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Martedì
03
Febbraio
2009 |
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Febbraio
2009 |
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Martedì
10
Febbraio
2009 |
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Quanto
vale la fiducia
01 Febbraio 2009 16:28 ROMA - di
Luigi Zingales
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L'unica cosa che dobbiamo temere è la paura, disse
Franklin Roosevelt nel suo discorso inaugurale nel gennaio 1933. E
nessuna citazione sarebbe più appropriata di questa per il discorso
inaugurale del neopresidente Obama. Recuperare la fiducia nel Paese
e nelle sue capacità di crescita è fondamentale. I dati sulla
disoccupazione sono drammatici: 2,5 milioni di posti di lavoro persi
nel 2008, il 75 per cento dei quali negli ultimi quattro mesi. A
questo ritmo la disoccupazione potrebbe raggiungere il 12 per cento
alla fine del 2009.
Per fronteggiare questa terribile crisi la maggior parte dei policy
maker si è riscoperta keynesiana. Tutti parlano della necessità di
uno stimolo fiscale che sostenga la domanda aggregata americana, per
compensare la caduta dei consumi familiari. Il rischio di una simile
manovra è che curi i sintomi invece che le cause della presente
recessione. La riduzione dei consumi delle famiglie americane è un
effetto salutare della crisi. Negli ultimi anni le famiglie avevano
complessivamente speso più di quello che avevano guadagnato, uno
squilibrio sostenuto da un forte accesso al credito reso possibile
dal boom immobiliare.
Da parte sua l'amministrazione Bush aveva accentuato questo problema
con una spesa federale di gran lunga superiore alle entrate. Se sia
le famiglie che lo Stato consumano più di quanto guadagnano, chi
paga il conto? In parte le imprese, che hanno speso meno di quello
che hanno guadagnato, ma soprattutto il settore estero: negli ultimi
anni gli Stati Uniti hanno importato molto più di quello che hanno
esportato. In altre parole, a finanziare i consumi americani sono
stati i tedeschi e i cinesi, che hanno forti avanzi nei loro scambi
commerciali con gli Stati Uniti.
Questo squilibro puo essere risolto solo in tre modi: con un aumento
della domanda da parte dei paesi in surplus commerciale (tedeschi e
cinesi), con un'ulteriore svalutazione del dollaro, e con un
aggiustamento nella produzione americana verso prodotti e servizi
che rimpiazzino le importazioni o aumentino le esportazioni.
Un aumento della spesa pubblica finanziato con debito fa poco o
nulla per risolvere questo squilibrio. Anzi lo esagera. Da un lato,
sostenendo la domanda, non fa altro che perpetuare il disavanzo
commerciale. Dall'altro, sostenendo l'occupazione nei settori
tradizionali, rallenta se non blocca il processo di aggiustamento.
Paradossalmente, l'unico modo in cui lo stimolo fiscale può aiutare
a risolvere lo squilibrio di fondo è se il disavanzo pubblico
diventa così elevato da creare una crisi di fiducia nel dollaro, che
porti a una forte svalutazione. Non penso che questo sia l'obiettivo
dell'amministrazione Obama.
Ma allora perché la maggior parte degli economisti si professano a
favore di un forte stimolo fiscale?
Da un lato per paura. Il rischio
di una disoccupazione al 12 per cento e lo spettro incombente della
Grande Depressione incutono il terrore tra i policy maker. Nessuno
vuole essere percepito un domani come corresponsabile di una nuova
depressione. E visto che la Grande Depressione fu preceduta
dall'immobilismo dell'amministrazione Hoover, oggi tutti si mostrano
iperattivi.
L'altro, più serio motivo, è la convinzione che la crisi corrente
sia accentuata dal panico. Le scelte economiche non sono solo il
frutto della parte razionale del nostro cervello. Sono spesso
governate dagli istinti, quegli 'animal spirits' di cui parla Keynes.
Questo è tanto più vero in momenti traumatici come l'attuale.
Paradossalmente il Keynes a cui tutti si rifanno non è quindi il
Keynes economista ma il Keynes psicologo, che vedeva nell'intervento
statale il modo per calmare e guidare questi animal spirits.
Se lo stimolo fiscale è il prezzo che dobbiamo pagare per calmare
questi istinti animali, ben venga. Ma su quali basi? Se l'obiettivo
è tranquillizzare gli animi e ridare fiducia, perché non affidarsi a
degli psicologi veri e non a degli economisti che si improvvisano
tali? Magari riescono a risolvere il problema con meno di 700
miliardi. Perché il problema oggi non è che il consumatore americano
non spende abbastanza, ma che non si fida più a investire in un
mercato le cui regole sono falsate ogni giorno dall'intervento della
Fed e del governo. Forse lo stimolo più efficace che Obama può dare
all'economia americana è la promessa che d'ora in poi il governo
americano interverrà solo a protezione dei deboli, ma non sovvertirà
le fondamentali leggi di mercato. È una piccola promessa, ma vale
più di 700 miliardi.
 |
Fonte
-
L'espresso |
SPESE AL CONSUMO -1%,
REDDITO PERSONALE -0.2%
02 Febbraio 2009 14:30 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
I consumatori americani
continuano a tagliare la spesa, scende anche il reddito, ma in
misura inferiore delle attese. Inflazione nulla a dicembre, in
linea col consensus.
Nel mese di dicembre le spese al consumo negli Stati Uniti hanno
registrato una variazione negativa dell’1%, mentre il reddito
personale e’ diminuito dello 0.2%.
Lo ha comunicato il Dipartimento del Commercio Usa.
Il primo dato si e’ rivelato inferiore alle attese (-0.9%),
l’altro e’ risultato leggermente migliore del consensus (-0.4%).
L'indice "core" PCE (Personal Consumption Expenditures) e’
risultato invariato, portando il tasso annuale all’1.7%, in
linea con le attese, e sotto il range di "tolleranza" fissato
dalla Fed. Il deflatore della spesa per consumi personali e’
invece cresciuto dello 0.6%, in misura inferiore alle attese
degli analisti (+1.0%).
Fonte
- ANSA
Se Sam non
consuma più…
05/02/2009 18.06
-
di Sara Silano ______________________________________________
Fino all’anno scorso, Sam aveva
una bella casa, con elettrodomestici all’avanguardia, guidava un
lussuoso Suv Hummer, vestiva firmato e faceva la spesa ai grandi
magazzini Macy’s. Oggi, la sua casa è stata ipotecata, ha
venduto il fuoristrada per comprare un’utilitaria e ogni tanto
fa acquisti negli hard discount. Sam rappresenta l’America che
non consuma più.Secondo il Dipartimento del commercio, a
dicembre la spesa delle famiglie statunitensi è scesa dell’1%
rispetto a novembre, facendo segnare il sesto calo consecutivo,
un record dal 1959, quando si è cominciato a calcolare questo
indice. A gennaio, il mercato dell’auto ha segnato il livello
minino da 27 anni, con un crollo delle vendite vicino al 40%.
Qualcuno potrà dire: “E’ un bene. Negli anni passati l’America
ha consumato sopra le sue possibilità e ora torna ad uno stile
di vita più sobrio”. Ed è innegabile che il Paese abbia vissuto
un boom economico cominciato nel novembre 2001 e terminato nel
2007, favorito da una politica monetaria espansiva (i tassi di
interesse sono rimasti all’1% fino al 2004). Una bolla che è
scoppiata l’anno scorso e che, a differenza delle altre, ha
fatto un gran frastuono.
Gli Stati Uniti ne stanno patendo le conseguenze. Il Prodotto
interno lordo (Pil) nel quarto trimestre è sceso del 3,8%, il
ribasso più ampio dal 1982. Il dato è il risultato della somma
di quattro componenti, i consumi, gli investimenti, la spesa
pubblica e le esportazioni nette. Un’analisi più approfondita di
questi elementi, mette in luce come la recessione sia
fondamentalmente nei consumi, in particolare quelli durevoli
(auto, arredamento, elettrodomestici, ecc…), che sono indicatori
significativi del ciclo economico. Negli ultimi tre mesi
dell’anno, questa voce di spesa è crollata del 22% rispetto al
2007, la frenata più forte dal 1951. A riprova di questa
situazione, i grandi magazzini soffrono la concorrenza degli
hard discount e molte catene locali sono fallite o rischiano la
bancarotta.
Verrebbe da dire: “E’ un problema americano”. Purtroppo però non
è così, perché se gli Stati Uniti non consumano, la maggior
parte degli altri Paesi, compresi quelli emergenti ne soffre.
Non a caso si è levato un coro di polemiche sulla misura
protezionistica “Buy American” che l’amministrazione di Barack
Obama ha tentato di inserire nel pacchetto di stimolo
all’economia. Come ha affermato Marc Faber, editorialista di The
Gloom, Boom & Doom famoso per le sue visioni controcorrente, in
200 anni di storia del capitalismo è stata la prima crisi a
carattere planetario, seguita a un boom altrettanto globale. Nel
2008, il mondo è passato dall’illusione di un maggior benessere
duraturo alla distruzione di ricchezza per 30 mila miliardi di
dollari (siccome il reddito pro capite medio di un americano è
di circa 30 mila dollari, è come se un miliardo di persone non
avesse guadagnato nulla per un anno).
Se l’America non consuma più a soffrirne sono tutti i Paesi che
negli anni passati hanno esportato verso gli Stati Uniti,
facendo raggiungere al deficit commerciale livelli record. Molte
aziende, infatti, hanno investito per accrescere la loro
produzione e far fronte all’aumento della domanda. E’
emblematico il caso del Giappone, dove le società di elettronica
e tecnologiche pagano nei loro bilanci la recessione
d’oltreoceano. Per parafrasare un’affermazione di Faber, essere
nati prima o dopo il 2007 fa la differenza, in qualsiasi parte
del mondo una persona viva. E pensare che la recessione dei
consumi americani sia un problema solo degli States è pura
utopia.
Fonte
- Morningstar
Aprite l’ombrello, continua
il diluvio di debito statale
Thursday, 5 February, 2009 at
8:24
- by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il Tesoro americano pianifica di
rompere un altro record nell’asta di titoli governativi in
arrivo. La via verso il socialismo all’americana è sempre più
costosa e la fantasia dei tecnici del Ministero si sbizzarrisce.
I quantitativi richiesti saranno di dimensioni mai viste e per
far meglio digerire la montagna di dollari necessaria verrà
introdotto un titolo a sette anni. Update: altre misure prese in
considerazione o già attuate sono la riduzione del taglio minimo
di un titolo di stato da 1000 a 100 dollari e l’introduzione di
un titolo a 50 anni.
A Washington dovrebbero ricordarsi che gli italiani sono i
maestri nella gestione tecnica di un debito pubblico pesante
quanto una pietra al collo di un bambino e studiarsi le
innovazioni romane: a quando CCT, Ctz, Cto e chi più ne ha più
ne metta?
Una cosa è certa: questi saranno gil anni del debito di Stato e
i risparmiatori che si illudono che sia “privo di rischio”
scopriranno che esistono pericoli ben più immediati della
semplice insolvenza di una nazione.
Fonte
- Macromonitor
Stati Uniti
- Continua la distruzione di occupazione
Friday, 6 February, 2009 at 15:49
- by phastidio ______________________________________________
Il tasso di disoccupazione negli
Stati Uniti è cresciuto in gennaio al 7,6 per cento dal 7,2 per
cento di dicembre, massimo dal 1992, ed il numero di occupati
nel settore non agricolo è diminuito di 598.000 unità, maggior
calo mensile dal 1974, dopo la riduzione di 577.000 impieghi nel
mese precedente. Per effetto delle revisioni del bimestre
precedente, il numero di occupati è diminuito di ulteriori
66.000 unità. Dall’inizio della recessione, datato dal National
Bureau of Economics Research al dicembre 2007, l’economia ha
perso 3,57 milioni di posti di lavoro, maggior distruzione di
occupazione in ogni recessione dal Dopoguerra. Le perdite di
impieghi di gennaio segnano per la prima volta, dall’inizio
delle rilevazioni di questa serie storica, un calo superiore a
500.000 unità per tre mesi consecutivi. Le stime di consenso
ipotizzavano una riduzione di 540.000 unità, mentre il tasso di
disoccupazione era previsto assestarsi al 7,5 per cento.
Gli impieghi in manifattura sono diminuiti di ben 207.000 unità,
maggior calo da ottobre 1982, dopo la distruzione di 162.000 in
dicembre, e stime di consenso poste a meno 145.000. Tale dato
include una perdita di 31.300 impieghi nel settore auto e
componenti. Il settore delle costruzioni ha perso 110.000
impieghi netti, dopo gli 86.000 distrutti in dicembre. Il
settore dei servizi, che include banche, assicurazioni,
ristorazioni e commercio al dettaglio ha sottratto 279.000
impieghi, dopo i 327.000 perduti il mese precedente.
L’occupazione nel settore retail è calata di 45.100 unità, dopo
le 82.700 perse in dicembre. Buste paga ridotte di 42.000 unità
nel settore finanziario dopo le 27.000 perse a dicembre. Il
settore pubblico ha aggiunto 6000 impieghi netti, ma anche
l’occupazione governativa è a rischio: il servizio postale
pianifica una riduzione di occupati attraverso prepensionamenti,
ed ha chiesto al Congresso l’autorizzazione a ridurre la
frequenza di recapito (oggi a sei giorni la settimana) per
ridurre i costi.
La settimana lavorativa media è rimasta in gennaio stabile a
33,3 ore, mentre l’orario medio settimanale dei lavoratori di
produzione è sceso da 39,9 a 39,8 ore, con flessione del ricorso
agli straordinari da 3 a 2,9 ore settimanali. I salari orari
medi sono aumentati dello 0,3 per cento mensile e del 3,9 per
cento annuale, meglio delle attese.
