un processo circolare fra l’offerta di credito (da parte
del sistema bancario e altre istituzioni) e l’aumento di valore
delle garanzie. Le concessioni di credito, infatti, aumentano il
valore delle garanzie e queste ultime servono da base ad ulteriori
finanziamenti. È
inevitabile che ad un certo momento questo processo cozzi contro i
limiti di bilancio dei richiedenti credito (per patrimonio e
capacità di servire il debito) e anche degli stessi offerenti
credito (dati i requisiti di patrimonializzazione). In questi ultimi
anni, purtroppo, questi limiti sono stati aggirati (ad esempio, con
i mutui subprime, con la trasformazione degli stessi in Cdo’s e con
le cartolarizzazioni) e l’espansione creditizia fisiologica si è
trasformata in boom o, in altri termini, in inflazione creditizia.
Allorché tale boom ha cominciato a
sgonfiarsi e la crisi è iniziata, le autorità monetarie sono
intervenute, ma sono state prese in una trappola. Infatti, per
lottare contro la crisi hanno dovuto iniettare nuova liquidità,
contribuendo ad espandere ancora di più il credito ed accentuando
gli squilibri già in essere. Ma intanto la crisi finanziaria si era
già propagata. Dai mutui
subprime essa contagia le Cdo’s e poi, a cascata, mette in pericolo
le società di assicurazione dei mutui e minaccia di sconvolgere
l’enorme mercato (45.000 miliardi di dollari) dei credit default
swaps. Le banche di investimento percepiscono, come mai prima
era avvenuto, il peso del loro indebitamento derivante dagli impegni
per finanziare i leveraged buyouts. I fondi hedge si scoprono
non così market neutral come si credeva e molti devono essere
smontati. Il mercato della carta commerciale scompare. Gli ‘special
purpose vehicles’, con cui le banche riuscivano a fare uscire i
mutui dai loro bilanci, non possono più essere finanziati sul
mercato. Anche il mercato dei depositi interbancari diviene sospetto
perché le banche non si fidano più le une delle altre. L’unico bastione contro il
disastro rimane quello rappresentato dalle banche centrali che in
regime di fiat money (cioè senza supporto reale) iniettano un’enorme
quantità di danaro a fronte di un’accresciuta gamma di titoli e ad
un maggior numero di banche. Questo fatto, oltre a creare un
mercato asimmetrico chiamato azzardo morale perché non punisce
adeguatamente con le perdite gli investitori quando sbagliano, così
come venivano premiati con guadagni quando avevano ragione (dando la
sensazione che le banche centrali siano altrettanti bancomat)
finisce purtroppo per aggravare la crisi. L’inflazione creditizia
deve essere seguita da un periodo di contrazione creditizia per
spazzar via strumenti, pratiche e operatori non sani e incapaci di
autoregolarsi.
Pensare che le banche centrali con
i loro soli mezzi possano controbilanciare la deflazione creditizia,
monetizzando tutto il mercato del credito, è un’illusione. Se
cercassero di fare questo, così come forse stanno tentando,
correrebbero il rischio di generare una salita dei prezzi, un
improvviso rialzo dei tassi di interesse e a quel punto la loro
capacità di stimolare l’economia finirebbe bruscamente.
Per quanto riguarda la Fed questo tentativo di combattere
la deflazione creditizia incontra anche l’ostacolo di una crisi del
dollaro come moneta di riserva internazionale. Del resto è logico.
La fase di inflazione creditizia è durata molti decenni ed è stata
alimentata, sul piano interno, dalla creazione di moneta senza
supporto reale e, sul piano internazionale, da un sistema monetario
internazionale basato sul dollaro inconvertibile (dollar standard)
in essere dal 1971. Non è quindi un caso che il passaggio alla
deflazione creditizia coincida con la crisi del dollaro come moneta
di riserva internazionale. Tale crisi, oltre i menzionati rischi di
inflazione, limita i poteri di intervento della Fed: ecco perché
crediamo che la deflazione del credito finirà per prevalere su tutta
la linea, con gli effetti che si possono immaginare sulle borse e
sull’economia.
 |
Fonte -
La Repubblica |
ECONOMIA, LA TRAPPOLA DELLA LIQUIDITA'
11 Febbraio 2008 18:34
TORINO - di La
Stampa ______________________________________________
La riunione del G7 a
Tokyo è stata dominata dal pessimismo. I ministri delle
finanze e i governatori delle banche centrali dei Paesi
maggiormente sviluppati hanno concordemente evidenziato rischi
persistenti per la crescita globale, in conseguenza della
crisi dei mercati dei capitali. La crisi finanziaria,
innescata dal settore dei mutui subprime e aggravata dalla
carenza di fiducia, si sta estendendo all’economia reale degli
Stati Uniti e, per questa via, sta contagiando la crescita
globale. Il rallentamento della crescita globale, a sua
volta, ha effetti ulteriormente negativi sul sistema
finanziario, dove permane peraltro una notevole sfiducia. Per
contrastare questo rischio, gli Stati Uniti hanno tagliato i
tassi di interesse dell’1,25%, portandoli al di sotto del
tasso di inflazione. Nel corso della settimana, inoltre, il
Congresso ha varato il pacchetto di stimolo fiscale di 168
miliardi di dollari, mirato alle fasce più deboli della
popolazione. La logica di questa misura è duplice: facilitare
il pagamento dei mutui da parte dei soggetti più a rischio, e
sostenere i consumi della fascia più povera. Durante il
G7, il segretario del Tesoro americano Paulson ha tentato di
convincere i colleghi della necessità di uno stimolo fiscale
coordinato per evitare un rallentamento dell’economia globale.
Ma la riunione, come spesso accaduto in passato, si è conclusa
senza un accordo, perché alcuni Paesi hanno rigettato la
proposta. Il mancato accordo ha una sua ragione. La situazione
economica è diversa nelle varie aree del mondo. E le varie
aree hanno un diverso atteggiamento verso i deficit di
bilancio. Tuttavia, la proposta di uno stimolo fiscale
coordinato ha motivazioni profonde. Negli Stati Uniti occorre
arrestare la spirale negativa tra settore finanziario e
settore immobiliare. In Asia, e soprattutto in Cina, occorre
sostenere i consumi interni per contrastare il calo delle
export verso l’America. In Europa, occorre sostenere
l’investimento, soprattutto in infrastrutture, e contrastare
il disagio crescente della popolazione più debole. Al di
là di questi elementi, un po’ in tutte le aree, vi è
soprattutto il rischio di una «trappola della liquidità»: una
situazione in cui l’economia ristagna, il tasso di interesse è
molto basso e le autorità monetarie non sono in grado di
stimolare la crescita poiché i fondi disponibili non vengono
spesi, o investiti, in assenza di concrete prospettive di
crescita. In questa situazione, la nuova liquidità non viene
investita ma impiegata a breve termine, mentre le banche,
anche per assenza di fiducia, limitano il credito
intrappolando appunto la liquidità. Di qui la necessita di
usare lo stimolo fiscale oltre che quello monetario per
rimettere in moto la crescita e le aspettative.
