|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
|
|
|
Martedì
03
Febbraio
2009 |
|
Venerdì 06
Febbraio
2009 |
|
Martedì
10
Febbraio
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
| |
|
Ma
il BOT può fare crac ?
01 Febbraio 2009 16:32 ROMA - di Maurizio Maggi
________________________________________
Faranno davvero a gomitate, i governi del mondo occidentale,
per piazzare i titoli di Stato e rastrellare i soldi necessari per
portare aiuto ai sistemi finanziari e alle economie in difficoltà?
Sono recepiti come gli investimenti più tranquilli e sicuri, i Bot,
i Btp e gli altri, eppure cresce il numero di coloro che, conti alla
mano, temono che nel 2009 qualche Paese potrà non riuscire a farsi
prestare tutti i soldi richiesti ai risparmiatori e agli
investitori; oppure che sarà costretto a pagare quel debito molto di
più di quanto non facciano, per esempio, la Germania e gli Stati
Uniti.
L'Italia entra sempre più spesso negli elenchi degli Stati in cui il
rischio-Paese è considerato in aumento. Per ora, solo in teoria.
Però il rischio cresce. Nell'area dell'euro, solo per rifinanziare
il debito in scadenza, le emissioni statali previste sono di quasi
300 miliardi di euro nel primo trimestre dell'anno. Nell'intero 2009
gli Stati Uniti inonderanno il globo con 2 mila miliardi di dollari
dei loro Treasury Bond, pari - al cambio attuale - a oltre 1.500
miliardi di dollari.
Non tutti gli Stati, però, pagano allo stesso modo i denari chiesi
in prestito. Tanto che persino nei capannelli fuori dai bar e negli
uffici si sente sempre più spesso parlare del celebre 'spread', il
termine inglese che indica il differenziale tra gli interessi che
gli Stati riconoscono a chi sottoscrive i titoli emessi.
In Europa, a guidare il gruppo è la locomotiva tedesca: il
differenziale che viene preso in considerazione come indicatore più
attendibile e importante è quello tra i titoli decennali a cedola
fissa e gli omologhi tedeschi (Bund). Ebbene, dopo essere stati
molto vicini, ora gli spread tra il rendimento del Bund e i suoi
concorrenti dell'Europa più in affanno - oltre all'Italia, del
gruppetto fanno parte il Portogallo, l'Irlanda, la Grecia e la
Spagna - ha iniziato ad allargarsi sensibilmente da quando la crisi
della finanza mondiale è esplosa, nell'autunno scorso. La punta
massima, per ora, è stata toccata il 15 gennaio, a quota 1,52 (un
anno fa viaggiava intorno a 0,36: in 12 mesi, la forbice è
quadruplicata).
Morale: il Btp decennale al risparmiatore italiano garantisce, ai
prezzi attuali, una redditività lorda del 4,44 per cento, che scende
al 3,88 per cento netto (i titoli di Stato sono tassati al 12,50 per
cento). L'equivalente buono con scadenza fra dieci anni emesso dal
Tesoro tedesco rende l'1,46 per cento in meno. Molti osservatori e
analisti sono sicuri che, sospinti dall'affollamento di offerta, i
tassi siano destinati a risalire, tornando nettamente sopra il 5 per
cento nel giro di un anno. E anche se per marzo è attesa un
ulteriore limatura dei tassi da parte della Banca centrale europea
guidata da Jean-Claude Trichet, all'ultima asta dei Btp a cinque
anni, è stata notata una certa latitanza da parte degli investitori
istituzionali. "Sono convinti che nel brevissimo periodo i tassi dei
titoli di Stato italiani siano destinati a salire e quindi aspettano
la prossima asta per spuntare un rendimento migliore", commenta
Claudia Segre, responsabile del reddito fisso di AbaxBank.
Lo spalancarsi della forbice può rappresentare un'attrattiva per il
risparmiatore-investitore, ma è un incubo per l'emittente. Le
ricadute negative sono di due ordini: il debito diventa più costoso
rispetto a quello degli Stati che esibiscono una situazione
finanziaria più sana, e si insospettiscono i mercati che, se gli
spread si allargano troppo, possono iniziare a nutrire dubbi sulle
capacità di ripagare il debito.
Prendiamo la Grecia. È l'unico Paese su cui da qualche settimana
circolano le prime voci, respinte con forza sia ad Atene che a
Bruxelles, su una eventuale uscita della Grecia dall'euro.
Un'ipotesi teorica, certo. Ma nessuno ha mai accennato l'eventualità
che la Francia o l'Austria abbandonino la divisa unica. E l'agenzia
Standard & Poor's ha abbassato il rating, cioè il voto
sull'affidabilità di Atene, fino al penultimo scalino al di sopra
dei titoli spazzatura: A-. Le tensioni sullo spread del paese
mediterraneo iniziano ad allungarsi sull'Italia, che dopo la Grecia
(già arrivata a quota 2,50 per cento) è quello con lo spread più
alto rispetto al Bund decennale.
Per colpa dell'immenso stock di debito esistente e delle lacunose
prospettive di rilancio economico, persino due Paesi che certo non
godono di grande salute finanziaria, come la Spagna e il Portogallo,
hanno un differenziale migliore di quello dei nostri Btp decennali:
è pari infatti all'1,20 per cento lo spread dei Bonos emessi dal
Tesoro di Madrid e all'1,30 per cento quello dei titoli di Lisbona.
Il Tesoro italiano ha emesso 188 miliardi di bond l'anno scorso e ne
emetterà almeno 240 miliardi nel 2009, con un incremento del 28 per
cento. La macchina può davvero incepparsi?
"Rispetto a un anno e mezzo fa, quando l'ipotesi di avere problemi
nel collocare titoli e ogni accostamento alla crisi argentina non
sarebbe venuta in mente a nessuno, ora gli spread in aumento
dimostrano che qualcuno è disposto a credere a uno scenario così
cupo", sostiene Luigi Guiso, che insegna economia all'European
University Institute di Firenze e ricorda che prima di fallire, il
paese sudamericano era arrivato ad avere uno spread del 3,5 per
cento rispetto a quello dei paesi meno rischiosi del continente
americano. Aggiunge Guiso: "La vera incognita è l'effettivo impatto
della recessione sui bilanci delle banche. Se sarà forte, ciò
danneggerà ulteriormente lo stato di salute dell'economia italiana,
e allora il Prodotto interno lordo potrebbe anche calare più del 2
per cento immaginato dalla Banca d'Italia".
 |
Fonte
- L'espresso
|
Le obbligazioni ad
alto rendimento
Monday, 1 Feb, 2007 at 11:57
-
by phastidio ______________________________________________
Il mercato dei Junk Bond, letteralmente titoli spazzatura, sta
vivendo un momento veramente d’oro: ad ottime performance si
accompagna uno sviluppo sempre più rapido che in pochi anni ha
portato il giovanissimo mercato europeo delle obbligazioni ad
alto rendimento a ritagliarsi un ruolo sempre più importante nel
panorama finanziario globale.
Seppur ancora lontano dall’aver raggiunto la piena maturità e
dagli standard che caratterizzano il mercato americano, anche
nel vecchio continente la liquidità su questi strumenti inizia
ad essere abbastanza buona e si è raggiunto finalmente un
sufficiente grado di diversificazione settoriale all’interno del
comparto.
Un ruolo decisivo in questo processo lo ha giocato e continua a
giocarlo lo sviluppo dei derivati di credito e più in generale
tutta la nuova l’ingegneria finanziaria legata ai prodotti
strutturati che permettono di “impacchettare” il rischio di
credito in strumenti più o meno sofisticati.
Prima di avventurarsi in approfondimenti più squisitamente
tecnici e in qualche considerazione sulle dinamiche del mercato,
vale probabilmente la pena di cercare di approfondire la
conoscenza con questo microcosmo che come detto continua a
crescere sia in termini dimensionali che di importanza.
Innanzitutto, cosa intendiamo esattamente per Junk Bond?
Convenzionalmente sono considerate obbligazioni High Yield tutti
quei bond il cui rating è inferiore alla BBB- (per l’Agenzia
Standard& Poors) e a Baa3 (per Moody’s).
La vera discriminante quindi nella classificazione delle
obbligazioni societarie è rappresentato dal livello di rating,
che ricordiamo offre una indicazione sul livello di affidabilità
dell’emittente.
Emissioni oblligazionarie caratterizzate da un rating
speculativo sono quindi classificate come High Yield Bond,
ovvero obbligazioni ad alto rendimento.
Scendendo nella scala di rating diminuisce, ceteris paribus, il
grado di solvibilità ex ante dell’emittente e quindi il maggiore
grado di rischio viene compensato da un extrarendimento rispetto
ai titoli meno rischiosi. Junk bond oppure High Yield sono
quindi nomi diversi usati per riferirsi ad un medesimo
strumento, con definizioni che pongono l’accento rispettivamente
sulla bassa qualità del credito il primo e sugli alti rendimenti
promessi il secondo.
Tecnicamente, è definito spread il premio richiesto dagli
investitori per detenere titoli emessi da società che sono
maggiormente esposte al rischio di default, ovvero al mancato
rimborso del capitale: il termine di confronto per il calcolo di
questo extrarendimento normalmente è rappresentato dai titoli
governativi privi di rischio come i Bund tedeschi o i T bond
americani.
Sempre a livello di classificazioni convenzionali, quando lo
spread di una particolare emisssione raggiunge i 1000 punti
base, si parla di distressed bond, sottocategoria del comparto
High Yield in cui normalmente sono attivi Hedge Fund
specializzati: in questo tipo di investimento il focus si sposta
dall’analisi del credito tradizionale ad un approccio
maggiormente incentrato sulla ristrutturazione aziendale, ambito
in cui anche aspetti più prettamente legali possono giocare un
ruolo centrale.
Gia da queste primissime battute risulta evidente come l’intera
analisi di questi titoli ruoti intorno all’equilibrio tra il
rischio ( grado di solvibilità dell’emittente, in qualche modo
sintetizzato dal rating) e l’extra rendimento offerto dal
titolo.
Scopriamo quindi come nella realtà non esistono titoli
spazzatura: esistono solo titoli caratterizzati da un maggiore o
minore livello di affidabilità creditizia.E’ importante
sottolineare come il guardare ad un solo aspetto può esser
fuorviante: infatti per valutare la bontà di un investimento va
necessariamente preso in considerazione il rapporto
rischio/rendimento offerto dal titolo.
Scopriamo così che negli ultimi anni l’investimento in bond
spazzatura sia stato tra i più redditizi in assoluto: con una
performance superiore al 60% in quattro anni, il mercato dei
junk Bond ha dato risultati migliori di molti altri strumenti
e/o mercati molto più blasonati.
Il Rublo alla
Campagna di Russia
Monday, 2 February, 2009 at 14:16
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il rublo è sceso di nuovo ai minimi, con i partecipanti al
mercato che testano la linea di difesa della banca centrale. Sic
transit gloria petroleum.
L’istituto di emissione russo ha infatti annunciato che avrebbe
lasciato svalutare la moneta sino a 41 rubli contro il paniere
di divise a cui è ancorato. Al momento le quotazioni si aggirano
intorno a 40.60, pericolosamente vicino alla soglia
d’intervento.
Il test della determinazione a difendere la moneta potrebbe
essere pericoloso: le riserve vlautarie russe sono state
indebolite dal loro impiego per salvare - leggi: nazionalizzare
- larghe parti del sistema finanziario ed industriale russo,
lasciandone per la difesa della moneta solo una frazione
rispetto ad un anno fa. Il crollo delle quotazioni del greggio e
le ridotte forniture di gas hanno ulteriormente ridotto
l’afflusso di moneta forte nelle casse di Mosca, dipendente di
questi tempi dall’andamento delle materie prime né più né meno
delle petromonarchie del Golfo Persico o degli altri membri
OPEC, organizzazione alla quale sta guardando con malcelato
interesse.
MOSCOW — The Russian ruble dropped to new lows on Monday,
threatening to test the level at which the central bank has
pledged to defend it.
