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Gennaio 2009 |
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03
Gennaio 2009 |
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Martedì
06
Gennaio 2009 |
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Ecco
quando
si
uscirà dalla correzione
04 Gennaio 2009 20:34 MILANO - di Giuseppe Turani
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Previsioni fosche, ma realistiche, sull´anno che è appena
cominciato. Anche se, qui e là (ma non in Europa e in Italia), si
intravedono segni di una risposta robusta alla crisi. In sostanza,
comunque, l´economia mondiale continuerà nel 2009 a soffrire la
peggiore recessione dal secondo dopoguerra. E non ci saranno
eccezioni. La crisi, cioè, è davvero globale, universale.
Ecco, qui di seguito, la fotografia del 2009 per mano di Nariman
Behravesh, capo economista di Global Insight (un centro di ricerca
che tiene sotto controllo le economie di oltre 140 paesi e che
dispone di una banca dati sterminata).
Quest´anno l´economia mondiale crescerà tra lo 0 e lo 0,5 per cento,
contro il 2,8 per cento del 2008 (in anni recenti era cresciuta
anche fra il 4 e il 5 per cento). Global Insight si attende una
flessione di almeno l´1,8 per cento del Pil Usa nel 2009. L´attuale
periodo di contrazione dell´economia - iniziata a dicembre 2007 -
sta diventando il più lungo degli ultimi sei decenni. Le previsioni
sono di una contrazione del Pil del 5 per cento (dato annualizzato)
nel quarto trimestre 2008 e del 3,8 per cento nel primo trimestre
2009.
Guai anche per il resto del mondo.
Il Giappone e alcuni paesi
dell´Unione europea sono già in recessione. Le altre economie
seguiranno. Per l´Europa sarà la maggiore contrazione da inizio anni
Novanta e la prima per la zona euro. Global Insight stima una
contrazione dell´1 per cento del Pil della zona euro quest´anno, una
contrazione dell´1,3 per cento per il Regno Unito. Giù del 2 per
cento il Pil del Giappone, che vivrà la peggiore recessione dal 1998
quando l´economia scese del 2,1 per cento.
Problemi, molto seri, anche per i paesi emergenti. Alla fine, la
crescita del Pil di molti di questi paesi sarà la metà di quella del
2007 o di inizio 2008. La Cina, per esempio, che era cresciuta
dell´11,9 per cento nel 2007, quest´anno crescerà di appena il 6,9
per cento.
Il denaro continuerà a costare poco. La Fed ha già annullato il
costo del denaro, ma questa è solo una facciata. Ha messo in atto
anche misure poco ortodosse come, ad esempio, l´acquisto di
commercial paper, mutui e debiti di piccole aziende, studenti e
acquirenti di auto. La Bce è ferma al 2,50 per cento e la Boe al 2
per cento (minimo dal 1951). Global Insight pensa che la Bce porterà
i tassi all´1 per cento e la Boe allo 0,5 per cento.
Ossigeno per la congiuntura. In America Obama ha parlato di stimoli
per 500 e 700 miliardi di dollari, tra il 3 e il 5 per cento del
Pil, tra tagli alle tasse, spesa per infrastrutture e altro.
Ma è
possibile che il pacchetto sia alla fine molto più elevato.
L´unico
altro paese che ha preso in considerazione un forte stimolo è la
Cina, che ha annunciato un pacchetto di due anni del valore di circa
586 miliardi di dollari, pari al 16 per cento del suo Pil. Senza di
esso, la crescita dell´economia cinese potrebbe essere quest´anno
del 5 per cento. Le
altre economie hanno previsto per ora piani fiscali molto più
modesti, tra l´1 e l´1,5 per cento del loro Pil.
L´aiuto del petrolio. Global Insight vede il prezzo del petrolio
sotto i 40 dollari al barile quest´anno, con la possibilità di una
caduta a 30 dollari. E il ribasso del greggio è di fatto come un
taglio alle tasse per imprese e consumatori. Solo in America
rappresenta l´equivalente di una manovra fiscale da 230 miliardi di
dollari.
Niente più inflazione. Nel giro di pochi mesi i timori di inflazione
sono stati sostituiti da quella della deflazione. Global Insight
stima che negli Usa prezzi al consumo e alla produzione resteranno
negativi fino alla prossima estate.
Movimenti simili, ma un po´ meno pronunciati, sono attesi anche in
Europa, mentre in Giappone, che già soffre di deflazione, ci sarà
una ricaduta. La correzione lungamente attesa degli squilibri
mondiali sta per verificarsi. Il deficit delle partite correnti
americane dovrebbe precipitare da 731 miliardi di dollari del 2007 e
660 miliardi del 2008 a 282 miliardi quest´anno, complice il calo
del prezzo del petrolio.
Il destino della valuta americana. Nel mezzo dell´attuale crisi,
quella che è considerata il porto sicuro con status di principale
riserva valutaria ha battuto tutte le altre paure. E così, mentre la
crisi continua, il dollaro è probabile che rimanga forte.
Inoltre, i mercati sembrano
avere un po´ più fiducia nel fatto che gli Stati Uniti riusciranno a
uscire prima dalla crisi e più velocemente rispetto alle altre parti
del mondo. Una volta
che la crisi sarà superata, le pressioni ribassiste sul dollaro è
probabile che torneranno.
A inizio anno è probabile
che l´euro/dollaro starà a 1,26-1,28 arrivando poi a 1,30 alla fine
dell´anno.
Europa e Giappone troppo timidi. La risposta politica a questa crisi
deve essere grande, coraggiosa e rapida - sostiene il capo
economista di Global Insight. La buona notizia è che sia gli Usa che
la Cina hanno preso la crisi in maniera molto seria. La non bella
notizia è che la risposta politica nelle altre regioni, specie in
Giappone e nella zona euro, sembra essere molto più timida. Questo
potrebbe significare una più profonda e più duratura recessione in
quei paesi, che potrebbe tradursi in una crescita mondiale ancora
più debole nel 2009.
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Fonte
- La Repubblica
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CATTIVE NOTIZIE:
ROUBINI DICE CHE LA RECESSIONE DURERA' DUE ANNI
09 Gennaio 2009 02:00 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Adesso non ci accusate di
pessimismo, solo per il fatto che WSI riporta le stime dell'
economista che due anni fa aveva correttamente previsto la
crisi. In America Pil a -3.4% nel 2009, con tutti e quattro i
trimestri negativi. Disoccupazione al 9%.
Adesso non ci accusate di pessimismo, solo per il fatto che WSI
riporta le stime dell' economista che due anni fa aveva
correttamente previsto la crisi. Secondo Nouriel Roubini in
America il Pil registrera' un calo nel 2009 del 3.4%, con tutti
e quattro i trimestri negativi. La disoccupazione salira' al 9%
nel 2010.
Fonte
- WallStreetItalia.com
Stati Uniti,
il peggior mercato del lavoro dal 1945
Friday, 9 January, 2009 at 16:08
-
Written by phastidio ______________________________________________
Gli Stati Uniti hanno perso in
dicembre 524.000 impieghi netti, facendo del 2008 la peggiore
annata per l’occupazione dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale. Il calo di occupazione è in linea con le stime di
consenso e segue un calo di 584.000 unità in novembre, rivisto
dalla stima iniziale di 533.000. La perdita totale di
occupazione nel 2008 ammonta a 2,589 milioni di posti. Il tasso
di disoccupazione cresce dal 6,8 al 7,2 per cento, contro attese
per un livello del 7 per cento. Le prospettive per il 2009 non
appaiono migliori, come confermato anche dalle ultime evidenze
aneddotiche, che segnalano revisioni al ribasso degli utili
attesi per retailers quali Wal-Mart e Macy’s, e dopo che imprese
manifatturiere hanno annunciato tagli di produzione ed organici.
Le revisioni per il bimestre precedente (ottobre e novembre)
hanno evidenziato una maggiore distruzione di impieghi per
154.000 posti. Il presidente-eletto, Barack Obama, sta spingendo
per un piano di stimolo di circa 775 miliardi di dollari,
inclusi tagli d’imposta e maggiore spesa per strade, scuole e
rete energetica. Obama ha ammonito che, in assenza di azione
rapida e vigorosa, la recessione potrebbe durare anni. Il dato
di dicembre rappresenta il dodicesimo calo mensile consecutivo
degli occupati.
Gli impieghi in manifattura calano di ben 149.000 unità, maggior
calo da agosto 2001, a fronte di attese poste a 100.000 posti.
Il calo dell’occupazione manifatturiera include la perdita di
21.400 impieghi nel settore auto e componentistica. L’indice ISM
manifatturiero ha segnalato in dicembre la maggiore contrazione
da 28 anni. Gli impieghi nel settore delle costruzioni sono
diminuiti di 101.000 unità, dopo il calo di 85.000 in novembre.
Il settore finanziario ha cancellato 14.000 posti, dopo i 28.000
persi il mese precedente. Il settore dei servizi, che include
banche, assicurazioni, ristorazione e commercio al dettaglio, ha
sottratto 273.000 posti dopo i 402.000 persi in novembre. Gli
occupati nel commercio al dettaglio sono diminuiti di 66.600
unità, dopo le 100.000 perse in novembre. L’occupazione nel
settore pubblico è aumentata di 7000 posti, dopo il calo di 3000
del mese precedente.
Le perdite di occupazione minacciano di precipitare l’economia
in una spirale di cali della spesa dei consumatori, che alimenta
nuova distruzione di impieghi: le vendite dei negozi aperti da
almeno un anno sono calate del 2,2 per cento nell’ultimo
bimestre del 2008, la peggiore holiday season da quando
l’International Council of Shopping Centers ha iniziato le
rilevazioni di questa serie storica, nel 1970.
La settimana lavorativa media si è ristretta al minimo storico
di 33,3 ore, da 33,5. L’orario medio settimanale dei lavoratori
di produzione è diminuito da 40,3 a 39,9 ore, mentre il ricorso
medio allo straordinario è sceso da 3, 3 a 3 ore. Per effetto di
ciò, i guadagni medi settimanali sono diminuiti di 2 dollari, a
611,39. I guadagni medi orari sono cresciuti dello 0,3 per cento
mensile, e del 3,7 per cento annuale, meglio delle attese. Ma il
dato di sintesi che peggio depone per lo sviluppo dei consumi e
che certifica la grave crisi del mercato del lavoro è quello del
totale delle ore lavorate, in calo dell’1,1 per cento mensile e
del 7,7 per cento su base trimestrale annualizzata.
Riguardo il dato di disoccupazione, il tasso al netto della
componente di quanti hanno volontariamente lasciato il proprio
impiego passa dal 6,2 al 6,5 per cento. Molto pesante il tasso
di disoccupazione “allargato”, che include i lavoratori
sotto-occupati per motivi economici e gli scoraggiati: dal 12,2
al 13,5 per cento. Alla riduzione di 806.000 unità nel numero
degli occupati rilevata dall’Employment Report (che utilizza
metodologie diverse da quelle che determinano il Non-farm
Payrolls) fa riscontro un aumento di 632.000 unità del numero
dei disoccupati. Il tasso di partecipazione alla forza-lavoro
flette dal 65,8 al 65,7 per cento, mentre il quoziente di
occupazione scende dal 61,4 al 61 per cento. Altro dato
negativo, l’aumento della durata media della disoccupazione, da
18,9 a 19,7 settimane.
Fonte
- Macromonitor
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Fine
del capitalismo:
e adesso sono diventati tutti Keynesiani
11 Gennaio 2009 23:28 LUGANO - di
Corriere del Ticino
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In un battibaleno sono
diventati tutti keynesiani. Nel giro di poche settimane politici ed
economisti di qua e di là dell’Atlantico sostengono a spada tratta
grandi pacchetti fiscali di rilancio per uscire da quella che oramai
tutti riconoscono essere la più grave crisi economica dalla Grande
Depressione degli anni Trenta.