Fonte
- Macromonitor
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Bad
Bank?
per
congelare i titoli tossici, ma non a carico dello stato
08 Febbraio 2009 22:23 ROMA - di
*Mario Lettieri e Paolo Raimondi
*Mario Lettieri, già
sottosegretario all'Economia e Finanze nel governo Prodi
(2006-8); Paolo Raimondi, economista.
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Le grandi istituzioni economiche internazionali, come
la BCE e il FMI, si fanno concorrenza con analisi sempre più
negative sugli effetti della crisi finanziaria ed economica
sistemica globale. Questo vale anche per l'Italia dove sia la
Commissione Europea che la Banca d'Italia hanno indicato una
riduzione negativa del 2% del PIL per il 2009. E, non per un
pessimismo endemico ma per realismo, riteniamo che queste revisioni
al ribasso purtroppo dovranno essere presto ulteriormente ritoccate.
Probabilmente necessita un approccio da "curatore fallimentare" alla
crisi, cioè quello di salvare il sistema bancario sia nazionale che
internazionale solamente attraverso un procedimento di "bancarotta
controllata". Sono parole forti che possono far paura a chi pensa
che l'economia si basi primariamente su fattori psicologici e non
sui pilastri portanti dell'economia reale fatta di investimenti
produttivi e consumi necessari e utili.
In questi giorni si parla di bad bank, cioè di strumenti ad hoc dove
collocare i "titoli tossici" e senza alcun valore delle banche, a
cominciare dai derivati OTC che sommano a un valore nozionale di
700.000 miliardi di dollari.
La soluzione è giusta ma la questione di fondo è: chi paga?
I
responsabili della crisi e anche alcuni esponenti di vari governi
(Henry Paulson, ex ministro del Tesoro americano, Ben Bernanke, capo
della Federal Riserve, Gordon Brown, primo ministro britannico)
sostengono che la bad bank debba essere garantita con i soldi dello
stato. Sarebbe una grande truffa, solamente sotto un altro nome,
dove le finanze pubbliche verrebbero utilizzate per un gigantesco bail out, un salvataggio con pagamenti a fondo perduto per coprire i
buchi lasciati dalla speculazione e da banchieri senza scrupoli.
Invece queste bad bank devono rimanere nella responsabilità delle
banche che verrebbero però messe in condizione di poter operare a
sostegno dell'economia reale.
La bad bank così concepita avrebbe il
compito di far prosciugare la palude dei derivati e dei titoli
tossici. Il compito degli stati invece dovrebbe limitarsi a
formulare subito nuove regole per permettere dei cambiamenti
contabili e far transitare i titoli tossici dai bilanci delle banche
verso questi nuovi contenitori ad hoc consentendone il congelamento
per alcuni decenni se necessario, per una eventuale futura loro
soluzione nell'ambito del sistema bancario stesso. Lo stato dovrebbe
dare subito indicazioni precise per controllare e limitare
globalmente le operazione finanziarie derivate, così come ad esempio
disposto dal governo Prodi nei confronti degli enti locali. Anche la
Germania sta pensando in questa direzione e il ministro
dell'Economia Peer Steinbruck ha denunciato la bad bank stile
Federal Riserve come pericolosa "dinamite politica".
I salvataggi delle banche devono servire a far rifluire il credito
nel sistema produttivo, soprattutto nel tessuto delle piccole e
medie industrie ma, senza le nuove regole necessarie, i
finanziamenti pubblici si perderebbero nei buchi neri dei bilanci
delle banche. Anche l'eventuale abbassamento dei tassi di interesse
fino al livello di ZIRP (zero interest rate policy) non sarebbe
capace da solo e automaticamente di rimettere in moto il motore
dell'economia.
Intanto nel nostro paese lo stato ha uno strumento formidabile per
dare una spinta propulsiva alla ripresa economica, la Cassa Depositi
e Prestiti con una riserva calcolata intorno a 100 miliardi di euro.
La CDP dovrebbe finanziare le nuove grandi infrastrutture, tra cui
la logistica e le reti telematiche e non, con un'attenzione
particolare verso il Mezzogiorno che ha un gap intollerabile che
condiziona negativamente l'economia dell'intero paese.
In una crisi epocale come quella attuale, gli stimoli e i sostegni
ai consumi sono necessari ma non possono bastare a rimettere in moto
i processi economici. Bisogna puntare alla crescita complessiva
dell'economia per poi certamente meglio distribuire. Per questo gli
impegni a mantenere livelli di vita, stipendi, salari e pensioni
devono accompagnarsi alla messa in cantiere di grandi progetti, di
infrastrutture, di modernizzazioni che guidino il paese per i
prossimi 50 anni. Davanti a noi e nell'immediato abbiamo sfide come
l'indipendenza energetica, lo sviluppo del Mezzogiorno in un'Italia
partecipe dell'Europa ed economicamente moderna da Nord a Sud.
Non si esce dalla crisi "mantenendo" soltanto i livelli di
produzione e di reddito; non si tratta di "riempire le buche", bensì
di formulare un intero progetto di sviluppo nuovo e diverso per la
creazione di nuova ricchezza e di reddito. Il continuo litigio tra
governo e opposizione sulle cifre economiche, come avvenuto sul
decreto anti crisi, e sulla divisione e distribuzione di una torta
che si fa di giorno in giorno più piccola, finisce col nascondere i
veri problemi economici delle regioni del Nord e penalizza ancor di
più quelle del Sud.
 |
Fonte
-
Finanza&Mercati
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Finanza:
mettete pure in conto nuove fasi di avversione al rischio
08 Febbraio 2009 23:29 MILANO - di *Alessandro Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank
________________________________________
Ci sono diciassette borse in rialzo dal primo gennaio. Due
di queste, Sri Lanka (più 20 per cento) e Israele (più 4) salgono
per fattori geopolitici locali (il profilarsi della fine della
devastante guerriglia Tamil e il contenimento di Hamas a Gaza).
Sette riflettono il recupero dei corsi delle materie prime (Brasile,
Argentina, Colombia, Venezuela, Cile, Jamaica, Norvegia). Sette
rimbalzano da un ribasso gigantesco che ha esaurito, almeno
temporaneamente, la sua forza distruttiva (Russia, Slovenia,
Estonia, Lituania, Danimarca, Irlanda, Corea).
La diciassettesima borsa in rialzo, e non di poco (più 16 per
cento), è quella di Shanghai. La cosa sembra molto interessante
anche perché (forse proprio perché) non è confermata dall’andamento
di Hong Kong, che scende del 9 per cento da inizio anno, in linea
con i mercati internazionali. Incuriosisce anche il fatto che il
rialzo coincida con la pubblicazione, in queste ultime settimane, di
dati macro cinesi molto deludenti. La crescita annualizzata del
quarto trimestre è scesa infatti a zero (non inganni il più sei anno
su anno, frutto dei primi tre trimestri) con, in più, una discesa in
termini assoluti (una discesa, non una decelerazione) delle
esportazioni. Curioso anche il fatto che la borsa indiana, nel
frattempo, abbia continuato a scendere.
Avanziamo un’ipotesi indimostrabile, quasi un’illazione. La borsa
interna cinese, da quando è stata ripristinata ai tempi di Deng, è
stata spesso pilotata dal governo. Per un lungo periodo è stata
fatta salire per attirare e assorbire gli eccessi di liquidità che i
privati avevano accumulato nei decenni precedenti (troppi soldi
tesaurizzati e poche merci da comprare era un classico problema
delle economie socialiste). Poi è stata pilotata al rialzo durante
la crisi asiatica in funzione anticiclica. E’ scesa (come tutte) dal
2000 al 2002, ma non perché l’economia cinese andava male (andava al
contrario molto bene) ma perché non serviva che salisse. Nei tre
anni successivi (2003-2006) è rimasta immobile mentre il bull market
imperversava in tutto il mondo e l’economia cinese cresceva del 10
per cento all’anno.
A un certo punto, a fine 2006, il governo ha deciso di collocare sul
mercato quote importanti di grandi società statali spesso poco
profittevoli e ha fatto salire la borsa di quattro volte in 15 mesi.
Collocato tutto quello che doveva collocare il governo ha
abbandonato il mercato a sé stesso. L’indice è così ridisceso da
6100 nell’ottobre 2007 a 1700 nell’ottobre 2008.
Ora si può benissimo razionalizzare il rialzo di gennaio con l’ipervenduto
precedente e con il pacchetto fiscale, ma si può anche ipotizzare,
anche sulla scia delle dichiarazioni dei cinesi presenti a Davos,
che il governo sia seriamente preoccupato e stia facendo ricorso
molto aggressivamente a tutte le armi amministrative (formali e
informali) che ha a disposizione, ancora oggi molto più numerose di
quelle dei governi occidentali (tra cui, sempre in ipotesi, ordinare
alle banche di sostenere la borsa). Non siamo ancora agli interventi
strutturali di sostegno ai consumi (mettere in piedi un sistema
pensionistico e sanitario decente che faccia sentire le famiglie più
sicure sul loro futuro e meno propense a risparmiare), ma il fatto
che la dirigenza cinese abbia deciso di darsi molto da fare è
senz’altro utile. Per inciso, un’ulteriore ricaduta positiva di
questo atteggiamento è il programma di acquisto strategico di
materie prime, che sta sostenendo il corso dei non ferrosi e
contribuendo a stabilizzare il greggio.
Barlumi di speranza anche dall’America. Certo, il pacchetto fiscale
partorito dalla camera bassa è molto deludente. La qualità è davvero
scadente (a parte le ciliegine sulle energie alternative e sul
coordinamento informatico delle prestazioni sanitarie). I
trasferimenti agli stati in bancarotta permettono a Schwarzenegger
di non licenziare i suoi dipendenti ma non bastano certo a farne
assumere di nuovi. La quantità è stata ricalcolata da Goldman Sachs
in tre punti annualizzati di Pil nel secondo e terzo trimestre, un
impulso quasi uguale, se abbiamo fatto bene i conti, a quello del
pacchetto fiscale dell’anno scorso (che fu però concentrato su un
solo trimestre).
C’è poi, nel pacchetto, la coda del diavolo del Buy America,
sfacciato protezionismo. Non bisogna però esagerare con i timori.
Geithner che attacca i cinesi e il Buy America sono concessioni alla
componente sindacale del partito democratico, così come la camera
bassa riflette gli umori delle componenti più radicali. Sono
probabilmente concessioni retoriche che l’amministrazione Obama
accetta per coprirsi a sinistra, sapendo che il Senato cancellerà il
Buy America e che le affermazioni sul renminbi sono già state
ritirate. Anche l’enfasi sugli elicotteri delle banche (quanti
saranno mai) e sulle retribuzioni dei banchieri servono a coprire la
scelta di ridurre davvero al minimo le nazionalizzazioni di banche.
Il brutto pacchetto fiscale, quindi, verrà migliorato dal Senato e
in più, fortunatamente, è già scontato dai mercati. Diverso il caso
(e qui sono i barlumi di speranza) per le altre misure che verranno
annunciate la settimana prossima. Non ci sono solo le banche, ma
anche rinegoziazioni di mutui che, quale che sia la soluzione
tecnica, rallenteranno i pignoramenti di case e, ci si augura, la
discesa del mercato immobiliare. Quanto alle banche, la soluzione
leggera prospettata da Schumer (il Tesoro vende alle banche put
sugli asset tossici a un prezzo d’esercizio a metà strada tra il
valore a bilancio e il valore di mercato in cambio di azioni
ordinarie o di call sulle azioni delle banche) ha il vantaggio di
non costare quei tre-quattro trilioni della bad bank (che comunque
si farà, in versione più piccola).
Curiosamente è la controproposta che fu avanzata dalla destra
repubblicana quando Paulson presentò il Tarp prima maniera (quello
dell’acquisto diretto degli asset tossici). Ora che le garanzie sul
debito vengono proposte dai democratici vedremo se la destra
repubblicana vi si opporrà. Al di là dei dettagli tecnici, la
settimana prossima si gioca una grande partita per l’amministrazione
Obama, per il sistema finanziario globale e per i mercati.
Geithner sa che dovrà stupire. Dovrà proporre qualcosa di grosso, ma
anche di completo e sorprendente. Come se non bastasse, dovrà
riuscire a non spaventare il dollaro e i bond governativi, di
pessimo umore sulla parte lunga da quando sentono i trilioni
aggiungersi ai trilioni nel conto delle misure anti-crisi. A
proposito di bond governativi, se la settimana prossima ci dovesse
essere ulteriore debolezza potrebbe essere interessante comprarli,
riducendo nel caso l’esposizione sui corporate bond di alta qualità,
che in queste ultime settimane sono stati molto richiesti dal
mercato.
Ribadiamo che per quest’anno, al di là del cash che deve essere
comunque ben rappresentato in portafoglio, è bene concentrarsi sui
rischi moderati, ovvero bond governativi e corporate di alta
qualità. Questi rischi moderati, come abbiamo visto in gennaio e
come continueremo a vedere nei prossimi mesi, avranno tipicamente un
andamento divergente. Nelle fasi di avversione al rischio e di paura
della deflazione andranno bene i governativi, in quelle di maggiore
propensione al rischio e di timori d’inflazione andranno meglio i
corporate. Si tratterà quindi di passare periodicamente dagli uni
agli altri.
Una cosa importante da togliersi dalla mente, crediamo, è quella di
pensare a un magico punto di svolta della crisi, soprattutto se
questo punto di svolta lo si immagina vicino. Anche nella migliore
delle ipotesi (un piano Geithner convincente e non penalizzante
sulle banche che non costi troppo al Tesoro) avremo un bear market
rally (di cui si vede qualche prova in questi giorni) e un
rallentamento delle dinamiche viziose in corso.