The ruble plunged to 40.60 against a dollar-euro basket as of 1
p.m. (5 a.m. EST) — a whisker away from the bank’s outer limit
on the Russian currency.
The central bank announced Jan. 22 that it would allow the ruble
to drop sharply to 41 against the basket, implying almost a 10%
devaluation and signaling the end to an unsettled period of
gradual devaluations, but the currency didn’t drop sharply right
away.
Fonte
- Macromonitor
ALLACCIATE LE CINTURE,
NUOVO CICLONE IN ARRIVO
03 Febbraio 2009 16:45 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
Le perdite legate alle obbligazioni societarie potrebbero
costare alle compagnie assicuratrici piu' di quelle provocate
dal buco dei mutui subrpime. Colpiti, tra gli altri, colossi
come MetLife, Hartford e Prudential.
I fallimenti dei bond societari potrebbero costare agli
assicuratori sulla vita statunitensi "sostanzialmente" piu'
delle perdite sui titoli legati ai mutui subprime, ai mutui
commerciali e Alt-A, secondo il parere di Eric Berg, analista di
Barclays.
Con l'espandersi della recessione, i default societari sono
destinati ad aumentare in maniera "significativa" quest'anno,
dice Berg in una ricerca pubblicata ieri. Il Consiglio Americano
delle Compagnie Assicuratrici sulla Vita ha stimato che
l'industria, con MetLife (MET) e Prudential Financial (PRU) in
testa, ha mille miliardi di debiti societari.
"Nessuna delle compagnie di assicurazioni che abbiamo studiato
sembra che stia facendo un lavoro particolarmente buono" nella
scelta dei bond societari, dice Berg, aggiungendo che di
conseguenza "e' comprensibile che gli investitori siano
preoccupati".
Sul mercato gli assicuratori hanno perso sempre piu' terreno
l'anno scorso, con le perdite da investimenti che stanno
erodendo il capitale. Dell'industria Hartford Financial Services
Group (HIG) e' quella messa peggio, con $7.9 miliardi di
svalutazioni e perdite legate al mercato immobiliare accumulati
dal 2007 a oggi. Mentre da parte sua la newyorchese MetLife ha
accumulato $7.2 miliardi di perdite, secondo i dati di
Bloomberg.
Nel tentativo di rafforzare la posizione di liquidita' dopo le
nette perdite registrate nel terzo trimestre, Hartford e
Prudential hanno tagliato posti di lavoro, hanno chiesto
all'antitrust di allentare le norme standard che regolano
l'accesso alle riserve di denaro e hanno richiesto un aiuto al
governo, nel quadro del piano di salvataggio da $700 miliardi.
Quanto a MetLife, per aumentare le proprie finanze ha deciso di
vendere $2.3 miliardi di azioni lo scorso ottobre. L'indice di
Standard & Poor’s delle compagnie di assicurazione sulla vita e
la salute (Supercomposite Life & Health Insurance Index) ha
bruciato circa il 60% del suo valore negli ultimi 12 mesi.
Fonte
-
Bloomberg
|
Per
superare la fine del mondo, tanto cash,
fino a Giugno
03 Febbraio 2009 04:20 MILANO
- di Ugo Bertone
________________________________________
Non è la fine del mondo. Ma ci assomiglia. La ripresa? Prima o poi
verrà. E il ’29 ha più il sapore dello spauracchio che non di una
nemesi inevitabile. Ma, dopo un 2009 a basso regime, meglio non
farsi illusioni sul 2010. Morale? Fate come me, suggerisce Giovanni
Tamburi: tanto cash. Anzi, tutto cash almeno fino a giugno. Poi si
vedrà. Anche se le lusinghe già non mancano: sia per il più
parsimonioso gestore di private equity italiano, da sempre nemico
della leva, sia per gli investitori, allettati da rapporti
fondamentali (basta guardare i valori di libro) che hanno il sapore
del saldo. Ma c’è tempo, spiega il più coerente allievo italiano di
Warren Buffett cui, tra l’altro, Carlo De Benedetti, rinunciando a
tutti i suoi incarichi operativi, ha appena affidato l’onere di
guidare le strategie di M&C.
Un fantasma si aggira nei mercati: il debito. Dottor Tamburi, come
ne veniamo fuori? Prendiamola alla lontana. Esistono due scuole di
pensiero. Una, di cui fa parte ad esempio Alessandro Fugnoli,
sostiene che non ci sarà inflazione. Ed è vero che finora la Fed e
il Tesoro hanno fatto affluire capitali a fronte di asset accettati
per buoni. Un’altra scuola, però, sostiene che l’azione delle banche
centrali, prima o poi, non potrà che tradursi in un boom inflattivo.
Lei che ne pensa? Io mi auguro che si scateni l’inflazione: è il
modo migliore, se non l’unico, perché il debitore possa far fronte
ai suoi impegni.
Quindi, a lungo termine, le azioni, in quanto beni reali, dovrebbero
dare soddisfazioni? Stiamo parlando di un futuro remoto. Per ora
cerchiamo di vedere più da vicino: vedo segnali di ripresa per
l’ultima parte dell’anno. Ma non mi faccio illusioni. Il 2010 sarà a
crescita lenta. Non mi sembra realistico il quadro del neopresidente
Obama che conta addirittura sul 3-5% del Pil per l’anno prossimo.
Sembra inevitabile, perciò, l’azione di sostegno dei governi. Anche
di quello italiano... La realtà è che in cassa non c’è un euro che
sia uno. Una realtà che è quella di sempre: o ci salvano le Pmi, le
stesse che ci hanno dato da mangiare in questi anni, o per l’Italia
sarà dura.
Qual è lo stato di salute del sistema? Le statistiche sono
«vecchie», comunque precedenti alla crisi Lehman. Sì, nell’ultima
parte dell’anno è cambiato tutto. Io ho a disposizione un campione
d’eccellenza, quello delle aziende partecipate da Tip. Ebbene, anche
le imprese più solide e meglio posizionate hanno dovuto confrontarsi
con lo stop della domanda. Il mio consiglio? Non fate i budget prima
della fine dell’anno: andate avanti, poi si vedrà.
E che si è visto? Un calo significativo. Ma non un’ecatombe. Anche
perché, nel frattempo, è crollato il petrolio, l’acciaio costa assai
meno. E il clima favorisce le ristrutturazioni. Insomma, un calo del
fatturato del 15%, per dare un’idea, non segna un’analoga caduta del
Mol. Penso che, ancora una volta, le Pmi se la potranno cavare.
O crescere? Possibile. Perché non passa giorno che banche, private
equity o imprenditori alle prese con il credit crunch non presentino
un dossier. Questa crisi può dare il via alla nascita di poli di
settore. Ma...
Ma? È ancora presto. Mancano le coordinate per muoversi.
Non esagera? Guardiamo a Ferretti: bella azienda pronta alla
quotazione. Poi, all’improvviso, scompare il mercato più
promettente, quello russo. Anzi, i magnati russi sono venditori dei
loro yacht. E per la Ferretti si apre un baratro.
 |
Fonte
- Borsa&Finanza
|
|
Mercoledì 11
Febbraio 2009 |
|
Giovedì 12
Febbraio 2009 |
|
Domenica 15
Febbraio 2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Wall
Street
ha in serbo effetti speciali
03 Febbraio 2009 23:45 MILANO - di Marco Sabella
________________________________________
L' indice S&P 500 della Borsa americana raggiungerà quota
1.100 entro la fine del 2009. Un valore che implica un potenziale di
rialzo di circa il 26% rispetto alle quotazioni di oggi». È la
previsione, coraggiosa, di David Kostin, strategist azionario per il
mercato di Wall Street di Goldman Sachs, la grande banca d'affari
sopravvissuta, insieme a pochissime altre, alla crisi epocale del
sistema finanziario americano.
Kostin non nega le difficoltà e l'estrema incertezza del momento.
«Non si può escludere, infatti, che nel corso del primo trimestre
2009 l'indice possa tornare temporaneamente sui minimi di 750 punti
raggiunti alla fine dello scorso novembre», avverte.
Su quali elementi si basa questo relativo ottimismo? «Prima di tutto
sugli effetti attesi dal piano di rilancio dell'economia, che
prevede una spesa di 780 miliardi di dollari. Un intervento che
prenderà la forma di una riduzione dell'imposizione fiscale, di uno
stimolo alla spesa dei consumatori e che si sostanzierà nell'avvio
di investimenti in grandi infrastrutture per un valore di circa 285
miliardi di dollari».
Tuttavia ci vorrà del tempo prima che questi effetti si
manifestino... «In realtà siamo convinti che il ciclo economico
abbia già toccato il suo punto più basso nel quarto trimestre del
2008 con una contrazione del Pil di circa il 5%. I prossimi due
trimestri saranno ancora negativi, quindi, anche per effetto del
piano di rilancio, si manifesterà una debole crescita dell'1% a
trimestre nella seconda metà del 2009».
Quale sarà l'impatto della recessione sui profitti delle aziende?
«Il ciclo dei profitti non ha ancora toccato il fondo. Anzi, se si
escludono i titoli finanziari gli utili aziendali stanno ancora
continuando a salire. Detto questo prevediamo che gli utili delle
imprese subiranno un calo del 20% in più rispetto alle stime, già
negative, formulate dagli analisti. In pratica, considerando tutte
le aziende dell'indice S&P 500 come un'unica grande società i
profitti aggregati caleranno da 65 a 53 dollari per azione entro la
fine del 2009».
Quali settori saranno parzialmente esenti dalla crisi? «Gli utili
nel corso di quest'anno cresceranno del 4% nel comparto del largo
consumo e del 3% nel settore della salute inteso in senso lato: case
farmaceutiche, biotech, case di cura. Non a caso abbiamo sovrapesato
nettamente questi due comporti, così come abbiamo un leggero
sovrappeso anche sui materiali di base e sulle telecomunicazioni».
In pratica, ancora una volta, vincono i settori difensivi... «In
realtà siamo molto attenti anche al tipo di aziende che mettiamo in
portafoglio. Abbiamo per esempio una netta preferenza per i gruppi
poco indebitati e con bilanci molto solidi».
Quanto pesa il tema dei dividendi? «Pesa molto perché siamo convinti
che il modo in cui le imprese utilizzeranno i loro flussi di cassa
farà la differenza dal punto di vista delle quotazioni di Borsa. In
sintesi le aziende che saranno in grado di pagare agli azionisti
elevati dividendi avranno un andamento migliore della media di
mercato».
Qualche esempio? «I casi sono numerosi e vanno da Philip Morris nel
tabacco, uno yield del 5,2% nel 2009, a Eli Lilly nel farmaceutico
(5,7%) a Honeywell nelle tecnologie (4,9%), a Mc Donald's (3,5%).
Queste società, insieme a molte altre, registreranno nel biennio
2009-2010 una crescita a doppia cifra del dividendo pagato agli
azionisti».
Quali altri criteri adottate per selezionare i titoli migliori?
«Preferiamo le aziende che realizzano la maggior parte del loro
fatturato negli Stati Uniti rispetto a quelle orientate
all'esportazione. Infatti, sebbene i tassi di crescita dell'economia
nel 2009 siano più bassi negli Usa che altrove, il deterioramento
delle condizioni generali è particolarmente veloce negli altri
paesi, a cominciare dall'Europa».
In base a questo criterio quali società hanno il maggior potenziale
di Borsa? «Pensiamo a nomi come Humana e United Health Group nella
salute, Nucor nei materiali di base, At&T nelle telecomunicazioni.
Tutti gruppi che realizzano dal 90 al 100% del loro giro d'affari
negli Stati Uniti».
