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IL FALO'
DELLE BANALITA'
01 Dicembre 2008 01:45 NEW YORK
-
di Eugenio Benetazzo ______________________________________________
Le emittenti nazionali fanno ormai a gara ad organizzare
nei loro palinsesti la tal puntata di turno incentrata sulla
crisi finanziaria del 2008, invitando uno stuolo di politici e
pseudo giornalisti finanziari improvvisati economisti che fino a
qualche mese fa se ne uscivano con sparate del tipo "tanto
l'economia europea è sana e la crisi dei mutui più di tanto non
cagionerà danno al nostro sistema bancario". Opinionisti degni
di un titolo di laurea honoris causa rilasciato dall'Università
per Barbieri di Paperopoli.
Adesso sono diventati tutti catastrofisti e terroristi
finanziari, alla faccia del falso ottimismo e garantismo che si
sciorinava nei dibattiti pubblici sino a qualche semestre fa.
Una fenomenale opera di banalizzazione e volgare semplificazione
di quanto sta accadendo che non consente di spiegare in modo
esaustivo a livello socioeconomico e macroeconomico l'attuale
scenario di mercato.
Mi piace in particolar modo come vengono dipinti e rappresentati
i mutui subprime (che tra l'altro esistono da decenni) ovvero
come mutui erogati agli homeless che girano con le buste ed i
carrelli della spesa rubati a qualche jet market. Niente di più
fuorviante: quando in realtà rappresentano mutui erogati a
soggetti che hanno un credit score (punteggio di merito
creditizio) inferiore a 670 punti (su una scala valori che va da
500 a 850), in seguito a tardivi o mancati pagamenti su prestiti
precedentemente concessi o impegni di pagamento verso utenze di
servizi primari (bollette della luce, gas e telefono).
Dai subprime si devono distinguere i mutui "nodocs" ovvero "no
documents" quelli concessi a soggetti privi di un lavoro a tempo
indeterminato e senza mezzi patrimoniali propri, mutui che erano
sin dall'inizio destinati ad essere titolarizzati (faccio notare
che questa tipologia di mutui ipotecari li hanno erogati anche
in Italia ai cosiddetti precari, i nuovi morti di fame in giacca
e cravatta).
Sappiate comunque che oltre il 25% della popolazione americana
rientra nella categoria di affidamento subprime, mentre il
restante 75% si divide nelle altre due fasce: i soggetti prime e
midprime. Tuttavia l'apoteosi di questo falò di banalità
propinatoci dai media nazionali l'abbiamo con le spiegazioni
sull'origine della crisi (secondo loro passeggera) riconducibili
ad una semplice argomentazione: le banche americane che hanno
prima concesso mutui a tutti e successivamente hanno
cartolarizzato all'inverosimile.
Niente di più fuorviante! L'attuale scenario che stiamo vivendo
non rappresenta infatti una crisi generale del sistema
finanziario quanto piuttosto una fase terminale che scaturisce
dalla convergenza delle conseguenze economiche e sociali causate
dal WTO.
L'Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade
Organization), nata dalle ceneri del GATT (un sistema
multilaterale di accordi internazionali per favorire il
commercio mondiale voluti dagli USA nel 1947 per controllare e
dominare l'economia di tutto il pianeta) ha uno scopo principe
ovvero promuovere la globalizzazione di tutti i mercati, tanto
finanziari quanto alimentari. Un mercato globalizzato presuppone
l'abbattimento di tutte le barriere commerciali (dazi e
restrizioni doganali) unito all'abolizione dei sussidi
all'agricoltura assieme alla libera circolazione dei capitali.
Proprio il WTO ha reso conveniente e possibile le tanto
famigerate delocalizzazioni produttive che hanno rappresentato
sia per gli USA quanto per l'Unione Europea un'autentica
emorragia di posti di lavoro e capitali a favore di paesi come
la Cina e l'India che adesso vengono considerate le due
fabbriche del pianeta. Le grandi corporations industriali,
sfruttando le economie di scala attraverso i ridicoli costi di
manodopera di questi paesi, hanno potuto in questo modo
aumentare a dismisura i loro profitti a parità di output
produttivo, il quale poteva venire assorbito solo dai mercati
occidentali statunitensi ed europei.