In altre parole, un piano robusto sarà un passo avanti molto
importante e prezioso e darà per la prima volta la possibilità di
intravedere una luce in fondo al tunnel. La cosa da non dimenticare
è però che il tunnel sarà comunque molto lungo.
Nel suo stile ruvido (ma lontanissimo dai toni disperati che vediamo
ormai spesso in molte analisi), il professor Rogoff ricorda oggi sul
Wall Street Journal che la crisi finirà, ma probabilmente fra un
paio d’anni. La buona notizia è che case e borse hanno già percorso
buona parte della loro via dolorosa (qualcosa rimane ancora da
fare), quella meno buona è che non c’è da illudersi troppo su
un’uscita anticipata dalla crisi, anche in presenza di politiche
corrette.
Rogoff afferma anche che in situazioni analoghe, in passato,
l’accumulo di debito pubblico (prodotto dai salvataggi bancari e dai
minori introiti fiscali in tempi di crisi) ha spesso indotto i
governi a usare l’inflazione come scorciatoia per riequilibrare i
conti. Rogoff, come El-Erian (che su questa base suggerisce di
evitare i governativi lunghi), ha lavorato a lungo al Fondo
Monetario e ha visto molti emergenti uscire dalle crisi finanziarie
facendosi aiutare dall’inflazione. Sono pareri autorevolissimi,
quelli di Rogoff e di El-Erian. Li vorremmo però chiosare con alcune
osservazioni.
La prima è che da metà degli anni Novanta in molti paesi emergenti
(quanto meno in quelli più seri) la dose d’inflazione post crisi è
andata calando. Non ci sono stati, salvo eccezioni, casi di
iperinflazione. La seconda è che tra i paesi sviluppati l’utilizzo
dell’inflazione è stato ancora più ridotto. C’è poi il caso
importante del Giappone, che si è tenuto stoicamente il suo debito,
l’ha ridotto lentamente negli ultimi anni e non è riuscito, per
quanto ci abbia provato, a creare un grammo d’inflazione. La terza
osservazione è che la decisione sull’inflazione apparirà sull’agenda
di governi e banche centrali nel 2011 al più presto. Nel 2009 e 2010
il problema sarà quello di evitare la deflazione. Negli ultimi tre
mesi, nota Rosenberg di Merrill Lynch, l’inflazione headline
americana è scesa a una velocità annualizzata dell’8.4 per cento.
Negli anni Trenta, aggiungiamo noi, i prezzi scendevano del 10 per
cento l’anno.
Nei prossimi due anni ci sembra difficile pensare a possibili fonti
d’inflazione. Aumenti salariali? Forse che il mezzo milione di nuovi
disoccupati americani che vedremo venerdì (solo mezzo milione, ha
esclamato sollevato oggi il mercato sulla base delle proiezioni ADP)
riuscirà a trovare un nuovo impiego (ammesso che ci riesca) con uno
stipendio più alto di quello che ha perduto? Forse un’esplosione
della domanda di materie prime, con i produttori di auto che non
sanno più dove mettere le macchine invendute?
Chi parla d’inflazione o iperinflazione dovrebbe provare a dirci il
nome di un prodotto o di un servizio (o anche di un asset) che fra
due anni sarà più caro di oggi. Probabilmente le banche centrali
(con l’eccezione della Bce) sono contente che una parte del mercato
pensi con tenacia all’inflazione imminente mentre i prezzi stanno
scendendo come non accadeva da decenni. Guai se si diffondesse una
psicologia deflazionistica. Nessuno comprerebbe più niente se fosse
certo di potere pagare di meno sei mesi più avanti.
A scanso di equivoci, quindi, diciamo che i bond governativi lunghi
non sono da sposare e tenere per 10 o 30 anni. Diciamo solo che per
i prossimi 24 mesi ci saranno di nuovo fasi di avversione al rischio
e di paura di deflazione che li riporteranno vicini ai prezzi
massimi di gennaio. Nel ciclo recessivo precedente, del resto, i
tassi dei decennali toccarono il livello minimo non nell’estate del
2001, quando il Pil fu per un attimo negativo, né dopo l’11
settembre, quando la Fed abbassò i tassi all’uno per cento. Il
livello minimo dei tassi fu toccato nella primavera del 2003, quando
la ripresa era già iniziata. Sta forse già iniziando, la ripresa?
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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CRISI: PIMCO, IN ARRIVO UNA
SECONDA ONDATA DI TURBOLENZE
11 Febbraio 2009 16:21 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
11 Febbraio 2009 16:21 NEW YORK
Pacific Investment Management Co. (PIMCO), il fondo
obbligazionario piu’ grosso al mondo, gestito dal guru Bill
Gross, ha annunciato che l’economia globale rischia una "seconda
ondata" di turbolenze qualora i governi dei diversi Paesi non
adotteranno nuovi piani di spesa di ampie dimensioni.
"Il tracollo finanziario e’ ancora nelle fasi iniziali" scrive
Koyo Ozeki, head of Asia-Pacific credit research dell’ufficio di
Tokyo. "Qualsiasi altro calo dei prezzi delle case potrebbe
accelerare la caduta ed originare una seconda ondata di crisi
finanziaria nei prossimi 6 o 12 mesi".
"Per domare la nuova crisi, i governi di tutto il mondo dovranno
incrementare significativamente la spesa. La conseguente
erosione delle finanze potrebbe pero’ incrementare il rischio di
pericolosi effetti collaterali"
"In una situazione in cui l’economia continua a deteriorarsi a
causa della crisi finanziaria, la domanda sul mercato
immobiliare non recuperera’ finche’ una forte contrazione dei
prezzi non ridurra’ significativamente il rischio di possedere
un immobile. Nel caso del Giappone i prezzi delle case hanno
impiegato 15 anni per raggiungere il fondo".
Fonte
-
Bloomberg
Usa, per Fbi i casi di
frodi potrebbero essere centinaia
11 Febbraio 2009 17:47
-
di Reuters ______________________________________________
WASHINGTON (Reuters) - Potrebbero
essere centinaia le frodi societarie e le irregolarità bancarie
che finiranno in futuro sotto la lente degli investigatori
americani, molte di più rispetto alle attuali 38. Lo ha
dichiarato oggi il funzionario dell'Fbi John Pistole al Senato
americano, aggiungendo di aspettarsi casi "significativi" di
frodi fiscali che coinvolgano società che tutti conoscono. Anche
per questo l'agenzia, secondo un funzionario del dipartimento di
giustizia americano, starebbe studiando la creazione di una
squadra speciale che si occupi di frodi legate ai mutui, come
quella che indagò sulla Enron e che fu in seguito giudicata
superflua dall'amministrazione Bush.
Fonte
-
Reuters
Sotto tutela?
Wednesday, 11 February, 2009 at
15:23
- by phastidio ______________________________________________
Nell’imminenza della visita a
Pechino di Hillary Clinton, si levano le voci di quanti, in
Cina, vorrebbero mettere sotto tutela le politiche fiscali e di
debito pubblico degli Stati Uniti. Yu Yongding, ex consigliere
della banca centrale cinese, ed attualmente alla guida del World
Economics and Politics Institute presso l’Accademia di Scienze
Sociali, ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero
rassicurare la Cina che il valore dei Treasuries da essa
detenuti (pari a 682 miliardi di dollari) non subirà
significative erosioni, il che significa invitare gli Usa a non
essere troppo spregiudicati nel deficit spending. La presa di
posizione sembra la risposta alla intempestiva uscita di Obama
(via Geithner), che ha additato la Cina come currency
manipulator.
Nella congiuntura attuale, i cinesi preferirebbero un regime di
peg al dollaro pressoché rigido, in modo da gudagnare tempo per
poter uscire dalla recessione e riconvertire il proprio modello
economico, volgendosi alla crescita dei consumi, ed è verosimile
che questa richiesta verrà più o meno ufficialmente presentata
alla Clinton. Ma i cinesi certamente non ignorano il fatto di
essere condannati a riciclare parte del proprio surplus
acquistando titoli di stato statunitensi al solo scopo di
impedire un indesiderato apprezzamento dello yuan. Né ignorano
che liquidare parte non marginale del proprio portafoglio di
Treasuries sarebbe azione autolesionistica, per il contraccolpo
su prezzi e cambio dollaro-yuan. Forse proprio per limitare
parte dell’effetto prezzo, i cinesi hanno recentemente
accorciato la scadenza media dei titoli statunitensi in
portafoglio, verosimilmente contribuendo alla brusca risalita
dei rendimenti. Simul stabunt, simul cadent? Finché Pechino non
riuscirà a quadrare il cerchio, l’”equilibrio del terrore
finanziario” tra i due paesi è destinato a proseguire.
Fonte
-
Macromonitor
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Mercoledì 11
Febbraio 2009 |
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Sabato 14
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Domenica 15
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TESTO INTEGRALE
- G7 finanziario a Roma, il documento finale
14 Febbraio 2009 17:57
-
di Reuters ______________________________________________
ROMA (Reuters) - Ecco la versione
integrale, nel testo originale in inglese, del documento finale
emesso al termine del G7 finanziario tenuto a Roma ieri ed oggi.
"We, the G7 Finance Ministers and Central Bank Governors met
today amid an ongoing and severe global economic downturn and
financial turmoil. The stabilisation of the global economy and
financial markets remains our highest priority. We have
collectively taken exceptional measures to address these
challenges and we reaffirm our commitment to act together using
the full range of policy tools to support growth and employment
and strengthen the financial sector. The financial measures
taken by each of us are helping to stabilise extremely volatile
financial markets. These actions aimed at restoring normal
credit flows to the economy follow three approaches as needed 1)
enhanced liquidity and funding through traditional and newly
created instruments and facilities 2) strengthen the capital
base according to the competent authority's assessment of
individual financial institutions and 3) facilitate the orderly
resolution of impaired assets. The G7 commit to take any further
action that may prove necessary to re-establish full confidence
in the global financial system. We will continue to work
together and to cooperate to avoid undesirable spillovers and
distortions. What started as financial turmoil has now gripped
the real economy and spread throughout the world. The severe
downturn has already resulted in significant job losses and is
expected to persist through most of 2009. The policy response by
the G7 has been prompt and vigorous, its full effects will build
over time. Policy interest rates have been reduced to very low
levels and unconventional monetary policy actions are being
taken as appropriate. Budgetary action has been resolute. In
addition to the full functioning of automatic stabilisers,
substantial further fiscal stimulus packages are being
implemented. By taking action together the effects of our
individual actions will be boosted. Our fiscal policy measures
adhere to principles that will increase their effectiveness. *
be frontloaded and quickly executed * include the appropriate
mix of spending and tax measures to stimulate domestic demand
and job creation and support the most vulnerable * increase
longer term growth prospects, addressing structural weaknesses
through targeted investments * be consistent with medium-term
fiscal sustainability and mostly rely on temporary measures We
also welcome and appreciate the prompt macro-economic response
from others throughout the world. In particular, we welcome
China's fiscal measures and continued commitment to move to a
more flexible exchange rate, which should lead to continued
appreciation of the Renminbi in effective terms and help promote
more balanced growth in China and in the world economy. We
reaffirm our shared interest in a strong and stable
international financial system. Excess volatility and disorderly
movements in exchange rates have adverse implications for
economic and financial stability. We continue to monitor
exchange markets closely, and cooperate as appropriate. An open
system of global trade and investment is indispensable for
global prosperity. The G7 remains committed to avoiding
protectionist measures, which would only exacerbate the downturn,
to refraining from raising new barriers and to working towards a
quick and ambitious conclusion of the Doha round. The G7 also
stresses the need to support emerging and developing countries'
access to credit and trade financing and resume private capital
flows, and is committed to explore urgently ways, including
through multilateral development banks, to enhance this support.
This crisis has highlighted fundamental weaknesses in the
international financial system and that urgent reforms are
needed. We agree that a reformed IMF, endowed with additional
resources, is crucial to respond effectively and flexibly to the
current crisis. In this respect, we welcome the Japanese
government's lending agreement with the IMF. Increased
collaboration between the IMF and the expanded Financial
Stability Forum (FSF) will be particularly important to develop
a timely and reliable assessment of macro-financial risks. We
also welcome the contribution of the World Bank and regional
Development Banks to providing finance to emerging and
developing countries affected by the crisis, using their
resources effectively. The G7 finance ministers have asked their
deputies to prepare, in consultation with other partners, a
progress report in four months on developing an agreed set of
common principles and standards on propriety, integrity and
transparency of international economic and financial activity.
The G7 is committed to continue working with partners in
international fora to accelerate reforms of the regulatory
framework including limiting procyclicality, the scope of
regulation, compensation practices, market integrity and risk
management."
Fonte
-
Reuters
G7, forte risposta a
crisi e condanna protezionismo
14 Febbraio 2009 18:31
-
di Reuters ______________________________________________
ROMA (Reuters) - Il G7, temendo
un ritorno degli errori che hanno amplificato la grande
depressione degli Anni 30, farà quanto possibile per combattere
la recessione economica ed evitare che siano assunti
provvedimenti protezionistici. È quanto si legge nel comunicato
che chiude i lavori del summit, svoltosi tra ieri e oggi a Roma.