Persino il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dichiarato questa
settimana che dalla crisi non si può uscire se non creando una
«montagna di debiti (pubblici, ndr)». La medesima strada è stata
imboccata da Obama, che incurante di un deficit pubblico
statunitense destinato quest’anno a superare i 1.200 miliardi di
dollari ha proposto un pacchetto di rilancio di circa 800 miliardi
di dollari.
La rapida formazione di
questo consenso generale non è rassicurante: essa è dovuta alla
disperazione piuttosto che ad una ragionevole previsione che la
medicina funzionerà. L’unica certezza riguardo agli effetti
di questi pacchetti fiscali è che offrono ai governi la possibilità
di dire che si è cercato di reagire alla crisi.
Vi è un altro vantaggio: non
peggiorano la situazione economica e molto probabilmente danno un
sollievo temporaneo all’economia. Basti pensare che Obama con il suo
pacchetto di rilancio spera di creare 3 milioni di nuovi posti di
lavoro. Anche se questo obiettivo venisse centrato, non basterebbe a
migliorare la situazione del mercato del lavoro americano che negli
ultimi tempi sta sopprimendo più di mezzo milione di posti di lavoro
ogni mese. Dunque non è affatto certo che questi piani creino le
premesse per uscire veramente dalla crisi.
Anzi, è molto probabile che
queste politiche falliranno, poiché non aggrediscono le cause della
crisi, che sono l’accumularsi di un eccesso di debiti di famiglie ed
imprese concessi da un sistema finanziario oggi in stato
fallimentare. Le terapie proposte dal grande economista inglese John
Maynard Keynes non possono riuscire a rilanciare l’economia se prima
non si risolvono questi due problemi.
A sostegno di questa tesi
basta rifarsi all’esperienza vissuta dal Giappone a partire
dall’inizio degli anni Novanta, quando il crollo della borsa di
Tokyo e la crisi del mercato immobiliare nipponico avevano provocato
un lungo periodo di deflazione dal quale il Paese del Sol Levante
non si è ancor oggi risollevato, nonostante il varo di
continui pacchetti di rilancio economico e nonostante che la forte
crescita del resto del mondo abbia aiutato la sua formidabile
industria di esportazione.
L’improvvisa conversione alle politiche keynesiane anche da parte
del settore finanziario dovrebbe invece preoccupare. I motivi sono
semplici: non si può uscire da questa crisi se non attraverso la
cancellazione e/o la drastica riduzione della montagna di quelli che
per alcuni sono debiti e di quelli che per altri sono crediti.
Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso strade che
favoriscono alcuni a scapito di altri.
È quindi una scelta
eminentemente politica. Per il settore finanziario la strada
migliore è l’inflazione (o ancora meglio l’iperinflazione).
Quest’ultima ha la virtù taumaturgica di ridurre lo stock del debito
e quindi di salvare banche che senza i continui aiuti statali
sarebbero già fallite. Solo negli Stati Uniti sono già stati spesi
8.000 miliardi di dollari per far sopravvivere il sistema bancario.
In Europa la cifra è solo apparentemente inferiore, poiché molti
degli aiuti avvengono in forma ancor meno trasparente.
Infatti le banche
cartolarizzano a ritmo crescente i crediti, trasferiscono questi
titoli e gli altri titoli tossici che già detenevano a veicoli
speciali di investimento (che hanno il pregio di non far più
apparire queste posizioni nei bilanci della banca) e infine li danno
in pegno alle banche centrali in cambio di soldi buoni per i quali
oggi devono pagare tassi di poco superiori allo zero.
È il modello UBS,
Confederazione e Banca Nazionale Svizzera. Queste acrobazie
permettono di guadagnare tempo, ma non risolvono i problemi: non
solo il vero stato di salute delle banche non migliora, ma
addirittura non beneficia nemmeno di un sollievo temporaneo.
Lo dimostra il fatto che sia in Europa sia negli Stati Uniti è
diventato sempre più difficile accedere al credito bancario. Ciò
vuol dire che il sistema non svolge nemmeno più la funzione di
trasmissione degli impulsi di politica monetaria delle banche
centrali.
Per risolvere la crisi del
sistema bancario e dell’eccesso di debiti non vi sono molte vie. Una
è l’iperinflazione, che permetterebbe all’attuale oligarchia
finanziaria di limitare i danni e di poter sperare non solo di
rimanere in sella, ma di prosperare. Una seconda via è quella che si
sta seguendo finora: si tratta di una versione aggiornata e corretta
dell’esperienza giapponese.
Essa consiste in continui
aiuti al sistema bancario e in un graduale trasferimento allo Stato
delle perdite accumulate dalle banche. Se si continuerà a seguire
questa politica, la crisi durerà molto a lungo. La via largamente
preferibile è invece la dichiarazione di fallimento del sistema
finanziario con la creazione ex novo di banche chiamate a usare il
risparmio per finanziare le attività produttive. In pratica
si tratta di rovesciare le politiche degli ultimi anni, di
abbandonare l’economia della carta straccia e ritornare a
privilegiare l’economia produttiva, restituendo al sistema bancario
il suo ruolo di servizio alle imprese e ai cittadini.
Ma su questo obiettivo non vi è ancora consenso. Per questo motivo
deve preoccupare l’improvvisa conversione alle politiche keynesiane
del mondo politico: si tratta di uno specchietto per le allodole per
evitare di affrontare la causa principale della crisi.
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Fonte
- Corriere del Ticino
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America,
il rischio di un'uscita dalla crisi alla
"giapponese"
12 Gennaio 2009 00:23 MILANO - di Giuseppe Turani
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Mentre fabbriche e uffici cercano di tornare alla normalità
pre-festiva (cosa impossibile, purtroppo, per molti, che riaprono a
scartamento ridotto), nei centri di ricerca si continuano a fare
studi per capire quale futuro immediato ci aspetta. Le attenzioni
maggiori, ovviamente, sono riservate agli Stati Uniti, che sono sia
il cuore che il destino della crisi in corso.
Se il gigante a stelle e
strisce si risolleva rapidamente, allora anche gli altri possono
cominciare a respirare. In caso contrario, non resta che rimanere
tutti in stand-by.
Come è facile immaginare, ci
sono tante divergenze di opinioni e tanti scenari diversi. Una certa
convergenza, però, sta maturando su uno schema che oggi va di
massima (ma potrebbe cambiare la settimana prossima), che non
è molto consolante, ma che sembra molto realistico.
Il peggio americano, si
dice, dovrebbe essere rappresentato dall´ultimo trimestre del 2008
(alle nostre spalle) e dal primo trimestre del 2009 (che abbiamo
appena cominciato a percorrere). La crescita dovrebbe arretrare del
5-6 per cento nel quarto trimestre 2008 (dati annualizzati) e del
3-4 per cento nel primo. Si tratta di arretramenti molto
forti. Basti pensare che fino a non molto tempo fa era accaduto che
numeri del genere rappresentassero avanzamenti trimestrali e non
arretramenti. Quindi c´è una vera e propria inversione di rotta.
Poiché la tendenza negativa,
però, non si arresterà subito, ma proseguirà, sia pure con minore
intensità, il fondo della crisi, per quanto riguarda l´America,
dovrebbe essere toccato nel terzo e quarto trimestre del 2009. Per
quel periodo ci si aspetta una disoccupazione che potrebbe aver
raggiunto anche l´8,5 per cento (oggi è al 7,2), ma qualcuno dice
che potrebbe anche essere superato il 9 per cento, sia pure di poco.
Da quel momento in avanti,
ma ormai saremo nel 2010, i dati macro-economici americani
dovrebbero cessare di essere terribili per diventare positivi o
negativi, ma in misura molto moderata: e questa sarebbe l´uscita
dalla crisi (per gli Stati Uniti).
E qui si innesta un problema
quasi filosofico, ma di importanza cruciale. E cioè: di che tipo
sarà l´uscita dalla crisi? Sarà un´uscita "alla giapponese", con
tassi di crescita dell´economia praticamente vicini a zero per anni
e anni? Oppure sarà un ritorno alla situazione pre-crisi
finanziaria?
In sostanza, a partire dal
2010 l´America sarà un paese in grado di respirare, ma niente di
più, o sarà un paese che tornerà a correre? L´opinione più
condivisa, oggi, sostiene che nessuna delle due cose si verificherà.
Nel senso che dal 2010 in
avanti l´America andrà in ripresa vera. Solo che sarà una ripresa in
tono leggermente minore. Per essere più chiari: oggi la
crescita potenziale degli Stati Uniti è intorno al 3 per cento
(quando tutti i fattori della produzione sono usati al meglio). Dal
2010 questa crescita potenziale si ridurrà al 2,5 per cento, forse
anche un po´ meno.
E questo non per ragioni
misteriose, ma per un fatto molto preciso. A quel punto, nel 2010,
gli Stati Uniti si ritroveranno ad avere ancora un sistema
bancario-finanziario ferito e mal funzionante.
E senza un tale sistema a
regime il mondo produttivo non potrà che esprimere solo una parte
delle sue potenzialità perché gli mancherà appunto il pieno appoggio
di un sistema finanziario capace di gestire i flussi di risparmio e
le necessità di credito e di finanziamento delle imprese.
Nel 2010, insomma, l´America
sarà (nonostante gli sforzi di Obama) ancora un paese in parte
zoppo, e quindi dovrà muoversi più lentamente. La velocità "normale"
(sopra il 3 per cento) potrà tornare solo quando il sistema
bancario-finanziario avrà ripreso a funzionare in modo completo e
con regole non troppo pesanti.
Se dall´America ci si sposta
in Europa, lo scenario non cambia di molto: basta disegnarlo
un po´ più piccolo. Se la crescita potenziale post-crisi in America
sarà del 2,5 per cento, in Europa sarà fra l´1,5 e il 2 per cento. A
meno che i dati sull´andamento della Germania nel primo trimestre
2009 (che saranno orribili) non inducano, ma è difficile, la Banca
centrale europea (che si riunisce proprio giovedì, per la prima
volta quest´anno) a operare un taglio secco al costo del denaro per
dare una spinta alla congiuntura. Ma nessuno si fa molte illusioni.
E quindi l´Europa si muoverà poco sopra l´1,5 per cento.
Questo scenario, che già non
è entusiasmante, presenta dei rischi? Sì, due soprattutto. Il primo
è di tipo politico: se la situazione internazionale si aggrava e se
i prezzi delle materie prime decollano, allora saranno guai seri. Il
secondo pericolo si chiama Cina. Se quel grande paese (che ha le sue
difficoltà) riduce la propria crescita dal 10 all´8 per cento, va
ancora bene e tutto procederà come previsto.
Se invece la Cina dovesse
ridurre la sua crescita al 4 per cento, questo rappresenterebbe un
serio problema: meno esportazioni verso quell´area per i paesi
occidentali e meno importazioni in Occidente di prodotti cinesi a
buon mercato. Il cielo aiuti la Cina, quindi. E anche noi.
 |
Fonte
- La Repubblica |
In caso
non riusciste a prendere sonno
Wednesday, 14 January, 2009 at
19:45
-
di Written by phastidio ______________________________________________
Pensate a questi numeri: secondo
un’elaborazione di Merrill Lynch, oggi il mercato dei credit
default swap su debito sovrano (quello dei singoli stati, detto
in modo meno aulico), sta prezzando una probabilità del 18 per
cento di un default della Grecia entro i prossimi cinque anni.
Per l’Irlanda siamo al 15 per cento, per l’Italia al 14. La
Germania è al 4 per cento e il Regno Unito al 10 per cento.
Naturalmente questi dati non sono Sacre Scritture, ma
semplicemente inferenze numeriche del valore assunto da un
contratto di assicurazione su un evento catastrofico. Le
probabilità di insolvenza dell’economia dell’Eurozona restano
comunque piuttosto remote, sia per l’improbabilità di una fuga
dall’euro, sia perché il manifestarsi di rischi di default di
singoli membri di Eurolandia determinerebbe l’intervento di
sostegno degli altri paesi, almeno per evitare il peggio nel
breve periodo. Ciò tuttavia non esclude il rischio di
declassamenti di rating di singoli paesi, come dimostra il
downgrade di oggi della Grecia, o il creditwatch con
implicazioni negative in cui Standard&Poor’s ha posto di recente
Irlanda e Spagna.