A fronte di questo diabolico arricchimento di pochi si è
contrapposto un drammatico depauperamento in Occidente a causa
della polverizzazione dei posti di lavoro ed a causa della
concorrenza spietata di prodotti e beni di consumo importati che
spazzano via per convenienza economica sul prezzo quelli
autoctoni.
La trasformazione del tessuto sociale ed imprenditoriale tanto
negli USA quanto in Europa, che adesso devono convivere con il
mostro che hanno creato ovvero un esercito di impiegati ed
operai senza alcuna prospettiva lavorativa ed una occupazione a
singhiozzo, ha lentamente impoverito il paese creando nuove
sacche di povertà e disagio sociale a ritmo costante.
Solo con il ricorso al debito questi zombie globalizzati hanno
potuto continuare a consumare come prima, fino a quando non si è
raggiunta la saturazione finanziaria. Nessuno ha fatto ancora
notare come in questi ultimi anni tutto è stato venduto a rate,
dalle abitazioni alle vacanze alle isole tropicali, causa
estinzione della capacità di risparmio, soprattutto nelle
giovani generazioni. Il peggioramento dello scenario planetario
porterà ad un consistente ridimensionamento dei fatturati delle
imprese a cui faranno seguito un crollo del gettito fiscale ed
un aumento vertiginoso della disoccupazione.
Le borse in questi termini ci possono aiutare a leggere il
futuro: si comportano letteralmente come un termometro che
misura la temperatura dello stato febbrile, i loro continui
crolli rappresentano un sensibile ridimensionamento delle
proiezioni degli utili attesi in futuro e quindi della capacità
di fare profitto per le aziende nei prossimi anni. Dalla
contrazione del credito bancario concesso alle imprese passando
per il crollo del mercato dei consumi, le aspettative future
sono tutt'altro che confortanti.
Per comprendere la gravità di quanto stiamo vivendo vi voglio
ricordare che durante la Grande Depressione degli anni Trenta
oltre il 60% della popolazione mondiale era impiegata nel
settore primario (agricoltura) e le donne non avevano una
presenza consistente nel mondo del lavoro visto che la società
era organizzata attorno al modello della famiglia patriarcale.
Oggi l'1% del pianeta mantiene il restante 99% sul piano
alimentare, mentre la società è caratterizzata da una spiccata
presenza della donna nel mondo lavorativo a cui si deve
affiancare il modello di famiglia mononucleare che ha sostituito
quella patriarcale. Se in futuro dovessimo descrivere
all'interno di un libro quest'epoca infelice e la sua futura
evoluzione, adesso ci troveremmo a leggere la prefazione.
Fonte
-
www.eugeniobenetazzo.com.
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Crisi
Mondiale: -
volete un ottimista? Eccolo
01 Dicembre 2008 02:26 NEW
YORK - di Riccardo Fiorito
________________________________________
Come tutti sanno, la bolla di cristallo non c'è l'ha nessuno, men
che meno quelli che scrivono su nFA. Però, dato che tutti si
chiedono quale sia realmente la situazione e se moriremo tutti di
fame l'anno prossimo, io ci provo a buttar lì due mezze previsioni
basate sulle previsioni degli altri e su un po' di buon senso
economico. Niente di sofisticato, semplicemente un po' di
macroeconomia fuori moda ed una, per noi ovvia ma per altri no,
conclusione sul da farsi.
Gli ultimi dati sul terzo
trimestre del 2008 e le previsioni più recenti da parte dei vari
organismi internazionali (IMF, OECD, Commissione Europea) concordano
nell’indicare rischi generalizzati di recessione per il 2009.
Queste previsioni, che in genere includono un aggravamento della
situazione nel quarto trimestre del 2008, suggeriscono per i vari
paesi contrazioni del livello di attività intorno ai 4 trimestri di
durata: ciò costituisce senza dubbio un motivo di preoccupazione.
La preoccupazione potrebbe
però trasformarsi in un motivo di sollievo - trattandosi di
contrazioni abbastanza modeste e non troppo prolungate - SE
l’economia mondiale si riprendesse nella seconda parte del 2009.