Nelle pieghe del documento si nota anche un tono più conciliante
nei confronti della Cina, dopo le dichiarazioni del segretario
al Tesoro Usa Timothy Geithner, che aveva accusato di recente
Pechino di manipolare il tasso di cambio dello yuan. La nota,
non molto diversa dalla bozza che Reuters ha diffuso ieri sera,
sembra messa a punto anche per mitigare i timori di chi vede i
governi determinati a varare misure di sostegno all'occupazione
e alle industrie nazionali rinunciando al rispetto dei principi
di concorrenza e libero scambio. Mentre il G7 era in corso nella
notte, infatti, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il
piano anticrisi da 787 miliardi di dollari dell'Amministrazione
Obama che contiene decine di miliardi di investimenti in opere
pubbliche, investimenti vincolati però all'acquisto di beni e
materie prime - come l'acciaio - prodotti negli Stati Uniti,
sintetizzato nello slogan 'buy American'. Secondo il ministro
dell'Economia italiano, Giulio Tremonti, "c'è stata una
discussione tutta convergente sul punto: il protezionismo è
negativo". Il cancelliere dello Scacchiere britannico Alistair
Darling ha detto di aver discusso con Geithner del cosiddetto "buy
american" e che "gli Stati uniti sono consapevoli delle loro
responsabilità verso il resto del mondo". La clausola "buy
american" non è la sola a preoccupare il G7. Le misure di
sostegno all'industria dell'auto in Francia e Italia hanno
sollevato preoccupazioni, come pure le campagne anti-italiani in
Gran Bretagna per assicurare il lavoro ai cittadini inglesi. Sul
"buy American" Geithner, alla sua prima uscita internazionale,
apprezzato dai colleghi per i toni distesi e concilianti, ha
voluto assicurare che lo stesso Barack Obama ha ben presenti le
preoccupazioni internazionali. Il comunicato G7 aggiunge che
stabilizzare economia e mercati finanziari è essenziale e che
tutti devono collaborare utilizzando ogni mezzo di politica
economica per assicurare il massimo effetto. "Continueremo a
lavorare insieme per evitare effetti indesiderabili e
distorsioni", dice il comunicato. Altro tema discusso è stato
quello del tasso di cambio dello yuan cinese. Il comunicato G7 è
stato più conciliante rispetto alla riunione di ottobre,
lanciando un esplicito apprezzamento dell'impegno a un regime
valutario più flessibile assunto da Pechino. Nessun riferimento,
come ampiamente anticipato ma non considerato scontato dai
mercati, ad altre valute. "Il tono più conciliante sulla Cina è
la differenza chiave rispetto al precedente comunicato", ha
detto Geoffrey Yu, analista di Ubs commentando l'esito del
summit. Tremonti ha detto che dall'incontro di Roma parte un
percorso per la riscrittura delle regole economiche a livello
internazionale che potrà portare alla formazione di un "nuovo
ordine". Il documento finale del G7 non menziona i cosiddetti "legal
standard" sulla cui necessità il presidente italiano di turno
del G7 aveva insistito nei giorni scorsi: si parla più
genericamente di "common principle and standard".
Fonte
-
Reuters
|
Una
classe dirigente
tutta da
buttare
17 Febbraio 2009 02:08 LUGANO - di
Alfonso Tuor
________________________________________
La crisi finanziaria ed economica diventa ogni giorno
più grave, ma mai un vertice dei ministri delle finanze e
dell’economia del G7 è stato così dimesso e così irrilevante come
quello tenutosi questo fine settimana a Roma. I motivi sono
numerosi, ma ve n’è uno che spicca fra tutti. Stati Uniti e Paesi
europei non hanno alcuna strategia chiara, procedono a tentoni,
cercando di turare le falle che continuano ad aprirsi, ma non sanno
se le centinaia di miliardi che finora hanno già speso serviranno
solo per guadagnare tempo oppure se saranno effettivamente utili per
risolvere questa crisi.
Questo modo caotico di procedere è sicuramente dovuto al fatto che
non vi sono terapie certe per un marasma economico provocato
dall’esplosione di un’enorme bolla del credito, che ha travolto il
sistema bancario e che ora sta provocando una pesante recessione
mondiale. Questa spiegazione non è però esaustiva.
La mancanza di ricette e l’accavallarsi degli avvenimenti hanno
spinto i governi in un vicolo cieco da cui ora è difficile uscire.
Questa strada senza uscita si fonda sulla convinzione oramai diffusa
che la premessa indispensabile per poter uscire dalla crisi è il
salvataggio del sistema bancario. Per perseguire questo obiettivo,
tutti i Paesi occidentali, seppure con modalità diverse, hanno speso
somme enormi di denaro per turare le voragini dei conti delle
banche, con il deludente risultato di giungere alla prevedibile
scoperta che esse sono talmente grandi da essere paragonabili ad un
buco nero che rischia di risucchiare tutto e tutti.
Gli aspetti negativi di questo modo di procedere sono molteplici. In
primo luogo, solo una quantità minima dei soldi finora spesi sono
stati indirizzati al rilancio dell’economia, mentre la quasi
totalità è stata data alle banche, per di più in modo molto caotico.
In secondo luogo, il tentativo di salvare gli istituti di credito
senza porre alcuna condizione (dalla ripresa dell’erogazione del
credito alla fine delle operazioni di trading sui mercati con il
capitale proprio) ha fatto passare in secondo piano l’obiettivo di
rivedere le regole del mondo della finanza e di ridefinire
l’architettura del sistema monetario internazionale. In altre
parole, l’oligarchia finanziaria, responsabile dell’attuale
disastro, è riuscita ad avvinghiare ai propri destini anche i
governi e in questo modo ne ha ridotto le aspirazioni di rivedere le
regole del gioco.
Questa carenza di visioni nuove è confermata dal piano salvabanche
della nuova amministrazione americana. Si può dire che la montagna
ha partorito un topolino. Il piano di Obama costerà 2.000 miliardi
di dollari, ma tutti concordano che non basterà per salvare le
grandi banche a stelle e strisce. La trappola in cui sono finiti i
governi è paradossalmente illustrata dallo stesso piano americano.
Esso prevede che le banche americane con una cifra di bilancio
superiore ai 100 miliardi di dollari (sono una ventina) vengano
sottoposte ad uno «stress test» per verificare se sono in grado di
sopravvivere: non è però stato detto che cosa farà l’amministrazione
se questo test non dovesse essere superato, come è probabile, da
molti istituti. Gli stessi banchieri si domandano: le banche che non
supereranno l’esame riceveranno altro denaro pubblico, verranno
nazionalizzate oppure sono previste altre varianti?
L’attuale successo dell’oligarchia finanziaria di coinvolgere i
governi nella battaglia per la loro sopravvivenza e di far perdere
slancio al cambiamento delle regole del mondo della finanza è
comunque destinato a risultare effimero. Il motivo è semplice:
queste politiche sono fallimentari. Non miglioreranno né le
condizioni di salute delle banche né quelle dell’economia reale.
Faranno però esplodere i debiti pubblici, incrinando prima o poi la
fiducia dei risparmiatori nei titoli con cui gli Stati finanziano i
loro debiti.
Questa politica potrebbe essere sconfessata molto presto anche
perché non si preoccupa del rapido deterioramento delle condizioni
di salute dei Paesi alla periferia del G7. È infatti probabile che
la prossima fase di altissima tensione della crisi sarà causata dal
crack di un Paese emergente. Nella lista dei candidati a ricoprire
questo ruolo primeggiano i Paesi dell’Est europeo e in particolare
Ucraina, Ungheria, Estonia e Lettonia.
In attesa della prossima grande eruzione non bisogna stancarsi di
ripetere che salvare le banche è un’operazione immane, vista
l’entità delle perdite nascoste nei loro bilanci. L’obiettivo dei
governi dovrebbe invece essere creare delle «good bank», che possano
riprendere ad erogare crediti alle famiglie e alle imprese, varare
grandi piani di rilancio dell’economia reale, rifare le regole del
mondo finanziario e ripensare l’architettura del sistema finanziario
internazionale.
L’esempio della Cina conferma la bontà di questa linea. Infatti dal
Paese asiatico giungono segnali positivi sempre più frequenti, per
cui si può azzardare la previsione che nella seconda metà dell’anno
la Cina dovrebbe imboccare la strada della ripresa, anche se lenta
rispetto ai parametri del passato.
Questo fatto non è sorprendente.
Il governo ha varato un piano di rilancio di 600 miliardi di
dollari, che sono destinati interamente al rilancio dell’economia.
Nemmeno un soldo è andato invece alle banche, che grazie
all’inconvertibilità della valuta cinese non hanno accumulato troppe
perdite nell’acquisto dei titoli tossici americani. I segnali di
ripresa della Cina non devono essere letti solo come un motivo di
speranza, ma anche come un’indicazione di quale possa essere la via
di uscita dalla crisi.
Il ruolo chiave della Cina è stato riconosciuto anche dallo stesso
G7, che nell’unico risultato degno di nota del vertice romano ha
ammorbidito il linguaggio nei confronti di Pechino sulla controversa
questione del tasso di cambio del renminbi. La svolta è
principalmente della nuova amministrazione americana. Il presidente Barack Obama aveva infatti vinto le elezioni presentandosi come un
paladino dei posti di lavoro statunitensi e il nuovo segretario al
Tesoro Tim Geithner, nella prima audizione davanti al Congresso,
aveva dichiarato che la valuta cinese è pesantemente sottovalutata.
Ma il fatto che la Cina sia il maggiore acquirente dei titoli con
cui gli Stati Uniti finanziano il loro debito pubblico ha indotto la
nuova amministrazione ad attuare un cambiamento radicale di linea
che verrà sicuramente suggellato nei colloqui di questa settimana a
Pechino del segretario di Stato Hillary Clinton. La svolta americana
non è solo dovuta a necessità di cassa, ma anche alla consapevolezza
che gli Stati Uniti escono ridimensionati da questa crisi, che è
destinata a cambiare i rapporti di forza a livello internazionale.
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Fonte
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Corriere del Ticino
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Crisi: commissario
Ue Kroes lancia l'allarme
17 Febbraio 2009 16:27 BRUXELLES
-
di Reuters ______________________________________________
(ANSA) - BRUXELLES, 17 FEB -
Neelie Kroes lancia l'allarme: 'l'esposizione delle banche verso
gli asset tossici e quelli deteriorati continua a crescere'. La
commissaria Ue alla concorrenza parla di 'numeri sbalorditivi' e
sottolinea che 'siamo ancora lontani dalla ripresa'. Per questo
- sottolinea - e' piu' che mai necessario che i piani di
sostegno alle banche siano 'coordinati e coerenti' con le regole
europee. E questo non e' negoziabile'', aggiunge Kroes. 'Se si
vuole ripristinare la normale funzione del credito - aggiunge
poi - e' necessario che le decisioni sulle ristrutturazioni
bancarie siano prese prima della fine del 2009'. 'Non bisogna
assicurare solo la sopravvivenza delle banche - spiega - ma che
riprenda effettivamente il flusso del credito all'economia
reale'. Questo anche a costo di prendere 'decisioni difficili',
come quella della liquidazione. Per Kroes va fatto tutto
rapidamente, perche' - spiega ancora - 'non possiamo sostenere
ulteriori ritardi', col risultato di tenere in vita 'modelli di
impresa falliti e di rovinare le finanze pubbliche e il mercato
unico, attraverso distorsioni della concorrenza'.(ANSA).
Ue: 18 mila miliardi
asset banche a rischio tossicita'
18 Febbraio 2009 12:53 ROMA
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 18 FEB - Diciotto
mila miliardi di euro: e' la stima sull'entita' degli asset a
rischio di tossicita' delle banche europee.E' contenuta in un
documento riservato della Commissione europea- reso noto da
Milano finanza- discusso la scorsa settimana dai ministri delle
Finanze dell'Ue in sede Ecofin. E' una prima bozza delle linee
guida che i governi dovranno tenere in tema di quantificazione
degli asset tossici nei bilanci delle banche europee.
Fonte
- ANSA
Crisi economia, Usa:
risposta globale coordinata
17 Febbraio 2009 17:35
-
di Reuters ______________________________________________
LONDRA (Reuters) - Un nuovo
rapporto che suggerisce che la recessione economica dell'Europa
orientale trascinerà le banche occidentali in una crisi ancora
più profonda, ha fatto crescere oggi la preoccupazione
dell'impatto negativo delle economie emergenti sulla recessione
dell'Occidente. L'euro è calato e le azioni delle banche europee
sono state colpite dal report di Moody's, che sottolinea la
debolezza fiscale di gran parte dell'Europa dell'Est. L'aumento
dei costi di prestito delle banche e la svalutazione della
moneta peseranno sulla redditività delle banche contribuendo
all'erosione del loro capitale di base, ha spiegato Moody's in
un comunicato. Gran parte del globo è in recessione economica a
causa di una crisi finanziaria innescata dal collasso del
mercato edilizio americano e dei mutui subprime. L'Europa
orientale è stata particolarmente colpita: l'Ucraina ex
sovietica ha assistito a una contrazione superiore a un terzo
della produzione industriale, la peggiore riduzione in più di un
decennio. I governi sono intervenuti con una serie di misure,
come i pacchetti di stimolo, nel tentativo di evitare
l'inasprirsi della recessione, ma spesso sono stati criticati
per aver anteposto l'interesse della nazione agli impegni
commerciali.