Nella scelta tra piccole e grandi capitalizzazioni qual è la vostra
preferenza? «Siamo nettamente a favore delle blue chip, che possono
accedere più facilmente al credito rispetto alle piccole e che sono
meno sensibili alle vendite innescate dalle operazioni di
ricopertura degli hedge fund».
 |
Fonte
- Finanza & Mercati
|
STRATEGIE: AZIONI AI
MINIMI, I RIBASSISTI SUONANO LA RITIRATA
08 Febbraio 2009 16:40 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
L'S&P 500 ha bruciato il 38% del suo valore nel 2008, peggio
solo nell'anno della Grande Depressione. Essere short in questo
periodo di forti ribassi sembra la strategia sbagliata. "Piu'
facile puntare su azioni che saliranno".
Anche i ribassisti piu' convinti stanno perdendo ogni certezza,
dopo aver assistito ai cali piu' accentuati che lo Standard &
Poor's 5000 abbia visto dai tempi della Grande Depressione. Il
mese scorso le azioni vendute o offerte in prestito allo
scoperto sul mercato americano hanno ceduto il 28% dai massimi
di luglio. Le societa' facenti parte dell'S&P 500 scambiano ai
livelli piu' bassi da 18 anni a questa parte. Nel frattempo il
presidente Barack Obama e il Congresso stanno lavorando ad un
piano da circa $800 miliardi, finalizzato al rilancio
dell'economia, mentre gli speculatori vengono sottoposti alla
rigida sorveglianza dell'antitrust.
Se secondo Douglas Kass di Seabreeze Partners Management e David
Tice di Federated Investors c'e' ancora margine per scommettere
sui ribassi di gruppi alimentari e produttori di computer,
persino Marc Faber, autore del "Gloom, Boom & Doom Report", ha
abbondanato le cosiddette posizioni short. Bill Fleckenstein,
che aveva preannunciato la bolla immobiliare nel 2005, ha chiuso
il suo fondo ribassista che aveva lanciato 13 anni fa e ha
comprato azioni Microsoft.
"Per me risulta piu' facile trovare cinque titoli che penso
saliranno, piuttosto che cinque azioni che scenderanno", spiega
Fleckenstein, che vive a Seattle. "Essere short in questo
periodo sembra proprio la strategia sbagliata". I venditori allo
scoperto, che prestano e vendono azioni nella speranza di
ricomprare ad un prezzo piu' vantaggioso, hanno avuto un enorme
successo tra gli hedge fund l'anno scorso, quando hanno
guadagnato il 28% di media, secondo i dati di Hedge Fund
Research, a Chicago. Il calo del 38% che l'S&P 500 ha subito
l'anno scorso e' stato il piu' marcato dal 1937. Sono solo 24 i
titoli che hanno chiuso il 2008 in positivo.
Intanto il focus del mercato e' rivolto all'accordo sul
pacchetto di stimolo fiscale e sul progetto "bad bank": per
entrambi l'annuncio definitivo dovrebbe arrivare martedi'. Al 15
gennaio i titoli venduti allo scoperto erano 13.4 miliardi, in
contrazione rispetto ai 18.6 miliardi di luglio, secondo i dati
raccolti da NYSE Euronext, a New York.
Le azioni Usa scambiano in media su livelli di 15.23 volte
superiore agli utili, dopo essere piombati a novembre sino ai
livelli record di 15.20, sui minimi dal 1990, mostra un'analisi
di Robert Shiller, professore dell'Universita' di Yale che nel
2000 aveva previsto il collasso del mercato nel suo libro "Irrational
Exuberance".
"Se volessi essere short in questo mercato, ora, tenderei a
muovermi coi piedi di piombo", dice Dan Veru, che gestisce circa
$2.4 miliardi e puo' scommettere su ribassi e rialzi azionari
come chief investment officer di Palisade Capital Management LLC
a Fort Lee, New Jersey. "E' una strategia molto avventata".
Tuttavia ci sono titoli su cui scommettere al ribasso potrebbe
dare frutti. Kass sostiene che i ribassisti possono ancora
trarre profitti dalla crisi delle spese al consumo, che si
riversera' su prodotti generici, appesantendo le azioni di
Kraft, Colgate e Kellogg, ad esempio.
"Bisogna essere un po' piu' creativi", dice sempre Kass, che
gestisce $200 milioni per la societa' hedge fund Seabreeze, di
Palm Beach, in Florida. "Queste sono societa' il cui modello di
business sara' messo in discussione sul lungo termine. Gli
investitori se ne accorgeranno".
Tice, strategist del fondo Federated Prudent Bear, a Dallas,
prevede che l'S&P 500 esca dimezzato dal 2009, e che i titoli
tech e retail subiranno un netto ritracciamento. Il fondo, che
ha registrato un balzo del 27% nel 2008, ha battuto il 96% dei
suoi rivali gli ultimi cinque anni, secondo i dati raccolti da
Bloomberg.
Intel, leader mondiale nella produzione di chip, potrebbe
chiudere in rosso il primo trimestre, secondo quanto riferito il
mese scorso dal Ceo Paul Otellini, il che metterebbe fine ad un
periodo positivo che durava da 21 anni per la societa' di Santa
Clara, California. I titoli technologici sono tra i piu' costosi
dell'S&P 500, con la mediana dei valori che scambia a 12.4 volte
i profitti.
"Molti pensano che i tecnologici andranno bene", ha detto sempre
Tice, in un'intervista rilasciata Bllomberg lo scorso 5
febbraio. "Noi invece pensiamo che scenderanno un bel po'.
Tuttavia le opportunita' si sono chiaramente ridotte e
bisognera' avere giudizio per trarre profitti da tali
strategie".
(fonte: Bloomberg)
Fonte
- Bloomberg
AZIONARIO:
PANIC-SELLING O SUPER-RIMBALZO? MEGLIO IL SECONDO
08 Febbraio 2009 14:30 BIELLA
-
di *Maurizio Milano ______________________________________________
Gli indici stanno cercando di ricostituire una base che potrebbe
quindi sfociare in un forte rally nei prossimi mesi. Non e' da
escludere un ritorno ai livelli di settembre. Semaforo verde
alla...
*Maurizio Milano e' il responsabile dell'ufficio di Analisi
Tecnica del Gruppo Banca Sella. Il documento e' rivolto
esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori
e clientela professionale ai sensi dell'allegato n.3 al reg.
n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano
responsabilita' alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente
non svolge alcuna attivita' di trading e pubblica tali
indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a
questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI)- Negli ultimi 3 mesi i principali indici azionari mondiali
si sono mossi all’interno di trading range di ampiezza, a
seconda del mercato, pari a circa il 15-20%. Dopo gli affondi
ribassisti del mese di ottobre-novembre 2008, il comparto
azionario non è ancor riuscito a mettere a segno un movimento di
rimbalzo credibile. La fase di impasse in atto si presta a due
interpretazioni opposte: è una pausa di distribuzione prima di
un panic-selling generalizzato (che avrebbe obiettivi di discesa
e tempi di recupero di impossibile previsione); oppure gli
indici stanno cercando di ricostituire una base, in una
riaccumulazione che potrebbe quindi sfociare in un forte rally
nei prossimi mesi. Non ci sono ancora elementi grafici
sufficienti per prevedere quale delle due ipotesi si
verificherà. Dovendo scegliere, pare che l’ipotesi di rimbalzo
sia quella più probabile.
È possibile che il mercato azionario metta a segno un rimbalzo
anche ambizioso, del 30%, e che ritorni sui livelli di fine
settembre 2008, precedenti al crash. Spingersi più in là con le
previsioni al momento è impossibile. In prima battuta, comunque,
se tale rimbalzo si verificherà, potrebbe essere un’ottima
occasione di alleggerimento delle posizioni in ottica tattica,
perché recuperi più ampi e sostenibili al momento paiono poco
probabili. Se partirà un rally nelle prossime sedute, è
probabile che sarà accompagnato da prese di beneficio sul
comparto obbligazionario. Sul decennale, sia in Europa che negli
Usa, poteremmo assistere ad un calo dei corsi obbligazionari di
un 3-4% dai livelli correnti, e tale flusso in uscita potrebbe
alimentare il rimbalzo azionario.
A livello valutario, il dollaro dovrebbe rimanere in una
situazione di debolezza. Contro euro un segnale di rafforzamento
per il biglietto verde, per le settimane a venire, si avrebbe
solo su discese di euro/dollaro al di sotto di 1,2700 e quindi
sotto il forte supporto a 1,2330 (al momento siamo a ridosso di
1,3000).
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
stabilizzazione in essere da fine dicembre – che interrompe una
forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua
anche per le prossime settimane. Sono possibili apprezzamenti
sia del petrolio che delle altre materie prime, ed un rimbalzo
dell’azionario ne farebbe aumentare la probabilità.
Il semaforo verde alla partenza dell’azionario verrebbe dal
superamento dei massimi toccati a ridosso del 6 gennaio (SP500
sopra 935/45; Nasdaq Composite sopra 1650; Dow Jones Industrial
sopra 9000/100; Eurostoxx50 sopra 2625; SPMib sopra 21000),
oltre che da un calo della volatilità implicita. Una discesa del
Vix al di sotto di 41 (e quindi un assestamento sotto 35-37)
fornirebbe un buon segnale, che sarebbe confermato da una
stabilizzazione del Vix al di sotto del Vxn. Ciò segnalerebbe il
venir meno delle tensioni sul comparto finanziario. L’aspetto
cruciale rimane infatti il ristabilimento del circuito del
credito: un ritorno a regime dell’attività del settore bancario,
ed un recupero delle corrispondenti quotazioni in borsa – ad
oggi il settore bancario Usa è sotto di circa l’80% dai massimi
della primavera 2007 –, sarebbe il segnale più importante per
ipotizzare che il rimbalzo è alle porte.
Fonte
- Gruppo
Banca Sella
Speculatori al muro
anche in Inghilterra?
Monday, 9 February, 2009 at 17:28
-
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Vi sembra intelligente una proposta per cui la vostra
assicuraizone potrebbe vendervi una polizza contro incendio e
furto solo dopo aver dimostrato di avere già acquistato un’altra
automobile identica alla vostra? E’ la nuova idea di Gordon
Brown e di alcuni congressman americani.
Il nuovo piano del governo laburista inglese per fermare la
discesa dei corsi di Borsa è semplice: obbligare chiunque decida
di andare corto su un titolo a dichiararlo preventivamente. A
quando la fucilazione per gli speculatori?
Il piano è soltanto marginalmente meno demenziale a quello
previsto per i CDS da una proposta di legge presentata al
Congresso USA, secondo la quale non si potrebbe comprare
protezione tramite CDS se non in possesso di attività rischiose
dello stesso emittente su cui si compra protezione. entrambi i
progetti si limitano a nascondere la realtà sotto una coltre
fumogena.
Uno della miriade di problemi tecnici è infatti simile per i due
mercati. Buona parte dei volumi scambiati quotidianamente è
infatti sugli indici di settore. La procedura per mantener il
valore dell’indice pari alla somma delle proprie componenti è un
tipo di arbitraggio relativamente semplice: si compra un paniere
identico all’indice e si vende l’indice, nel caso quest’ultimo
dia più costoso della somma delle parti; si vendono allo
scoperto azioni (o CDS, o bond) . Il meccanismo è benefico
all’intero mercato, perché garantisce che ogni notizia sui
singoli titoli si rifletta sull’indice e viceversa che si
possano eseguire operazioni per esprimere una opinione sul
mercato in generale senza essere costretti a comprare
individualmente ogni azione. Come faranno i market maker, che
quotano gli indici, a gestire la propria esposizione su tale
prodotto, se viene loro vietato ? Come farebbero anche i fondi
comuni ed i fondi pensione, nel caso volessero tutelare gli
investimenti dei risparmiatori comprando protezione su uno
strumento che non li convince più?
Il problema è di natura ancora più generale: si sostiene che gli
speculatori sarebebro geni della finanza, animati da intenti
egoistici e malvagi e dedicati a speculare sul fallimento di
aziende in crisi per poi , presumibilmente, riacquistarle una
volta sull’orlo del fallimento o peggio. Dico presumibilmente,
perché mancano disamine del comportamento dotate di una qualche
sistematicità.