Gli Stati Uniti dovrebbero
avere – come l’Italia e la Germania - una contrazione vicina ma
forse inferiore allo 1% annuo, un dato che dovrebbe aggravarsi per
l’Inghilterra e ridursi per la EU nel suo insieme. Nel 2010 si
ipotizza, infine, una ripresa generale ma è chiaro che questo
orizzonte è più difficile da prevedere sulla base dei dati attuali.
Limitandoci, quindi, alla fine dell’anno ed al ciclo ipotizzato per
il 2009, ciò che conta è che tali previsioni siano assai meno
catastrofiche di quanto ipotizzato da commentatori/agitatori che
hanno più volte richiamato la crisi del ’29, generando esagerazioni
e timori che sono essi stessi un fattore di instabilità.
Il fatto nuovo - ma anche
risaputo - è che per la prima volta tutte e tre le aree fondamentali
dell’economia mondiale (Stati Uniti, Europa, Asia) affrontano nello
stesso tempo una crisi che è stata innescata da fattori finanziari
che sembrano essere però in graduale fase di assorbimento.
Data la scala e l’estensione
dello shock, questi fattori appaiono di fatto meno dannosi per
l’economia reale di quanto temuto o previsto da vari osservatori.
Anche senza essere esperti della grande depressione (io non lo
sono), la novità della rapida trasmissione della crisi finanziaria
tra aree diverse non sembra giustificare paragoni storicamente
sensati tra allora ed oggi: l’economia degli Stati Uniti dovrebbe
crescere quest’anno intorno allo 1.5% per rallentare come abbiamo
visto nel 2009. Quale che sia la fondatezza di tali previsioni, la
crescita USA nel 2008 è circa uguale al potenziale dell’economia
europea. Naturalmente, il tasso di crescita degli USA riflette solo
la prima parte dell’anno che è stata migliore di quanto previsto,
tra l’altro, nel rapporto Oecd di Giugno: il terzo trimestre del
2008 è andato male sopratutto a causa della contrazione dei consumi
durevoli, anche se meno di quanto previsto da molti analisti.
In altre parole: sebbene vi
sia una pletora di indicatori negativi per il settore manifatturiero
(che però pesa assai poco, oramai, nell’economia USA) negli
organismi internazionali sembra prevalere l’idea che la recessione
USA dovrebbe essere debellata nella seconda parte del 2009. Forse si
sbagliano, ma i numeri sono quelli.
Questa interpretazione mi
convince perché il maggiore canale di trasmissione della débacle
finanziaria è stato il deprezzamento della ricchezza delle famiglie,
soprattutto per la parte legata alla casa: la percentuale di
famiglie che possiede azioni e le cui azioni non sono relegate in un
fondo pensione è non superiore ad 1/3, probabilmente vicina ad 1/4.
La contrazione dei consumi è stata elevata ma - a fronte dello shock
subito - sembra confermare la nozione che l’elasticità del consumo
alla ricchezza sia abbastanza bassa, altrimenti gli effetti sui
consumi e poi sul pil sarebbero più gravi di quanto emerge dall’anno
in corso, anche scontando un peggioramento nel quarto trimestre.
Il mio relativo ottimismo sta, dunque, non solo nei dati che sono
negativi ma non disperati ma è confortato - tra le altre cose - da
un intervento alla Georgetown University di Donald Kohn della Fed e
da un paper della Fed di Minneapolis di Chari, Christiano e Kehoe su
alcune stranezze nei dati finanziari. E’, infine, confortato anche
dalla mia convinzione che la contrazione della ricchezza delle
famiglie dovrebbe stimolare l’offerta di lavoro, compensando in
tutto o in parte gli effetti negativi sul consumo. E’ anche vero,
però, che in mancanza di ulteriori stimoli sulla domanda,
l’incremento dell’offerta di lavoro potrebbe tradursi almeno in
parte in un aumento della disoccupazione che dovrebbe essere però di
natura temporanea e, dunque, compatibile con il profilo ciclico
generalmente previsto per il 2009.
Considerando sia il ruolo
degli stabilizzatori automatici che il basso costo del capitale, del
lavoro e del petrolio, come anche le possibili iniezioni temporanee
di spesa pubblica, mi sembra plausibile ipotizzare una ripresa
dell’economia americana nella seconda parte del 2009 anche senza
affidarsi al graduale aggiustamento delle difficoltà finanziarie che
è implicito nelle previsioni citate.