AGIRE INSIEME "Quello che mi sciocca e mi dispiace è che
nell'arena internazionale ... tutti siano d'accordo sulla
necessità di lavorare insieme", ha detto Dominique Strauss-Kahn,
presidente di Imf, alla radio France Inter. "Poi quando tornano
a casa, tutti hanno dei vincoli nazionali, ognuno agisce in modo
un po' diverso e a volte un po' contraddittorio ed è per questo
che corriamo dei rischi". Il pacchetto di stimolo da 787
miliardi di dollari che dovrebbe essere firmato dal presidente
Usa Barack Obama nella giornata di oggi, è stato criticato per
la sua clausola "Buy American" secondo cui le aziende devono
usare acciaio e altri prodotti americani. L'aumento delle
preoccupazioni circa l'andamento dell'economia globale e dei
profitti delle aziende ha spinto le borse ai minimi delle ultime
due settimane, e alcuni decisionisti, visti gli scarsi risultati
ottenuti fino ad ora dalle misure del governo, hanno iniziato a
valutare altre ipotesi. Ewald Nowotny, membro del board della
Banca centrale europea, ha affermato che l'Europa ha ancora
spazio per ridurre i saggi di interesse aggiungendo però di "non
essere a favore di tassi nominali allo zero, che significano
tassi reali negativi". "C'è, mentre l'economia e i tassi
continuano a scendere, un dibattito che verte sull'esistenza di
misure aggiuntive, non convenzionali. E' una cosa di cui si
discute alla Bce e bisogna vedere come si svilupperà", ha detto
in un'intervista al Financial Times. In Asia, il Giappone ha
subito una contrazione peggiore rispetto alle altre grandi
economie a causa della sua forte dipendenza dalle esportazioni e
della bassa domanda interna. Il primo ministro giapponese Taro
Aso ha nominato il 70 enne ministro dell'Economia Kaoru Yosano
come ministro delle Finanze dopo le dimissioni di Shoichi
Nakagawa. Nakagawa è stato costretto a negare che era ubriaco al
meeting del G7 a Roma. "Con le dimissioni di Nakagawa al governo
manca una persona che porti aventi nuove azioni a supporto
dell'economia, in condizioni sempre peggiori", ha detto Koichi
Haji, dell'istituto di ricerca Nli.
Fonte
- Reuters
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Crisi
economia, Usa:
Mutui: la crisi colpisci anche i ricchi
20 Febbraio 2009 17:00 NEW
YORK - di Bloomberg
________________________________________
Gli insolventi tra i proprietari di case di lusso crescono
al ritmo piu' elevato da 15 anni. La crisi, iniziata con i "subprime",
ora travolge i clienti "prime". I prestiti saranno sempre
piu' difficili da ottenere e risanare.
Continua la serie di "Anche i ricchi piangono": persino i
proprietari di case di lusso, infatti, stanno incontrando
difficolta' a rispettare i pagamenti dei propri mutui. Le
persone che accumulano debiti arretrati stanno aumentando al
ritmo piu' alto da 15 anni, segnale che la crisi finanziaria
Usa, partita con gli americani piu' poveri, ha raggiunto
anche la parte piu' benestante della popolazione.
L'anno scorso circa il 2.57% dei contraenti di prestiti di
lusso, cosiddetti jumbo, sono risultati in ritardo di almeno
60 giorni, una percentuale raggiunta in meno di 10 mesi, al
ritmo piu' spedito dal 1992, secondo i dati raccolti da LPS
Applied Analytics. Si tratta di un ritmo del doppio
superiore al 2007 e un livello che non veniva toccato da
almeno tre anni.
Il balzo della percentuale di insolvenze nei prestiti jumbo,
sebbene si mantenga ben al di sotto dei livelli del 20%
toccati dai mutui subprime, e' un indice evidente di come
anche i mutuatari piu' ricchi stiano accusando l'impatto
della recessione, ormai entrata nel suo secondo anno di
vita. Significa anche che questi prestiti saranno sempre
piu' difficili da ottenere e di conseguenza piu' cari da
risanare.
"L'influenza maggiore nella crescita del tasso di insolvenza
la esercita l'economia", osserva Keith Gumbinger, vice
presidente di HSH Associates, una societa' di ricera mutui
di Pompton Plains, nel New Jersey. "Sembra che nessuno sia
escluso, siamo tutti coinvolti in qualche modo. Certamente
la situazione e' piu' grave per alcuni, ma ormai e'
piuttosto diffusa".
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto i massimi di 25 anni
a gennaio, mentre il tasso relativo all'industria
finanziaria e' cresciuto al 6% dal 3% antecedente. Nella
categoria dei servizi professionali e di business e' passato
al 10.4% dal 6.4%, secondo quanto mostrato dai dati
dell'Ufficio di Statistica del Lavoro di Washington.
Circa l'1.92% dei proprietari di case con un mutuo
sottoscritto nel 2008 con Fannie Mae e Freddie Mac e'
indietro di 60 giorni nei pagamenti dei prestiti jumbo, che
sono molto piu' alti di quanto non possano garantire le
agenzie statali, sarebbe a dire $417 mila nella maggior
parte dei casi e fino a $729750 nelle aere con i prezzi
immobiliari piu' elevati. La media per i mutui jumbo nel
2008 e' stata di 762, sempre secondo i dati LPS Applied
Analytics. Un punteggio di questo tipo serve per misurare il
rischio.
I prestiti Jumbo hanno subito un rallentamento nel quarto
trimestre a 11 miliardi, ovvero il 4% del mercato
immobiliare, il peggior risultato trimestrale da quando
Inside Mortgage Finance ha iniziato a raccogliere i dati nel
1990. Nel 2007 i prestiti jumbo rappresentavano il 14% dei
mutui Usa complessivi, secondo la societa' con sede a
Bethesda, nel Maryland.
Le cinque principali aziende che offrono prestiti jumbo ai
propri clienti, Chase Home Finance, Bank of America,
Washington Mutual, Wells Fargo e Citigroup, insieme hanno
prodotto $55.3 miliardi in mutui di lusso nel 2008. Di
quella cifra, mostrano i dati di Inside Mortgage Finance,
sono stati accordati prestiti per appena $4.3 miliardi
durante gli ultimi tre mesi dell'anno.
Le banche sono sempre piu' riluttanti a concedere prestiti
jumbo perche' vorrebbe dire mantenere riserve in denaro tali
da essere sempre in grado di ripagare le eventuali
insolvenze, spiega Guy Cecala, AD di Inside Mortgage
Finance.
Questa settimana la media nazionale degl interessi per un
mutuo jumbo a 30 anni a tasso fisso era al 6.57%, paragonata
al 5.34% dei prestiti standard, secondo White Plains,
societa' dati di BanxQuote, con sede a New York.
La differenza tra i tassi di interesse dei prestiti jumbo e
di quelli "prime" standard, o di mutui che e' possibile
anche rivendere a Fannie Mae e Freddie Mac e disponibili
solo per clienti qualificati, ha toccato i 20 punti base
"per diversi decenni", secondo l'AD di BanxQuote, Norbert
Mehl. Ma in agosto 2007, ha aggiunto Mehl, i livelli hanno
toccato la soglia dei 200 punti base, per poi mantenersi tra
i 100 e i 200 punti base.
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Fonte
-
Bloomberg
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Martedì
17
Febbraio
2009 |
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Mercoledì
18
Febbraio
2009 |
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Venerdì
20
Febbraio
2009 |
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Verso
il flop
il piano
americano di stimolo
20 Febbraio 2009 19:44 NEW
YORK - di Alberto Alesina e Luigi Zingales
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Gli Stati
Uniti hanno approvato il più grande piano fiscale in periodo non
bellico, 787 miliardi di dollari, seguito da un ambizioso piano di
supporto del mercato edilizio per altri 275 miliardi. Funzioneranno?
Temiamo di no. Non solo da un punto di vista politico, ma anche da
quello economico la legge fiscale è un compromesso.
Da un lato Larry Summers, che voleva un piano di spese immediato,
mirato e temporaneo, dall'altro i democratici tradizionali, che
chiedevano più stanziamenti per infrastrutture ed educazione. Meglio
di niente, si dirà. Vero, ma ci sono due punti cruciali su cui
giudicare l'efficacia di questo pacchetto di misure. Primo: in
generale servono di più tagli fiscali o aumenti di spesa? Secondo:
in questa recessione, quali tagli di imposte e aumenti di spesa sono
particolarmente necessari?
Sulla prima domanda vi è molta incertezza, come notava Roberto
Perotti (Il Sole 24 Ore dell'8 febbraio). È vero che vi sono
opinioni contrastanti, ma noi crediamo che la maggioranza degli
studi empirici indichi che in genere sgravi fiscali sono più
efficaci che aumenti di spesa per rilanciare l'economia. Ad esempio,
una ricerca pubblicata già dieci anni fa su Economic Policy (Alberto
Alesina e Silvia Ardagna, ottobre 1998) esaminava tutti i casi di
forti stimoli di bilancio nei Paesi Ocse sin dai primi anni 60: il
risultato era che le espansioni dal lato delle imposte rilanciavano
la crescita più di quelle dal lato della spesa. E Christina Romer
(una delle economiste nel team Obama) in un recente lavoro con David
Romer ha confermato che negli Stati Uniti gli sgravi fiscali sono
stati più efficaci degli aumenti di spesa per stimolare la crescita.
Ecco, allora, che la preponderanza di aumenti di spesa rispetto a
tagli fiscali nel pacchetto di Obama preoccupa.
Soprattutto perché alcuni
dei programmi di spesa non avranno effetto immediato e quelli legati
alla tutela ambientale mescolano il breve periodo (la crisi) con il
lungo periodo (la politica ambientale) in un modo che ne complicherà
l'attuazione riducendone la rapidità di effetto.
Ma forse la seconda domanda è ancora più cruciale. Le famiglie
americane sono indebitate moltissimo. In questo momento sgravi
fiscali sul reddito familiare sarebbero molto probabilmente
destinati al risparmio anziché ai consumi. In fondo, una delle
ragioni di questa crisi iniziata dai mercati finanziari era appunto
l'eccessivo indebitamento degli americani. Prima li si accusava
(forse a ragione) di consumare troppo, ora è difficile chiedere loro
di consumare ancora di più per far uscire il mondo dalla crisi.
Certo, se i consumatori cinesi e tedeschi cominciassero a consumare
di più sarebbe tutto di guadagnato, ma purtroppo questa non è una
variabile che l'amministrazione Obama possa controllare. Quello che
il nuovo presidente può fare è preoccuparsi dei mercati finanziari
americani, dove la crisi è nata e continua. Basta guardare allo
spread tra i titoli del Tesoro e le obbligazioni meno rischiose
(tripla A). Tradizionalmente questo spread è di circa mezzo punto
percentuale, oggi è di 4 punti e mezzo.
Nonostante i bassi tassi d'interesse sui titoli di Stato, quindi, le
imprese trovano l'accesso al credito costoso e questo riduce i loro
investimenti. I tagli fiscali andrebbero quindi indirizzati alla
ripresa del flusso del credito e agli investimenti delle imprese. Il
2009 e forse anche il 2010 saranno anni difficili per le aziende.
Incentivi fiscali temporanei, che spingano le imprese a non posporre
investimenti, servirebbero a sostenere domanda aggregata e
occupazione.
Servirebbero anche altri incentivi fiscali che incoraggino gli
investitori ad assumersi una maggiore dose di rischio. Per esempio,
la crisi borsistica ha fortemente ridotto i fondi che gli americani
avevano accumulato per le pensioni. Si potrebbero detassare
ulteriori contributi a questi fondi a condizione che siano investiti
in titoli rischiosi, così da ridurre il premio per il rischio pagato
dalle imprese.
La mancanza di fiducia e il pessimismo sono tra le cause della
gravità della crisi. La leva fiscale va usata per contribuire a un
ritorno della propensione al rischio, sia da parte di creditori sia
dei debitori. Questi incentivi devono valere per tutti, non per
questo o quel settore.
Dal lato dalla spesa, e questo in parte il piano di Obama lo fa,
vanno aumentati i trasferimenti sociali ai disoccupati, cioè a
coloro che soffriranno temporaneamente delle ristrutturazioni di
vari settori industriali. È molto meglio lasciare che le imprese
utilizzino la crisi per ristrutturarsi, piuttosto che aiutarle a
sopravvivere con sussidi. Le aziende ristrutturate saranno in grado
di far ripartire l'economia. Quelle decotte no: possono solo
trasformare una severa recessione in una lunga depressione. Da
questa crisi si può uscire solo ricreando fiducia nel mercato. Su
questo fronte il piano fiscale di Obama fallisce.
Farà di meglio il piano casa? Il lato positivo è che aiuta alcune
famiglie in temporanea difficoltà a evitare il default. Ma spinge le
agenzie Fannie Mae e Freddie Mac (e quindi il Governo) ad assumersi
un grosso rischio immobiliare, non risolvendo il problema
fondamentale: una fetta consistente di famiglie ha un mutuo più
elevato del valore della casa e rischia di abbandonarla da un
momento all'altro. Tanto nella legge fiscale come nel piano casa la
strategia sembra quella di coprire i problemi gettandoci sopra i
soldi dei contribuenti, invece che risolverli.
 |
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
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TESORO USA
POTREBBE ACQUISTARE FINO AL 40% CAPITALE CITIGROUP
23 Febbraio 2009 08:24 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Le autorità statunitensi stanno
studiando la nazionalizzazione parziale del colosso finanziario.
Lo rivela il Wsj nella sua edizione online.
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore
e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall
Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Le autorità Usa stanno studiando la nazionalizzazione parziale
di Citigroup. Lo ha scritto il Wall Street Journal nella sua
edizione on-line, sostenendo che lo Stato dovrebbe rilevare tra
il 25 e il 40% dell'istituto. «È possibile che le trattative
falliscano - scrive Wsj - ma il governo potrebbe trovarsi in
mano fino al 40% delle azioni ordinarie di Citigroup. I
dirigenti della banca sperano che la quota della quale si
approprierà lo stato sia attorno al 25%».