Ma i problemi seri sono fuori dall’Eurozona, nel Regno Unito. Il
paese è caratterizzato da un settore finanziario
sovradimensionato, con pesanti passività esterne, una crisi
bancaria domestica, una valuta potenzialmente vulnerabile,
condizioni di finanza pubblica di tipo “medio”, cioè non
particolarmente fragili ma neppure solide. Alcuni numeri danno
la misura della criticità della condizione britannica: gli
attivi delle banche britanniche sono pari a 5,3 volte le entrate
fiscali del governo, e 117 (centodiciassette) volte le riserve
valutarie britanniche: una gigantesca contingent liabilty per il
Tesoro di Sua Maestà. Il rischio di una sindrome islandese anche
per il Regno Unito ci sta tutto, e l’attuale rating di massima
qualità del Regno Unito è ad alto rischio, così come lo sono
tutte le emissioni obbligazionarie di banche britanniche
effettuate negli ultimi mesi, sotto il manto apparentemente
protettivo della garanzia pubblica, per l’altissima probabilità
(divenuta ormai certezza) di esplosione dello stock di debito
pubblico a livelli italiani (100 per cento del Pil). Date le
premesse, si comprende agevolmente il motivo del “buco” di
credito verso imprese e famiglie britanniche: i prestatori
esteri sul mercato della sterlina sono letteralmente scomparsi,
ripiegati sui propri guai domestici, e il volume di fuoco
teoricamente mobilitabile dalle banche britanniche si è
praticamente dimezzato.
Di più: la sterlina non è, se non in minima parte, valuta
internazionale di riserva, ed un suo deprezzamento pilotato (che
non si è ancora peraltro neppure riflesso in un miglioramento
della bilancia commerciale) potrebbe facilmente trasformarsi in
una fuga dalla valuta, mentre il passaggio di Bank of England a
forme di easing quantitativo (acquistando ad esempio titoli di
stato ed obbligazioni private) rischia di scontrarsi con i
trattati europei, che contrastano le violazioni della
competitività.
E se guarderai a lungo nell’abisso,
anche l’abisso vorrà guardare in te
Friday, 16 January, 2009 at 9:33
-
di Written by phastidio ______________________________________________
Citigroup ha chiuso la giornata
di ieri con una capitalizzazione di 21 miliardi di dollari, a
fronte di un bilancio misurabile in 2500 miliardi. In altri
termini, Citigroup è fallita, dopo settimane trascorse tra
futili tentativi di rianimazione con fondi pubblici ed il
patologico denial di Vikram Pandit a realizzare che il behemot
finanziario globale forgiato da Sandy Weill e Chuck Prince era
spacciato. Non ci sarà tempo per procedere al piano di breakup.
Durante il weekend arriverà la nazionalizzazione? In quel caso
tutti gli azionisti, ordinari e privilegiati, dovranno essere
spazzati via.
Tra essi figura anche il Tesoro, attraverso i fondi del TARP,
che contabilizzerà in tal modo ufficialmente la sua prima
perdita. Sperando che possa servire a promuovere un uso meno
disinvolto del denaro pubblico. Nel frattempo, le perdite attese
su crediti erogati da banche ed istituzioni statunitensi sono
arrivate a 2000 miliardi di dollari, secondo l’ultima stima
(Tremonti la chiamerebbe congettura, assumendo un’espressione
lievemente disgustata) degli analisti di Goldman Sachs. Ogni
valutazione di questo tipo è per definizione soggetta ad elevata
incertezza, anche per la natura delle variabili che entrano nel
calcolo, quali ad esempio le condizioni generali dell’economia
ed il mercato immobiliare. Al crescere della disoccupazione la
spesa dei consumatori si contrae, aziende e famiglie restano
indietro con il servizio del debito e devono dichiarare
insolvenza, indebolendo ulteriormente le banche.
A pensarci bene, questo fenomeno di autoalimentazione della
crisi finanziaria sta assumendo le stesse dinamiche di
formazione di un buco nero: vedremo se la velocità di fuga
impressa dallo stimolo di Obama (e del Congresso) riuscirà a
superare la velocità di collasso del sistema.
Meanwhile, Bank of America annuncia costernata di non essersi
accorta dell’entità della voragine nei conti di Merrill, e
ottiene un nuovo sostegno pubblico, a condizioni pressoché
identiche alle precedenti. More of the same. La storia si ripete
sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa. Per
le banche americane occorrerà un’integrazione alla citazione.
Update: Citigroup posta perdite monstre per il quarto trimestre
2008, e decide di farsi in due. Nascono Citicorp, per il global
banking, e Citi Holdings per gli asset non strategici e quindi
dismissibili, inclusi quelli che hanno fruito di
ricapitalizzazione federale. Come riuscire a fare dismissioni in
un contesto di mercato come l’attuale resta un mistero, e lo
split sembra la materializzazione del dualismo good bank/bad
bank. O, come già dicono alcuni, bad bank/worse bank. La fine è
nota?
Fonte
-
Macromonitor
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Quei
barili di petrolio
in giro per il mondo
15 Gennaio 2009 20:27 NEW
YORK - di Corriere della Sera
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Mentre l’Italia e buona
parte dell’Europa rischiano di rimanere senza il gas e il petrolio
russi a causa delle vertenze tra il Cremino e l’Ucraina, circa 35
superpetroliere e altre petroliere più piccole con oltre 80 milioni
di barili di greggio a bordo si aggirano dallo Oceano indiano al
Golfo del Messico senza attraccare mai, o stanno all’ancora senza
scaricarlo. Sono in
attesa che il prezzo del petrolio, precipitato in un anno da quasi
150 dollari a meno di 40 dollari al barile, torni ad aumentare.
Ma la flotta fantasma, che a volte rischia l’attacco dei pirati,
come accadde giorni fa alla petroliera saudita in Somalia, è solo la
punta dell’iceberg. Col calo
dei consumi di greggio causato dalla prima crisi economica globale,
è scattata la corsa allo stoccaggio, nella speranza di futuri
colossali profitti:
complessivamente, ben 327 milioni di barili di greggio giacciono
inutilizzati in tutto il mondo, in particolare negli Stati uniti. Ad
attirare l’attenzione sulle manovre delle nazioni e compagnie
petrolifere sono stati il giornale International Herald tribune e
l’agenzia Bloomberg.
Stando al primo, il Paese che tiene le maggiori quantità di greggio
ferme nelle sue petroliere, almeno 15, sarebbe l’Iran. E stando al
secondo, tra le "sorelle" del petrolio che fanno la stessa cosa si
troverebbe la Royal Dutch Shell, che disporrebbe di due
superpetroliere, la Leander e la Eliza. L’International Herald
tribune ha citato Adam Sieminski, un esperto della Deutsche bank,
secondo cui lo stoccaggio
costerebbe circa 10 dollari all’anno al barile: se nel frattempo il
prezzo del barile salisse da 40 a 60 dollari, ha notato l’esperto,
l’attesa frutterebbe enormi profitti.
L’agenzia Bloomberg ha fatto
un calcolo analogo: con una spesa di 1,12 dollari al barile
si può tenere una superpetroliera in giro sugli oceani per un mese,
e guadagnarci molto. Manovre del genere non sono nuove, la novità
sta nel crescente ricorso alle superpetroliere, anche da parte di
grandi banche e altre intermediarie: la Bloomberg fa i nomi di
Citigroup e della Morgan Stanley, a esempio. E grazie ai tagli
apportati alla produzione del greggio dai signori del petrolio è
possibile che siano coronate da successo.
Ma è una speculazione che
minaccia di danneggiare l’economia, dalle fabbriche ai trasporti, e
i cittadini, e ritardare la ripresa globale. Non a caso Daniel
Yergin, forse il massimo esperto americano, chiede che il prezzo del
petrolio venga stabilizzato al più presto. E il presidente
eletto Obama si impegna allo sviluppo di fonti alternative di
energia, in modo da liberare l’America dalla schiavitù del greggio
straniero.
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Fonte
- Corriere della Sera
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Economia:
tutto quel che dovreste sapere su un futuro...
grigio
16 Gennaio 2009 13:10 MILANO - di Alessandro Fugnoli
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L’illusione dei primi giorni dell’anno si è infranta contro il muro
della realtà. Una parte del mercato aveva pensato di essere già
entrata in una fase di stabilizzazione, preludio alla ripresa della
seconda parte dell’anno trainata da politiche fiscali e monetarie
creative e aggressive. Molti si erano sbilanciati sulla fine del
bear market e sui minimi ormai alle spalle. Posizioni generose e
coraggiose, ma sempre motivate dall’idea di fondo che questa è una
crisi ordinaria, certamente più grave di molte altre, ma comunque
superabile in tempi ragionevoli con gli strumenti a disposizione dei
governi e delle banche centrali.
Un’altra parte del mercato, senza spingersi più di tanto a
teorizzare sui massimi sistemi, si era sentita quanto meno nel
diritto di potere contare su un robusto bear market rally,
reversibile ma tale da portare parecchio sollievo.
Invece niente. I dati macro sono pessimi. In dicembre è proseguita
la caduta verticale di tutto (produzione, consumi, investimenti,
prezzi, occupazione) e si è avuta per di più conferma di quello che
si sospettava ovvero l’allargamento della crisi anche a Cina e
India. C’è stata una pausa nel deterioramento della fiducia dei
consumatori, dovuta alla discesa del prezzo della benzina, ma non
basta certo a far pensare a un rallentamento della caduta.
Con dati macro e mercati finanziari in queste condizioni il mondo
corporate ha reagito velocemente, tagliando tutto quello che si
poteva, ma i dati sugli utili del quarto trimestre si stanno
profilando molto pesanti. Ci sarebbe da stupirsi del contrario.
In
America ci sarà anche l’effetto negativo del rafforzamento del
dollaro, che ridurrà gli utili fatti all’estero dai grandi gruppi.
Di fronte a questa realtà la risposta fiscale americana ha dato e
continuerà a dare legittimamente qualche motivo importante di
conforto, ma rimane una delle condizioni necessarie (insieme alla
ripresa di funzionamento del mercato del credito) ma non ancora
sufficienti per un’uscita dalla crisi.
Uno scenario macro realistico per il 2009 vede a questo punto un Pil
americano ed europeo che continua a contrarsi, sia pure a velocità
decrescente, fino alla fine dell’anno. La storia della ripresa (o
anche solo della stabilizzazione) già a metà anno serve a infondere
un poco di fiducia, ma gli stessi policy maker, se si va a guardare
sotto la superficie delle dichiarazioni, non se ne mostrano troppo
convinti. Alcuni, come Strauss-Kahn e Trichet, rinviano
ufficialmente tutto al 2010.
Con davanti 12 mesi di Pil sempre più piccolo non è ragionevole
pensare a utili stabili o tanto meno in ripresa. Qualcuno si era
illuso che un ipotizzato rallentamento delle svalutazioni delle
banche avrebbe da solo migliorato il tono complessivo degli utili,
ma di questo rallentamento non c’è traccia e semmai si nota
un’accelerazione. Con utili sotto pressione, d’altra parte, non è
pensabile che i mercati azionari abbiano spazio per rialzi che non
siano esangui e temporanei ancora per molti mesi.
Detto questo, non bisogna però pensare che, dopo il pacchetto
fiscale che verrà approvato nelle prossime settimane negli Stati
Uniti, non ci sia più niente da fare se non disperarsi. Il pacchetto
non è l’ultima spiaggia. Già si profilano gli interventi ulteriori
che verranno presi nei prossimi mesi.
In primo luogo ci sarà un’applicazione su scala ancora più ampia
degli acquisti diretti di titoli da parte delle banche centrali. Non
c’è nessun limite teorico a questa azione, c’è solo da convincere i
mercati che non si vuole abusarne.