Quanto ciò sia dovuto al miglioramento delle politiche economiche
dagli anni ‘30 ad oggi od anche alla migliore conoscenza dei cicli
economici è difficile da stabilire ma penso che entrambi i fattori –
compresa la loro interazione - un peso l’abbiano avuto nel
riconoscere i rischi di una recessione sincronizzata e la necessità
di farvi fronte con il coordinamento, per quanto imperfetto e
tardivo, delle politiche che è implicito nel passaggio dal G-8 al
G-20 di questi giorni.
Speriamo
che l'irresponsabile BCE
stavolta giochi bene
01 Dicembre 2008 00:27 MILANO - di Giuseppe Turani
________________________________________
Giovedì a Francoforte si
deciderà non il destino dell´Europa (ci vuole altro), ma si vedrà se
abbiamo una Banca centrale che è qui per aiutare a risolvere i
problemi oppure se essa stessa fa parte del problema (come molti
sospettano da tempo). Giovedì infatti la Bce tiene la sua
riunione mensile dedicata all´esame della situazione e all´eventuale
taglio (o aumento) dei tassi di interesse ufficiali.
Le previsioni non sono buone. E la cosa paradossale è che, sempre
giovedì, ma 45 minuti prima, si riunirà anche la Boe (la Banca
d´Inghilterra, la "Vecchia Signora") e si sa già che taglierà il
costo del denaro dall´attuale 3 per cento al 2 per cento, con una
sforbiciata secca di 100 basis point. La Bce, invece, si trova oggi
al 3,25 per cento e un po´ tutti gli esperti dicono che si limiterà
a tagliare 50 basis point, portando il costo del denaro al 2,75 per
cento.
Ed è proprio su questo punto che sorgono gli interrogativi più
pesanti. Fino a non molto
tempo fa la Bce giustificava l´alto costo del denaro in Europa con
la necessità di contrastare l´inflazione. Ma oggi di inflazione non
se ne vede proprio in giro. Anzi, purtroppo siamo alle prese con il
gemello cattivo dell´inflazione, e cioè la deflazione. E´ un
fenomeno che ha colpito non solo noi, ma un po´ tutti.
Insieme alla recessione.
Ebbene, le altre banche centrali hanno afferrato l´aria che tira e
hanno già preso gli opportuni provvedimenti o si apprestano a farlo.
La Boe, che aveva tagliato di recente e in un sol colpo 150 basis
point, adesso si appresta a ridurre il costo del denaro ancora di
100 basis point. La Federal Reserve (in America la crisi è
probabilmente più grave) è già scesa all´1 per cento (e alle banche
in difficoltà fornisce il denaro allo 0,30 per cento), ma dicono che
non è ancora arrivata in fondo. Prima della fine dell´anno potrebbe
tagliare altri 50 basis point, portandosi a un tasso ufficiale dello
0,50 per cento (ma c´è chi sostiene che la Fed potrebbe anche
arrivare allo zero per cento tondo).
Insomma, un po´ tutti hanno
capito che di fronte a quello che sta succedendo nell´economia non
c´è molto da scherzare. Oggi, con la deflazione in campo e la
recessione che, nella migliore delle ipotesi, durerà per tutto il
2009, l´unico modo per limitare i danni è quello di non essere
troppo avari e severi con il denaro. In sostanza, oggi quello
che deve fare una buona banca centrale è, di fatto, regalare il
denaro a chi lo vuole, e sperare che siano in tanti a volerlo e a
far girare le ruote dell´economia.
Per battere la deflazione
(prezzi che crollano perché i consumatori non consumano più e i
produttori non producono più, con il rischio reale che la recessione
si trasformi in depressione) c´è un solo modo conosciuto:
inflazionare tutto quello che è inflazionabile. Spargere denaro a
piene mani. E questo è appunto quello che sta facendo la Federal
Reserve americana e che si appresta a fare anche l´inglese Boe. In
Europa, invece, la Bce sembra non aver ancora afferrato che la
situazione è cambiata e che da un pericolo inflazione siamo passati
a un pericolo deflazione. E quindi procede a piccoli passi.