Naturalmente, per poter usare la leva fiscale senza rischi
di instabilità occorre partire da un bilancio vicino
all’equilibrio. Per questo il Patto di Stabilità, riformato
nel 2005, raccomanda di risanare i bilanci nelle fasi di
crescita, in modo da avere flessibilità nelle fasi di
recessione. Negli ultimi anni, caratterizzati da un buon tasso
di crescita, il bilancio pubblico italiano è decisamente
migliorato. Ma i margini di azione sarebbero oggi molto
maggiori se non avessimo speso circa un punto di Pil con la
pratica dei «tesoretti», alla ricerca del consenso più che
della crescita.
Fonte
- La Stampa
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Stairway to Heaven
12 Febbraio 2008 -
di Charles Dexter Ward
______________________________________________
Per capire
la portata del problema nato dalla scelta applicare ai
prodotti legati al credito strutturato la tradizionale scala
di rating utilizzata per valutare le emissioni corporate
bisogna fare un piccolo passo indietro ed interrogarsi sul
significato di base del rating stesso: molto spesso, quando
vengono messe sotto accusa dalla stampa e dalla comunità
finanziaria, le agenzie internazionali si trincerano dietro la
consueta risposta secondo cui il rating ha come unico fine
quello di esprimere una valutazione la più possibile oggettiva
del rischio di credito associato ad ogni emittente e ad ogni
diversa emissione da quest’ultimo utilizzata per raccogliere
finanziamenti sul mercato. Argomentazione assolutamente
corretta che chiarisce come nelle valutazioni delle agenzie di
rating non siano contemplate valutazioni in termini di rischio
di mercato e quindi di bontà dell’investimento. Se infatti la
validità un investimento si misura in termini di congruo
rapporto tra rischio e rendimento, ci viene ricordato che
mentre i rendimenti sono osservabili sul mercato, le agenzie
di rating ci vengono in soccorso nella quantificazione dei
rischi. Perfetto, fino a qui nulla da eccepire, almeno
nell’impianto teorico, visto che poi nella pratica di cose da
dire ce ne sarebbero molte, ma per il momento limitiamoci a
ragionare ancora sulla teoria. Le valutazioni di cui stiamo
parlando per essere utilizzabili nell’analisi trasversale del
mercato devo essere confrontabili fra loro, ed è questo il
motivo per cui ognuna delle principali agenzie di rating
utilizza una “scala” in cui vengono tradotti i propri
giudizi. Ma attenzione, è questo il punto cruciale: la
scala di rating non esprime solo differenti gradazioni in cui
vengono sintetizzati dei giudizi qualitativi, ma al contrario
assume un significato ben preciso in cui ad ogni livello è
associata una determinata probabilità statistica del
verificarsi dell’evento insolvenza ( in realtà il calcolo è un
po’ più complesso e prende in considerazione il concetto di
“perdita attesa”, ma la sostanza non cambia). Cerchiamo di
capire perché questo passaggio è essenziale. Nell’esprimere un
giudizio posso fermarmi ad un giudizio qualitativo assoluto:
il gelato alla fragola è buonissimo. Posso anche spingermi
oltre e affermare che il gelato alla fragola è molto buono,
sicuramente da preferire al gelato alla vaniglia: ho
relativizzato il mio giudizio, permettendo all’osservatore di
ordinare le mie preferenze in tema di gelato. Ma se invece
esclamo: “è presto, sono appena le 6 e mezza di mattina“,
allora il gioco cambia, perché sto esprimendo una valutazione
che rimanda direttamente ad una scala di misurazione ( in
questo caso rappresentata dall’orologio) nota sia a me che al
mio interlocutore, situazione che rende immediatamente
traducibili ed interpretabili le mie parole grazie ad una
qualche funzione quantitativa nota sia a me che al mio
interlocutore. Il corto circuito logico che si è creato con
i rating dei prodotti strutturati è stato esattamente questo:
non ci si è fermati ad un giudizio qualitativo relativo, che
avrebbe ordinato la rischiosità dei vari strumenti permettendo
un confronto diretto fra di loro. Per esprimere questi
giudizi si è invece utilizzata la scala di rating già in
essere secondo cui AAA non vuol dire semplicemente “buono “ o
“poco rischioso”, ma alla voce AAA è associata una puntuale
quantificazione del rischio di credito, quantificazione che
però nasce dall’osservazione empirica e dalla mappatura
statistica del rischio associato a strumenti diversi da quelli
in questione e non necessariamente omogenei in termini di
distribuzione statistica delle perdite nel tempo. Solo fra
qualche anno saremo in grado di quantificare le eventuali
differenze che esistono nella rischiosità ex post di strutture
come i CDO etc etc, dove gioca un ruolo determinante anche il
concetto di correlazione. La questione non è di poco conto
tanto è vero che le agenzie di rating stanno correndo ai
ripari come ben evidenziato nel post su “The Mote in God’s
Eye”: meglio tardi che mai ovviamente, ma forse i buoi son già
scappati.
Fonte
- Macromonitor
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La grande nube nera
sui Listini mondiali
18 Febbraio 2008 MILANO
- di Giuseppe
Turani ________________________________________
Questa volta ci siamo? Ci si
riferisce ovviamente alla recessione americana. Recessione che ha
fatto scrivere un testo abbastanza ironico a un paio di analisti di
Abn Amro in vena di prendersi un pomeriggio di libertà: abbiamo
capito, non si vede ma è già qui, durerà trent´anni, la Federal
Reserve prima porterà il denaro a zero, poi lo getterà dagli
elicotteri, ma nessuno lo raccoglierà e l´economia si fermerà tutta
quanta. In realtà, in settimana sono arrivati segnali
molto preoccupanti, che inducono a dire che, se non siamo ancora
dentro la recessione, siamo comunque molto vicini a una frenata
molto forte. Forse siamo addirittura a un passo, per quanto riguarda
l´America, dalla crescita zero. Per ora si tratta di segnali
indiziari, ma è bene essere attenti, di questi tempi. Il primo è
l´indice Empire (di New York) che di solito è un buon anticipatore
dell´indice Ism, il quale a sua volta rende conto degli umori dei
direttori acquisti delle aziende manifatturiere. Ebbene, l´indice
Empire non è andato bene e gli esperti dicono che lascia immaginare
un indice Ism a quota 48. Per conoscenza statistica si dice
che quando l´indice Ism va sotto 50 l´economia americana entra in
una fase di contrazione. Quando va sopra siamo in una fase di
sviluppo. Con quota 48, quindi, saremmo in una fase di
contrazione. La cosa, che ha destato un certo allarme presso
gli operatori, non dovrebbe invece stupire più di tanto, visto che
l´economia americana è in contrazione da tempo e anche in maniera
piuttosto robusta. Probabilmente, però, tutti i ragionamenti intorno
al prossimo indice Ism vanno letti come una possibile segnalazione
di «ulteriori» contrazioni. E poiché siamo già molto in basso, come
attività produttiva, ecco che gli operatori si preoccupano.