La forza del dollaro e la tenuta
della domanda di titoli del debito pubblico americano fanno pensare
che le perplessità del mercato in proposito, almeno in questa fase,
siano più un esercizio intellettuale che una paura concreta.
In secondo luogo si profila un uso ancora più aggressivo dei veicoli
governativi di sostegno alle banche, come la Tarp o il fondo
francese. La Tarp, intanto, è stato usata solo per metà ed è molto
probabile che fra pochi mesi ci si deciderà a dotarla di nuovi
mezzi. Interventi successivi sono tipici di tutte le crisi bancarie,
dagli anni Trenta fino al Resolution Trust degli anni Novanta,
ricapitalizzato più volte.
Poiché però il passaggio parlamentare di questi provvedimenti è
lento e controverso anche nel migliore dei casi (lo stiamo già
vedendo con le difficoltà dell’amministrazione Obama con la stessa
base democratica del Congresso)
è possibile che i soldi dei veicoli
tipo Tarp vengano usati in futuro sempre più a leva. Il Tesoro mette
ad esempio 10 in un veicolo che raccolga i titoli tossici di una
banca (o di tutto il sistema bancario) e la banca centrale presta al
veicolo (garantito dal Tesoro) 50, 100 o 1000. Anche qui non c’è
nessun limite se non quello della credibilità, un limite che tende
invariabilmente ad alzarsi verso l’infinito in momenti di emergenza
o di panico.
In pratica, quindi, oltre al taglio delle tasse, ai soldi a tutti
gli stati come la California che non riescono a pagare gli stipendi
a professori e poliziotti, ai fondi per riparare i ponti e per le
energie rinnovabili, ai soldi per ricapitalizzare le banche, a
quelli per acquistare sul mercato carta commerciale, bond
governativi lunghi e mutui cartolarizzati, oltre cioé a tutte le
misure monetarie e fiscali già metabolizzate fin qui dai mercati
avremo nei prossimi mesi altre due misure non ancora scontate. Da
una parte i veicoli per gli asset tossici, come abbiamo detto, e
dall’altra un fondo speciale per i mutui. In pratica il governo,
finanziato dalla Fed, comprerà mutui, ne abbatterà il valore
nominale (cioé il capitale residuo che i proprietari di casa devono
ancora pagare) e diventerà il nuovo creditore dei proprietari.
In sintesi il 2009 si profila come un anno in cui le cose lasciate a
sé stesse (il cosiddetto scenario base) continuano a deteriorarsi,
in cui le misure già annunciate (come il pacchetto di Obama)
mitigheranno i danni ma non molto di più e in cui verranno prese
altre misure ancora non scontate che, augurabilmente, ridurranno
ulteriormente i danni. Il tutto, però, sarà faticoso, logorante, più
lento di quanto sarebbe desiderabile e sempre a rischio, come tutte
le situazioni fragili, di complicazioni e incidenti di percorso.
Non sarà in nessun modo, insomma, un anno piacevole. Per le borse un
range tra i minimi di novembre e i livelli di inizio gennaio sarebbe
quasi desiderabile. Scendere sotto i livelli di novembre, infatti, è
possibile, soprattutto in caso di incidenti di percorso (che i
policy maker, d’altra parte, faranno di tutto per prevenire, memori
dell’esperienza Lehman).
I bond governativi lunghi, in questo contesto, avranno dunque
occasioni frequenti per rivisitare i massimi recenti, ma in un
quadro di grande volatilità. I bond corporate di durata tra i tre e
i cinque anni e di alta qualità, dal canto loro, sono stati oggetto
in questi giorni di ampia offerta molto bene assorbita. E’ un
segmento su cui lavorare molto, nei prossimi mesi.
Certo, ci saranno di nuovo fasi di avversione al rischio che lo
coinvolgeranno, ma il calo progressivo dei rendimenti dei
governativi li riporterà ogni volta rapidamente al centro
dell’attenzione.
Nel contesto globale di collaborazione crescente tra governi e
banche centrali (con una distinzione tra misure fiscali e monetarie
sempre meno netta) l’Europa non parte favorita. A livello fiscale la
Washington politica può salvare la California, ma Bruxelles non ha,
almeno sulla carta, la possibilità di salvare un paese dell’Unione
in particolare difficoltà. Allo stesso modo è molto più facile per
la Fed acquistare titoli dell’unico Tesoro che si trova ad avere
come emittente che non per la Bce comperare titoli di 16 paesi
dell’eurozona o di 27 dell’Unione.
Chi però da questo trae la conseguenza che l’euro, in caso di
stress, arriverà alla parità con il dollaro o addirittura tornerà
sui livelli del 2001 sceglie di ignorare quel tanto di flessibilità
che i politici europei, messi alle strette, riescono a ritrovare in
condizioni di emergenza. Lo si è visto in novembre con le misure a
sostegno delle banche (non proprio ortodosse se viste da Bruxelles)
e lo si vedrà in caso di difficoltà particolari di singoli paesi.
Si è trovato il modo di aiutare l’Islanda (che non è nemmeno
nell’Unione), l’Ungheria e i baltici e si troverà probabilmente (a
maggiore ragione) il modo per aiutare i paesi importanti
dell’eurozona. Non bisogna pensare che l’industria tedesca, in serie
difficoltà per la caduta verticale delle sue esportazioni, aspiri
con tutte le sue forze a regalare all’Italia (o a chicchessia) una
bella svalutazione competitiva. E’ l’ultima cosa che hanno in mente
in questo momento.
Tra euro e dollaro si continuerà quindi a fluttuare in una fascia
piuttosto ampia, da rompere eventualmente solo per brevi periodi.
Tra 1.25 e 1.45 ( più 1.25 nel breve e più 1.45 quando la morsa
della crisi globale si sarà allentata) non si fanno troppi danni né
all’America né all’Europa.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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Regno Unito
verso la nazionalizzazione del sistema finanziario
Monday, 19 January, 2009 at 15:23
-
di
Macromonitor ______________________________________________
Il governo del primo ministro
Gordon Brown ha ulteriormente stretto la propria presa sul
sistema finanziario britannico, garantendo gli attivi tossici e
conferendo alla Bank of England il potere senza precedenti di
acquistare titoli a fermo. Il piano aumenterà il costo del
salvataggio del sistema bancario britannico di almeno 100
miliardi di sterline. Il governo ha deciso di aumentare la
propria partecipazione in Royal Bank of Scotland dal 50 a circa
il 70 per cento, attraverso la conversione delle azioni
privilegiate sottoscritte in ottobre, ed ha comunicato di voler
utilizzare Northern Rock per spingere il credito ipotecario. Il
governo richiederà ai destinatari degli aiuti di sottoscrivere
“specifici e quantificati” accordi a prestare (in pratica, un
target numerico di aumento del credito), come ribadito anche dal
Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, nel tentativo di
contrastare la gelata del mercato creditizio. L’economia
britannica è attesa contrarsi del 2,7 per cento quest’anno,
secondo le ultime stime di consenso, il peggior risultato dal
1946, ed i prezzi delle abitazioni dovrebbero calare del 22 per
cento nei prossimi 18 mesi.
Secondo il piano di assicurazione di Darling, il governo
applicherà una commissione per garantire circa il 90 per cento
delle perdite potenziali delle banche su attivi che potrebbero
ulteriormente eroderne il capitale, e lo farà estendendo il
Credit Guarantee Scheme lanciato in ottobre, con una dotazione
iniziale di 250 miliardi di sterline. Il programma consente alle
banche di di emettere obbligazioni garantite dal governo, e
durerà fino alla fine dell’anno anziché scadere il 9 aprile come
originariamente previsto. Gordon Brown ha criticato le banche
per non aver aumentato il credito anche dopo aver ricevuto una
linea di credito e 37 miliardi di sterline di nuovo capitale,
durante il salvataggio dello scorso autunno che ha portato alla
nazionalizzazione di Royal Bank of Scotland ed all’assunzione di
robuste partecipazioni nel Lloyds Banking Group, che aveva
acquisito HBOS.
Le banche non hanno risposto neppure al taglio dei tassi
ufficiali da parte della Bank of England, che il mese scorso ha
portato il benchmark di riferimento all’1,5 per cento, minimo
dalla sua fondazione, nel 1694, e questa rappresenta un’utile
indicazione per quanti quotidianamente invocano tagli aggressivi
da parte della Banca Centrale Europea, ostinandosi a
considerarli la soluzione a tutti i problemi del sistema
finanziario. Con l’approssimarsi dei tassi a zero, la banca
centrale sarà autorizzata ad immettere liquidità nelle
istituzioni finanziarie, comprandone gli attivi. La manovra,
tuttavia, non consentirà ancora alla banca centrale di aumentare
l’offerta di moneta, come invece attuato di recente dalla
Federal Reserve per combattere il rischio di deflazione, perchè
gli acquisti sono finanziati con vendita di titoli.
La Bank of England comprerà obbligazioni societarie, carta
commerciale e prestiti sindacati. Il governo, inoltre, con
l’entrata in vigore del nuovo programma di garanzie pubbliche,
cesserà alla fine di questo mese Special Liquidity Scheme della
banca centrale. Tra le altre misure, il governo ha ordinato a
Northern Rock, il prestatore ipotecario nazionalizzato a
febbraio 2008, di rallentare il piano di rimborso dei prestiti
pubblici, in modo da continuare ad originare mutui. Prima
dell’annuncio di oggi Northern Rock aveva perseguito una
strategia di progressiva riduzione del volume di credito
ipotecario erogato. Al contempo, la Financial Services
Authority, il regolatore britannico, ha ridotto il livello di
capitale minimo di cui devono disporre le banche che intendono
accedere ai fondi pubblici di salvataggio: il Tier 1 minimo
passerà dall’8 per cento ad un valore compreso tra il 6 e il 7
per cento.
Nel complesso, l’insieme delle misure adottate pare essere
soprattutto un passo intermedio sulla strada della completa
nazionalizzazione del sistema finanziario britannico, come
mostra la conversione in ordinarie delle azioni privilegiate
detenute dal governo in Royal Bank of Scotland. Tale conversione
è offerta in opzione agli azionisti ordinari esistenti: poiché
difficilmente i medesimi saranno in grado di partecipare
(conferendo mezzi freschi), l’effetto finale sarà una loro
pesantissima diluizione, già scontata dalle quotazioni di borsa
odierne. L’effetto collaterale di tale conversione sarà
soprattutto quello di generare un risparmio annuo di 600 milioni
di sterline di dividendi in precedenza corrisposti al Tesoro,
che potranno venire dirottati a nuovi prestiti per un volume
pari fino a dieci volte tale importo.
Fonte
-
Macromonitor
L'ottimismo USA
e lo spettro del '29
19 Gennaio 2009 15:18
MILANO
-
di La
Repubblica ______________________________________________
La Casa Bianca ha diffuso uno
scenario sull´economia americana che, a crederci, ci sarebbe da
buttarsi per la strade con le trombette e le bottiglie di
champagne, a fare festa per un mese di fila. Sostengono infatti
i funzionari della presidenza americana che gli Stati Uniti
vedranno un Pil negativo dello 0,2% nel 2008, poi cresceranno
dello 0,6% nel 2009 e infine nel 2010 ci sarà un balzo in avanti
del 5%, come e meglio dei vecchi tempi. La disoccupazione
dovrebbe arrivare, al massimo, al 7,7%. Il commento di qualche
economista è stato secco a lapidario: «Ma la Casa Bianca fa
politica non previsioni economiche». E, in effetti, non si trova
in giro alcun economista (o alcun centro di ricerca) disposto a
controfirmare simili previsioni.
In base alle quali la più grande crisi di questo dopoguerra si
ridurrebbe a un anno con modesto arretramento (il 2008) e uno
con modesto avanzamento (il 2009). Poi si torna a volare.