Questo punto di vista tuttavia si basa conteporaneamente su due
tesi incoerenti fra loro: se gli speculatori sono geni del male,
perché dovrebbero andare corti di aziende fondamentalmente sane,
invece di concentrarsi sulla demolizione sistematica di quelle
che effettivamente in crisi per motivi fondamentali? In questo
caso, starebbero facendo opera meritoria, costringendo le
aziende meno efficienti a ristrutturarsi o lasciando più spazio
a quelle sane per competere. Fra l’altro, sì, non generare cassa
è una grave pecca, non importa quanti dipendenti si assumano,
quanti utili puramente contabili si facciano o quanto glamour
sia l’attività in cui si è impegnati.
Nel caso invece non fossero così intelligenti, ma andassero
controvento, perché dovremmo preoccuparci? Il tempo e
investitori più intelligenti di loro ne farebbero giustizia
molto rapidamente.
La realtà è che alcuni regolatori e qualche legislatore sono in
preda al panico e vogliono mettere la testa nella sabbia.
Accusare gli speculatori assolve due obbiettivi fondamentali: si
trova un utile capro espiatorio per la folla assetata di
vendetta, eliminando proprio coloro che hanno la sgradevole
abitudine di affermare che il re è nudo. I nostri politici se ne
accorgeranno solo quando il Re sarà fallito.
Uno sguardo al futuro del
bailout: il caso di Shinsei Bank
Tuesday, 10 February, 2009 at 12:34
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Nel dibattito sui piani di salvataggio e di stimolo
all’economia, la parte del leone è normalmente riservata ai casi
di successo, o addirittura ad un singolo caso, quello della
Svezia nei primi anni 1990.
Eppure, la crisi svedese non costituisce un paragone calzante
con quella attuale; meglio sarebbe osservare altre nazioni, come
ad esempio il Giappone. E quello che osserivamo non è per nulla
tranquillizzante.
Le caratteristiche della crisi di Tokio a partire dal 1990 sono
molto differenti dalla situazione che viviamo oggi, ma alcune
caratteristiche sono più vicine di quella svedese, inclusi
alcuni dei provvedimenti presi per risolverla: un piano di
investimenti pubblici faraonico, ogni sorta di misure per
aiutare il settore bancario a sopportare la crisi nata dalla
bolla immobiliare, l’obbligo per il settore bancario ad
aumentare i suoi prestiti alle imprese in cambio del salvataggio
dalla bancarotta, una banca centrale disposta a portare i tassi
di interesse a zero e a finanziare l’acquisto a debito di
qualsiasi attività finanziaria, sino all’estremo di acquistare
direttamente azioni sul mercato pur di sostenere i corsi.
Nulla è servito a ridurre l’entità apocalittica della crisi, che
ha devastato il bilancio pubblico e lasciato il settore privato
ancora debole e perseguitato da perdite nascoste che nessuno ha
avuto il coraggio di ammettere.
Dopo quasi vent’anni di tentativi falliti, ci si dovrebbe
chiedere se la liquidazione, seppure dolorosa, e la conseguente
ristrutturazione forzata delle banche e delle aziende insolventi
non sarebbe stato meglio della legione di zombie che affligge il
Giappone, risucchiando risorse prelevate dalle tasche dei
contribuenti e fornendo una concorrenza sussidiata e sleale alle
aziende sane, limitandone le possibilità di crescita e di
creazione di posti di lavoro.
Ad esempio, Il Wall Street Journal ci ricorda il caso di Shinsei
Bank, nazionalizzata nel 2000. Il governo ha seguito il corso
considerato più razionale: nazionalizzazione, ristrutturazione,
iniezione di capitali ulteriori, ritiro di un grosso portafoglio
di mutui ed altre attività di dubbia esigibilità ad un prezzo
superiore al mercato e, successivamente, la rivendita della
maggioranza ad un consorzio di investitori esteri. Eppure la
banca è ancora sull’orlo della crisi, nonostante la profonda
ristrutturazione operata dai fondi che ne sono proprietari.
E’ vero che il Governo è riuscito a recuperare almeno una parte
del suo investimento ed i prestiti di emergenza alle altre
maxibanche giapponesi, ma è avvenuto a prezzo di un
consolidamento che ha creato un oligopolio di fatto (di cui la
stessa Shinsei, di dimensioni medie, soffre) , dove le tre
banche maggiori sono ormai troppo grandi per non essere salvate
dal governo in caso di crisi (un altro parallelo con gli USA).
Adesso il Giappone si trova con tassi a zero, una recessione,
una deflazione ed un bilancio pubblico devastato dal debito
incorso per finanziare salvataggi ed in vestimenti, andati in
gran parte sprecati. Non erano meglio qualche amministrazione
controllata qualche fallimento ed una serie di ristrutturazioni?
Soprattutto, chi ci garantisce che non arriveremo anche noi allo
stesso punto, magari con la maledizione di una inflazione
galoppante?
Fonte
-
Macromonitor
|
Latam,
il Brasile preoccupa
12/02/2009 11.43 - di Marco Caprotti
________________________________________
Chi investe in America latina guarda il Brasile e incrocia le dita.
La maggiore economia dell’area, spiegano infatti gli analisti,
assomiglia sempre di più a un campione in disarmo e rischia di
frenare l’indice Msci della regione che, anche se nell’ultimo mese
(fino al 12 febbraio e calcolato in euro) ha guadagnato il 2,3% ha
sulle spalle il -50,3% perso nel corso del 2008.
Fra settembre e novembre dell’anno scorso il Paese ha investito più
di 46 miliardi di dollari per dare una mano all’economia a cui si
sono aggiunti, a gennaio, altri 42 miliardi pompati nella sua banca
di sviluppo. Nei giorni scorsi il governo ha annunciato di aver
aumentato l’investimento nel suo programma accelerato di crescita
(principalmente legato alle infrastrutture), portandoli dagli
iniziali 62 miliardi a 280 miliardi nei prossimi due anni. “Gli
sforzi per portare liquidità sul mercato e contrastare la fuga degli
investitori internazionali, può aver attenuato la crisi”, spiega una
nota di Morningstar. “Ma il Brasile sta ancora soffrendo. E rischia
di frenare l’intera regione di cui rappresenta il motore”.
A dicembre la produzione industriale è calata del 12,4% rispetto al
mese precedente: il livello peggiore degli ultimi 17 anni. A
peggiorare le cose ci si è messa la bilancia commerciale che, a
gennaio di quest’anno, ha chiuso con un deficit di 518 milioni di
euro (dato peggiore da marzo 2001). In questa situazione era
inevitabile una riduzione delle stime di crescita del Pil 2009 da
parte della Banca centrale. Se prima si parlava di +2%, ora si
preferisce un più cauto +1,8%. Il presidente Ignacio Lula è stato
chiaro: “Attraverseremo un primo trimestre preoccupante”.
Un concetto riaffermato anche dal ministro dell’economia Guido
Mantega che, tuttavia, ha escluso (almeno per ora) una recessione.
“Sul Brasile sta pesando una drastica riduzione dei crediti da parte
delle banche iniziata nell’ultimo trimestre dell’anno scorso”,
continua la nota. “Il risultato è che le famiglie hanno ridotto i
consumi”. A farne le spese in borsa sono stati soprattutto i
produttori di beni durevoli. La piazza brasiliana non ha potuto
contare nemmeno sulle aziende delle commodity (storico traino),
piegate dal calo dei prezzi delle materie prime.
Ma se il Brasile piange, le altre grandi economie della regione non
ridono. In Venezuela il ministro per la pianificazione e lo sviluppo
economico Haiman El Troudi ha già anticipato che il governo sarà
costretto a rivedere al ribasso le previsioni sull’andamento del Pil
di quest’anno. Le stime più ottimistiche, fino ad ora, parlano di un
+1%. Colpa, anche in questo caso, dell’andamento delle materie
prime. In particolare del petrolio, sulla cui esportazione si basa
l’economia del Paese.
Situazione difficile in Cile in cui la congiuntura, nell’ultimo
trimestre dell’anno scorso ha segnato +1,1% contro il +4,8%
registrato nei tre mesi precedenti. Anche in questo caso gli esperti
locali di politica economica hanno dovuto rivedere le stime sul
2009: da +4,2% a +1,2% mentre si comincia a parlare apertamente di
recessione.
 |
Fonte
- MorningStar
|
|
Martedì
17
Febbraio
2009 |
|
Mercoledì
18
Febbraio
2009 |
|
Venerdì
20
Febbraio
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
I
gestori provano a essere meno
pessimisti
13/02/2009 09.34 - di Sara Silano
________________________________________
Nelle risposte dei gestori all’ultimo sondaggio Morningstar si legge
tra le righe un minor pessimismo, ma non è ancora il momento di
essere ottimisti sulle principali Borse mondiali. Dall’indagine,
condotta tra 22 delle principali case di investimento che operano in
Italia, emerge che Wall Street potrebbe essere il primo mercato a
stabilizzarsi, seguito dall’Europa, mentre il Giappone è ancora
dominato da forze contrapposte. Nel complesso, sui mercati
finanziari stanno leggermente migliorando le condizioni monetarie e
del credito.
Europa, recessione severa ma non depressione
Le Borse del Vecchio continente scontano una recessione severa, che
non si è ancora manifestata interamente. E’ probabile, dunque, che
il flusso di notizie macroeconomiche negative continui nei prossimi
mesi. L’Europa, però, non cadrà in depressione, grazie agli
interventi straordinari di politica fiscale e monetaria. A questo si
aggiunge la revisione al ribasso degli utili, che è destinata a
proseguire, considerata la situazione congiunturale. I mercati,
dunque, potrebbero toccare nuovi minimi nella prima parte dell’anno,
seguiti da brevi rimbalzi. Per una ripresa più duratura bisognerà
aspettare la fine del 2009. Quasi il 60% dei gestori prevede che i
listini non si discosteranno significativamente dagli attuali
livelli nei prossimi sei mesi, mentre il 13,6% considera possibile
un’ulteriore discesa (a gennaio era quasi del 28%).
Usa, il rally può attendere
La situazione americana non è molto differente da quella europea sia
dal punto di vista congiunturale sia dei mercati finanziari.
Tuttavia, molti gestori sono convinti che Wall Street offra le
migliori opportunità, considerato che è in una fase più avanzata
della crisi economica e ha carattere più difensivo. Un nodo delicato
è rappresentato dal piano di stimoli governativi messo a punto dalla
nuova amministrazione, perché è ancora troppo presto per poter dire
se sarà sufficiente per aiutare l’America ad uscire dalla
recessione. In questo contesto, il 63,6% dei gestori prevede che la
Borsa statunitense oscillerà, anche violentemente, intorno agli
attuali livelli nei prossimi sei mesi. Meno del 10% si attende cali
significativi (a gennaio, la percentuale era quasi doppia).
Il Giappone continuerà a deludere?
Tokyo è la Borsa che raccoglie il maggior numero di pessimisti
(quasi un terzo dei gestori). L’economia nipponica è molto legata
alle esportazioni e quindi risente di più della recessione globale.
In particolare, c’è molta incertezza su quale sarà l’impatto del
rallentamento della Cina e del sud-est asiatico. Gli analisti si
attendono una discesa degli utili per l’anno fiscale 2008-09 (che si
conclude a marzo) e secondo alcuni le previsioni di una ripresa nei
dodici mesi successivi sono troppo ottimiste.
Ancora politiche espansive
Il presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, ha
lasciato intendere la possibilità di un taglio dei tassi a marzo,
dopo quello deciso a gennaio, che ha portato i saggi di riferimento
al 2%. I gestori sono convinti che la politica espansiva continuerà.
Per questa ragione, circa il 40% degli intervistati stima rendimenti
in discesa e prezzi in salita. Le quotazioni saranno sostenute anche
da un’ulteriore migrazione verso la qualità da parte degli
investitori, almeno fino a quando non tornerà l’appetito per il
rischio. I fund manager invitano alla prudenza sul mercato
obbligazionario americano. I rendimenti governativi, infatti, sono
ai minimi storici e non sono possibili ulteriori tagli da parte
della Federal Reserve. La banca centrale statunitense, tuttavia,
manterrà i tassi bassi ancora a lungo.