Anche perché, nel frattempo, è uscito anche
l´indice del Michigan, che riguarda gli umori non degli industriali
o degli operatori, ma dei consumatori. E anche l´indice Michigan è
andato molto male. Si è piazzato ai livelli più bassi dal 1992 a
oggi. Ai livelli più bassi degli ultimi sedici anni. E questa
è una cattiva notizia, molto cattiva, perché si sa che l´economia
americana è tenuta in piedi proprio dai consumatori: se quelli
cedono, se quelli smettono di andare con la solita frequenza
all´ipermercato, allora sono guai seri. Certo, ci potrà essere
un certo recupero con le esportazioni (grazie anche a un dollaro
basso), ma se il mercato interno cede, l´economia americana rischia
seriamente di avvitarsi su se stessa. E, a quanto pare, è quello che
sta avvenendo, e che alimenta i timori di recessione imminente.
Anche se vanno dette un paio di cose. Anche i meno ottimisti
prevedono, per ora, solo una possibilità crescita zero, o vicina a
zero, nel primo trimestre dell´anno. E, forse, anche nel secondo.
Poi le cose dovrebbero andare meglio. E infatti fra la trentina di centri studi
che hanno redatto le previsioni di Consensus (febbraio) relative
all´economia americana non se ne trova nemmeno uno che abbia visto
il 2008 con una crescita negativa. La media parla di un aumento del
Pil dell´1,6 per cento seguito da una crescita del 2,6 per cento nel
2009. Insomma, una frenata, brusca fin che si vuole e antipatica, ma
non ancora una lunga e dura recessione. Gli operatori e i
mercati, però, non ostentano tranquillità e spiano l´andamento dei
vari indici (Empire, Michigan, ecc.) con molta attenzione perché
temono che la recessione (con il relativo crollo di affari e di
profitti) possa arrivare improvvisamente cogliendo tutti in
contropiede. Ma, a parte
questi segnali di rallentamento dell´economia, la vera ansia ai
mercati è data da un altro elemento, e cioè dai soliti «piccoli
mostri», i prestiti subprime e analoghi. Di recente in tanti
si sono messi a fare i conti su quanto c´è ancora di «buco» (non
rivelato) nei conti delle maggiori banche mondiali e i risultati non
sono consolanti. A seconda delle stime (e di come andrà il mercato
immobiliare) si stima che il «buco nero» (oggi non visibile)
dovrebbe oscillare fra i 200 e i 250 miliardi di dollari. Si è abbastanza sicuri che questo
buco esista, ma non si sa dove si trova, non si sa come è
distribuito e è proprio questo a togliere il sonno a operatori e
mercati. Dopo che una banca seria come Ubs ha dovuto denunciare un
buco di 7 e passa miliardi di euro, chiunque nelle Borse può
legittimamente sospettare di chiunque. Ma un mercato dove
tutti sospettano tutti (e sono sospettati) non è un mercato felice.
E nemmeno un mercato che possa guardare avanti. È, piuttosto, un
mercato che cerca di guardarsi alle spalle, per non prendersi il
bidone. E quindi, in definitiva, è un mercato attento, poco
coraggioso, senza idee. È un mercato che campa alla giornata. E
che spera che qualcuno faccia luce. Ma le banche tacciono perché
sperano di riuscire in un modo o nell´altro a sanare i buchi che si
portano dietro. Il risultato è come se un´immensa nube nera gravasse
sui listini di tutto il mondo. Ogni tanto vanno su o giù. Ma con
pochissima convinzione.
 |
Fonte -
La Repubblica |
OCCIDENTE IN VENDITA, ACQUIRENTI GLI ARABI
19 Febbraio
2008 02:39 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
I fondi
sovrani, soprattutto quelli medio-orientali, si lanciano alla
conquista del mondo finanziario occidentale. L'ultimo esempio
è dato dal Qatar Investment Authority che dal mese di gennaio
ha iniziato a rastrellare sul mercato ed accumulare azioni di
Credit Suisse, nell'ambito di un ambizioso progetto da 15
miliardi di dollari che mira all'acquisizione di
partecipazioni rilevanti in diverse istituzioni finanziarie
occidentali. Al momento, la quota del fondo del Qatar nella
banca svizzera é ancora sotto il 3%, livello oltre il quale
sarebbe obbligatorio un comunicato pubblico, ma nessuno se la
sente di escludere che la corsa del fondo in Credit Suisse si
possa esaurire con gli acquisti degli ultimi giorni.
"Abbiamo rapporti con Credit Suisse e abbiamo acquistato
titoli sul mercato, ma ancora non è possibile dire in quale
percentuale poiché stiamo ancora procedendo con l'operazione",
si è limitato a dire Hamad bin Jasim bin Jaber al-Thani,
amministratore delegato del Qatar Investment Auhority. Torna
così di attualità il tema dei fondi sovrani, quei fondi di
investimento controllati direttamente dai governi di
determinati paesi (sono 29 adesso nel mondo, soprattutto in
nazioni produttrici di petrolio), che vengono utilizzati per
investire in strumenti finanziari i surplus fiscali o le
riserve di valuta estera ottenute con gli scambi commerciali.
I livelli record raggiunti dal petrolio e il contemporaneo
calo dei titoli finanziari seguito alla crisi dei mutui
subprime ha creato opportunità di investimento uniche che i
fondi sovrani non si sono fatti sfuggire. In prima fila si
muovono i fondi arabi, ma anche Cina e Singapore non restano a
guardare. A fine dicembre Morgan Stanley ha annunciato
l'ingresso nel suo capitale di China Investment, con un
investimento da 5 miliardi di dollari in obbligazioni
convertibili per il 9,9% del capitale, dopo essersi
aggiudicata il 10% del gestore di private equity Blackstone
per 3 miliardi. Poi è stata la volta del fondo di Singapore
Temasek, che con altri 4,4 miliardi di dollari si è
aggiudicato il 9,4% di Merrill Lynch e proprio oggi ne ha
girato uno 0,1% alla coreana Hana Bank per 50 milioni. La
lista però è lunga: a luglio China Development Bank ha puntato
3 miliardi per il 3,1% di Barclays; Abu Dhabi ha speso a
novembre 7,5 miliardi per il 4,9% di Citigroup; a dicembre
Singapore Gic ha investito quasi 10 miliardi nel 9% di Ubs,
senza contare che la stessa Qatar Investment Authority detiene
già il 20% del London Stock Ecxchange, fusosi con Borsa
Italiana, e il 10% dell'operatore nordico Omx. Una realtà con
cui fare i conti, quindi, e che solleva i timori di diversi
osservatori: è positivo l'apporto alla liquidità, ha
dichiarato il Fondo Monetario Internazionale, ma sono
necessari ulteriori passi in avanti verso la trasparenza. La
stessa linea del commissario Ue al mercato interno, Charlie
McCreevy: "ridurre o limitare l'accesso a questi fondi
costituirebbe un passo indietro - ha affermato - ma ci sono
aspetti, soprattutto relativi a trasparenza e governance, che
debbono essere attentamente valutati".
Fonte
- ANSA
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Borsa:
Hedge Funds,
ecco la prossima bufera
19 Febbraio 2008 NEW
YORK - di Paolo Flores
d’Arcais ________________________________________
Si chiama The Hedge Fund Implode
Meter, ed é un sito online che tiene costantemente aggiornata la
situazione degli hedge fund: con una classifica di quelli falliti,
di quelli più a rischio, delle prospettive future. Una sorta di
barometro per aiutare gli investitori di ‘fondi a rischio’ a
muoversi in questo particolare (e complicato) mondo finanziario nel
pieno di una crisi che rischia di peggiorare nei prossimi mesi.