Le voci su una nazionalizzazione circolavano già la scorsa
settimana sia per Citigroup che per Bank of America, entrambe
già ricapitalizzate nei mesi scorsi per circa 45 miliardi di
dollari ciascuna. La scorsa settimana le azioni di Citigroup
hanno accusato un tonfo del 41% e quelle di Bank of America del
31%. Wall Street Journal ha interpellato il portavoce di Bank of
America, che ha dichiarato che l'istituto di Charlotte (Caroline
del Nord) non ha intavolato discussioni per un eventuale
ingresso nel capitale da parte del governo. «Non vediamo alcuna
ragione per tale operazione», ha detto il portavoce di Bank of
America al quotidiano. Secondo l'autorevole giornale lo Stato
potrebbe trasformare gran parte delle azioni 'preferred', senza
diritto di voto, in azioni ordinarie. Tale prospettiva era già
circolata in Borsa nei giorni scorsi e aveva fatto precipitare
le quotazioni.
Wall Street Journal ha precisato che al momento le discussioni
stanno avvenendo tra i responsabili della Fed e le altre
autorità di regolamentazione. In un secondo momento il progetto
sarà poi presentato all'amministrazione del presidente Barack
Obama. Per altro proprio venerdì scorso sia la Casa Bianca che
il Tesoro avevano sostenuto un sistema bancario privato.
«L'amministrazione continua a credere fermamente che un sistema
bancario privato rappresenti la soluzione per sopravvivere», ha
detto il presidente.
Uno 007 per controllare il piano di aiuti. Oggi il presidente
americano Barack Obama dovrebbe nominare Earl Devaney a capo di
una squadra di superispettori del ministero dell'Interno con un
compito ben preciso: controllare che i finanziamenti federali
decisi dal piano di stimolo vengano regolarmente ed
effettivamente spesi, e che sia garantita la assoluta
trasparenza di ogni operazione. Devaney è un ex agente dei
Servizi Segreti e sarà il responsabile dell'organismo preposto
al controllo del corretto utilizzo del piano di stimolo
economico da 787 miliardi varato la settimana scorsa dalla Casa
Bianca. La decisione vuole essere una sorta di replica alle
critiche crescenti che gli arrivano dal fronte repubblicano e
che lo accusano di aver dato vita a un piano che, anziché
rilanciare l'economia, è destinato al contrario a sprecare un
fiume di denaro. Come ispettore generale del ministero
dell'Interno, Earl Devaney è stato a capo di indagini che hanno
portato a scoprire diversi scandali. Fino al 1991 aveva lavorato
nel Secret Service.
La tassa di solidarietà per tagliare il deficit. Obama dovrebbe
formalizzare la nuova nomina nel corso di un vertice sulla
"Responsabilità fiscale" con Joe Biden, membri del Congresso e
altri gruppi. Nel vertice si parlerà della proposta di Obama di
introdurre una tassa di solidarietà per i redditi superiori a
250mila dollari annui per ridurre il deficit statale.
CRISI BANCHE,
NUOVO INTERVENTO DEL GOVERNO
23 Febbraio 2009 15:05 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Documento congiunto del
Dipartimento del Tesoro, Fed, FDIC. Il governo assicurera' che
capitalizzazione, liquidita' e solvibilita' degli istituti
bancari siano sufficienti per rilanciare la crescita economica.
Il nuovo programma...
Il governo garantira' che le banche abbiano il capitale e la
liquidita' sufficienti per offrire il credito necessario a
rilanciare la crescita economica.
"Per facilitare un recupero deciso e duraturo dell'economia
serve un sistema finanziario forte, resiliente, pertanto il
governo Usa si schiera fermamente al fianco del sistema bancario
durante questo periodo di difficolta' finanziarie, per
assicurare che sia in grado di svolgere le sue funzioni
creditizie primarie verso aziende e famiglie", si legge nel
comunicato congiunto pubblicato da Dipartimento del Tesoro Usa,
FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), Ufficio di
Controllo Valutario, l'Ufficio di Supervisione dei Risparmi e il
Board della Federal Reserve.
"Inoltre confermiamo il nostro impegno nel preservare la
solvibilita' degli istituti finanziari piu' importanti a livello
sistemico, affinche' siano in grado di rispettare i loro
impegni", prosegue il comunicato.
Il programma prevede che vengano valutate le necessita’ a
livello di capitale dei principali istituti bancari Usa a fronte
delle sempre piu’ difficili condizioni economiche.
"Se ci dovesse essere il bisogno di un’iniezione di capitale
ulteriore, faremo si che gli istituti abbiano l’opportunita’ di
rivolgersi in prima battuta ai capitali privati. Altrimenti,
l’ammontare di capitale provvisorio necessario verra’ messo a
disposizione dal governo", dice la nota, precisando che questo
non implica che il cuscinetto di capitale verra’ mantenuto per
sempre.
"Al contrario, e’ pensato per offrire un cuscinetto contro
perdite future maggiori del previsto, dovessero verificarsi a
causa di condizioni economiche piu’ difficili, e per sostenere i
prestiti alle persone".
Qualsiasi nuovo capitale sara’ messo a disposizione dal governo
in forma di azioni privilegiate convertibili vincolanti, che
verranno convertite in azioni comuni solo se ce ne sara’
bisogno, nel tentativo di mantenere le banche in una posizione
liquida stabile e potra’ essere rititrato quando le condizioni
finanziarie saranno migliorate prima che la conversione diventi
obbligatoria.
"Siccome la nostra economia funziona meglio quando gli istituti
finanziari sono gestiti bene nel settore privato - conclude il
comunicato - il programma Capital Assistance e' pensato per far
si che le banche rimangano in mani private". Fonte
- WallStreetItalia.com
OBAMA PRESENTA LA FINANZIARIA,
IL DEFICIT SCHIZZA A $1750 mld
26 Febbraio 2009 16:35 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti
ha presentato la bozza della "finanziaria" per il prossimo anno
fiscale: una manovra economica da $3600 miliardi, per cui e'
previsto un deficit pari al 12.3% del Pil, il maggiore dalla
Seconda Guerra Mondiale.
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato la
bozza della "finanziaria" per il prossimo anno fiscale, il 2010,
che inizierà il prossimo 1 ottobre: si tratta di una manovra
economica in 134 pagine da oltre 3.600 miliardi di dollari. Il
documento finale, molto più ampio, è atteso tra la metà e la
fine di aprile. È previsto un deficit di 1.750 miliardi, pari al
12,3% del Pil, il maggiore dalla seconda guerra mondiale. Il
documento, ha spiegato il presidente, «dà conto in modo onesto
di dove siamo e dove intendiamo andare».
Il budget - ha detto Obama - non nasconde tutta la gravità della
recessione in atto e vuole «offrire chiarezza su come viene
speso ogni singolo dollaro dei contribuenti americani». Il
presidente ha promesso di tagliare gli sprechi fino a 2mila
miliardi di dollari, offrendo esempi di fondi spesi male nel
mondo scolastico dove numerosi programmi di occupano del
medesimo obiettivo. E ha confermato la promessa fatta durante
tutta la sua campagna elettorale: estendere progressivamente la
copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Attualmente
circa 46 milioni di americani sono invece esclusi da qualsiasi
forma di assistenza.
Obama ha annunciato nei giorni scorsi il suo intento di
abbattere il deficit federale ereditato da George W. Bush
nell'arco di quattro anni portandolo a 533 miliardi nel 2013 o
il 3,5% del pil. La proposta di legge che presenterà oggi,
include fra le misure volte a ridurre le spese pubbliche anche
la netta diminuzione dei sussidi all'agricoltura (e sarà
battaglia, la misura consentirebbe risparmi per 9,8 miliardi in
dieci anni), che sono del resto uno dei grandi ostacoli in sede
Wto al completamento del Doha round. Ma la legge di budget
prevede nell'immediato anche un aumento delle spese per centrare
alcuni obiettivi chiave.
Tanto per cominciare, si accantonano 250 miliardi di dollari
come «riserva» nel caso Obama decidesse di chiedere al Congresso
nuovi finanziamenti per aiutare il sistema finanziario
americano. Include inoltre un fondo di riserva da 634 miliardi
nell'arco di dieci anni per finanziare le riforme al sistema
sanitario proposte dal presidente. La somma di 1.750 miliardi di
dollari include la legge di stimolo da 787 miliardi varata la
scorsa settimana dall'amministrazione e gli impegni di spesa
ereditati da Bush.
Obama proporrà un aumento delle tasse per i redditi più alti,
per poter finanziare la promessa riforma tesa ad assicurare ad
un numero maggiore di americani l'assistenza sanitaria. Gli
aumenti arriveranno in forma di riduzione delle deduzioni
fiscali introdotte da George Bush in favore dei redditi sopra i
250mila dollari, una piccola percentuale dei contribuenti
americani. L'amministrazione poi intende fare cassa anche con il
sistema di cap and trade previsto in una nuova regolamentazione
in materia ambientale, attraverso il quale le compagnie si
potranno pagare il diritto di superare i limiti imposti di
emissioni.
La scelta di Obama di alzare ancora l'asticella degli aiuti alle
banche e alla finanza ha spinto in alto anche i rendimenti dei
titoli di Stato, con i bond a scadenza biennale saliti ai
massimi da tre mesi (+2 punti base e rendimento all'1,11%) e i
decenaali tornati oltre il 3% (massimo dal 9 febbraio) dopo
avere toccato il minimi degli ultimi dieci anni lo scorso 18
dicembre al 2,04 per cento. Proprio oggi era programmata un'asta
record da 22 miliardi di dollari per i titoli a scadenza sette
anni.
Tornando al budget, finanziare le guerre in Iraq e Afghanistan,
Obama prevede di spendere nel 2009 circa 140 miliardi di dollari
e altri 130 nell'anno fiscale 2010. I costi scenderanno poi a
circa 50 miliardi di dollari l'anno a partire dal 2011.
Washington ha speso circa 190 miliardi nelle guerre nel 2008, ma
Obama sembra intenzionato a mantenere fede al proprio impegno di
ordinare il ritiro dall'Iraq nell'arco dei prossimi 18 mesi
aumentando tuttavia al tempo stesso la presenza militare in
Afghanistan.
Brutte nuove, intanto, dal fronte dell'economia reale. Nel mese
di gennaio, gli ordini dei beni durevoli degli Stati Uniti sono
scesi del 5,2% a 163,8 miliardi di dollari. Il dato, reso noto
dal dipartimento del Commercio, è peggiore delle stime degli
analisti, che avevano previsto un calo del 3 per cento. È stato
inoltre rivisto il dato di dicembre quando gli ordini sono
diminuiti del 4,6% anzichè del 3%.
Ed è ancora record per i sussidi di disoccupazione che hanno
ormai superato la soglia psicologica dei cinque milioni. Il
numero degli americani che percepisce ilsussidio è aumentato di
114.000 unità raggiungendo i 5,112 milioni, dopo il forte
aumento segnato la scorsa settimana. Le richieste settimanali di
sussidio sono salite, infatti, di 36.000 unità a quota 667.000,
il livello più alto dal 1982. È stato inoltre rivisto al rialzo
il dato della settimana precedente a quota 631.000 da 627.000
della prima rilevazioni.
Infine, le vendite di nuove case sono crollate del 10,2% al
tasso annuo di 309mila a gennaio, livello minimo da quando le
rilevazioni sono cominciate nel 1963. Il dato reso noto dal
dipartimento del Commercio è peggiore delle attese degli
analisti, che avevano pronosticato un tasso annuo di 330mila. Il
prezzo medio delle abitazioni è scivolato del 13,5% a 201.100
dollari, minimo dal dicembre 2003.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Febbraio 2009 |
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Mercoledì 25
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Sabato 28
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Rischi
americani e rischi italiani
03 Febbraio 2009 03:55 MILANO - di
La Repubblica
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Anche se la maggior parte degli esperti continua a
disegnare scenari con la svolta (fine dei segni meno e inizio di
quelli più) a metà dell´anno, giusto poco prima dell´estate vera e
propria, gli economisti un po´ più avveduti cominciano a usare una
maggiore prudenza. E a cercare di leggere i dati con maggiore
attenzione. Tipico il recentissimo caso americano. A proposito
dell´andamento del Prodotto interno lordo nel quarto trimestre,
molti hanno detto e scritto che le cose, alla fine, sono risultate
meno catastrofiche del previsto, visto che si attendeva un crollo
(dato annualizzato) del 5,5% e che invece ci si è fermati al 3,8%.
Ma basta leggere i numeri per vedere che tutto ciò è falso: il
crollo del Pil americano, reale, è stato infatti appunto del 5,5% (e
gli esperti, per una volta, possono ritenersi soddisfatti).
E´ vero che la discesa registrata è stata del 3,8%. Ma bisogna tener
conto che dentro questo 3,8%, c´è il contributo dell´1,3% delle
scorte (merce prodotta per sbaglio e che non è mai stata venduta,
che è finita nei magazzini, dove sta tuttora) e un secondo
contributo (pari allo 0,4%) della spesa pubblica. Quindi, se si
tolgono le spese pubbliche e le merci prodotte per un calcolo
sbagliato delle imprese (che pensavano di vendere di più), il crollo
americano nel quarto trimestre è effettivamente del 5,5%. E questo
dice, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la crisi degli Stati
Uniti è veramente grossa e importante. Non solo.
Visto che quello che abbiamo appena spiegato, è quasi certo che
anche il primo trimestre del 2009 si presenterà con risultati molto
brutti. Le aziende, infatti, sono piene fino all´orlo di merci non
vendute e di cui devono sbarazzarsi in fretta (rappresentano un
costoso immobilizzo di capitali). Si troveranno quindi nelle
condizioni di dover ridurre di molto la produzione corrente: e
questo significa altri licenziamenti molto consistenti. E quindi
altre buste paga in meno e altre cadute nei consumi (e, di
conseguenza, nella congiuntura).