Il cambio divide i gestori
La percentuale di gestori che prevedono un rialzo dell’euro (36%)
equivale a quella dei fund manager che si attendono un ulteriore
rafforzamento del dollaro. Il cosiddetto “fly to quality” e la
probabilità che gli Stati Uniti ripartano prima favoriscono il
biglietto verde, mentre le politiche monetarie e fiscali espansive
possono indebolirlo.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 5 e l’11 febbraio,
22 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti
sul territorio, che contano per circa il 85% degli asset gestiti in
Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Axa Im, Banca
Ifigest, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr,
Eurizon Capital, Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Henderson
Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Maxos sim,
Mc Gestioni, Mps Am, Pioneer Im, Sella Gestioni, Sgam, Standard
Chartered Bank, Vontobel.
 |
Fonte
- MorningStar
|
Quando si parla
di commodities, La Cina è vicina
Monday, 16 February,
2009 at 9:39
-
di Macromonitor ______________________________________________
Le aziende di Stato cinesi sembrano disinteressate al calo
mondiale della domanda di metalli e stanno approfittando del
crollo delle quotazioni dei propri fornitori per acquistarne
quote strategiche. Lungimiranza o pessimo tempismo?
E’ di oggi la notizia che la cinese Minmetals ha presentato
un’offerta per acquistare la totalità di Oz Minerals, il secondo
produttore mondiale di zinco nel mondo. L’azienda di Melbourne è
la più piccola delle tre grandi conglomerati minerari
australiani e la più debole finanziariamente, a causa di una
politica di espansione aggressiva di sfida ai due colossi
globali BHP Billiton e Rio Tinto: la bolla degli anni scorsi le
ha permesso negli anni scorsi di investire pesantemente
finanziandosi tramite debito a costi contenuti, ma la crisi del
credito ha gettato in crisi questa strategia e la società aveva
ammesso nelle scorse settimane di avere seri problemi di
rifinanziamento che ne ponevano a rischio la stessa
sopravvivenza. Il consiglio di amministrazione di Oz Minerals ha
appoggiato all’unanimità l’offerta di Minmetals, anche se
soprattutto a causa della “assenza di un’offerta alternativa”.
Quella su Oz Minerals è la seconda grande operazione cinese nel
comparto minerario australiano: la scorsa settimana Chinalco,
azienda statale attiva nel settore dell’alluminio, ha iniettato
19.5 miliardi di dollari in Rio Tinto, in cambio di bond
convertibili in grado di portarla sino al 18% del capitale e di
una quota diretta del 50% in alcune delle maggiori miniere di
bauxite di proprietà del colosso minerario, che sta cercando di
ridurre il peso dei propri 39 miliardi di dollari di passività.
Il deal è però incerto, a causa delle obiezioni dei grandi
azionisti di Rio Tinto che lo ritengono eccessivamente oneroso e
più favorevole alle strategie del management che agli interessi
degli azionisti.
La strategia delle aziende di Stato cinesi sembra relativamente
semplice: la fenomenale crescita dei consumi di materie prime in
Cina ha giocato una parte importantissima nel boom delle
commodities degli ultimi anni, un boom che tuttavia ha
beneficiato soprattutto le aziende dei paesi produttori mentre
ha creato notevoli problemi ai monopolisti statali delle
forniture all’industria cinese, costringendoli a pagare prezzi
elevati per minerali le cui fonti di approvvigionamento vengono
viste dal governo di Pechino come “poco sicure”, perché da
reperire sul mercato aperto.
La crisi del credito e la recessione che hanno portato ad un
crollo dei prezzi dei minerali sono viste dalle entità statali
cinesi come una occasione per assicurarsi il controllo di
risorse strategiche in modo da evitare il rischio di nuovi colli
di bottiglia alla produzione e di coprirsi dai rischi del futuro.
Aziende d’azzardo
Tuesday, 17 February, 2009 at
14:15
-
by phastidio ______________________________________________
Pare che un altro degli effetti
collaterali dell’eccesso di liquidità e credito in cui il mondo
si è cullato negli ultimi anni sia l’aumentata propensione delle
imprese non finanziarie a giocare con la finanza. Mentre in
Polonia un numero crescente di aziende si dirige inesorabilmente
verso il dissesto per aver speculato sul rialzo dello zloty
contro euro (le cose sono andate piuttosto diversamente, come
sappiamo), è di oggi la notizia che, dietro al già di per sé
sospetto incremento del credito in Cina vi sarebbe
l’investimento azionario.
Secondo un analista di Shanghai, fino a 660 miliardi di yuan
(pari a 97 miliardi di dollari) di credito bancario avrebbero
preso la via della borsa. A gennaio le banche cinesi hanno
prestato un importo record di 1.620 miliardi di yuan, mentre M2,
la più ampia misura dell’offerta di moneta, è cresciuta del 18,8
per cento sull’anno precedente. L’indice Composite della borsa
di Shanghai è cresciuto da inizio anno del 29 per cento, a
fronte di un calo del 10 per cento dell’indice Morgan Stanley
World. Secondo l’analista cinese, le compagnie sarebbero
riluttanti ad aumentare la produzione a causa del rallentamento
della domanda ed alcune potrebbero aver dirottato fondi sul
mercato azionario, per ottenere ritorni più elevati
sull’investimento.
Per questo motivo la banca centrale cinese sta chiedendo ai
prestatori di identificare i destinatari dei crediti erogati il
mese scorso per accertare che i fondi vadano effettivamente a
sostenere la crescita economica, ma per le banche potrebbe
risultare impossibile identificare la destinazione ultima del
credito. Nel frattempo, la settimana scorsa il volume di
transazioni azionarie sulle borse di Shanghai e Shenzen ha
toccato il nuovo massimo da tre anni. In sostanza, il rimbalzo
delle quotazioni azionarie potrebbe essere guidato non dai
fondamentali bensì dall’ampia fornitura di liquidità e dal
credito facile. A indiretta conferma di ciò si cita l’andamento
depresso della borsa di Hong Kong che, a differenza di quelle
della Mainland China, non ha restrizioni all’investimento degli
stranieri, e che da inizio anno perde circa l’8 per cento.
Se il sospetto di un boom azionario fittizio (perché indotto da
liquidità) venisse confermato, il risultato finale sarebbero
dissesti di aziende che hanno giocato troppo con la finanza, ed
un aumento di bad loans per il sistema bancario cinese. Anche in
tempi di profonda crisi come l’attuale, l’eccesso di liquidità
sembra destinato a fare altre vittime.
Fonte
-
Macromonitor
|
Crolla a candela
il mercato dell'arte
16 Febbraio 2009 21:08 MILANO - di Paolo Manazza
________________________________________
Il verdetto delle aste londinesi di febbraio è senza scampo.
Tra Christie's e Sotheby's le vendite d'arte impressionista, moderna
e contemporanea conclusesi la scorsa settimana hanno raccolto 166,3
milioni di sterline. Il 65% in meno rispetto ai 470 milioni di pound
incassati con le analoghe aste nel 2008.
Christie's è riuscita meglio nella politica di contenimento della
crisi. Ha venduto per 94,3 milioni di sterline rispetto ai 205,2 del
2008. Mentre Sotheby's è crollata dai 264,3 dell'anno scorso ai 72
milioni di oggi. Ma questa volta le cifre non bastano a dire per
intero la verità su ciò che sta accadendo. Le Evening Sale di
quest'anno sia di Impressionist & Modern che di Contemporary Art,
presentavano cataloghi striminziti. Con valutazioni molto al di
sotto delle stime correnti sino a giugno 2008. Anche se avessero
aggiudicato tutto al triplo delle valutazioni, non avrebbero
sfiorato la metà degli incassi precedenti.
Per questo è necessario vedere oltre i numeri. La prima
constatazione è che il crollo è stato maggiore nel segmento delle
Evening Sale, le sessioni d'asta frequentate per antonomasia dai
super-ricchi. Qui, la caduta è stata del 66,5%. Mentre nelle Day
sale il decremento degli incassi si è fermato al -50%. Considerando
che nelle Day il totale dei lotti presentati era più simile a quello
dei cataloghi 2008, rispetto alla Evening, ne consegue che il
segmento medio del mercato sembra giocare un ruolo propulsivo
rispetto alla crisi in atto.
Detto questo siamo andati a spulciare tra gli autori italiani
presenti nei vari cataloghi, per cercare di comprendere meglio le
tendenze in corso.
Da Sotheby's, tra i moderni, una «Cariatide» del 1913 di Amedeo
Modigliani (stimata 6-8 milioni di pound) è andata invenduta. Mentre
nel catalogo Christie's «Les deux filles» dello stesso autore
(stimato 3,5-5,5 milioni) è stato aggiudicato per 6.537.250
sterline.
Interessante, da Christie's, la comparazione tra i tre de Chirico
presenti. Il primo, un capolavoro del '29 («Le cheval d'Agamémnon»)
stimato 350-450 mila pound è andato invenduto. Mentre nella Day Sale
una «Natura morta» del '34 stimata 20-30 mila pound è arrivata a
46.850 e un «Cavallo con scudiere» degli anni 60, stimato 60-80 mila
è andato venduto per 73.250 sterline diritti compresi. Ciò significa
che il mercato è composto da acquirenti perfettamente in grado di
comprendere autonomamente il prezzo reale di ogni opera. Se le stime
sono eccessive il quadro va invenduto. Se sono realistiche si vende,
ma aggiustando nel prezzo finale la realtà dei valori correnti.
Nessuno si fa più prendere per il naso.
Nelle aste di contemporanea, da Sotheby's, un Giovanni Anselmo,
stimato 40-60 mila è andato a 70.850 pound. Agostino Bonalumi,
esponente storico dell'arte astratta attraverso la tecnica
dell'estroflessione delle tele, era presente con un'opera del 1965
stimata 25-35 mila ma battuta a 43.250 pound. Bene Fontana che ha
tenuto, al ribasso. Così come gli informali Afro e Burri. Invenduto
Vezzoli.
Ma ora che accadrà nelle vendite in arrivo in Italia? Lo abbiamo
chiesto ad Alessandro Rosa che sta lavorando sull'asta Finarte a
Milano del prossimo 17 marzo. «Un riequilibrio dei prezzi e un
mercato più sano e meno speculativo saranno le parole d'ordine dei
prossimi mesi — ci ha detto —. Da Londra arrivano conferme sulla
tenuta generale, pur in presenza di un'offerta selettiva e con
valutazioni appetibili. In Italia questo andamento non è stato
ancora metabolizzato del tutto. E questo finirà per limitare le
transazioni anche se la domanda resta forte». Insomma, il mercato
c'è. A patto che si smetta di sognare i prezzi degli anni scorsi.
 |
Fonte
- Corriere della Sera
|
Strategie
su come limitare il pessimismo
19 Febbraio 2009 12:59 MILANO - di *Alessandro Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
________________________________________
L’anno più buio della Grande Depressione fu il 1932. In quell’anno i
cinque film più visti in America furono Shanghai Express (esotismo
decadente, atmosfere trasognate e Marlene Dietrich protagonista),
The Kid from Spain (un ladro americano in fuga in Spagna si finge
torero per ingannare il poliziotto che lo insegue), Grand Hotel
(Greta Garbo in un Art Déco movie, quelli che in Italia vennero
chiamati i Telefoni Bianchi), Emma (un melodramma d’amore
strappalacrime) e Tarzan the Ape Man.
Disoccupati, sfrattati e impoveriti non andavano al cinema per
vedere film su sfrattati, disoccupati e impoveriti, ma per distrarsi
o per avere stimoli positivi. John Ford porta Steinbeck sullo
schermo con Furore, ma siamo ormai nel 1940 e gli anni terribili
della grande siccità sono già storia. In questo spirito, ben
consapevoli dei problemi terribili del mondo, proviamo per cinque
minuti a elencare qualcosa di positivo, senza la minima pretesa di
trarre conclusioni consolatorie. D’altra parte anche i fatti
positivi sono fatti.