Dopo la crisi dei mutui
‘subprime’ che ha sconvolto i mercati con conseguenze tuttora
pesantissime, molti analisti sono convinti che adesso toccherà agli
‘hedge fund’. «Cercare di valutare il comportamento di un
‘hedge fund’ é come "tentare di inchiodare un blancmange (un pudding
alle mandorle dolci, ndr) al muro», ha scritto recentemente
l’Economist, perché quello dei "fondi a rischio" é un "mondo
darwiniano".
Al mondo ci sono circa diecimila hedge fund, i
cui asset complessivi secondo l’Hedge Fund Research (Hfr) –
raggiungono la cifra complessiva di 1.870 miliardi di dollari.
Quando i mercati finanziari vennero scossi dall’ultima grande crisi
(quella del 20002001) di hedge fund ce ne erano pochi, ed é per
questo che oggi é difficile fare una previsione su come questi fondi
reagiranno in una situazione di agitazione dei mercati. Molti sono
destinati al fallimento, altri – concepiti proprio per ricavare
benefici dalla crisi – potrebbero anche guadagnare un sacco di
soldi. Gli hedge funds, che in italiano vengono tradotti
generalmente in ‘fondi speculativi’ o ‘fondi a rischio’ non sono una
novità degli ultimi anni (negli Stati Uniti risalgono addirittura
agli anni Cinquanta). Sono concepiti per un mercato di persone
agiate, di aziende e di manager, visto che per la legge americana
gli investitori devono avere un patrimonio di un milione di dollari
(minimo) o entrate nette per oltre 200mila dollari. L’obiettivo é
semplice, ed è quello di produrre rendimenti costanti nel tempo: con
investimenti ad alto rischio e con possibilità di ritorni molto
fruttuosi.
Il più famoso é stato il Quantum
Fund, creato nel 1970 da George Soros e Jim Rodgers. Nei successivi
dieci anni il fondo ebbe un rendimento del 3.365 per cento (42,5 per
centro ogni anno per 10 anni), creando le basi della grande fortuna
di Soros. Che divenne famoso, ancora più del suo fondo, nel
‘venerdì nero’ del 16 settembre 1992, quando vendette allo scoperto
più di 10 miliardi di dollari in sterline, costringendo di fatto
(almeno così si dice) la Banca d'Inghilterra ad uscire dallo Sme e a
svalutare la sterlina. Soros guadagnò allora una cifra stimata in
1,1 miliardi di dollari e la fama di "uomo che ha sbancato la Bank
of England". Il Quantum é ovviamente un’eccezione nel panorama
degli hedge fund, che peraltro fino all’inizio del nuovo secolo non
hanno avuto una grande espansione. Il boom é infatti degli ultimi
anni ed é proprio questo boom che allarma oggi il mondo della
finanza. Gli hedge fund hanno infatti la necessità di offrire ai
propri sottoscrittori una performance media molto elevata (in genere
attorno al 20 per cento all'anno), cosa che richiede a sua volta il
ricorso ad operazioni ad alto rischio. Fattore molto importante è
che oggi si basano sugli gli hedge funds più che su altri strumenti
d’investimento anche i grandi fondi di private equity, che
controllano i due terzi delle operazioni realizzate sui listini
azionari nordamericani.
I tre fondi di private equity più
importanti del mercato (Texas Pacific Group, Blackstone e Kkr) hanno
insieme una capacità equivalente al 30 per cento del mercato
mondiale delle operazioni a breve termine. Ecco perché c’è il timore
che se dopo la crisi dei mutui ‘subprime’ toccherà adesso agli
‘hedge’ le conseguenze saranno difficilmente immaginabili.
L’allarme lo ha lanciato
a Davos George Soros. Non era il primo, ma le sue parole, data la
statura del personaggio, sono quelle che hanno avuto maggiore
risonanza da parte dei media. Poi é stata la volta di Alan Greenspan
– che ha da poco assunto il ruolo di ‘advisor’ per il guru degli
hedge fund John Paulson – e che in un’intervista al ‘Wall Street
Journal" ha detto molto chiaramente che siamo vicini alla
recessione: «Le recessioni non sono improvvise e sono generalmente
anticipate e segnalate da una discontinuità nel mercato e i dati
delle ultime settimane possono essere letti in questo senso».
Nella sua analisi "I dodici
scalini verso il disastro finanziario", Nouriel Roubini presenta
quello che definisce uno scenario da "incubo" o "catastrofico",
scenario che ha adesso diverse probabilità di diventare realtà e di
cui anche la Fed e i leader finanziari europei cominciano a prendere
atto. Per Roubini la recessione del 2008 (il cui inizio viene datato
al dicembre 2007) sarà peggiore di quelle del biennio 1990/1991 e
del 2001. E un ruolo decisivo lo avrà quello che lui chiama il
"shadow financial system", composto proprio da istituzioni non
bancarie come gli hedge funds. Gennaio é stato un mese
nero per gli hedge. Quelli che si sono concentrati sul mercato
azionario hanno perso una media del 4,1 per cento, la peggiore
performance degli ultimi sette anni. ‘Goldman Sachs Investment
Partners’, che aveva raccolto sette miliardi di dollari – un record
per un nuovo fondo – ha perso il 6 per cento nel suo primo mese; L’
‘Atticus Global Fund’ di Timothy Barakett, noto per aver ‘scommesso’
su una dozzina di compagnie quotate a Wall Street ha perso il 12 e
mezzo per cento. «Naturalmente scommettere grandi cifre sul fatto
che la Borsa vada in alto o in basso é oggi un po’ come giocare alla
roulette», sostiene un analista di Wall Street. E del resto l’Hedge
Fund Reserarch paragona quanto successo in gennaio alle perdite
(allora furono del 4,3 per cento) del novembre 2000, quando il
collasso della New Economy travolse il mercato finanziario.
L’ultimo colpito, venerdí scorso, é
stato un ‘hedge fund’ di Citigroup. Il grande gruppo
bancariofinanziario americano ha infatti congelato il fondo Cso
Partners, come conseguenza della difficile situazione in cui si
trova avendo scommesso – scommessa persa – sui prestiti alla
clientela Corporate, cioè alle aziende. Congelamento che ha portato
alle dimissioni di John Pickett responsabile del fondo. Cosa é
successo? Come ha spiegato il ‘Wall Street Journal’ gli investitori
avevano provato ad ottenere il rimborso di 150 dei 500 milioni di
dollari di asset di Cso Partners. Che é lo stesso fondo che lo
scorso anno aveva fatto registrare perdite tali da costringere
Citigroup ad iniettare circa cento milioni di dollari di liquidità.