Tanto credibili queste previsioni, che ricacciano nello sfondo
qualsiasi ipotesi di Grande Crisi, non sono anche perché i pochi
numeri che già si conoscono vanno, purtroppo, in una direzione
assai diversa. La disoccupazione in America, ad esempio, è già
al 7,8% e, per ora, gli Stati Uniti perdono mezzo milione di
posti di lavoro al mese. Il quarto trimestre del 2008, inoltre,
si è chiuso con una crescita negativa intorno al 2% (dato
annualizzato). Il che, per ragioni puramente matematiche, dice
che, se anche nel 2009 la crisi fosse meno grave del previsto,
alla fine sarebbe comunque impossibile avere un Pil positivo,
sia pure di poco.
I "numeri" della Casa Bianca, quindi, non vanno presi sul serio
e vanno considerati per quello che sono: politica, e pubbliche
relazioni. A Washington, sembra di capire, sono ossessionati
dalla spettro della Grande Depressione o, più semplicemente,
dallo spettro di una crisi profonda e di lunga durata. E fanno
di tutto per allontanarlo. E non solo a parole. Lo si è visto in
questi giorni nella crisi di Bank of America e di Citigroup. Non
appena si è accennato a possibili difficoltà, ecco arrivare la
Federal Reserve e il governo con in mano il libretto degli
assegni. Una firma, e via, crisi superata. Nel caso di
Citigroup, peraltro, l´assegno ha l´aria di essere addirittura
in bianco (la cifra si vedrà dopo) perché nessuno sa a quanto
ammontino i titoli tossici in portafoglio (di valore, quindi,
assai vicino a zero). Ma non importa, l´assegno è già stato
staccato, a tempo di record.
La sensazione dei mercati è che questo, ormai, sarà il
comportamento standard di governo e Federal Reserve negli Stati
Uniti. Non appena si presenta all´orizzonte una crisi, si tirano
fuori i soldi, si paga, e si va avanti. Insomma, basta
discussioni e basta impicci sui mercati finanziari. Lo scopo di
tutto ciò è abbastanza chiaro: si vuole trasmettere ai mercati e
all´opinione pubblica mondiale il concetto che l´America,
qualunque cosa salti fuori, non permetterà alla crisi di fare
altri passi in avanti. Se qualcosa è andato storto in passato,
adesso ogni falla verrà turata.
Tutto questo, comunque, non metterà nessuno al riparo da un
primo semestre 2009 veramente infernale. Qualche giorno fa sono
arrivate le previsioni di Consensus (la media cioè dei più
grandi centri di ricerca del mondo) e non c´è nessun paese che
si salvi. I grandi paesi (quelli che una volta si chiamavano "le
locomotive") vanno tutti indietro e chiuderanno il 2009 con
valori negativi, sia pure con una certa misura. Ma questo dando
per scontato (sarà poi vero?) che nel secondo semestre dell´anno
ci sia, comunque, una certa ripresa.
I paesi emergenti, quelli che crescevano a ritmi superiori al
10%, nel 2009 andranno su della metà, quando va bene. Al di là
della propaganda, quindi, l´anno in corso ha un profilo
abbastanza chiaro. Nei primi sei mesi andiamo tutti quanti
all´inferno. Poi si spera nella risalita. Solo che mentre la
discesa agli inferi è sicura, la risalita potrebbe anche
arrivare più tardi. Magari nel 2010.
Tutto questo è ben chiaro, ad esempio, ai professionisti più
seri della Borsa, i quali hanno già messo in preventivo che da
qui all´estate i listini perdano anche un altro 25%, dopo tutto
quello che hanno già lasciato per strada dall´inizio della crisi
a oggi. E anche loro, comunque, come tutti noi, sperano che dopo
l´estate cominci una stagione di parziale recupero.
Insomma, per il momento non ci sono buone notizie. D´altra
parte, siamo dentro il girone più caldo della crisi. Non si
trova un solo numero, un solo dato, che possa autorizzare un
certo ottimismo. L´unico fatto nuovo, positivo, è questa
determinazione del potere americano a chiudere questa crisi,
costi quello che costi (tanto le rotative della Federal Reserve
hanno carta e inchiostro per stampare ancora miliardi di
dollari), il più in fretta possibile. Anzi, nell´arco dei
prossimi sei mesi. C´è solo da sperare che l´impresa riesca.
Senza dimenticare, però, che una gita di sei mesi all´inferno
non ce le toglie nessuno. Anche perché è già cominciata.
Fonte
- La Repubblica
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L'€uro
e la bomba dei pigs
21 Gennaio 2009 02:07 MILANO - di Marco Panara
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Il termometro che misura la febbre dell’euro si chiama spread, la
differenza tra i tassi di interesse, in questo caso tra i tassi che
pagano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sulle nuove
emissioni dei loro titoli pubblici e quelli che paga la Germania.
Ebbene quello spread, che fino a sei mesi fa era appena percepibile
ora lo è tanto da far temere a qualcuno che l’euro possa non
reggere. Per colpa dei ‘villani’ di Eurolandia, quei paesi le cui
iniziali hanno fatto riscoprire alla stampa anglosassone l’acronimo
PIGS, appunto Portogallo, Italia, (ma ora quella I sta più per
Irlanda) Grecia e Spagna. Un acronimo non bello e scelto con
malizia: pigs, in inglese, vuol dire maiali. Ma acronimo o no il
fatto, ovvero quello spread che è di quasi un punto per la Spagna e
il Portogallo, di 1,3 per l’Italia e di oltre 2 per la Grecia, è un
monumento alle differenze che dieci anni di euro non hanno
cancellato.
Ad accendere i fari sul monumento ci ha poi pensato Standard &
Poor’s, l’agenzia di rating che ha messo sotto osservazione i debiti
sovrani (così si chiamano quelli degli stati) ed ha ridotto il suo
rating su quello della Grecia mentre metteva sotto ‘credit watch’
negativo quelli della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda.
La ‘Tigre Celtica’ non rientra tradizionalmente nei ‘pigs’, ma la
sua economia dopo un lungo galoppo che ha portato il reddito pro
capite dei suoi abitanti ad essere il più alto d’Europa dopo quello
del Lussemburgo, è ora tra le più malmesse, con la previsione di un
crollo del pil del 4,5 per cento nel 2009, una disoccupazione che
galoppa verso il 10 per cento e la prospettiva di un disavanzo
pubblico che potrebbe arrivare al 9,5 per cento del prodotto interno
lordo (secondo le previsioni del governo).
Tra spread che si allargano e credit watch negativi è comprensibile
come l’argomento sia finito al centro dell’attenzione dei governi e
degli investitori.
La questione è complicata, ma la si può riassumere così: lo spread
segnala che il mercato percepisce l’investimento in titoli emessi da
alcuni stati come più rischioso di quello in titoli emessi da altri,
il che è normale, ma potrebbe diventare in qualche modo problematico
visto che gli stati considerati più a rischio e quelli considerati
meno a rischio utilizzano tutti in questo caso la stessa moneta,
l’euro, e condividono tutti la stessa politica monetaria e
valutaria, che è nelle mani della Banca Centrale Europea. Non
potendo quindi usare l’arma della svalutazione, ai singoli paesi
restano le politiche economiche, fiscali, del lavoro e del welfare e
con quelle se la devono cavare.
Non è una novità, si va avanti così da dieci anni e l’euro ha retto
benissimo, ma questo 2009, che sarà l’undicesimo dell’epoca
dell’euro, non è un anno come gli altri, è il più difficile da oltre
mezzo secolo a questa parte e le finanze pubbliche saranno messe
dovunque a dura prova. Di qui la selettività degli investitori,
l’attenzione delle agenzie di rating e i dubbi di qualcuno sui
rischi di tenuta dell’Unione Monetaria.
Per l’euro è un po’ la prova finale, quella che la farà diventare
definitivamente una valuta consolidata, il cui futuro nessuno
metterà più in discussione. Forse neanche gli inglesi, che ne sono i
critici più ostinati. Ma siamo solo all’inizio della prova, e non è
un inizio facile. Le economie dell’area vanno tutte male, con una
inconsueta sincronia, ma non vanno male nello stesso modo e,
soprattutto, affrontano la discesa da diversi punti di partenza.
Italia e Grecia hanno un debito pubblico molto elevato, Grecia,
Spagna e Portogallo hanno forti deficit di bilancia dei pagamenti,
in Spagna, Portogallo e Irlanda la crisi economica è particolarmente
acuta, più che in Italia e negli altri paesi di eurolandia.
La Spagna e l’Irlanda hanno inoltre una struttura produttiva
sbilanciata dal peso eccessivo dell’edilizia, il settore più colpito
in questi mesi. L’Irlanda paga anche il peso della finanza (altro
settore in grande difficoltà) sulla sua economia e il fatto che
negli ultimi anni è diventata una base produttiva per le
multinazionali americane in Europa, multinazionali che ora sono in
rapida ritirata, come dimostra il caso della Dell che ha chiuso il
suo stabilimento di Limerick.
Tutti sanno che nel 2009 e probabilmente anche nel 2010 i deficit
pubblici di tutti, dagli Stati Uniti alla Germania fino al piccolo
Portogallo, sono destinati a salire vistosamente, e che nel 2009 le
emissioni di titoli di stato saranno almeno il doppio di quelle
degli anni precedenti (350 miliardi di euro nella zona dell’Unione
Monetaria solo nel primo trimestre dell’anno).
Di fronte a questo
scenario l’investitore valuta quali sono le possibilità che ciascun
paese avrà di sostenere un maggiore debito e dà un certo prezzo al
rischio che si assume comprandone i titoli.
«Stiamo passando da un estremo a un altro commenta Alexander
Kockerbeck, lead analist di Moody’s per l’area dell’euro fino a
pochi mesi fa le differenze dei tassi tra le emissioni dei vari
paesi si erano completamente appiattite, come se non ci fossero
differenze tra le situazioni delle rispettive economie. Il mercato
non dava un prezzo al rischio e non sanzionava i paesi meno
virtuosi. Ora è esattamente il contrario, c’è una grande avversione
al rischio e le differenze vengono esaltate. In un certo senso è un
ritorno alla normalità, perché è normale che i mercati sanzionino le
politiche meno sostenibili e più rischiose. Probabilmente in questo
oscillare del pendolo c’è un po’ di eccesso che credo nei prossimi
mesi rientrerà».
Conta anche il punto di riferimento, che nell’area è la Germania, i
cui titoli sono i più liquidi e in una fase in cui la liquidità è
particolarmente importante godono di uno sconto per questo. Il che
da un lato è un vantaggio per tutti, perché abbassa la base di
partenza delle valutazioni, mentre dall’altro evidenzia le
differenze attraverso i maggiori spread.
Gli analisti di Moody’s sono in questa fase più prudenti di quelli
di Standard & Poor’s, non hanno abbassato rating o messo singoli
paesi sotto credit watch negativo, ritengono che in un contesto in
cui i conti pubblici di tutti peggioreranno, anche quelli che hanno
una situazione di partenza più difficile abbiano la possibilità di
reggere l’urto della crisi senza che la loro situazione diventi
insostenibile. Spagna, Portogallo e Irlanda hanno debiti pubblici
molto bassi in rapporto al pil, hanno quindi maggiore spazio di
manovra e più tempo davanti per reagire alla crisi.
A Moody’s hanno calcolato che anche nel caso di tre anni di crescita
negativa del 2 per cento il debito pubblico spagnolo arriverebbe al
massimo al 55 per cento del pil (dal 36 per cento attuale). Italia e
Grecia hanno margini di manovra molto più ridotti, ma l’Italia ha
una struttura economica più solida ed equilibrata e un debito
privato assai più contenuto. «Per l’Italia dice Kockerbeck è
importante riuscire a conservare un avanzo primario e una crescita
dell’economia anche solo in termini nominali (al lordo cioè
dell’inflazione), e penso che possa riuscirci».
Quanto all’euro, l’ipotesi che qualche paese possa uscirne non viene
considerata realistica. Non è nell’interesse di nessuno e ci sono
gli strumenti per intervenire nel caso in cui qualche paese si
trovasse di fronte all’impossibilità di finanziare il suo deficit.