Siamo i primi a non scaldarci per la ripresa di domanda di materie
prime e per il rimbalzo del Baltic Dry Index. Sono solo riordini di
scorte esaurite dopo due mesi in cui non si era ordinato nulla. Ci
piace di più il fatto che da settembre le vendite di auto in America
siano stabili, sia pure a un livello straordinariamente basso. Per
inciso, se l’industria automobilistica, sia pure con qualche aiuto
pubblico (niente in confronto alle banche), riesce a sopravvivere a
questa crisi, si può pensare che i suoi margini, quando un giorno la
crisi finirà, saranno ben più alti di quelli degli ultimi anni. La
produttività, del resto, sta continuando a crescere, mostrando un
andamento molto migliore rispetto a quello delle recessioni degli
ultimi decenni.
Tornando alle auto, il sito Calculated Risk ha calcolato
che,dovessero le vendite di auto rimanere a questi livelli a tempo
indefinito, la vita media del parco auto in America arriverebbe
presto a 24 anni. Sarebbe bello per quei turisti in cerca di
atmosfere rétro che vanno a Cuba a vedere le vecchie macchine
americane degli anni Cinquanta amorevolmente mantenute in vita. Paul
Krugman nel suo blog nota che le riprese arrivano comunque, se non
altro per il fatto che le auto, i macchinari, i computer prima o poi
si rompono e, se si vuole restare in produzione, bisogna riprendere
a comprarne. Questa ripresa naturale, però, ci mise cinq ue anni ad
arrivare tanto nel 1873 quanto nel 1929.
I concessionari di auto in America (ma il fenomeno c’è anche in
Europa) notano che l’afflusso di clienti è in ripresa. Se non
aumentano le vendite è perché la possibiltà di acquistare a rate
praticamente non c’è più. A questo dovrebbe però porre rimedio la
Talf, che Bernanke ha oggi confermato che partirà a giorni. C’è un
trilione di dollari pronto ad acquistare, tra l’altro, crediti al
consumo.
La Talf, del resto, fa parte di una serie ormai notevole di misure
che i mercati ritengono insufficienti, ma che sono comunque pronte
ad entrare in azione. I due trilioni e rotti del piano Geithner, gli
800 miliardi di stimolo fiscale, i 275 del piano casa vengono
valutati zero dai mercati, ma zero non sono. Il fatto poi che si
stia parlando sempre più frequentemente di Tarp 2 e di un nuovo
piano fiscale per il 2010 significa che le armi per combattere la
crisi non sono esaurite.
L’obiezione è, a questo punto, sulla possibilità di tenuta dei conti
pubblici se davvero tutti questi incentivi dovessero
materializzarsi. La paura sulla solvibilità degli emittenti anche
eccellenti è arrivata al punto che c’è chi, per assicurare 10
milioni di Bund a 5 anni, è disposto a spendere in Cds 90mila euro
all’anno Che fa, in 5 anni, 450mila euro buttati via se la Germania,
per caso, dovesse poi rimborsare, come di solito fa.
Chi ha di queste paure potrebbe probabilmente investire meglio i
suoi 450mila euro comprando oro, che fra 5 anni varrà in ogni caso
più di zero. L’oro in questa fase non è comprato solo da investitori
individuali, ma anche da banche centrali come quella russa. Nei
prossimi due anni, comunque vadano le cose, ci sarà una parte del
mercato che diffiderà della carta anche governativa. Poiché l’oro è
sottopesato o totalmente assente nella stragrande maggioranza dei
portafogli (inclusi quelli delle banche centrali) le prospettive
dovrebbero essere positive.
Detto questo, continua a essere difficile pensare all’inflazione
come a un problema per i prossimi due-tre anni. Sono interessanti,
su questo, le previsioni del Fomc rilasciate oggi. Studi accademici
(tra cui uno di Christina Romer che risale molto indietro nel tempo)
mostrano che i membri del Fomc non sono mai stati molto bravi nel
fare previsioni (sono meglio i PhD dello staff).
I loro numeri, a nostro avviso, indicano più che altro le loro paure
e le loro speranze. Leggere quindi che la previsione dell’inflazione
Core PCE per il 2011 è 0.0 - 1.8 per cento indica che i due falchi
del Fomc, quelli che nei due anni passati ci hanno torturato sui
pericoli d’inflazione e ora ci torturano sui pericoli della
monetizzazione del debito, pensano che fra due anni saremo all’1.8.
In pratica non hanno timori veri, fanno finta di averli.
Il tema della tenuta dei conti pubblici è stato al centro delle
inquietudini dei mercati europei negli ultimi giorni, in particolare
in relazione all’Irlanda (che avrà un disavanzo 2009 dell’11 per
cento) e all’Europa orientale. I problemi dell’Europa orientale sono
sotto gli occhi di tutti. Imprese, banche e stati nazionali hanno
debiti in scadenza da rifinanziare in una fase in cui i mercati e le
banche dell’Europa occidentale tutto vorrebbero tranne che mettere
altri soldi a est.
La crisi è durissima, ma segnaliamo qualche elemento positivo.
1) Le economie di questi paesi, per quanto in alcuni casi
quadruplicate dalla caduta del comunismo, sono ancora relativamente
piccole. Il paese con il disavanzo delle partite correnti più alto è
la Bulgaria (12 per cento su Pil). La Nuova Zelanda ha un disavanzo
uguale e altrettanto strutturale, ma non ha problemi a finanziarlo,
la Bulgaria adesso ce li ha. Il Pil bulgaro è però di 30 miliardi di
euro, esattamente come quello della Saar, un ridente e microscopico
Land tedesco con un milione di abitanti. Salvare la Bulgaria, la
Romania (125 miliardi di Pil) o l’Ucraina (108 miliardi) non è
costosissimo. La Serbia costa poco anch’essa e poi sa come tirare la
cinghia dopo avere combattuto una guerra contro il mondo dieci anni
fa. La Polonia ha un disavanzo delle partite correnti del 4 per
cento, come l’America, e la forte svalutazione dello zloty le sta
ridando competitività. La Russia, dal canto suo, sta bruciando
riserve con velocità impressionante, ma ne ha ancora molte.
2) Il Fondo Monetario ha avuto finalmente i 100 miliardi promessi
dal Giappone. Adesso Strauss-Kahn ha a disposizione 500 miliardi da
prestare. E’ una somma importante se si pensa che finora i numerosi
interventi di questi mesi del Fondo sono costati solo 50 miliardi.
3) Il ministro delle finanze tedesco si è fatto coraggio e ha
affermato, per ben due volte in due giorni, che i salvataggi in
Europa, dovessero essere necessari, si faranno. Questa è
un’affermazione storica. E’ la prima volta, a quanto ci consta, che
la Germania supera il tabù (da lei stessa imposto) del divieto di
salvataggio intraeuropeo. Nella pratica l’aveva già fatto non
opponendosi ai pacchetti di aiuto dell’Unione a vari paesi
dell’Europa orientale, ma ora arriva anche la conferma dottrinale.
La nostra ipotesi è che la Germania, per tutti questi anni, non
abbia mai escluso, dentro di sé, l’ipotesi del salvataggio di un
paese in crisi e che l’abbia anzi considerata l’esito più naturale.
Il fatto che si sia sempre guardata bene dal dirlo (affermando
spesso anzi il contrario) è comprensibile. Tenere gli altri sulla
corda è stato un modo per ridurne la propensione all’azzardo morale
(cioè a spendere allegramente perché tanto alla fine arrivano i
tedeschi).
A questo punto però il governo tedesco considera giustamente che
costi meno concedere la garanzia (caso per caso, naturalmente, in
modo da tenersi qualche strumento di pressione) piuttosto che
affrontare la disgregazione di un unione politica e monetaria che
non porterebbe nulla di buono all’industria e alle banche tedesche.
Operativamente, i fatti positivi di cui si è parlato dovrebbero
servire più a limitare il pessimismo che a infiammare di ottimismo.
L’economia globale continua a contrarsi, la fragilità del sistema è
evidente e l’area degli asset tossici continua ad allargarsi.
L’azionario, in quanto indicatore sostanzialmente coincidente, non
sembra avere ancora la forza di risollevarsi. Il cash e una modica
quantità di governativi lunghi e di corporate bond di alta qualità
(con il massimo di diversificazione) rimangono la scelta migliore.
Con, se si vuole, una spruzzata di polvere d’oro.
 |
Fonte
- Il Rosso e il Nero
|
|
Lunedì 23
Febbraio 2009 |
|
Martedì 24
Febbraio 2009 |
|
Sabato 28
Febbraio 2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
MUTUI:
LA CRISI ORA COLPISCE ANCHE I RICCHI
20 Febbraio 2009 17:00 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
Gli insolventi tra i proprietari
di case di lusso crescono al ritmo piu' elevato da 15 anni. La
crisi, iniziata con i "subprime", ora travolge i clienti
"prime". I prestiti saranno sempre piu' difficili da ottenere e
risanare.
Continua la serie di "Anche i ricchi piangono": persino i
proprietari di case di lusso, infatti, stanno incontrando
difficolta' a rispettare i pagamenti dei propri mutui. Le
persone che accumulano debiti arretrati stanno aumentando al
ritmo piu' alto da 15 anni, segnale che la crisi finanziaria
Usa, partita con gli americani piu' poveri, ha raggiunto anche
la parte piu' benestante della popolazione.
L'anno scorso circa il 2.57% dei contraenti di prestiti di
lusso, cosiddetti jumbo, sono risultati in ritardo di almeno 60
giorni, una percentuale raggiunta in meno di 10 mesi, al ritmo
piu' spedito dal 1992, secondo i dati raccolti da LPS Applied
Analytics. Si tratta di un ritmo del doppio superiore al 2007 e
un livello che non veniva toccato da almeno tre anni.
Il balzo della percentuale di insolvenze nei prestiti jumbo,
sebbene si mantenga ben al di sotto dei livelli del 20% toccati
dai mutui subprime, e' un indice evidente di come anche i
mutuatari piu' ricchi stiano accusando l'impatto della
recessione, ormai entrata nel suo secondo anno di vita.
Significa anche che questi prestiti saranno sempre piu'
difficili da ottenere e di conseguenza piu' cari da risanare.
"L'influenza maggiore nella crescita del tasso di insolvenza la
esercita l'economia", osserva Keith Gumbinger, vice presidente
di HSH Associates, una societa' di ricera mutui di Pompton
Plains, nel New Jersey. "Sembra che nessuno sia escluso, siamo
tutti coinvolti in qualche modo. Certamente la situazione e'
piu' grave per alcuni, ma ormai e' piuttosto diffusa".
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto i massimi di 25 anni a
gennaio, mentre il tasso relativo all'industria finanziaria e'
cresciuto al 6% dal 3% antecedente. Nella categoria dei servizi
professionali e di business e' passato al 10.4% dal 6.4%,
secondo quanto mostrato dai dati dell'Ufficio di Statistica del
Lavoro di Washington.
Circa l'1.92% dei proprietari di case con un mutuo sottoscritto
nel 2008 con Fannie Mae e Freddie Mac e' indietro di 60 giorni
nei pagamenti dei prestiti jumbo, che sono molto piu' alti di
quanto non possano garantire le agenzie statali, sarebbe a dire
$417 mila nella maggior parte dei casi e fino a $729750 nelle
aere con i prezzi immobiliari piu' elevati. La media per i mutui
jumbo nel 2008 e' stata di 762, sempre secondo i dati LPS
Applied Analytics. Un punteggio di questo tipo serve per
misurare il rischio.
I prestiti Jumbo hanno subito un rallentamento nel quarto
trimestre a 11 miliardi, ovvero il 4% del mercato immobiliare,
il peggior risultato trimestrale da quando Inside Mortgage
Finance ha iniziato a raccogliere i dati nel 1990. Nel 2007 i
prestiti jumbo rappresentavano il 14% dei mutui Usa complessivi,
secondo la societa' con sede a Bethesda, nel Maryland.