Come in difficoltà é anche un altro di Citigroup, Falcon Plus
Strategies. Si tratta di un ‘leverage fund’ operativo dal 30
settembre scorso che nei primi tre mesi di attività avrebbe perso
circa il 52 per cento dopo aver puntato sulla fine del ciclo di
investimenti legato alla performance delle obbligazioni. Una
scommessa perdente. Il
futuro del mercato potrebbe dipendere dal vento che arriva da Asia e
Medio Oriente. A scongiurare, o perlomeno a frenare, la crisi degli
‘hedge’, potrebbero infatti pensarci i ‘sovereign funds’, i fondi
statali dei paesi del Golfo e asiatici, che sono dotati di un
patrimonio superiore ai duemila miliardi di dollari e che viene
alimentato continuamente dalla vendita di petrolio e gas. Nelle
ultime settimane (stime Thomson Financial) i ‘sovereign funds’ di
paesi come Singapore, Emirati Arabi e Arabia Saudita, hanno
investito 74 miliardi di dollari in azioni di grandi imprese
americane ed europee. Per fare un esempio i ‘sovereign
funds’ di Singapore e Kuwait hanno stanziato oltre dodici miliardi
di dollari per l’acquisto di quote proprio del Citigroup. Nel solo
settore finanziario questi fondi hanno investito già oltre 30
miliardi di dollari in titoli Bear Stearns, Citi, Morgan Stanley e
Ubs. Se il petrolio continuerà a viaggiare oltre gli ottanta dollari
e dato che i due terzi delle riserve mondiali di greggio sono
localizzate nei paesi di quell’area, i grandi gruppi americani ed
europei dovranno continuare a fare i conti con loro.
 |
Fonte -
La Repubblica |
INFLAZIONE: IN AMERICA QUELLA REALE E' +8%
22 Febbraio
2008 13:00 MILANO -
di Finanza&Mercati ______________________________________________
Anche gli
Stati Uniti hanno il loro Jean-Claude Trichet. Si chiama
Richard W. Fisher ed è da due anni a capo della Fed di Dallas.
In quanto tale, fa parte del Fomc, il «consiglio di saggi»
responsabile negli States per le decisioni di politica
monetaria. E proprio nell’ultimo incontro del Fomc, quello di
fine gennaio, Mr. Fisher ha dimostrato una spiccata
sensibilità nei confronti delle argomentazioni che hanno
spinto la Bce a mantenere invariato il costo del denaro negli
ultimi mesi. Come si apprende dei verbali dell’incontro
diffusi mercoledì, il numero uno della Fed di Dallas è stato
l’unico membro a votare contro la decisione di un nuovo taglio
di 50 punti base dei Fed Fund. «Tenuto conto delle misure già
adottate - recitano le minute - Mr. Fisher ritiene che la
politica monetaria sia stata già abbastanza accomodante». E
che «i rischi inflativi siano divenuti più rilevanti rispetto
a quelli di un rallentamento di lungo termine della crescita
economica». La posizione di Fisher, sebbene sia stata
snobbata dagli altri membri del Fomc, sta incontrando non
pochi sostenitori. Tra i quali John Williams, il Ralph Nader
dell’indagine economica. Sono anni che Williams critica i dati
ufficiali e per l’occasione ha rispolverato una vecchia
evidenza: applicando i modelli di calcolo antecedenti
all’amministrazione Clinton, il tasso di inflazione
risulterebbe prossimo all’8%, contro il 4,3 ufficiale.
Chissà che se le considerazioni di Fisher prendono spunto
anche dai dati ufficiosi di Williams. In ogni caso, la tesi di
entrambi è la medesima: l’inflazione rimane un problema. Anche
negli States.
Fonte
- Finanza&Mercati
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STIGLITZ: RECESSIONE USA PROBABILE, LA FED E' GUIDATA DAL
PANICO
26 Febbraio
2008 11:51 ROMA - di ANSA ______________________________________________
L'economia
statunitense è "probabilmente" in recessione e il presidente
della Fed, Ben Bernanke, ha agito troppo tardi sui tassi,
ispirato dal "panico". A dirlo è Joseph Stiglitz, professore
alla Columbia University e vincitore del Premio Nobel per
l'economia, che in un'intervista a Bloomberg Television a
Londra ha detto che "c'é un rallentamento molto forte
nell'economia statunitense", dove "la bolla del settore
immobiliare è scoppiata e i prezzi stanno scendendo. La
maggioranza degli esperti pensa che dovranno scendere ancora
in misura significativa". Stiglitz ha preso di mira,
nell'intervista, le manovre tardive della Fed, che nel ridurre
i tassi ha agito troppo tardi e lo ha fatto in preda al
panico. L'economista statunitense non ha risparmiato l'ex
presidente della Fed, Alan Greenspan, definendolo un
"promotore attivo della bolla del settore edilizio
statunitense". Greenspan - ha detto - "ha ragione nel dire che
questa fase di rallentamento economico sarà la peggiore degli
ultimi 25 anni, ma è in gran parte colpa sua". Greenspan
"
Fonte
- ANSA
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Mercoledì
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29 febbraio
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Sangue
freddo
sul biglietto verde
26 Febbraio 2008 MILANO
- di Saverio
Berlinzani ________________________________________
La settimana appena trascorsa ha
portato nuovamente a un aumento dell’avversione al rischio,
derivante in parte dalle cattive notizie macro giunte dagli Stati
Uniti e in parte dalle tensioni che si vivono sui mercati delle
materie prime. Questa incertezza è palpabile sia sul mercato
valutario sia sul nostro mercato azionario, caratterizzato da alta
volatilità e assenza di trend. Un fatto che rende
difficile mantenere un orientamento ben definito e individuare
quindi i livelli su cui posizionarsi. Il cambio euro-dollaro
(EurUsd) riflette questo stato di cose, con movimenti che rimangono
confinati all’interno di un trading range e di un triangolo che ne
definisce, per ora, i limiti di oscillazione. Sbilanciandoci in
una previsione, ci pare di poter dire che l’euro dovrebbe provare
un’altra volta a rompere la resistenza a 1,4960, ma anche nel caso
che ciò avvenga siamo dell’idea che i prezzi potranno comunque
muoversi al di sopra di 1,5000 per breve tempo e per una percentuale
ridotta di rialzo. Il superamento eventuale di 1,5000 rappresenterà
infatti, a nostro avviso, l’ultima chiamata per l’intervento delle
Banche Centrali a sostegno del dollaro. Un intervento atto a frenare
anche la corsa dell’euro, i cui livelli - non solo contro il dollaro
- cominciano a provocare effetti negativi sulla crescita e sulla
congiuntura economica del Vecchio Continente. Il superamento di 1,5000 potrebbe
creare infatti panico tra gli investitori e riflessi preoccupanti
anche sugli altri mercati e le Banche Centrali saranno costrette a
intervenire per evitare che ciò accada. La correlazione con le
materie prime, assai forte in queste ultime sedute di trading, fa sì
che il superamento dei 100 dollari al barile abbia prodotto nuove
ondate di vendite della divisa americana, colpita quindi su tutti i
fronti: notizie macro, correlazioni con gli altri mercati,
diversificazione di riserve valutarie e timori per ulteriori tagli
dei tassi negli Stati Uniti. Ma questa situazione, ripetiamo,
non ci sembra possa durare a lungo e l’evidente sottovalutazione del
biglietto verde verrà confermata ben presto anche dai grafici e
dall’analisi tecnica. Questi movimenti sono chiamati in gergo
climax o pattern di fine movimento e di solito sono rapidi,
impulsivi e creano per così dire il «panico» tra quei partecipanti
al mercato che si erano in precedenza posizionati a favore del
biglietto verde. In queste occasioni il sangue freddo, unitamente
alla consapevolezza della figura tecnica data dall’analisi grafica,
possono rappresentare l’occasione per impostare operazioni
interessanti di lungo periodo a favore del dollaro.