«Quello che succederà dice ancora Kockerbeck è semmai che
si tornerà
a parlare di politiche fiscali comuni. Se l’Europa dovrà farsi
carico dei problemi di bilancio di qualcuno dei suoi membri mi
sembra più probabile che si scelga di andare verso una politica
fiscale comune piuttosto che abbandonare l’euro, che sta dimostrando
proprio in questa crisi la sua importanza fondamentale per tutti i
paesi».
«Un rischio semmai commenta un analista che non vuole essere citato
potrebbe sorgere se ci fosse una competizione accentuata per
accaparrarsi il risparmio mondiale e i paesi più forti potrebbero
avere interesse a cacciare dalla competizione quelli più deboli. Ma
questo rischio io per il momento non lo vedo, perché ci sarà
pochissima concorrenza da parte di hedge fund, private equity e
altre forme di investimento, e i titoli pubblici avranno ampio
spazio. La mia conclusione è che non ci sarà un problema di
sottoscrittori, per alcuni ci sarà invece un problema di tassi più
alti da pagare». Come dire che la nottata forse, probabilmente, si
passerà, ma il risveglio sarà assai complicato da gestire.
E’ la linea seguita dai commentatori più avveduti, i quali prevedono
grande afflusso di capitali verso i titoli di stato finché durerà la
crisi e poi la fuga verso investimenti privati più remunerativi
quando l’economia riprenderà. Si vedrà allora chi avrà speso meglio
i soldi che ora sta chiedendo al mercato e avrà la forza di
sostenere il debito contratto, e chi invece quella forza non l’avrà.
Per i ‘pigs’, e non solo per loro, sarà quello il momento della
verità.
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Fonte
- La Repubblica
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I
pericoli del buco
della finanza
23 Gennaio 2009 01:30 LUGANO - di
Alfonso Tuor
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L’amministrazione Obama è al lavoro per varare un nuovo pacchetto di
misure per salvare il sistema bancario americano. In un’audizione
davanti al Senato l’ex presidente della Federal Reserve, Paul
Volcker, ha detto che «il sistema bancario americano è rotto e che
la recessione in cui versa il paese è molto grave». Nella stessa
audizione il segretario al Tesoro designato Timothy Gaithner ha
precisato che l’Amministrazione Obama sta studiando il progetto di
un piano di salvataggio delle banche che prevede una radicale
revisione dei meccanismi di funzionamento del Tarp (Troubled Asset
Relief Program) varato dalla precedente amministrazione Bush.
I mercati finanziari stanno cominciando a prendere atto dello stato
di insolvenza del sistema bancario internazionale. Stanno anche
iniziando a scontare l’ineludibile prospettiva di altre centinaia di
migliaia di dollari che spenderanno gli Stati per evitare la
bancarotta dei grandi istituti di credito internazionali. Questa
presa di consapevolezza, che sta maturando con grande ritardo, è
confermata dall’andamento dei titoli bancari, il cui indice negli
Stati Uniti ha toccato i minimi degli ultimi 14 anni. L’aspettativa
di una nazionalizzazione di fatto delle grandi banche americane è
confermata dal crollo registrato anche dalle obbligazioni
convertibili.
L’allarme non si limita però al settore bancario, ma comincia ad
intaccare la credibilità dei titoli di Stato. Infatti, martedì
scorso è sceso il valore delle obbligazioni che i Governi emettono
per finanziare i loro debiti pubblici. È pure salito l’oro che
appare la vera alternativa alle monete e soprattutto ha perso
ulteriormente terreno la sterlina britannica dopo che il primo
ministro Gordon Brown aveva annunciato lunedì scorso il pacchetto di
salvataggio delle banche, che prevede una forma di assicurazione sui
titoli tossici ancora detenuti dagli istituti di credito, la
modifica dei loro requisiti minimi di capitale per non far emergere
lo stato di insolvenza e il via libera alla Banca d’Inghilterra a
seguire le orme della Federal Reserve americana, cominciando a
stampare moneta.
La caduta della sterlina induce a prevedere che la Gran Bretagna,
già fortemente indebitata con l’estero, rischia di essere il primo
Paese a mettere in mostra quali possono essere le conseguenze della
scelta di far esplodere i disavanzi pubblici e di stampare moneta
per salvare un sistema bancario irrimediabilmente fallito.
È oramai chiaro che la nuova amministrazione Obama sarà costretta
nei prossimi giorni a presentare un nuovo piano di salvataggio delle
banche. In discussione vi sono due varianti. La prima è
un’assicurazione statale sui titoli tossici detenuti dalle banche.
La seconda è la creazione di una «bad bank», che acquisterebbe i
titoli tossici delle banche e che verrebbe capitalizzata grazie alle
risorse della seconda tranche del Tarp (il pacchetto salvabanche
dell’amministrazione Bush). Ambedue le ipotesi prevedono comunque
un’iniezione di soldi pubblici e addirittura la nazionalizzazione
delle banche che versano nelle peggiori condizioni.
Queste nuove misure, come già accaduto con i piani precedenti,
daranno un temporaneo sospiro di sollievo, ma non risolveranno la
crisi. I motivi sono semplici. In primo luogo vi è la cruciale
questione della determinazione del prezzo di questi titoli, che è di
grande importanza sia nell’ipotesi dell’assicurazione sia in quella
della creazione di una banca che raccolga la spazzatura prodotta in
questi anni dal settore finanziario. La questione non si ferma ai
titoli tossici: vi è infatti da stabilire anche a chi resterà il
cerino dei diversi strumenti derivati, a partire dai Credit Default
Swap, che gravano sui bilanci delle banche: verrebbero assicurati o
trasferiti alla bad bank oppure resterebbero nei bilanci delle
banche?
In terzo luogo, questa operazione non risolverebbe i problemi di
capitale delle banche. Infatti le banche dovrebbero immediatamente
iscrivere a bilancio le perdite dovute alla differenza tra il prezzo
di vendita alla bad bank e il prezzo al quale li hanno finora
contabilizzati. Nel caso dell’assicurazione del loro valore da parte
dello Stato dovrebbero, se venisse seguito l’esempio inglese,
denunciare una perdita minima del 10%.
Il problema della solvibilità
del sistema bancario non verrebbe sostanzialmente migliorato e lo
Stato dovrebbe cambiare i requisiti minimi di capitale, come ha
fatto la Gran Bretagna, e/o dovrebbe in ogni caso ancora intervenire
per ricapitalizzare le banche.
In quarto luogo le attività «tossiche» delle banche stanno
rapidamente aumentando a causa della crisi economica. L’economista
americano Nouriel Roubini prevede che le sofferenze (di tipo
tradizionale) del sistema bancario statunitense dovute alla crisi
economica si aggireranno quest’anno attorno ai 1.600 miliardi di
dollari. A queste si devono aggiungere le perdite originate dai
titoli tossici e dai vari strumenti della nuova ingegneria
finanziaria. Il settore bancario, anche sgravato dai titoli tossici,
continuerebbe ad avere enormi problemi di solvibilità e di
liquidità, poiché continua a diminuire la sua capacità di generare
reddito per coprire il crescere delle insolvenze.
Date queste condizioni è altamente improbabile che le banche
americane riprendano ad erogare credito e che contribuiscano al
rilancio dell’economia. Appare infatti sempre più chiaro che questa
attività potrà essere assolta unicamente dagli istituti che non sono
stati travolti dalla crisi, da banche costruite ex novo allo scopo e
aiutate dallo Stato e dalle banche centrali. È quanto sta già in
parte avvenendo negli Stati Uniti con
la trasformazione della Federal Reserve nella maggiore banca commerciale americana.
Ma vi è un ultimo punto, che è il più importante. Quali saranno le
conseguenze economiche di questi salvataggi? La questione, che si
cerca di eludere, non è chi pagherà il costo di questi interventi (è
evidente che le perdite accumulate dalle banche in questi anni
ricadranno sulle spalle dei contribuenti dei diversi Paesi), ma
quali saranno le conseguenze economiche di questi salvataggi.
La questione può essere posta così: l’esplosione dei disavanzi
pubblici incrinerà la fiducia dei risparmiatori nei titoli con cui
gli Stati si finanziano? E poi, soprattutto nei Paesi indebitati con
l’estero, come Gran Bretagna e Stati Uniti, l’esplosione dei debiti
pubblici e la continua stampa di moneta non incrineranno la fiducia
nel valore delle monete nazionali?
Quanto sta avvenendo in questi giorni in Gran Bretagna fa temere che
queste preoccupazioni siano già molto diffuse e che quindi ci si
stia già avvicinando a pericolosi punti di rottura. Tutto ciò induce
a ritenere che siamo prossimi ad un nuovo peggioramento della crisi,
in cui il «buco nero» della finanza rischia di risucchiare tutto e
tutti e di allontanare ulteriormente l’uscita dal tunnel imboccato
nell’agosto del 2007 con lo scoppio della crisi dei mutui ipotecari
subprime.
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Fonte
- Corriere del Ticino
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La
frenata cinese che preoccupa il mondo
Venerdì 23 Gennaio 2009, 0:44 - di Finanzablog
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Un gigante che vacilla fa
tremare la terra. La Cina ha appena diffuso dei dati ufficiali sulla
propria situazione economica che in breve hanno allarmato il mondo.
L'Ufficio nazionale delle
statistiche ha infatti rivelato che nel corso del quarto trimestre
del 2008 la crescita del colosso asiatico, da poco diventato la
terza economia del globo, si è arrestata al 6,8% contro il 9% del
trimestre precedente. Si tratta in pratica di una brusca
frenata che mette a repentaglio l'obiettivo di crescita di 8 punti
percentuali fissato per il 2009. L'anno appena trascorso si conclude
così con il gigante asiatico che segna il passo ed entra in crisi
(con i suoi parametri) insieme al resto del mondo. Pechino ha chiuso
il 2008 con un Pil di 4.412 miliardi di dollari. Molti osservatori
internazionali che fino a ieri confidavano nel salvagente dei suoi
enormi e potenziali consumi per un rapido way out del mondo dalla
crisi, oggi ricominciano a fare i calcoli. Né le notizie che
scavalcano la Grande Muraglia sono più incoraggianti. Milioni di
posti di lavoro sarebbero già andati perduti con il forte calo delle
esportazioni e la stagnazione dei consumi interni. Almeno il 6,5%
dei lavoratori cinesi migrati dalle campagne sarebbe tornato a casa
dopo aver perduto il lavoro, ma -sempre secondo fonti ufficiali -
questa quota potrebbe raggiungere anche il 10 per cento. A dicembre
l'export della Repubblica Popolare, pari a circa un terzo del suo
Pil, ha registrato una flessione del 2,8% su base annua bloccandosi
a 111,16 miliardi di dollari.
Jiantang, il numero uno del
National Bureau of Statistics cinese, ha spiegato anche che la
produzione industriale nel 2008 è cresciuta del 12,9% soltanto: un
dato che indica una flessione del 5,6% rispetto al saldo precedente.
Il rallentamento
dell'economia è confermato poi dalle difficoltà di grandi gruppi
industriali. La Ansteel, uno dei tre più grandi produttori di
acciaio del Paese ha perso più della metà dei propri utili con il
calo dei prezzi di questa lega. Anche i profitti della China
Shipping Container Lines Co. (2866.HK - notizie) l'anno scorso si
sono dimezzati. Per molti, al di là dei proclami ufficiali, la crisi
cinese e il rallentamento dell'economia potrebbero avere vaste
ripercussioni sociali mettendo a rischio la stabilità del Paese. Lo
scorso novembre Pechino ha varato un vasto intervento anticrisi da
586 miliardi di dollari: nuove infrastrutture e politiche di
sostegno dei consumi dovrebbero ridare slancio alla crescita e
promuovere un generale miglioramento delle condizioni di vita con
una maggiore sostenibilità dello sviluppo.