Sembra che il suo obiettivo sia quello di arrivare a un costo del
denaro del 2 per cento. Ma a piccoli passi, cioè scendendo di 50
basis point alla volta. Poiché siamo al 3,25 per cento, ci vorranno
almeno tre-quattro mesi per raggiungere la mitica soglia del 2 per
cento (dove l´Inghilterra arriverà giovedì mentre l´America è già
ben oltre). Quattro mesi di tempo persi del tutto inutilmente.
E infatti più di un analista
sostiene che la Bce, in queste condizioni, dovrebbe mandare un
segnale forte al mondo dell´economia tagliando almeno di 75 basis
point e non di 50. Ma si può tranquillamente aggiungere che se la
Bce facesse un taglio addirittura doppio (150 basis point),
portandosi subito, giovedì, un poco sotto la soglia del 2 per cento,
questo avrebbe l´effetto di una sferzata sulla congiuntura. E non si
vede quali danni ne potrebbero derivare.
Insomma, questo è esattamente il momento di muoversi con coraggio.
Basta guardarsi intorno per rendersene conto. E la Bce, purtroppo, è
l´unico soggetto in Europa che ha ancora un´arma in mano (il taglio
del costo del denaro). L´altro soggetto che potrebbe intervenire (i
governi) ha in realtà le mani legate. A causa dei propri bilanci,
non esattamente floridi, i governi europei non possono fare una
politica fiscale espansiva (restituendo soldi ai cittadini) e
nemmeno possono mandare assegni troppo vistosi a casa delle famiglie
(come hanno fatto in America).
In conclusione, l´Europa è
in crisi come gli altri, ma si trova come imbalsamata da un costo
del denaro ormai elevatissimo e fuori dal mondo (oggi è più di tre
volte quello americano) e da governi con poche risorse, e che quindi
non possono contrastare efficacemente la deflazione e la recessione.
Piaccia o non piaccia oggi spetta proprio alla Banca centrale
europea (ai Signori di Francoforte) prendere il coraggio a due mani
e gettare sulla bilancia della crisi il peso di un taglio super del
costo del denaro. Questo si aspettano i mercati e l´economia e
questo suggerisce il buonsenso. Ma quasi certamente resteranno tutti
delusi.
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Fonte
- La Repubblica |
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Le banche centrali
indossano il camice
bianco
04/12/2008 14.56
-
di Sara Silano ______________________________________________
Il sistema finanziario è malato.
Finora i tentativi per rianimarlo hanno evitato il collasso, ma
non sono riusciti a guarirlo. Le Banche centrali hanno unito le
forze lo scorso ottobre tagliando di concerto i tassi di
interesse in tredici Paesi. Nell’ultima settimana sono state di
nuovo protagoniste, in modi e tempi diversi, per evitare che la
crisi intacchi seriamente l’economia, facendo precipitare il
mondo nella deflazione, termine che indica una riduzione
generale dei prezzi dovuta a un calo della spesa dei consumatori
e delle aziende. Con tutte le conseguenze che ne derivano in
termini di minori ricavi, perdita di posti di lavoro e
diminuzione dei redditi.
Fed disposta a tutto
Il rapporto tra il sistema finanziario e gli istituti centrali è
diventato analogo a quello del paziente con il medico, anche se
spesso il sollievo è momentaneo. Così nei giorni scorsi i
mercati sono rimbalzati dopo che la Federal Reserve ha ammesso
di essere disponibile a prendere misure “non convenzionali” e
molto espansive, con l’obiettivo far arrivare nelle casse delle
banche molto denaro a basso costo per finanziare investimenti e
consumi.
Come spiega Maurizio Novelli, global strategist di Zest asset
management, la Fed sta tentando di sostituire le banche
d’investimento nell’intermediazione del credito, ma queste
ultime hanno smesso di prestare soldi all’economia reale
(aziende e consumatori) per un ammontare di gran lunga superiore
(cinque o seimila miliardi di dollari) a quanto può coprire
l’istituto guidato da Ben Bernanke. Ed è per questo motivo ci
vorrà del tempo per uscire dal credit crunch. Lo shock è forte
perché la crescita dell’ultimo ventennio si è basata proprio
sull’abbondanza di liquidità, resa possibile dalle
cartolarizzazioni (oggi tanto vituperate) e dalla leva
finanziaria che ha permesso alle banche di espandere le attività
detenute in bilancio. Si può essere più o meno critici verso
questo sistema, ma è un dato di fatto che il suo mancato
funzionamento rischia di soffocare l’economia.