Le cinque principali aziende che offrono prestiti jumbo ai
propri clienti, Chase Home Finance, Bank of America, Washington
Mutual, Wells Fargo e Citigroup, insieme hanno prodotto $55.3
miliardi in mutui di lusso nel 2008. Di quella cifra, mostrano i
dati di Inside Mortgage Finance, sono stati accordati prestiti
per appena $4.3 miliardi durante gli ultimi tre mesi dell'anno.
Le banche sono sempre piu' riluttanti a concedere prestiti jumbo
perche' vorrebbe dire mantenere riserve in denaro tali da essere
sempre in grado di ripagare le eventuali insolvenze, spiega Guy
Cecala, AD di Inside Mortgage Finance.
Questa settimana la media nazionale degl interessi per un mutuo
jumbo a 30 anni a tasso fisso era al 6.57%, paragonata al 5.34%
dei prestiti standard, secondo White Plains, societa' dati di
BanxQuote, con sede a New York.
La differenza tra i tassi di interesse dei prestiti jumbo e di
quelli "prime" standard, o di mutui che e' possibile anche
rivendere a Fannie Mae e Freddie Mac e disponibili solo per
clienti qualificati, ha toccato i 20 punti base "per diversi
decenni", secondo l'AD di BanxQuote, Norbert Mehl. Ma in agosto
2007, ha aggiunto Mehl, i livelli hanno toccato la soglia dei
200 punti base, per poi mantenersi tra i 100 e i 200 punti base.
Fonte
-
Bloomberg
|
Ecco
quanto ci vorrà per uscire dalla crisi
23 Febbraio 2009 14:40 MILANO - di
(G. MAR.)
________________________________________
«Mi aspetto anni di Quaresima, anche se non
mancheranno le possibilità per investire». Alessandro Valeri, alla
guida di Intermonte sim, ha appena vinto con la sua squadra di
analisti il premio Institutional Investor per l'Italia, assegnato
dalla pubblicazione inglese che compila una classifica dei migliori
uffici studi d'Europa sulla base di oltre 1.300 interviste.
Intermonte è controllata per l'80% da manager e dipendenti e per il
20% dal gruppo Montepaschi: lavora per gli investitori
istituzionali, ma è anche sul fronte retail con Websim.it, il sito
di consulenza online per privati.
A che punto è la crisi dei mercati? «Al momento non abbiamo nessun
segnale che l'implosione della bolla creditizia sia a un punto di
svolta. E finché le banche non ricominceranno a prestare denaro la
crisi peggiorerà, anziché migliorare».
Ha senso preoccuparsi già oggi per un possibile ritorno
dell'inflazione? I piani di stimolo hanno avuto pochissimi effetti
positivi finora. O no? «Non vedo una possibilità di ripresa
dell'inflazione a breve, non prima del 2011 o anche 2012. La crisi
giapponese ha insegnato che quando si sgonfia una bolla creditizia
di dimensioni colossali si sgonfia anche il valore di tutti gli
asset, dagli immobili alle materie prime, alle Borse».
Quindi ci sono più rischi deflazionistici per ora? «La tendenza è
nettamente deflazionistica: in questa situazione stampare moneta non
serve a convincere le banche a prestare soldi e questo vale finché
si continua a vedere un rischio molto alto che il denaro prestato
non venga restituito. Prima di vedere ripartire i prezzi ci
avvicineremo a un'inflazione pari a zero».
Le valutazioni dei titoli di Piazza Affari sono a sconto o a premio
rispetto a quelle dei listini europei e americani? «I paragoni sono
difficili. In linea di principio Milano è un po' a sconto, ma lo è
sempre stato, riflettendo il "rischio Italia". Non vedo nessun
indicatore che faccia ritenere che l'Italia possa fare meglio del
resto del mondo, anzi...».
Da dove partirà la ripresa? Da Wall Street? «Gli Stati Uniti sono
entrati per primi in recessione e saranno i primi a uscirne. Prima
risalirà la Borsa americana e prima potremo risalire anche noi,
probabilmente con sei mesi di ritardo».
Ci sono delle ragioni per cui Piazza Affari continuerà a fare peggio
delle altre Piazze europee? «Faccio alcune semplici considerazioni
purtroppo negative: l'Italia ha un debito pubblico molto più elevato
e soffre di una posizione peggiore sul costo del debito che si
riflette anche sulle aziende. L'alto debito pubblico rende molto
difficile utilizzare la leva fiscale, come stanno facendo altri
Paesi. A questo si aggiunge che il costo del lavoro per unità di
prodotto è peggiorato di oltre 30 punti percentuali rispetto alla
Germania dall'introduzione dell'euro e la minore flessibilità del
sistema non aiuta la posizione competitiva del Paese».
Quali sono le storie da seguire in questo momento? E quelle da
vendere? «Rimango ancora cauto sui finanziari. Sono positivo su
pochi titoli, soprattutto utilities come Terna, Acea, A2A e qualche
caso speciale. Come Parmalat che ha in bilancio liquidità per un
valore pari a metà della capitalizzazione».
Si sono sprecate molte parole apocalittiche su questa crisi, che
cosa servirebbe veramente per una svolta? «Non lo so. Una crisi cosi
non si è mai vista e direi una bugia se dicessi di sapere qual è la
soluzione. Purtroppo il mondo occidentale ha vissuto per 20-30 anni
al di sopra dei suoi mezzi: temo che la vera soluzione sia il
ritorno a standard meno opulenti, ovvero che sia necessaria una
riduzione del benessere creato artificialmente a debito. Insomma mi
aspetto anni di Quaresima».
Finanziaria ed economica? «Non mancheranno occasioni di investimento
interessanti sui mercati che sono scesi del 60-70%. La Borsa magari
recupera nel 2010, ma l'economia prima del 2011 non esce dalle
secche. Non mi fa piacere pensarla così, ma è quello che vedo nel
nostro futuro. Anche se la presenza di un leader credibile come
Barack Obama alla guida degli Stati Uniti mitiga un po' le ragioni
dei pessimisti».
 |
Fonte
-
Corriere della Sera
|
Credit
crunch:
livelli anomali, l'allarme di Greenspan
23 Febbraio 2009 22:30 NEW
YORK - di
Bloomberg
________________________________________
Il mercato del
credito e' congelato, come mostrano i livelli del Libor, secondo
Greenspan ancora ben lontani dalla normalita'. Inutili le mosse dei
governi, unica strada da seguire appare la nazionalizzazione.
Nonostante i $9.7
mila miliardi promessi da Washington per combattere la peggiore
crisi finanziaria dal Dopoguerra, i mercati monetari mostrano che le
principali banche del paese non rialzeranno la testa prima del 2010.
La settimana scorsa lo spread Libor-Ois si e' infatti portato sopra
l'1% per la prima volta dallo scorso 9 gennaio, a conferma delle
difficili condizioni del mercato del credito, che nemmeno gli sforzi
economici fatti sin qui dai governi e banche centrali sono riusciti
a sbloccare. I contratti scambiati sul mercato indicano che il
differenziale, che misura la riluttanza delle banche a concedersi
prestiti vicendevolmente, e' destinato a restare sopra i livelli
precedenti il fallimento di Lehman Brothers sino alla fine
dell'anno.
In un'intervista rilasciata
a Bloomberg, l'ex numero uno della Federal Reserve, Alan Greenspan,
sottolinea come tale indicatore possa essere considerato il
barometro della fiducia nelle banche e della paura di insolvenze
creditizie. "Tali timori si sono sostanzialmente placati da meta'
ottobre, ma il calo si e' comunque fermato su livelli ancora ben
lontati da quelli dei mercati in condizioni normali", ha aggiunto
Greenspan.
Dalle analisi del Senior Loan Office della stessa Federal Reserve
pubblicate il 2 febbraio scorso, segnala l'agenzia di stampa, emerge
chiaramente che negli ultimi tre mesi del 2008 il 65% delle banche
americane ha ristretto il credito, nonostante i massicci aiuti,
dell'ordine di 200 miliardi, giunti da Washington.
Secondo le stime degli
economisti interpellati dall'agenzia di stampa, la crescita
economica Usa ha probabilmente subito una contrazione del 5.4% nel
quarto trimestre, il peggior risultato dal 1983. Per Moody’s
Investors Service la percentuale di fallimenti societari potrebbe
salire al 16.4 entro novembre: si tratterebbe del livello piu' alto
dalla Grande Depressione, nonche' una cifra circa tre volte
superiore al tasso attuale.
Nei giorni scorsi il Senatore Christopher Dodd ha precisato che,
considerando i guai che continuano ad affliggere il sistema
finanziario nonostante siano stati spesi dal 2007 a oggi oltre 1.1
mila miliardi di dollari tra svalutazioni e perdite, potrebbe non
restare altra soluzione se non quella di procedere alla
nazionalizzazione temporanea dei maggiori istituti bancari.
"La soluzione non mi piace per niente, ma posso capire che e'
possibile che si verifichi un'eventualita' del genere", ha detto il
Senatore Democratico in un'intervista rilasciata a Bloomberg
Television lo scorso 20 febbraio.
Citigroup, che ha ricevuto $45 miliardi di aiuti governativi, e' in
trattative con i funzionari federali perche' il Tesoro incrementi la
quota di proprieta' nella banca, secondo quanto riferito da fonti
anonime al Wall Street Journal.
Una tensione di tali dimensioni si riflette chiaramente nello spread
Libor-OIS, che misura il gap tra il tasso interbancario sui depositi
a tre mesi offerto in dollari Usa a Londra e il tasso index swap sui
prestito overnight (Ois), ovvero una semplice speculazione sui tassi
monetari e contestualmente quello che i trader si aspettano sia la
media ponderata del tasso di riferimento della Fed per i prestiti
overnight tra le banche. Tale spread si e' attestato in media allo
0.11% tra dicembre 2001 e luglio 2007, prima di salire il mese
successivo allo 0.73%, in seguito allo scoppio della crisi subprime.
Dopo il fallimento di Lehman Brothers, l'indicatore e' schizzato al
3.64% da circa lo 0.87%, con i timori di nuovi colassi tra i giganti
del settore bancario che hanno reso gli istituti sempre piu'
riluttanti a concedere prestiti. Lo spread si e' poi mano a mano
ristretto sempre di piu', ma in giugno Greenspan, presidente della
Fed da agosto 1987 a gennaio 2006, ha avvertito che non considerera'
i mercati tornati alla normalita' finche' lo spread Libor-Ois non
sara' tornato allo 0.25%.
 |
Fonte
-
Bloomberg
|
VIOLATI I MINIMI,
ALERTDA PANIC-SELLING
23 Febbraio 2009 20:52 BIELLA
-
di *Maurizio Milano ______________________________________________
Ancora una settimana difficile
per le Borse. Il mercato azionario, sia negli Usa che in Europa,
prosegue in un movimento laterale da oltre 3 mesi, e nell’ultima
ottava si è portato al test della parte bassa di tale range.
La volatilità implicita rimane molto al di sotto dei picchi
registrati durante l’affondo ribassista di ottobre-novembre
2008, ma non è più ridiscesa sui livelli pre-crisi di fine
settembre, a conferma di una situazione ancora difficile.
Prosegue quindi la fase di incertezza, con gli indici sospesi
tra la voglia di mettere a segno per lo meno un rimbalzo tecnico
e le incognite sull’evoluzione della crisi finanziaria ed
economica che frenano sul nascere ogni velleità rialzista. Se
gli indici rompessero i minimi degli ultimi mesi si rischierebbe
una ripresa delle vendite, con una nuovo panic-selling, che
spingerebbe gli indici su livelli che non di vedevano da tre
lustri. Per ridurre la probabilità di questo scenario occorre
una pronta risalita degli indici dai livelli critici di supporto
in fase di test.