Il rallentamento cinese va,
però, ben oltre i confini dell'Asia e varca il Pacifico giungendo a
Washington. Almeno un decimo del debito statunitense è, infatti, nel
portafoglio della Repubblica popolare cinese e molti sostengono che
le politiche di taglio del costo del denaro e di grande spesa
pubblica di Bush o di Obama sono strettamente vincolate
dall'acquisto di titoli del Tesoro Usa da parte di Pechino.
Jiangtang ha detto che gran parte di questo rallentamento è
fisiologico e che la Cina sarà sicuramente il primo paese a uscire
dalla crisi. Piacerebbe d'altra parte a moltissimi paesi essere in
crisi con una crescita del Pil del 6-7 per cento. Il problema è che
se si corre troppo, quando si inciampa, ci si fa più male. E si
rischia anche di buttare giù qualcun altro.
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Fonte
- Borsa & Finanza
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BILL GATES
PREDICE CHE LA CRISI ECONOMICA IMPATTERA' LE NOSTRE VITE PER 10
ANNI
27 Gennaio 2009 05:57 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Meglio affinare tutti i nostri
strumenti per sopravvivere a questa Grande Crisi Economica, se
l'uomo piu' ricco del pianeta, fondatore di Microsoft, sostiene
che al mondo servira' un decennio per tornare alla normalita'.
Meglio affinare tutti i nostri strumenti per sopravvivere a
questa Grande Crisi Economica, se Bill Gates, l'uomo piu' ricco
del mondo, fondatore di Microsoft, sostiene oggi che al mondo
servira' un decennio per tornare alla normalita'.
Depression? Bill Gates
predicts economic crisis will impact lives
for years
January 26, 2009 11:38 p.m. NEW
YORK - by WSS ______________________________________________
Microsoft co-founder Bill Gates
predicted Monday that it will take up to 10 years to weather the
current global economic storm.
Microsoft co-founder Bill Gates predicted Monday that it will
take up to 10 years to weather the current global economic storm.
"The financial market and economic conditions that have
developed this past year are truly unprecedented," Gates wrote
in his first annual letter about his work at the philanthropic
foundation that bears his name.
"I hope two years from now when I write this letter I can look
at this section as a reflection of something that was short-term
and that has passed," wrote Gates in a section of the 20-page
letter devoted to the economic slump. "But I think the effects
of the crisis will last beyond that," added Gates, who retired
from Microsoft last year to wholly devote himself to his
foundation. "If you take a longer timeframe, such as five to 10
years, I am very optimistic that these problems will be behind
us," he said, citing fast-moving technological and scientific
innovations as primary drivers in the recovery.
Innovations are "moving forward at a pace that can bring real
progress in solving big problems" and "will help improve the
world and reinvigorate the world economy," Gates said. The
multi-millionaire said he was inspired to write the annual
letter for the Bill and Melinda Gates Foundation, which he
founded in 1994, by investment guru and philanthropist Warren
Buffett, who in 2006 pledged to give 85 percent of his massive
fortune to the foundation. Three installments totaling 5.16
billion dollars of the Buffett gift, which at the time it was
pledged was worth 31 billion dollars, have been paid to the
Gates Foundation.
"Soon after Warren Buffett made his incredible gift, which
doubled the resources of the foundation, he encouraged me to
follow his lead by writing an annual letter," Gates said.
Buffett is cited repeatedly in the annual letter, in which Gates
addresses his foundation's work in combating childhood deaths,
improving global agriculture and education in the United States,
and fighting polio, AIDS and malaria. "I was lucky enough to
accumulate the wealth that is going into the foundation because
I got a great education and was born in the United States, where
innovation and risk-taking are rewarded," Gates said in the
section of the letter about education in the United States.
"Warren Buffett is very articulate about how every American,
including him, is lucky to have been born here.
"He calls us winners of the 'ovarian lottery'," Gates said
before highlighting the gap "between people who get the chance
to make the most of their talents and those who don't" and how
the foundation is fighting it by striving to make quality
education available to all.
Fonte
- WSS
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Mercoledì 21
Gennaio 2009 |
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Giovedì 22
Gennaio 2009 |
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Sabato 31
Gennaio 2009 |
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Torna
a parlare Roubini: "nessun posto dove potersi
nascondere"
28 Gennaio 2009 16:30 NEW
YORK - di Bloomberg
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I crolli dei mercati
azionari mondiali sono sempre piu' strettamente correlati tra loro,
e le economie dei paesi emergenti seguiranno le nazioni sviluppate
in una "rigida recessione": questo il parere del famoso professore
dell'Universita' di New York Nouriel Roubini.
Secondo Roubini la crescita
economica cinese scendera' sotto il 5% e gli Stati Uniti perderanno
sei milioni di posti di lavoro. L'economia americana si espandera'
al massimo dell'1% nel 2010, afflitta dalla contrazione delle spese
dei privati, mentre il tasso di disoccupazione crescera' almeno del
9%.
"Non c'e' nessun posto dove nascondersi", racconta a Bloomberg
Television Roubini, professore di economia alla Stern School of
Business di NY, che aveva previsto la crisi finanziaria. "Per la
prima volta in decenni abbiamo una recessione globale sincronizzata.
I mercati sono diventati perfettamente legati tra loro e cosi' anche
le economie. Non e' il classico tipo di recessione di minore entita'".
Il professore suggerisce al
governo Usa che dovrebbe nazionalizzare le banche principali perche'
le perdite supereranno gli asset, avvicinando lo spauracchio della
bancarotta. Gli istituti bancari potrebbero essere poi privatizzati
un'altra volta in due o tre anni.
Il professore ha confermato
la sua previsione, secondo cui le perdite finanziarie statunitensi
piu' che triplicheranno a $3.6 mila miliardi e che l'azionario
globale brucera' il 20% nel 2009.
"Nessuno e' a favore di una statalizzazione a lungo termine del
sistema bancario , ma se non lo si fa si finira' come il Giappone
dove sono state mantenute in vita per dieci anni banche 'zombie' che
non sono mai state ristrutturate" ha aggiunto Roubini. "Sara' ancora
peggio. Quindi e' meglio ripulire, nazionalizzare le banche e
venderle poi al settore privato"
Negli anni '90 il governo
giapponese esito' a intervenire in tempo per risolvere la crisi
finanziaria e poi fini' per incontrare molte difficolta' a far
ripartire la crescita e combattere la deflazione, in quel periodo
meglio noto come "Decennio Perduto".
Un altro suggerimento
dell'economista e' quello di possedere cash o titoli del debito del
Tesoro a breve termine, perche' i bond garantiscono rendimenti molto
alti e sono economici rispetto ai relativi titoli azionari.
Roubini aveva previsto la crisi a luglio del 2006. A febbraio
dell'anno scorso ha poi parlato di un disastro di proporzioni
"catastrofiche" in arrivo, che i banchieri centrali non sarebbero
riusciti a prevenire e che avrebbe portato al fallimento di molte
banche e ad un "netto calo" dell'azionario. Da allora Bear Stearns
e' stata ceduta e Lehman Brothers e' fallita, spingendo da un lato
le banche ad accumulare contanti e dall'altro impedendo di fatto ad
aziende e famiglie di avere accesso al capitale.
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Fonte
- Bloomberg
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TASSI USA:
LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
28 Gennaio 2009 20:25 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
La Banca Centrale Americana ha
preferito mantenere invariato il target sui fed funds. Apertura
all’acquisto di debito di lungo termine se necessario. Stimato
un recupero dell' economia nella seconda parte dell'anno.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad
un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. La decisione segue il
taglio drastico dello scorso dicembre, il nono della serie
iniziata nell’ottobre 2007, che aveva portato i fed funds
nell’attuale forchetta.
Non avendo piu’ a disposizione ulteriori manovre sui fed funds,
negli ultimi giorni si erano originate forti speculazioni
sull’utilizzo di metodi non convenzionali per combattere la
crisi. La Fed si e’ pertanto detta disposta all’acquisto di
debito di lungo termine qualora fosse necessario.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di mantenere il
target sui fed funds nel range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%.
Il Comitato continua ad anticipare che le condizioni economiche
richiedano un livello dei tassi d’interesse eccezionalmente
basso ancora per qualche tempo.
Le informazioni emerse da quando il Comitato si e’ riunito a
Dicembre suggeriscono che l’economia si e’ indebolita
ulteriormente. La produzione industriale, i nuovi cantieri
edili, e l’occupazione hanno continuato a scendere rapidamente,
mentre consumatori ed imprese hanno tagliato la spesa. Inoltre,
la domanda globale sembra rallentare significativamente. Le
condizioni in alcuni mercati finanziari sono migliorate, in
parte in risposta agli sforzi governativi nel fornire liquidita’
e rafforzare gli istituti finanziari, eppure, le condizioni del
credito per le famiglie e le aziende restano estremamente tese.
Il Comitato anticipa che un recupero graduale dell’attivita’
economica iniziera’ piu’ tardi nell’anno, ma i rischi al ribasso
su tale outlook sono significativi.
Alla luce dei cali dei prezzi dell’energia e di altre
commodities negli ultimi mesi e delle prospettive di un
considerevole infiacchimento economico, Il Comitato si aspetta
che le pressioni inflazionistiche resteranno pacate nei prossimi
trimestri. Inoltre, il Comitato nota alcuni rischi sul fatto che
l’inflazione possa persistere in un contesto di tassi che meglio
promuovono la crescita economica e la stabilita’ dei prezzi sul
lungo termine.
La Federal Reserve fara’ uso di tutti gli strumenti disponibili
per promuovere il ripristino di una crescita economica
sostenibile e garantire la stabilita’ dei prezzi. L’obiettivo
della politica adottata dal Comitato sara’ quello di supportare
il funzionamento dei mercati finanziari e stimolare l’economia
attraverso operazioni a mercato aperto ed altre misure che molto
probabilmente manterranno il bilancio della Fed ad un elevato
livello. La Federal Reserve continua ad acquistare larghe
quantita’ di debito ed MBS (Mortgage Debt Securities) per
fornire supporto ai mercati dei mutui ed immobiliare, e rimarra’
pronta ad espandere l’acquisto di tali strumenti e la durata del
programma di acquisto come sara’ richoesto dalle condizioni. Il
Comitato e’ anche pronto ad acquistare Treasuries di lungo
termine qualora le circostanze indicheranno che tale operazione
potrebbe rivelarsi particolarmente efficace nel migliorare le
condizioni dei mercati del credito. La Federal Reserve
implementera’ lo strumento di "Term Asset-Backed Securities Loan"
per facilitare l’estensione del credito alle famiglie e alle
piccole aziende. Il Comitato continuera’ a monitorare
attentamente la dimensione e la composizione del bilancio della
Federal Reserve alla luce dell’evolversi degli sviluppi del
mercato finanziario e per stabilire se l’estensione o le
modifiche degli strumenti di prestito possano servire a
supportare ulteriormente i mercati del credito e l’attivita’
economica ed aiutare a preservare la stabilita’ dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice
Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn;
Dennis P. Lockart; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen. A votare
contro e’ stato Jeffrey M. Lacker, che avrebbe preferito
espandere la base monetaria questa volta attraverso l’acquisto
di bond governativi anziche’ programmi mirati sul credito.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
The Federal Open Market Committee decided today to keep its
target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent. The
Committee continues to anticipate that economic conditions are
likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds
rate for some time.
Information received since the Committee met in December
suggests that the economy has weakened further. Industrial
production, housing starts, and employment have continued to
decline steeply, as consumers and businesses have cut back
spending. Furthermore, global demand appears to be slowing
significantly. Conditions in some financial markets have
improved, in part reflecting government efforts to provide
liquidity and strengthen financial institutions; nevertheless,
credit conditions for households and firms remain extremely
tight. The Committee anticipates that a gradual recovery in
economic activity will begin later this year, but the downside
risks to that outlook are significant.
In light of the declines in the prices of energy and other
commodities in recent months and the prospects for considerable
economic slack, the Committee expects that inflation pressures
will remain subdued in coming quarters. Moreover, the Committee
sees some risk that inflation could persist for a time below
rates that best foster economic growth and price stability in
the longer term.