 |
Fonte -
Borsa&Finanza |
ALERT DOLLARO: DA ORA IN POI BASTA CON LA DISCESA
04 Febbraio
2008 02:44 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
La decisione
di Ben Bernanke di abbassare i tassi Usa dell' 1.25% in meno
di un mese porra' fine al declino del dollaro, secondo i
maggiori trader di valute interpellati da Bloomberg. Per la
prima volta dal 2003, gli investitori sono concentrati sulle
prospettive di crescita relativa piuttosto che sui costi
assoluti del chiedere denaro a prestito, dice Geoffrey Yu,
strategist della Ubs di base a Londra. Il piu' forte taglio
dei tassi attuato dalla Federal Reserve negli ultimi sette
anni aiutera' la crescita economica negli Stati Uniti mentre
l'Europa rallenta, ha fatto sapere BNP Paribas, che Bloomberg
considera la banca col migliore track record in assoluto, in
relazione alle stime sul mercato valutario. Il dollaro
guadagnera' almeno il 9% nei confronti dell'euro quest'anno,
predicono sia UBS che BNP. La convinzione e' che l'azione
della Fed dovrebbe evitare una lunga recessione mentre una
ripresa potrebbe cominciare a materializzarsi gia' nel corso
dell'anno".
Fonte
- ANSA
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L' EURO SFONDA QUOTA 1.50 SUL DOLLARO (NUOVO TOP)
27 Febbraio
2008 00:01 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
Lo
sprofondamento del greenback a livelli mai visti prima e'
dovuto alle speculazioni sul Forex. Scenario: il Chairman
della Federal Reserve, Bernanke, oggi confermera' che la banca
centrale Usa e' pronta ad abbassare ancora i tassi
d'interesse.
L'euro guadagna ancora terreno sul dollaro
e supera la soglia di 1.50 contro il dollaro, raggiungendo il
nuovo massimo assoluto a 1,5048 (clicca qui per le quotazioni
in tempo reale), in base alle rilevazioni disponibili sulla
piazza valutaria newyorchese.
Lo sprofondamento del
dollaro a livelli mai visti in precedenza e' dovuto alle
speculazioni sul Forex sul fatto che il Chairman della Federal
Reserve Ben Bernanke oggi dira' che la banca centrale Usa e'
pronta ad abbassare ancora i tassi d'interesse, per dare
stimolo ad un'economia in fase di recessione, nonostante
l'impennata dell'inflazione (prezzi alla produzione +1.0%) che
fa correre il rischio di uno scenario stagflattivo. Il
supereuro alla fine allunga ancora sul dollaro e sfonda per la
prima volta nella sua breve storia quota 1,5 contro il
biglietto verde, fino ad attestarsi a 1,5048: la valuta Usa,
dopo i preoccupanti dati statunitensi che proiettano altre
ombre sull'economia, spinge il petrolio verso i nuovi massimi
assoluti, toccati negli scambi serali, a 101,43 dollari.
La giornata nera degli indicatori americani, che
confermano pure che la crisi immobiliare non è ancora finita,
parte dai prezzi alla produzione che, inaspettatamente,
balzano a gennaio dell'1% a fronte delle previsioni degli
analisti su di un aumento dello 0,4%, dopo la flessione dello
0,1% di dicembre. Più allarmante è la rilevazione 'core', al
netto delle componenti volatili come alimentari ed energia,
che si attesta a +0,4% (il rialzo più alto da un anno a questa
parte), il doppio dello 0,2% atteso dagli operatori. A
spingere verso l'alto i prezzi sono i marcati rincari di
carburanti, prodotti alimentari e farmaci, che fanno temere un
balzo dell'inflazione malgrado la frenata della crescita.
"Un'inflazione più alta, accompagnata da una crescita più
lenta, non è di sicuro la migliore ricetta per una moneta
moneta", rileva John McCarthy, responsabile del desk valutario
di Ing Financial Markets. Lo spettro che si affaccia più
prepotente sui mercati è la stagflazione, cioé lo scenario di
un'economia senza crescita e di aumento delle tensioni sui
prezzi. I timori, in più, sono legati al fatto che la Federal
Reserve, in occasione della prossima riunione del Board
monetario (il Federal Open Market Committee, Fomc) del 18
marzo possa avere minori spazi di manovra per allentare la
presa sul costo del denaro. Non a caso, il presidente della
Fed di Dallas, Richard Fisher, ribadisce in giornata che
l'inflazione è motivo di grande preoccupazione", mentre le
attese dei mercati sono per le indicazioni che il numero uno
della Banca centrale Usa, Ben Bernanke, farà nella sua
testimonianza semestrale davanti commissione Servizi
Finanziari della Camera. A peggiorare il clima che poi
l'indice della fiducia dei consumatori statunitensi, calcolato
dal Conference Board, che nel mese di febbraio crolla a 75,0
(da quota 87,3 di gennaio), contro le stime a quota 82 atteso
dagli economisti. La fiducia dei consumatori americani scende
quindi ai minimi da cinque anni risentendo della frenata
dell'occupazione e della recessione immobiliare, mentre
continuano a salire i prezzi della benzina e dei generi
alimentari. Proprio il settore immobiliare resta la spina nel
fianco dell'economia a stelle e strisce: a gennaio si registra
il boom dei pignoramenti, in rialzo del 90% (a quota 45.327
unità) nel confronto dello stesso periodo del 2007. Il dato,
elaborato RealtyTrac, rimarca il continuo aumento del numero
di notifiche delle banche nei confronti dei mutuatari che non
riescono a far fronte al pagamento delle rate di mutuo per il
brusco rialzo dei tassi d'interesse. I casi di insolvenza fra
la clientela cosidetta subprime, ossia con scarsa affidabilità
creditizia, sale addirittura ai massimi da agosto scorso che
rappresenta anche il secondo livello più alto mai registrato
da RealtyTrac. In base ai dati forniti da Citigroup,
quest'anno saranno ridefiniti mutui a tasso variabile per un
ammontare complessivo di 460 miliardi di dollari, con il
conseguente aumento della rata che diventerà più onerosa per i
mutuatari. Unica nota positiva è il rialzo di Wall Street che
sfiora l'1% di guadagni dopo che Ibm ha reso noto un programma
di buy-back (acquisto di azioni proprie) fino a 15 miliardi di
dollari, in scia al miglioramento delle sue stime di profitto
sull'esercizio 2008.
Fonte
- ANSA
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Il dollaro veicolo di carry trade?