Bce, ancora tagli
Il travaso della crisi dalla finanza all’economia ha scosso la
Banca centrale europea (Bce), che fino a qualche mese fa
sembrava inamovibile nella sua posizione di lotta
all’inflazione, indifferente agli umori del mercato finanziario.
Con il taglio dei tassi, l’istituto guidato da Jean Claude
Trichet intende evitare che la situazione economica si aggravi,
dopo due trimestri di crescita negativa che fanno già parlare di
recessione. L’inflazione, invece, spaventa meno: a novembre il
tasso tendenziale (calcolato come variazione rispetto allo
stesso mese dell’anno scorso) si è attestato al 2,1%, in linea
quindi con gli obiettivi di stabilità dei prezzi di medio
termine.
Ora c’è anche la Cina
Rispetto alle crisi passate, quella attuale ha visto emergere
come protagonista, un’altra banca centrale, quella cinese.
L’istituto ha praticato il più aggressivo taglio dei tassi degli
ultimi undici anni per dare ossigeno all’economia. Inoltre ha
deciso di abbassare i livelli di riserva delle banche, con
l’obiettivo di ridurre il costo del credito. Tramontata
l’ipotesi di decoupling, ossia la capacità di Pechino di
resistere al rallentamento statunitense, oggi il Paese si trova
a fare i conti con esportazioni in calo, nonostante la stagione
natalizia sia alle porte. In Estremo oriente, anche la Banca del
Giappone ha varato misure eccezionali per ristabilire il
regolare funzionamento del mercato monetario (una manovra sui
tassi è poco praticabile dato che sono già a un livello
bassissimo, 0,3%).
Mercati obbligazionari pronti per la cura
In un report Morgan Stanley, prevede che i tagli di tassi e le
politiche monetarie espansive proseguiranno nei prossimi mesi e
qualche timido segnale di miglioramento della situazione
comincia a vedersi. Ma è ancora presto per dire che la crisi è
superata. Intanto i mercati obbligazionari hanno reagito con un
rally dei prezzi e il conseguente calo dei rendimenti,
soprattutto sulle obbligazioni a lungo termine (il Treasury
americano è sceso sotto il 3% ai minimi storici).
Secondo gli analisti, la prospettiva di ulteriori tagli dei
tassi o, comunque, di bassi saggi di riferimento per molto
tempo, lascia poco spazio di apprezzamento alle obbligazioni a
breve scadenza. Nello stesso tempo i rischi sono superiori alle
opportunità sui titoli a lunga scadenza, soprattutto negli Stati
Uniti, dove il deficit pubblico toccherà il 7% nel 2009. E
l’Italia, che è il terzo Paese con il debito statale più alto
del mondo, non è in una situazione migliore, tanto che il
differenziale tra il Btp e il Bund decennale tedesco (preso come
riferimento per l’Europa), è elevato e il costo per la
protezione dal rischio di default (credit default swap) è ai
massimi storici.
Fonte
-
www.Morningstar.it
Stati Uniti - Forte distruzione di
occupazione
Friday, 5 December, 2008 at 15:36
-
di Macromonitor ______________________________________________
I datori di lavoro statunitensi
in novembre hanno eliminato posti di lavoro al passo più rapido
da 34 anni, mentre il tasso di disoccupazione è balzato al
massimo dal 1993. Il numero di impieghi nel settore non agricolo
si è ridotto di 533.000 unità, maggior perdita mensile da
dicembre 1974, dopo il calo di 320.000 posti in ottobre, rivisto
in peggioramento dalla stima iniziale di 240.000 posti
eliminati. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,7 per cento.
Le stime di consenso ipotizzavano una distruzione di 335.000
impieghi ed un tasso di disoccupazione del 6,8 per cento. Il
numero di occupati è atteso in ulteriore contrazione il prossimo
anno, per effetto dell’aggravarsi della crisi di credito. Il
presidente-eletto, Barack Obama, ha annunciato la scorsa
settimana un piano per “salvare” (formulazione piuttosto ambigua
e di misurazione problematica) o creare 2,5 milioni di impieghi
nei prossimi due anni. I primi commenti degli analisti parlano
di un mercato del lavoro in novembre che si è “ribaltato”.