Il primo trimestre americano andrà osservato con molta cura perché
potrebbe essere l´inizio di un avvitamento molto serio e difficile
poi da sbrogliare. Molto probabilmente arriveranno le misure della
Casa Bianca e il pericolo che si inneschi una spirale di caduta
libera sarà evitato. Ma i rischi ci sono e si capisce perché il
presidente Obama insista per fare presto, prestissimo. Molto
probabilmente i suoi consiglieri gli hanno appunto spiegato che
l´America sta correndo un po´ sul filo del rasoio e che non c´è un
solo minuto da perdere. La situazione va rovesciata, a colpi di
miliardi di dollari, già nelle prossime settimane. Altrimenti le
aziende procederanno ai licenziamenti e poi sarà tutto molto più
difficile.
Se questi sono i rischi americani, ci sono anche i rischi italiani.
Qui la situazione è, in apparenza, rovesciata rispetto a quella
degli Stati Uniti, ma in realtà è uguale. Se le aziende americane
hanno prodotto troppo (perché non immaginavano che la congiuntura
andasse così male), qui da noi le aziende hanno tirato il freno
probabilmente troppo (per il timore inverso, forse). In sostanza,
nell´ultimo trimestre del 2008 le nostre aziende anno ridotto la
produzione del 6% (grosso modo). E non è ancora chiaro se hanno
visto bene o male. Ma, al momento, il problema non è nemmeno questo.
La questione più urgente è evitare che nel primo trimestre del 2009,
cioè adesso, facciano altrettanto. C´è il timore, in sostanza, che
le aziende italiane (visto il clima di pessimismo che circola)
finiscano per fare una sorta di overbooking negativo, cioè che
esagerino nel tagliare tutto il tagliabile, nel mettere in cassa
integrazione troppa gente, nel ridurre eccessivamente la produzione.
Innescando in questo modo una sorta di spirale negativa che si
auto-alimenta.
Si deve anche aggiungere che, nel caso che vada malissimo anche il
primo trimestre, con una produzione industriale che cade del 10-12%
in sei mesi, per molte aziende suona la campana del fuori gioco. In
sostanza, anche qui, esattamente come in America, sta diventando
essenziale imprimere subito una svolta netta nelle aspettative della
gente e delle imprese. Prima che il pessimismo si mangi la gente e
le imprese. Solo che in America Obama può tentare perché alle spalle
ha un bilancio pubblico che gli consente ancora di lanciarsi in
grandi spese e di impegnare grosse quote di reddito nazionale nel
tentativo di scacciare il fantasma della spirale negativa che si
auto- alimenta.
Noi, invece, abbiamo un bilancio sfondato e, soprattutto, un governo
che probabilmente non si è ancora reso conto che, esattamente come e
più dell´America, qui si sta correndo sul filo del rasoio. La
partita italiana, quindi, è tutta aperta e va giocata adesso, con un
po´ di inventiva e di coraggio, nei prossimi sessanta giorni. La
svolta vera potrà avvenire a giugno o a settembre, ma il segnale va
dato adesso. E deve essere un segnale concreto, solido, preciso.
 |
Fonte
-
La Repubblica
|
Raccolta,
un 2008 con luci e ombre
16/02/2009 14.20 - di Marco
Caprotti
-
di MorningStar ______________________________________________
Nel corso del quarto trimestre
2008 i deflussi dalle gestioni collettive hanno sfiorato i 41,8
miliardi di euro. Quasi 43 miliardi, secondo i dati elaborati da
Assogestioni, sono i riscatti provenienti dai fondi aperti,
mentre per quelli chiusi è stato registrato un risultato
positivo, pari a oltre 1 miliardo di euro. I deflussi dalle
gstioni di portafoglio si fermano a quota 10,7 miliardi di euro.
Alla fine del 2008 il patrimonio gestito dall’intera industria è
pari a 841,4 miliardi di euro. L’83% del totale è gestito dai
gruppi italiani.
Per quanto riguarda le categorie, segno positivo per i fondi
immobiliari, che hanno raccolto nel corso dell’anno oltre 1,7
miliardi di euro (1 miliardo nell’ultimo trimestre). A fine 2008
i deflussi complessivi per gli hedge ammontavano a 8,45
miliardi, di cui 5,7 miliardi contabilizzati nel quarto
trimestre. Nel medesimo periodo la categoria dei non
classificato ha accusato deflussi per 5,8 miliardi di euro, 16
da inizio anno. I deflussi dai prodotti monetari sfiorano i 6,3
miliardi nel trimestre e superano gli 11 miliardi in tutto il
2008. Nei tre mesi di riferimento i flessibili hanno perso
complessivamente 7,3 miliardi di euro e 24 da inizio anno. Per i
prodotti azionari i riscatti ammontano a 4,6 miliardi, poco meno
di 38 miliardi in tutto il 2008. I deflussi dai bilanciati
superano nell’anno i 31,6 miliardi. Infine, gli obbligazionari
perdono 72,6 miliardi di euro in tutto il 2008.
Le Gestioni collettive archiviano il 2008 con un patrimonio di
437,8 miliardi e riscatti complessivi pari a 142 miliardi. In
totale 143,7 miliardi sono i deflussi calcolati per i fondi
aperti, mentre per i chiusi la raccolta è positiva e pari a 1,8
miliardi di euro. Le due tipologie di prodotto chiudono
rispettivamente l’anno con un patrimonio gestito (patrimonio
promosso al lordo degli asset ricevuti e al netto di quelli dati
in delega) pari a 398,4 miliardi di euro e 35,7 miliardi.
Negli ultimi tre mesi dell’anno scorso i deflussi dai Fondi
aperti di diritto estero sono pari a poco meno di 18 miliardi di
euro. In tutto il 2008 i riscatti complessivi ammontano a 61
miliardi di euro. Alla fine dell’anno il patrimonio in gestione
è pari a 188 miliardi di euro. Per i fondi di diritto italiano i
deflussi tornano a superare abbondantemente i 25 miliardi di
euro. Sono 83 i miliardi defluiti da inizio anno. A fine
dicembre il patrimonio gestito vale 210,7 miliardi di euro, il
52,9% degli asset investiti in Fondi aperti.
In tutto il 2008 i gruppi italiani hanno sostenuto deflussi
superiori a 110 miliardi di euro. Il patrimonio è oggi pari a
oltre 333 miliardi di euro. Per i gruppi esteri le uscite si
sono bloccate a 33 miliardi di euro ed il patrimonio è alla fine
dell’anno pari a 69 miliardi di euro.
Durante il quarto trimestre le gestioni di portafoglio hanno
accusato deflussi globali per 10,7 miliardi di euro. Il dato
sale a -58,1 miliardi da inizio anno e incide sul patrimonio
gestito, che si assesta a quota 407 miliardi. La raccolta delle
gestioni di patrimoni previdenziali è ancora positiva e in
crescita. Nell’ultimo trimestre, infatti, gli afflussi hanno
abbondantemente superato i 2,3 miliardi di euro portando il
patrimonio gestito a quota 26,4 miliardi di euro. La raccolta è
positiva anche per le altre gestioni che riscuotono nel quarto
trimestre flussi per oltre 1,8 miliardi d euro.
Per quanto riguarda l’intero anno le sottoscrizioni sono invece
negative per oltre 3,6 miliardi di euro. Il patrimonio gestito
si presenta a quota 70,1 miliardi. In 12 mesi le Gpf retail
hanno perso 33,9 miliardi di euro, di cui 3,4 nel corso
dell’ultimo trimestre. Alla fine del 2008 il patrimonio gestito
si è collocato a 36,5 miliardi di euro.
Per le Gpm retail il bilancio di fine anno mette in evidenza
deflussi per oltre 13 miliardi di euro, di cui 4 miliardi nel
corso dell’ultimo trimestre. Alla fine dell’anno gli asset in
gestione sono pari a 72,2 miliardi. Sono, infine, pari a 7,4 i
miliardi deflussi dalle gestioni di prodotti assicurativi nel
corso del trimestre in esame. Il patrimonio è dunque sceso a 203
miliardi.
Fonte
-
Morningstar
|
Su
Lehman profeziae del giorno dopo
18 Febbraio 2009 02:22 TORINO - di
*Beppe Scienza
*Beppe Scienza e'
professore all'Università degli Studi di Torino, Dipartimento di
Matematica.
________________________________________
A qualche mese dal crac della Lehman Brothers merita
ritornare sull’argomento, perché ne sono uscite di tutti i colori.
Lasciamo perdere i soliti campioni del senno del poi, quando io
stesso non mi vanto di averlo previsto, anche se avrei qualche
titolo per farlo.
Infatti già nella prima edizione del mio libro "Fondi, polizze e
Parmalat. Chi è peggio?", confrontavo a fine 2003 due prestiti
indicizzati all’inflazione, uno della Francia e uno della Lehman
Brothers. A parte altre considerazioni scrivevo a pag. 75: "Badare
al rating dello Stato francese è superfluo: alla scadenza la Francia
esisterà e pagherà puntualmente i suoi debiti. Che i fratelli Lehman
nel 2013 esisteranno ancora, come società, è invece incerto".
Ma ciò non significava presagire il tracollo della società nel giro
di un lustro, bensì sostenere l’inaffidabilità del rating, allora
tanto apprezzato da molti gestori, venditori e pretesi esperti. Vedi
Angelo Drusiani che sul Sole 24 Ore scriveva: "Investire in titoli
che abbiano almeno una tripla B, a livello di rating, dovrebbe
rappresentare un’ottima opportunità. L’unico rischio, in questo
caso, potrebbe essere quello di un calo del grado di affidabilità ma
null’altro" (21-2-2002 p. 39).
Invece era chiaro già col senno del prima che poteva anche capitare
qualcos’altro, come infatti accade con le Parmalat o le Lehman
Brothers, quest’ultime addirittura con rating a livello A+. Il
problema è che nel dare consigli ai risparmiatori il quotidiano
confindustriale proprio non ci prende.
Alimentare le illusioni. Esaminiamo infatti un servizio di Federica
Pezzatti apparso subito dopo l’insolvenza della Lehman Brothers. Il
titolo non lascia spazio a equivoci: "Salvi i bond comprati negli
ultimi 12 mesi". Essa intervista un avvocato e docente di diritto
commerciale (Edoardo Spano) il quale avrebbe affermato che «la
modifica del Tuf del 2005 ha introdotto l’obbligo della banca di
rispondere per i bond venduti nei 12 mesi antecedenti a un default»
(Plus24, 20-9-2008 p. 6). Letto ciò, molti hanno creduto di essere
salvi.
Peccato che il Testo unico della finanza (Tuf) non preveda affatto
un tale obbligo, tanto che viene da chiedersi se davvero il giornale
abbia riportato fedelmente la risposta. In realtà il Tuf contempla
all’art. 100-bis l’obbligo di rispondere in caso di insolvenza
dell’emittente per gli intermediari che trasferiscano prodotti
finanziari "per la durata di un anno dall’emissione" o nel caso che
"essi vengano sistematicamente rivenduti nei dodici mesi successivi
a un collocamento".
Quindi tutt’altra cosa. La banca risponde semmai se il titolo
venduto è stato emesso da meno di un anno, non se travolto da un
fallimento entro un anno dalla vendita. Restano fuori quindi tutte
le Lehman Brothers comprate magari anche nel corso del 2008 ma
emesse anni prima. Contrariamente al titolo del servizio di Federica
Pezzatti sul Sole 24 Ore.
Senza pretendere da una testata economica italiana una qualche
competenza nella materie di cui si occupa, bastava il buon senso per
rendersi conto l’obbligo enunciato era assurdo. Equivarrebbe a
spronare gli speculatori a comprare i titoli delle società sull’orlo
del fallimento, facendo conto che alla mala parata arriverebbe
l’indennizzo della banca.
Tutto troppo facile. Non s’illudano neppure i risparmiatori
incastrati in polizze vita appoggiate a obbligazioni ugualmente
della Lehman Brothers. Fra le associazioni di consumatori c’è
infatti chi la fa molto semplice. Nel corso della trasmissione
"Striscia La Notizia" del 5-11-2008 il Codacons ha presentato una
soluzione bell’e pronta. La fornirebbe il decreto Bersani, che
permette di recedere da polizze pluriennali anche prima della
scadenza.
Peccato che tale norma non valga per le polizze vita. Al che il
Codacons ha aggiunto nel suo sito che le fattispecie in questione
sarebbero polizze miste, termine già poco chiaro, perché con polizze
miste s’intendono in genere le polizze sia per il caso di vita che
per il caso di morte. In ogni caso non c’è da sperare che basti
richiamarsi al decreto Bersani per ottenere indietro i soldi dalla
compagnia di assicurazione. Anzi, ciò potrebbe essere inopportuno,
perché significherebbe ammettere senza riserve che tali contratti
sono polizze assicurative.
Potrebbe avere più senso un’impostazione diversa. Interessante al
riguardo una causa presso il Tribunale di Trani, condotta
dall’avvocato Domenico Romito per una polizza unit linked della
Cattolica Assicurazioni, conclusasi il 30-4-2008 con la condanna
della Banca Popolare di Bari. Essa ha dovuto risarcire la
risparmiatrice interessata, proprio perché è stato riconosciuto che
anche per tali contratti è applicabile la normativa, più
cautelativa, prevista per l’intermediazione finanziaria.