28 Febbraio
2008 02:39 NEW YORK -
di Macromonitor ______________________________________________
Secondo
alcuni currency strategist il dollaro si troverebbe in un
processo di re-rating, cioè di modifica strutturale del
proprio ruolo sui mercati globali, non dissimile da quanto è
accaduto e sta accadendo al mercato del credito. Addirittura
alcuni ipotizzano che il dollaro possa diventare veicolo di
finanziamento per i carry trades, vista la sua recente
evoluzione a divisa a basso rendimento. L’ipotesi sarebbe
suffragata dai nuovi minimi toccati dal cambio con il dollaro
australiano e neozelandese, che restano divise ad alto (e
crescente) rendimento. La costante tendenza
all’indebolimento e la presenza di tassi in calo fanno del
dollaro statunitense un potenziale candidato a divisa
d’indebitamento, anche se la volatilità ancora elevata agisce
da disincentivo all’apertura delle posizioni. Quello che è
certo è che il dollaro è entrato in un uncharted territory,
quello della possibile mutazione di un modello di sviluppo
finora basato sui consumi e su deficit crescenti della
bilancia commerciale. La rottura della soglia di 1,50, ieri, è
avvenuta in presenza della preoccupata e preoccupante
audizione di Ben Bernanke ma anche di dati macro dell’Area
Euro che non suffragano l’ipotesi di capitolazione
macroeconomica anche dell’economia della moneta unica.
Insomma, l’Europa resiste, e la Bce non sembra affatto
intenzionata ad allentare la politica monetaria, anche a causa
di generosi rinnovi contrattuali in Germania.
Fonte
- Macromonitor
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Mercoledì
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febbraio
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Mali noti,
rimedi
difficili
01 Febbraio 2008 -
di Sara Silano ________________________________________
In un Quaderno di finanza, la Consob
analizza le anomalie dell’industria italiana dei fondi e propone un
nuovo modello, meno sbilanciato sulla distribuzione. Che può
funzionare se… La prossima settimana, Assogestioni pubblicherà
le statistiche sulla raccolta dei fondi comuni a gennaio.
L’andamento delle Borse, che generalmente è un buon segnale
premonitore, non lascia molto spazio all’ottimismo. Probabilmente
saranno ancora i riscatti a prevalere sulle sottoscrizioni, come è
stato per l’intero 2007.
Al dibattito sulle possibili
terapie per l’industria si è aggiunto un ulteriore tassello. In
questi giorni, la Consob, l’autorità di vigilanza sui mercati, ha
pubblicato un Quaderno di finanza dal titolo: Il marketing dei fondi
comuni italiani. Modelli organizzativi, costi, andamento e nuove
prospettive conseguenti all’introduzione della Mifid nell’ottica
della vigilanza, curato da Francesco Maria De Rossi, Daniela
Gariboldi, Gianluca Leggieri e Antonio Russo.
Gli autori sostengono che la crisi
del settore non è attribuibile al fatto che lo strumento “fondo” è
obsoleto, ma affonda le sue radici nelle anomalie tipiche della
struttura del mercato italiano: la scarsa indipendenza delle società
di gestione nelle scelte strategiche a causa degli assetti
proprietari che accentrano il potere nei gruppi bancari,
l’integrazione verticale di produzione e distribuzione, la
dipendenza delle reti di gruppo di tipo captive e la ridotta
capacità di innovazione.
Questo sistema si riflette
sui costi di distribuzione, ossia quelli legati in senso lato
all’attività di vendita, che sono tra i più alti in Europa (lo
studio mette in luce che i costi di produzione sono analoghi). Delle
commissioni incassate, ai fondi non rimane molto, dal momento che
gran parte viene retrocessa ai distributori, a prova di quanto l’ago
della bilancia penda a favore delle banche che rappresentano il
principale collocatore per gran parte delle sgr (oltre il 70% del
mercato è in mano a gruppi bancari).
Il predominio delle politiche di
marketing del distributore nella progettazione dei prodotti
rappresenta, secondo gli autori, un freno alla specializzazione e al
conseguimento di masse critiche. Inoltre, le rigidità nelle
politiche di prezzo, con l’elevato “ricarico” all’investitore finale
rispetto al costo di produzione, hanno pesato sui rendimenti, in
particolare dei fondi obbligazionari e monetari.
La
soluzione proposta, e auspicata da più parti, è l’autonomia delle
società di gestione dai gruppi bancari e la contestuale apertura a
nuovi canali distributivi. Nel sistema ipotizzato, le
fabbriche-prodotto si concentrano sull’attività di gestione e
perseguono le strategie che ritengono più opportune per competere
sul mercato, senza essere vincolate dalla necessità di soddisfare le
esigenze delle reti captive. I distributori, anch’essi indipendenti,
devono svolgere una funzione di consulenza pura, facendosi pagare
per il servizio. Infine, assumono un ruolo primario le piattaforme
telematiche (supermercati di fondi) sulle quali è possibile
acquistare una vasta gamma di fondi, sostenendo costi contenuti.
Il sistema è
coerente con le nuove possibilità offerte dalla direttiva
comunitaria Mifid di segmentare i canali di offerta in relazione con
le esigenze dei clienti (dalla consulenza alla mera esecuzione degli
ordini). Inoltre, è in linea con il Libro bianco sul rafforzamento
del quadro normativo del mercato unico relativo fondi comuni di
investimento, redatto dalla Commissione europea. Infine, potrebbe
risolvere il problema del conflitto di interessi.
Tuttavia, per avere
successo è necessario che le società di gestione abbiano i mezzi per
camminare sulle loro gambe e promuovere i loro prodotti in un
mercato molto competitivo. Che ci sia un’adeguata cultura
finanziaria cosicché il fai-da-te non diventi solo una scelta
obbligata per chi non può permettersi di pagare la consulenza. Che
le reti offrano veramente valore aggiunto con i loro consigli sulla
pianificazione finanziaria e la gestione del portafoglio. Che sul
mercato emergano le realtà di qualità, non quelle che inseguono le
mode alla ricerca di profitti di breve. Tanti “che”, senza i quali
il nuovo sistema rimane solo una bella proposta.
 |
Fonte -
MorningStar.it |
GRANDE FUGA DAI FONDI? MEGLIO ANDARE AL CASINO'
06 Febbraio
2008 13:27 MILANO -
di Matteo
Mediola ______________________________________________
«Gli
italiani sono usciti in massa dai fondi. Ma in compenso hanno
iniziato da tempo a comprare prodotti speculativi. Meglio
vadano al casinò. Almeno lì, puntando sul rosso o sul nero,
c’è una possibilità di vincere al 50 per cento. Con i nuovi
prodotti, come index o strutturati, il rischio di perdita si
avvicina invece al 95 per cento».
Cesare Armellini è il
guru della consulenza finanziaria indipendente italiana.
Presiede il network Consultique e la Nafop (National
association fee-only planner) e assieme ad altre sigle sta
partecipando al futuro Albo dei consulenti finanziari che
vedrà la luce tra un paio di mesi.
Gennaio 2008: i
fondi italiani bruciano quasi altri 20 miliardi di raccolta
dopo i 53 già persi nel 2007. Cosa sta
succedendo?