Sull’S&P500 le tensioni diminuirebbero al di sopra di 835 ma
solo il superamento di 875/95 fornirebbe un segnale di moderata
positività: gli acquisti per le prossime settimane
riprenderebbero poi in modo convinto solo su chiusure al di
sopra dei massimi del 6 gennaio a 935, al momento prematuro. La
perforazione dei minimi 2008 in area 740/50 porterebbe al test
del supporto psicologico a quota 700. Ancora più debole l’indice
Dow Jones Industrial, che rompe il minimo del 21 novembre 2008 a
7450 e si spinge verso 7250, molto vicino al minimo toccato
nell’ottobre 2002 a 7200. La rottura di tale livello
provocherebbe una nuova ondata di vendite, con obiettivo 7000 ed
estensioni verso 6550. Per avere un segnale di tenuta è
necessaria una veloce risalita sopra 8000, ma un segnale
positivo verrebbe solo dal superamento di 8300: gli acquisti
riprenderebbero poi con maggiore convinzione sopra 8600/800, per
un nuovo test di 9000/100, il cui superamento, prematuro, è
necessario per avere un segnale di rimbalzo di più ampio
respiro. Un po’ meno debole il Nasdaq Composite, che scende
comunque al di sotto di 1440, livello che sosteneva le
quotazioni da inizio dicembre. La perforazione di tale livello
(da confermare) provocherebbe una discesa verso il forte
supporto in area 1385-1400 e quindi a testare i minimi in area
1250/95. È necessaria una veloce risalita sopra 1535 per dare un
segnale di tenuta. Un segnale di rimbalzo si avrebbe solo sopra
1600, con conferma su chiusure sopra 1650, al momento prematuro.
Da un punto di vista settoriale prosegue la dinamica fortemente
ribassista del comparto finanziario, seguito dal settore auto e
dall’immobiliare, che rimangono i comparti più vulnerabili.
Difendono le posizioni i settori difensivi, come l’alimentare, o
anti-ciclici come le telecomunicazioni ed il settore salute,
tuttavia il quadro è sconfortante: negli ultimi 2 mesi tutti i
settori dell’SP500 sono in territorio negativo, ad eccezione del
comparto salute, con perdite pari addirittura al 62% per il
comparto bancario e pari al 43% per l’auto. Solo una ripresa di
questi due comparti darebbe al mercato la spinta per mettere a
segno un rimbalzo tecnico. Un segnale positivo verrebbe poi da
un calo della volatilità implicita, con discese del Vix
(volatilità SP500, ora sotto alla resistenza a 51-52) al di
sotto di 41. Un assestamento del Vix al di sotto del Vxn
(volatilità Nasdaq) è necessario per avere una segnale che
stanno diminuendo le tensioni sul settore finanziario. Fino ad
allora non ci sono le condizioni per un rimbalzo degno di nota,
neppure per un bear-market rally.
I listini europei denotano una debolezza ancora più marcata
delle borse Usa, con il DJEurostoxx50 che scende verso il
supporto psicologico a quota 2000 e registra quindi nuovi
minimi. Solo una pronta risalita ed un assestamento al di sopra
di 2200/50 darebbero un segnale di tenuta, altrimenti si rischia
una discesa verso 2000 e quindi a testare i minimi del 12 marzo
2003 a 1848. Per un segnale di moderata positività occorre il
superamento di 2360-2400, ma gli acquisti per le prossime
settimane tornerebbero in modo convinto solo sopra 2500-2625,
prematuro. In questo quadro desolante, il listino italiano
riesce a distinguersi in negativo. L’SPMib tocca un nuovo minimo
a ridosso di 15500: un segnale di assestamento si avrebbe sopra
17200 ma un rimbalzo scatterebbe solo col superamento di quota
19000, prematuro.
Sul fronte valutario, dovrebbe proseguire la stabilizzazione in
atto del cambio euro/dollaro, nell’intervallo 1,2500-1,3000,
mentre il dollaro potrebbe apprezzarsi contro yen se riuscirà a
superare la resistenza a 95 (in fase di test).
Sul comparto obbligazionario, dopo i forti rialzi delle ultime
settimane, sono possibili di prese di beneficio. Un segnale di
perdita di spinta si avrebbe su discese del Bund (prezzo
corrente a ridosso di 125) al di sotto di 123,75 e quindi sotto
121,55, con obiettivo 120 e quindi il forte supporto in area
116-118. Sul Treasury (decennale Usa, prezzo corrente a ridosso
di 122) le prese di beneficio scatterebbero con la rottura del
supporto a 121, con possibili discese verso 117.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
stabilizzazione in essere da fine dicembre – che interrompe una
forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua
anche per le prossime settimane. Apprezzamenti del petrolio e
delle altre materie prime scatterebbero solo nel caso parta un
rimbalzo dell’azionario. Il forte rialzo dell’oro, sostenuto dal
clima di generale incertezza, ha portato al test dei massimi del
marzo 2008 a ridosso dell’area 1000-1033: le tensioni
diminuirebbero sotto 900 ma un segnale distensivo affidabile si
avrebbe solo su discese al di sotto di 845, prematuro.
Fonte
-
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
MANHATTAN
VENDESI
26 Febbraio 2009 20:00 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Il mercato delle case di lusso e'
in ginocchio, stretta nella morsa del credit crunch e dei tagli
al personale di Wall Street. I prezzi potrebbero scendere ancora
del 30%, la Grande Mela rischia di diventare la peggiore aerea
d'America.
20 Pine Street. Non tanto tempo fa poteva apparire il simbolo
della rinascita della citta' di New York dopo l'11 settembre,
con il suo germogliare di appartamenti disegnati da Armani,
dotati di finestre gigantesche, vegetazione esotica e fontane.
Dove una volta si ergeva la sede centrale di Chase Manhattan,
ora c'e' una piscina e un bagno turco. Ma con tutto il dovuto
rispetto per le tante virtu' dell'area, 20 Pine ora non sembra
altro che una delle tante vittime del tracollo immobiliare di
New York.
Ultimamente sono circolate voci secondo cui la societa'
proprietaria dei 409 complessi dell'area, Boymelgreen Developers,
potrebbe vendere 80 appartamenti al prezzo stracciato di $652
per piede quadrato (poco meno di $200 per metro quadrato),
ovvero circa la meta' del prezzo attuale. Shvo, 36enne senza
nemmeno una piccola sbavatura nel portamento e abbigliamento,
riconosce l'esistenza di "20-25 offerte", alcune delle quali
arrivano sino a solo $600 per piede quadrato, ma le offerte non
sembrano interesserargli. "La societs' immobiliare" ha detto con
tono incurante, "non e' interessata". O per lo meno non ancora.
Prima e' stata la volta di Miami, Las Vegas e Phoenix. Ora e'
arrivato il turno di Manhattan, il cui mercato immobiliare di
lusso si sta deteriorando sempre piu'.
Con i continui tagli annunciati dalle societa' di Wall Street, i
prezzi per acquistare gli appartamenti, i loft e le
caratteristiche case di New York del valore superiore ai $5
milioni, stanno crollando e potrebbero scendere ancora di un
altro 30% prima di toccare finalmente il fondo. Questo potrebbe
trasformare la Grande Mela nel peggior mercato immobiliare degli
Stati Uniti.
Tre mesi fa Barron's aveva previsto il tracollo del mercato del
lusso della citta', ma non si aspettava che la situazione si
facesse cosi' preoccupante, con alcuni che indicano la
bancarotta di Lehman Brothers come il punto di svolta della
crisi. L'economia locale arranca, con l'industria che si prepara
ad altri 46 mila tagli di posti di lavoro entro l'estate del
2010. Gli investitori hanno smesso di comprare case, intenti a
leccarsi le ferite subite sul fronte dell'azionario. Non
sorprende dunque che anche i compratori piu' voraci, come i
manager di hedge-fund, abbiano completamente perso appetito.
Ma persino con cali di questa entita', il numero di immobili
rimasti invenduti si sta gonfiando. Streeteasy.com, sito
Internet che fornisce un elenco esaustivo delle operazioni e
delle indicazioni fornite da broker e acquirenti, mostra che tra
le offerte figurano 795 appartamenti di New York al prezzo di $5
milioni o piu', in netto rialzo dai 518 di un anno prima.
In dicembre, secondo Jonathan Miller, presidente di
Streeteasy.com, i prezzi sono scesi del 20% rispetto ad agosto,
non facendo altro che confermare l'idea che un calo anche nei
mesi successivi e' inevitabile. Non e' infatti poi cosi'
insolito, oggigiorno, sentire storie di potenziali acquirenti
che alzano bandiera bianca, rinunciando a pagamenti anche
solamente di $500 mila, preoccupati che il prezzo dell'immobile
possa scendere ancora.
Gli acquirenti preferiscono mantenere un approccio a dir poco
cauto. Il numero di nuovi contratti firmati per l'acquisto di
proprieta' di lusso e' calato del 40% nel quarto trimestre,
riferisce Sofia Kim, direttore delle ricerche di StreetEasy.
Allo stesso tempo, le proprieta' immobiliari in vendita sono
aumentate del 65%. "Siamo lontani anni luce dal pieno recupero",
ha sentenziato Kim.
I prezzi stanno ancora barcollando: la media dei prezzi degli
appartamenti di Manhattan, calcolando tutti i livelli, e' di
$1.6 milioni. La piu' cara, per quanto e' possibile sapere, e'
l'enorme palazzo al 25 di Columbus Circle, meglio noto come il
Time-Warner Building. L'edificio e' offerto a $65 milioni dal
broker Brown Harris Stevens. Ma queste cifre non tengono conto
dei privati: gli appartamenti della dirigente della Nu Skin
Enterprises, ad esempio, vuole vendere la sua proprieta' di
lusso per $80 milioni tramie la casa di aste Sotheby's, secondo
quanto riportato di recente dal New York Observer.
Ormai, spiega Dolly Lenz, broker e vice presidente di Prudential
Douglas Elliman, per essere vantaggioso il prezzo di una
proprieta' immobiliare deve essere del 25% piu' alto dell'ultimo
prezzo a cui e' stata venduta. La gente non ha piu' fretta di
comprare, quando invece una certa necessita' incombente e'
proprio quello di cui ha bisogno il mercato immobiliare come
stimolo".
In sintesi, il mercato e' quasi irriconoscibile rispetto ad un
anno fa. "Quando guardiamo a New York City vediamo un rapporto
tra prezzi e ricavi che storicamente e' stato quattro volte
superiore alla rendita, contro il dato di circa tre volte del
resto del paese", spiega Ivy Zelman, ex analista di Credit
Suisse e tra i primi a prevedere la crisi immobiliare su scala
nazionale.
Al livello di 7.7 di oggi, il tasso e' "signifiativamente piu'
alto del normale", perche' siamo solo all'inizio della discesa
dei prezzi. "Se si prende in considerazione la mediana, si
tratterebbe di una correzione del 46%", continua Zelman, che ora
gestisce una societa' in proprio. "Se dovessi scegliere il
mercato piu' a rischio negli Stati Uniti, che ha piu'
possibilita' di scendere in futuro, questo e' New York City. Ha
il maggior numero di tagli al personale tra i lavoratori con i
redditi piu' alti".
Il problema e' che nessuno sa per certo fino a che punnto i
prezzi scenderanno ancora. "E' come indovinare il cavallo
vincente", osserva Jonathan Miller di Miller Samuel. "Prima di
poter parlare di mercati immobiliari ritornati in equilibrio e
di 'fondo della crisi', il credito si deve stabilizzare e la
liquidita' deve tornare ai livelli normali precedenti lo scoppio
della crisi. Ci vorranno diversi anni".
Michael Shvo, il broker degli immobili di 20 Pine Street, e' del
parere che i prezzi nella citta' di New York sono destinati a
calare ancora, e che il credito dovra' diventare piu'
accessibile prima che la domanda torni a correre. Ma quanto a
fondo scenderanno i prezzi? "Alcuni progetti subiranno un calo
del valore del 50% rispetto alle punte massime. Altri
probabilmente del 30%", la maggior parte si collochera' nel
mezzo.
Anche se i venditori spererebbero che cosi' non fosse, signore e
signori, questa e' la vita nella grande citta'.
Fonte
- WallStreetItalia
|
|