Economisti ritardatari. Ma anche i docenti universitari vogliono
fare la loro brava brutta figura. In particolari quel gruppo di
economisti che, raggruppati solo la sigla LaVoce.it, da alcuni anni
impartiscono lezioni a dritta e a manca. Prendiamo infatti la
ridicola iniziativa Patti Chiari delle banche italiane col suo
elenco di obbligazioni "a basso rischio". Esso è stato oscurato il
29-11-2008, dopo aver superato il limite della decenza. Continuava
infatti a consigliare obbligazioni della Lehman Brothers addirittura
la mattina del 15-9-2008, quando ormai era acclarato che la società
era andata a gambe all’aria.
Ma fin dall’inizio l’elenco di obbligazioni di Patti Chiari appariva
in tutta la sua insulsaggine, incoerenza e anche pericolosità.
Bastava un minimo di competenza in materia per accorgersene. Io
stesso nel mio piccolo denunciai subito la presenza di titoli
ballerini come le Cit Group 5,5% 2005, delle islandesi Kaupthing, di
trappole fiscali ecc. (la Repubblica, 19-1-2004, p. 39). Tornai
sull’argomento l’anno dopo per le Ford 11-5-2007, crollate in barba
al preteso "basso rischio" (la Repubblica, 23-5-2005, p. 43). Ma
anche Finanza & Mercati denunciò la presenza in Patti Chiari di
obbligazioni Northern Rock, ormai sull’orlo del fallimento
(16-9-2007, p. 1).
Invece le menti eccelse de LaVoce.it si astengono dal criticarla,
finché quella lista di obbligazioni causa danni. Si fanno vivi
invece non solo successivamente alla figuraccia con le Lehman
Brothers, ma addirittura quindici giorni dopo la sua chiusura: è
datato 16-12-2008 un intervento firmato Marco Bigelli e Stefano
Mengoli. I quali però, anziché intonare il de profundis per quella
ridicola iniziativa, formulano proposte per migliorarla.
Tutto questo è grave e promette male. Chi si accinge a fare fessi i
risparmiatori italiani può stare sereno. Finché gli farà comodo, non
arriveranno critiche dalla quasi totalità dei docenti universitari
italiani. Solo quando i disastri saranno venuti alla luce, solo
allora economisti più o meno autorevoli saranno pronti a dotte
osservazioni, autorevoli consigli ecc.
Ridiamoci su. Per finire una citazione che è addirittura divertente.
Nel suo solito stile di fornire un altoparlante ai chiaroveggenti
ora di una banca, ora di una finanziaria ecc., il quotidiano dalla
Confindustria intervista Paola Biraschi di Lehman Brothers.
Evidentemente il Sole 24 Ore la riteneva in grado di prevedere il
futuro (Plus24, 2-2-2008, p. 11), altrimenti non le avrebbe dato
spazio.
Ma ecco l’attacco dell’articolo: "Il peggio? Potrebbe ancora venire.
È quanto sostiene Lehman Brothers in una ricerca sul mondo del
credito, con una finestra dedicata agli istituti italiani". In
effetti il peggio è arrivato, ma non si è abbattuto tanto sulle
banche italiane, quanto piuttosto e soprattutto sulla Lehman
Brothers stessa, arrivando anche alla rapida chiusura della sua
filiale italiana.
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Fonte
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Libero Mercato
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Veltroni: "mi dimetto".
PD nel caos
17 Febbraio 2009 18:08 ROMA - di
Corriere della Sera
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Non ci ha ripensato. Walter Veltroni nel primo
pomeriggio ha confermato le dimissioni da segretario del Partito
democratico presentate martedì mattina al coordinamento del partito
dedicato alla sconfitta elettorale del centrosinistra in Sardegna.
«Dopo una discussione di diverse ore, il segretario ha deciso di
mantenere l'orientamento espresso questa mattina e di rassegnare le
dimissioni da segretario nazionale del Pd», ha reso noto il
portavoce del partito, Andrea Orlando.
PROBLEMA - «Se per molti sono un problema, sono pronto ad andarmene
per il bene del partito», avrebbe detto Veltroni, raccogliendo il
"no" del vertice del partito e l'invito a ripensarci. Ma nel primo
pomeriggio le condizioni politiche per Veltroni non sono cambiate e
l'ex sindaco di Roma ha confermato il suo addio, annunciando una
conferenza stampa per mercoledì nella quale il vice segretario Dario
Franceschini comunicherà «gli organismi dirigenti e il percorso
sulla base del quale si affronterà il seguito delle dimissioni in
base alle regole statutarie».
«GRAZIE» - «Possiamo essere molto grati a Veltroni per la conduzione
di questi mesi», ha detto Antonello Soro, capogruppo del Pd alla
Camera. «Ora il partito ha necessità dell'impegno di tutti, i passi
successivi si decideranno collegialmente».
RESPINTE - I vertici del Pd avevano infatti respinto in mattinata le
dimissioni di Veltroni, confermandogli piena fiducia. Il leader dei
democratici aveva scelto di prendersi un po' di tempo per riflettere
e decidere. La riunione del coordinamento era stata aggiornata alle
15,30 proprio per concedere al segretario un momento di riflessione.
Ma Veltroni non ha cambiato idea nonostante la sua proposta di
rimettere il mandato fosse stata respinta all'unanimità dal
coordinamento del partito, durante il quale il segretario dei
democratici avrebbe spiegato che il partito sta pagando il prezzo
delle divisioni e dei continui distinguo, confessando anche di aver
già fatto molta fatica a gestire quest'ultima fase.
CONGRESSO ANTICIPATO - Nessuno dei partecipanti alla riunione della
mattina, racconta chi era presente, avrebbe preso in considerazione
l'ipotesi di un congresso anticipato (previsto a ottobre). Anna
Finocchiaro avrebbe chiesto la convocazione della direzione, non
ritenendo il coordinamento la sede politica idonea per la
discussione sull'analisi del dopo voto in Sardegna. È probabile,
azzardava qualcuno dei big democratici, che Veltroni alla fine opti
per una sorta di nuova investitura, per avere un rinnovato mandato
così da ricalibrare la linea, far rientrare le critiche interne e
ricompattare il partito. Invece secondo Ermete Realacci, ministro
ombra dell'Ambiente del Pd, si va verso un congresso anticipato. Per
il senatore Nicola Latorre, «il leader del Pd viene eletto con le
primarie, su questo non si torna indietro . Ma per individuare la
nuova leadership servirà un passaggio congressuale».
CACCIARI - «Veltroni faccia quello che non è riuscito a fare finora.
Ha il pieno rinnovo della mia fiducia per fare un partito nuovo» è
la richiesta di Francesco Rutelli, mentre secondo il sindaco di
Venezia Massimo Cacciari le responsabilità della sconfitta del Pd in
Sardegna non sono da attribuire né a Soru né a Veltroni. «È il Pd
nel suo insieme che non va» ha detto il primo cittadino di Venezia.
DI PIETRO - Da parte sua intanto anche il leader dell'Italia dei
valori, Antonio Di Pietro, tira le somme del voto in Sardegna, senza
risparmiare una stilettata al Partito democratico: noi dell'Italia
dei valori, sostiene l'ex pm, siamo «l'unica opposizione» rimasta
nelle istituzioni e nelle piazze, che ora vuole «costruire
un'alternativa al modello di dittatura sudamericana che sta portando
avanti Berlusconi». «L'Idv sale e il Partito democratico scende. Ciò
dimostra che quando si sta all'opposizione si fa opposizione e non
si "fa ammuina". Se il Pd non decide se essere maschio o femmina,
finisce per non essere nessuno», afferma ancora Di Pietro.
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Fonte
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Corriere della Sera
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Veltroni: missione
compiuta, demolito il PD
18 Febbraio 2009 15:03 MILANO - di
Vittorio Feltri
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Veltroni ha fatto tali e tanti danni al suo partito da
meritare di rimanerne alla guida fino al completamento dell’opera:
l’annientamento del Pd. Le sue dimissioni, pur previste come
d’altronde la vittoria del PdL in Sardegna (vedi Libero di venerdì
13 febbraio), sono un peccato. Se fossero giunte fra quattro mesi,
Walter avrebbe fatto in tempo a provocare il tracollo della sinistra
alle elezioni europee, quando la conta dei voti non sarà regionale
bensì nazionale, quindi conclusiva.
Nella vita bisogna accontentarsi: il lavoro di demolizione in ambito
progressista compiuto dal Grande Buonista va comunque apprezzato
perché ha agevolato prima l’ascesa di Berlusconi, poi il suo
consolidamento a Palazzo Chigi, nonostante le divisioni nella
maggioranza che impediscono al premier di governare decentemente.
In questo senso, Veltroni è stato l’uomo della Provvidenza, un
Fenomeno, un eroe atteso da anni per liberare l’Italia da una
mentalità contagiosa: quella degli ex comunisti e dei cattocomunisti.
Il dispiacere per la sua scomparsa dalla scena è compensato dalla
speranza che anche il vice, cioè quel Franceschini di origini
democristiane, torni dietro le quinte del Pd e magari non ci
affligga più con la sua presenza nei talk show politici televisivi.
Il medagliere di Walter è invidiabile: in anni remoti raccolse
l’eredità di Massimo D’Alema, nominato presidente del Consiglio, e
gli bastò un colpo di reni per portare l’allora Pds al minimo
storico ponendo le premesse alla sconfitta elettorale nel 2001. Ed
eccolo in Campidoglio, rifugio sicuro per chi desideri rifarsi una
poltrona comoda.
Nelle vesti di sindaco, egli è riuscito in sette anni a non fare
nulla di utile per la città. Converrete, ciò è straordinario; anche
involontariamente in un periodo così lungo uno normale, Rutelli, ad
esempio, una cosa buona l’avrebbe fatta. Lui no. Imperturbabile,
insensibile alle esigenze della popolazione, sorretto da una volontà
di ferro nel mantenersi sul vago non ne ha combinata una dritta. Non
ha risolto un problema. Però ne ha creati a dismisura organizzando
ogni sorta di scemenze e di impicci per gli abitanti, tra cui
chitarrate settimanali in piazza con relativi intasamenti del
traffico, notti bianche, chiasso e confusione.
Il capolavoro della sua gestione multietnica e multiculturale
(impermeabile a qualsiasi forma di intelligenza) è stato il Festival
romano del cinema di cui nessuno sentiva la necessità, essendoci già
quello di Venezia inventato dal Duce al quale, con rispetto
parlando, Veltroni avrebbe al massimo potuto lustrare gli stivali.
Abbandonata la Capitale trasformata in una sorta di Festa permanente
dell’Unità, Walter Zero si accinse ad azzerare il neonato Pd
partorito dalla fusione dei Ds con la Margherita. Il suo impegno nel
perseguire la catastrofe si percepì immediatamente. Pensate che l’ex
sindaco, in anticipo sulle primarie da cui sarebbe sortito il
segretario, fu incoronato (a Torino) re dei democratici. Pronunciò,
davanti a una platea plaudente, un discorso fluviale in cui affrontò
anche gli aspetti più reconditi dello scibile buonista, schivando
magistralmente di fornire una sola indicazione non sulle cose da
fare ma su come farle.
Esaurita l’escursione verbale nel vuoto, l’oratore fu portato in
trionfo.
Gli effetti delle sue amorevoli cure al partito si palesarono
subito: il capo del governo, Romano Prodi, costretto alle corde dal
nuovo leader, cadde come corpo morto cade. Inevitabili le votazioni
dopo rituale scioglimento delle Camere. A questo punto, irrompe in
campagna elettorale il neosegretario; esordisce liquidando i
rifondazionisti, i Comunisti italiani e i Verdi; dichiara che
concorrerà soltanto con la propria lista e incassa complimenti a
iosa anche a destra, che gli danno alla testa come accade a tutti
quelli che non ce l’hanno. Sull’onda dell’entusiasmo ingaggia
Antonio Di Pietro, col quale - annuncia - «ci fonderemo a urne
chiuse».
La mossa si rivelerà azzeccata perché ha accelerato il processo di
decomposizione della sinistra democratica, con la quale il Signor
Mani Pulite non ha nulla da spartire. L’esito delle consultazioni
sappiamo quale è stato. Sembrava che Walter e Silvio, pur su
posizioni diverse, potessero trattare allo scopo di cambiare le
cosiddette regole del gioco; l’illusione durò poco. I due
cominciarono ben presto a dirsene di tutti i colori.
Veltroni però negli attacchi a Berlusconi è stato sempre superato in
veemenza da Di Pietro che, pertanto, ha guadagnato voti a scapito
del Pd rendendo impraticabile la strada del dialogo. Inoltre il Pd
non è mai stato in grado di proporre non dico una ricetta contro la
crisi economica ma almeno un suggerimento di qualche concretezza. Al
massimo, è sceso in piazza a urlare stupidaggini. Ovvio. Così ha
perso quel pizzico di credibilità residuale avuta in passato. Il
disastro era fotografato nei sondaggi ed è stato confermato dalle
prove elettorali: frana in Abruzzo e frana in Sardegna. Tralasciamo
di mettere il dito nella piaga napoletana.
Berlusconi, lo abbiamo scritto più volte, dovrebbe erigere un
monumento a Veltroni. Grazie a lui non ha più avversari se non
all’interno della propria coalizione.
Quanto a Soru la batosta se l’è andata a cercare. Uno che si dimette
da governatore e, dieci giorni più avanti, si ricandida nella stessa
regione autocertifica la propria inadeguatezza a guidare non
solamente un ente pubblico, ma anche un tram. Lui e Walter formano
una coppia di sprovveduti da fare quasi tenerezza.
Indirettamente Silvio, impareggiabile propagandista di se medesimo,
per la prima volta, oltre a riportare l’ennesimo successo, ha
risolto in Sardegna un conflitto di interessi: quello di Soru.
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