Succede che la domandadi risparmio subisce
passivamente l’offerta. E l’offerta è fatta ormai quasi
esclusivamente di grandi conglomerati finanziari,
bancario-assicurativi. Sono loro che determinano, con i grandi
investimenti pubblicitari e di marketing, le scelte del
consumatore-investitore. Diciamolo chiaramente: i denari
usciti dai fondi comuni non sono tornati nelle tasche dei
risparmiatori.
E dove sono finiti?
In altri
prodotti, molto più remunerativi per chi li vende: in primo
luogo polizze index linked e strutturati. Le commissioni di
collocamento di questi prodotti vanno subito a bilancio alla
voce utili e sono di gran lunga superiori rispetto a quelle
che si ottengono vendendo un classico fondo.
Ma la fuga
dei fondi non dipende anche da una crescente disaffezione del
risparmiatore?
Certamente sì. Il punto è che mediamente
il risparmiatore non ha le conoscenze specifiche per scegliere
prodotti efficienti rispetto a quelli inefficienti. Solo con
l’aiuto di un vero consulente indipendente, libero dai
conflitti d’interesse, il risparmiatore è tutelato perché
l’offerta gli viene resa trasparente. In Italia questa figura
di advisor indipendente sta cominciando solo adesso a
spuntare.
Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha
sollecitato le sgr a diventare indipendenti, sciogliendo
l’intreccio tra asset management e banca e/o assicurazione:
questo risolverà la crisi-fondi?
La direzione indicata
è buona, ma non basta. La ricetta Draghi risolve solo una
parte del problema. Ci vorrà molto tempo perché l’offerta di
risparmio gestito italiano sia davvero indipendente. Diciamo
chiaramente che le grandi fabbriche di prodotti finanziari e
assicurativi non sono controllate dagli azionisti, ma dai
consigli d’amministrazione che inseguono logiche di breve
legate alle stock option. Ciò che conta nel processo
d’investimento, invece, è la pianificazione del
patrimonio.
Sempre Draghi ha più volte sollevato il
tema di un’equiparazione del trattamento fiscale tra fondi di
diritto italiano e fondi di diritto estero. La diversa
aliquota è a suo avviso causa di questo tracollo del gestito
made in Italy?
L’aspetto fiscale è certamente
importante e non va sottovalutato. Ma da qui a pensare che per
qualche punto di tassa in più gli italiani abbiano deciso di
uscire in massa dai fondi per comprare prodotti più rischiosi
ce ne passa.
Quali sono i prodotti
efficienti?
Penso inprimo luogo agli etf, che sono
strumenti decisamente trasparenti sotto i profilo
commissionale. Ma poi ho in mente anche le vere gestioni
«attive» che non offrono al risparmiatore un portafoglio
costruito solo replicando un indice di riferimento.
Fonte -
Finanza&Mercati
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GPF,
unica via l'estinzione?
14 Febbraio 2008 -
di Sara Silano ________________________________________
La Mifid ha inflitto un duro colpo
alle gestioni patrimoniali in fondi, tanto da farne temere
l’estinzione. Non che il loro stato di salute prima dell’entrata in
vigore della direttiva comunitaria fosse ottimo, dal momento che
sono accusate di alti costi e bassi rendimenti. Tuttavia, il divieto
di retrocessione da parte delle società di gestione le ha rese poco
redditizie per chi le fa e le vende.
Molte banche
hanno deciso, quindi, di congelare le Gpf di nuova sottoscrizione,
pensano di smantellare il servizio, generando pesanti deflussi dal
già provato settore dei fondi, e cercano di spostare i clienti sui
prodotti strutturati e assicurativi. La situazione potrebbe
aggravarsi prima dell’estate, quando scadrà il periodo transitorio
per l’adeguamento dei contratti esistenti.
Il nodo della
questione sono le retrocessioni, o, per dirla in termini comunitari
gli inducement. Nel redigere il nuovo regolamento degli
intermediari, che ha attuato la Mifid in Italia, la Consob ha
vietato questo tipo di accordi, interpretando in modo rigoroso
l’orientamento del Cesr, il Comitato europeo dei regolatori, in base
al quale essi non sono proibiti in modo assoluto, ma mettono in
crisi il dovere di agire nell’interesse del cliente.
In un recente documento,
Assogestioni ha manifestato preoccupazione per gli effetti che
l’applicazione della disciplina in materia sta provocando
nell’industria, proponendo alcune possibili soluzioni, in vista
della redazione da parte della Commissione di vigilanza italiana dei
provvedimenti di “livello 3”, ossia quelli che danno le linee
interpretative della normativa di attuazione della direttiva.
Ricordando che lo spirito della Mifid è quello di
promuovere un unico mercato europeo dei servizi finanziari, che
porti a una riduzione dei costi e offra più trasparenza e scelta per
gli investitori, esistono due punti fondamentali che non possono
venire meno e che emergono dalle riflessioni dell’associazione di
categoria. Il primo è l’equiparazione del trattamento regolamentare
per prodotti con un contenuto finanziario equivalente, il cosiddetto
level playing field, per evitare che il risparmio finisca in
strumenti più opachi e soggetti a normative meno vincolanti, in
chiaro contrasto con l’obiettivo della direttiva di mettere al primo
posto l’interesse del cliente.
Il secondo aspetto è la
necessità di omogeneità di disciplina tra i Paesi membri. Se la
posizione della Consob dovesse rimanere isolata, l’Italia sarebbe
svantaggiata rispetto al resto d’Europa, ma soprattutto fallirebbe
il tentativo della direttiva di creare un mercato dove tutti possono
competere ad armi pari. La questione non è di poco conto. Pensiamo
ad esempio a una Gpf di un operatore estero, costruita nella nazione
di origine, dove non sono vietati gli accordi di retrocessione, e
venduta in Italia. In questo caso, potrebbe accadere che venga
collocato da noi un prodotto che continua a beneficiare di
retrocessioni a differenza delle gestioni domestiche.
Per le Gpf, il cambiamento è una
scelta obbligata, ma sentenziarne la fine appare prematuro.
Sicuramente, nelle soluzioni passate diverse cose non hanno
funzionato, in particolare gli alti ricarichi, le strategie basate
sull’obiettivo di battere il benchmark anziché costruire portafogli
coerenti con il profilo del cliente, la vendita diffusa e
standardizzata, quando per definizione le Gpf sono servizi
individuali con i quali si incarica l’intermediario di gestire un
patrimonio per proprio conto, coerentemente con il proprio profilo
di rischio/rendimento.
Molti operatori concordano nel
dire che in futuro le gestioni diventeranno più elitarie, con soglie
di ingresso elevate, analogamente a quanto accade in altri Paesi,
perché solo con asset consistenti è possibile garantire un servizio
personalizzato e redditizio. Inoltre, ricercheranno una maggiore
efficienza attraverso strumenti meno costosi, come gli Etf, i fondi
passivi, le classi istituzionali o altri strumenti.
Ciò che
è importante, a nostro giudizio, è che sia garantita la trasparenza
e l’eguaglianza di trattamento normativo, in modo che sia il mercato
a scegliere quali prodotti promuovere e quali bocciare. Questo può
evitare l’avanzata di nuovi (e vecchi) strumenti che vanno a
gonfiare le casse degli intermediari, ma non sono pensati
nell’interesse del cliente.
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