The Federal Reserve will employ all available tools to promote
the resumption of sustainable economic growth and to preserve
price stability. The focus of the Committee's policy is to
support the functioning of financial markets and stimulate the
economy through open market operations and other measures that
are likely to keep the size of the Federal Reserve's balance
sheet at a high level. The Federal Reserve continues to purchase
large quantities of agency debt and mortgage-backed securities
to provide support to the mortgage and housing markets, and it
stands ready to expand the quantity of such purchases and the
duration of the purchase program as conditions warrant. The
Committee also is prepared to purchase longer-term Treasury
securities if evolving circumstances indicate that such
transactions would be particularly effective in improving
conditions in private credit markets. The Federal Reserve will
be implementing the Term Asset-Backed Securities Loan Facility
to facilitate the extension of credit to households and small
businesses. The Committee will continue to monitor carefully the
size and composition of the Federal Reserve's balance sheet in
light of evolving financial market developments and to assess
whether expansions of or modifications to lending facilities
would serve to further support credit markets and economic
activity and help to preserve price stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke,
Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke;
Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Dennis P. Lockhart; Kevin M.
Warsh; and Janet L. Yellen. Voting against was Jeffrey M. Lacker,
who preferred to expand the monetary base at this time by
purchasing U.S. Treasury securities rather than through targeted
credit programs.
Fonte
- WallStreetItalia
Giappone,
calo record produzione industriale a dicembre
30 Gennaio 2009 09:52 TOKYO
-
di REUTERS ______________________________________________
TOKYO (Reuters) - La produzione
industriale giapponese ha registrato un calo record del 9,6% in
dicembre a riflesso del brusco rallentamento dell'export. La
mediana delle attese proiettava una flessione del 9%. Secondo
gli economisti le statistiche sul Pil del quarto trimestre, in
pubblicazione il mese prossimo, evidenzieranno una contrazione a
due cifre su base annua dell'economia giapponese. "Mentre
prosegue la correzione della produzione, la debolezza
dell'economia continuerà a gennaio-marzo, e la misura del
rallentamento dipenderà dalle esportazioni", commenta Tatsushi
Shikano, senior economist a Mitsubishi Ufj Securities. "Le
attese sono già per un'inflazione core che diventerà ben presto
negativa, ma bisogna stare attenti alla possibilità che un
peggioramento dell'economia spinga il Giappone in una spirale
deflazionistica anche se Banca del Giappone non vede ancora
segnali in tal senso". A dicembre l'inflazione 'core', che
esclude i prezzi degli alimentari freschi ma non quelli dei
prodotti petroliferi, ha rallentato a 0,2% su anno da 1% a
novembre, sotto la mediana delle attese che indicava 0,3%. Si
tratta del tasso più basso da ottobre 2007.
Fonte
- Reuters
Giappone
- La peggior crisi dal Dopoguerra
Friday, 30 January, 2009 at 11:46
-
di Macromonitor ______________________________________________
Giappone - La peggior crisi dal
Dopoguerra
leave a comment »
Il Giappone si sta decisamente dirigendo verso la sua peggior
recessione dal Dopoguerra, dopo la pubblicazione del dato di
produzione industriale di dicembre, che ha mostrato un calo
mensile del 9,6 per cento, la crescita della disoccupazione e
l’ennesimo taglio alla spesa da parte dei consumatori. Il calo
nella produzione industriale ha oscurato il precedente record di
meno 8,5 per cento, fatto segnare il mese precedente, mentre la
disoccupazione balza dal 3,9 al 4,4 per cento, il peggioramento
più marcato degli ultimi 41 anni.
La recessioni negli Stati Uniti ed in Europa ed il rallentamento
cinese hanno fortemente ridotto la domanda di auto, elettronica
e macchinari giapponesi, e le evidenze aneddotiche segnalano
tagli agli organici da parte dei principali esportatori quali
Honda e Hitachi. Questi dati hanno colpito pesantemente gli
indici azionari, con il Nikkei che nel solo mese di gennaio ha
ceduto circa il 10 per cento. Anche la rivalutazione dello yen,
che nel 2008 è stata pari al 18 per cento contro dollaro, ha
aggravato le difficoltà degli esportatori, erodendone gli utili.
La spesa delle famiglie è calata in dicembre del 4,6 per cento
annuale, mentre i prezzi al consumo al netto degli alimentari
freschi sono scesi nello stesso mese allo 0,2 per cento
tendenziale, dall’1 per cento del mese precedente, segnalando
l’intensificarsi di pressioni deflazionistiche. Il calo mensile
della produzione industriale è stato peggiore delle già
pessimistiche stime di consenso, che ipotizzavano una flessione
dell’8,9 per cento, e rappresenta il peggior risultato dal 1953.
Nel quarto trimestre del 2008 la produzione è calata dell’11,9
per cento, quarto trimestre consecutivo di flessione. Le aziende
pianificano di ridurre la produzione di un altro 9,1 per cento
in gennaio e del 4,7 per cento in febbraio. E’ in atto una
recessione globale sincronizzata, e i manifatturieri stanno
rispondendo molto aggressivamente, nel tentativo di preservare
margini positivi. Secondo le previsioni del Fondo Monetario
Internazionale, il Pil giapponese è atteso diminuire nel 2009
del 2,6 per cento, peggior risultato dalla Seconda Guerra
Mondiale, oltre che per l’intero G7.
Le ultime stime di consenso ipotizzano un calo annualizzato del
Pil nel quarto trimestre pari ad un incredibile 14 per cento,
che se confermato supererebbe il meno 13,1 per cento del primo
trimestre 1974, che è tuttora il peggior risultato dall’inizio
delle rilevazioni di questa serie storica. Secondo il panel
governativo che compie la datazione dei cicli economici, la
recessione giapponese sarebbe iniziata nel novembre 2007.
Finora, lo stallo in parlamento ha rallentato l’approvazione di
un pacchetto di stimolo di 10.000 miliardi di yen (circa 111
miliardi di dollari). Mentre la Bank of Japan, dopo aver portato
i tassi ufficiali allo 0,1 per cento, ha pochi margini per
contrastare la crisi oltre ad acquistare debito aziendale per
ridurre la stretta creditizia, operazione iniziata oggi.
L’export è crollato a dicembre del 35 per cento, spingendo tra
gli altri Toyota, che prevede la prima perdita da 71 anni, a
fermare per 14 giorni la produzione domestica nel corso di
questo trimestre, mentre Honda licenzierà tutti i 3100
dipendenti temporanei giapponesi, che andranno ad aggiungersi ai
circa 400.000 lavoratori precari che sono attesi perdere il
posto nel trimestre che terminerà il 31 marzo. Il forte taglio
ai livelli di attività dei costruttori automobilistici è
destinato a riverberarsi anche sui fornitori di componentistica
e sul settore dell’acciaio.
Fonte
-
Macromonitor
USA:
PIL IV TRIMESTRE -3.8%, E' LA MAGGIORE CONTRAZIONE DAL 1982
30 Gennaio 2009 14:30 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
L'economia americana frena
bruscamente, ma il dato risulta comunque migliore delle attese.
Il consensus del mercato era per un tonfo del 5.5%.
Il Prodotto Interno Lordo Usa - un dato che rappresenta il
valore totale di tutti i beni e servizi prodotti e venduti nel
Paese - nel quarto trimestre del 2008 ha registrato un calo
dello 3.8% (tasso annuale).
Nel trimestre precedente il tasso era risultato negativo, ma la
contrazione si era rivelata nettamente inferiore, pari a -0.5%.
A comunicarlo e’ stato il Dipartimento del Commercio Usa.
L’indicatore comunicato oggi, che rappresenta il dato
preliminare suscettibile di varie revisioni nelle prossime
settimane, si e’ rivelato comunque migliore delle stime degli
economisti che si attendevano un arretramento del 5.5%.
L’indice "core" dei prezzi al consumo e’ cresciuto dello 0.6%,
al di sotto delle attese pari a +1.0%. Il deflatore del Pil, un
indicatore delle pressioni inflazionistiche, e' diminuito dello
0.1%, anch’esso al di sotto stime (+0.4%).
Per l’intero 2008, l’economia americana e’ cresciuta ad un tasso
dell’1.3%, il piu’ debole dal 2001.
Fonte
- WallStreetItalia
Stati Uniti
- La maggior contrazione del Pil da 26 anni
Friday, 30 January, 2009 at 16:36
-
di Macromonitor ______________________________________________
L’economia statunitense si è
ristretta nel quarto trimestre 2008 per effetto del peggior calo
dal Dopoguerra della spesa dei consumatori, una tendenza
destinata a proseguire nei prossimi mesi. La contrazione
annualizzata del 3,8 per cento negli ultimi tre mesi dell’anno
scorso è stata inferiore alle attese solo grazie ad un accumulo
involontario di scorte, non esattamente una buona notizia. Senza
il balzo delle giacenze di magazzino il calo sarebbe stato del
5,1 per cento. Un report separato pubblicato oggi ha mostrato
che i costi del lavoro sono cresciuti nel quarto trimestre al
passo più lento da almeno un decennio, dopo che le imprese hanno
limitato la crescita retributiva ed i benefit. Le stime di
consenso ipotizzavano una contrazione dell’economia statunitense
del 5,5 per cento annualizzato.
La spesa dei consumatori, che rappresenta oltre due terzi
dell’economia americana, è diminuita al passo annualizzato del
3,5 per cento, dopo il meno 3,8 per cento del terzo trimestre.
E’ la prima volta dall’inizio delle rilevazioni di questa serie
storia, nel 1947, che i consumi calano di oltre il 3 per cento
per due trimestri consecutivi, mentre il calo del Pil per due
trimestri consecutivi (nel terzo trimestre la flessione
annualizzata era stata dello 0,5 per cento) avviene per la prima
volta dal 1991. Per l’intero 2008 l’economia è cresciuta
dell’1,3 per cento. Il deflatore del Pil è calato dello 0,1 per
cento annualizzato nel trimestre, massima flessione dal 1954, di
riflesso al crollo dei prezzi delle materie prime. L’indice di
prezzo della spesa per consumi personali al netto di alimentari
ed energia,utilizzato dalla Fed per monitorare le pressioni sui
prezzi, è cresciuto dello 0.6 per cento, il minimo dal 1962. In
termini nominali, il Pil è calato del 4,1 per cento, massimo dal
primo trimestre del 1958.
Il calo dell’investimento residenziale ha accelerato facendo
segnare un meno 24 per cento annualizzato, dopo la flessione del
16 per cento del terzo trimestre. Il forte rallentamento nella
domanda globale indica che è improbabile che l’export possa
contribuire significativamente alla crescita nel 2009: la
crescita mondiale quest’anno sarà dello 0,5 per cento, la più
debole dal Dopoguerra, secondo le stime del Fondo Monetario
Internazionale pubblicate il 28 gennaio. Le esportazioni nette
hanno aggiunto solo lo 0,1 per cento alla crescita, contro
l’1,05 per cento del terzo trimestre.
Le scorte sono cresciute al passo annualizzato di 6,2 miliardi
di dollari nel quarto trimestre, primo incremento da oltre un
anno. Il loro contributo alla crescita (pari all’1,32 per cento)
è stato il maggiore dal quarto trimestre del 2005. In sostanza,
il crollo dei consumi ha determinato un accumulo involontario di
scorte, che causerà nei prossimi mesi un ulteriore taglio della
produzione. Le vendite finali interne, grandezza che si ottiene
sottraendo al Pil la variazione delle scorte, è stato pari a
meno 5,1 per cento. Lo stesso dato, riferito al terzo trimestre,
è stato pari a meno 1,34 per cento. Di rilievo, nell’ambito dei
consumi di beni durevoli, la sottrazione alla crescita causata
dalla crisi dell’auto: la produzione di veicoli a motore toglie
al Pil il 2,04 per cento.
Fonte
- Macromonitor
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