Le revisioni per il mese di settembre ed ottobre hanno aumentato
le perdite di occupazione di 199.000 posti. L’undicesimo calo
mensile consecutivo nel numero di occupati porta il numero di
impieghi persi nel 2008 a 1,91 milioni, ma il dato più
drammatico è che solo negli ultimi tre mesi sono stati
cancellati 1,25 milioni di posti. Gli impieghi di fabbrica si
riducono di 85.000 unità, contro una stima di 100.000. Il
ritorno al lavoro dei tecnici di Boeing dopo lo sciopero ha
contribuito a contenere la perdita di occupazione. Il calo di
impieghi nella manifattura include 13.100 posti cancellati nel
settore auto e parti di ricambio. La crisi dell’immobiliare
continua a colpire pesantemente l’occupazione nel settore delle
costruzioni, che perde altri 82.00o posti dopo i 64.000
cancellati in ottobre. L’occupazione nel settore finanziario è
diminuita di 32.000 unità, dopo la perdita di 31.000 posti del
mese precedente.
Il settore dei servizi, che include banche, assicurazioni,
ristoranti e dettaglianti ha sottratto ben 370.000 posti, dopo i
153.000 persi in ottobre. In dettaglio, il settore dei servizi
alle imprese, categoria che include i lavoratori temporanei, ha
eliminato 136.000 impieghi, mentre gli occupati nel commercio al
dettaglio sono calati di altre 91.300 unità, dopo i 62.200 posti
persi in ottobre. Il settore dell’istruzione e dei servizi
sanitari ha creato 52.000 nuovi impieghi netti, mentre il
settore pubblico ha creato 7.000 nuovi posti.
La scomposizione del dato di disoccupazione mostra che
l’incremento è totalmente da ascrivere al gruppo di quanti hanno
perso il lavoro: questa componente, infatti, passa dal 3,7 al
3,9 per cento del dato totale. Inoltre, il tasso di
partecipazione alla forza-lavoro scende dal 66,1 al 65,8 per
cento, ed il tasso di occupazione cala dal 61,8 al 61,4 per
cento. Di rilevo (negativo) il fatto che il numero di persone
non nella forza-lavoro (componente che potrebbe essere riferita
a quanti escono dalle liste di disoccupazione e/o hanno smesso
di cercare attivamente lavoro) aumenta di ben 700.000 unità.
La settimana lavorativa media si è accorciata a 33,5 ore, il
minimo dall’inizio delle rilevazioni di questa serie storica,
nel 1964, da 33,6 di ottobre. Il numero di ore medie settimanali
dei lavoratori di produzione è diminuito da 40,5 a 40,3, mentre
le ore straordinarie sono diminuite a 3,3 ore da 3,5 ore. I
salari orari medi sono aumentati dello 0,4 per cento mensile e
del 3,7 per cento annuale. Questi dati sono migliori delle stime
di consenso, poste rispettivamente a più 0,2 e più 3,4 per
cento. In questo contesto, “migliore” va inteso nel senso che
con un’inflazione in rapido calo, i salari reali sono tornati
positivi.
Su base trimestrale, la perdita di posti di lavoro è all’incirca
equivalente a quanto registrato durante la recessione del
1974-75, ma corretto per la crescita della popolazione è uguale
alla recessione 1981-82. Il forte peggioramento delle condizioni
del mercato del lavoro si riscontra anche dal totale delle ore
lavorate, in calo dello 0,9 per cento mensile e del 6,1 per
cento su base trimestrale annualizzata. Il dato sull’occupazione
mette pressione al ribasso alla stima di una contrazione del 4
per cento del Pil nel quarto trimestre, ma per avere riscoontri
più precisi occorrerà attendere il dato sulla bilancia
commerciale, la prossima settimana.
Riguardo i riflessi di tale dato sulle decisioni della Fed, la
probabilità di un taglio dei Fed Funds a zero nel meeting del 16
dicembre è destinata ad aumentare.
Fonte
- Macromonitor
|
Il
gorgo
americano
08 Dicembre 2008 00:12 TORINO - di Mario Deaglio
________________________________________
Negli Stati Uniti non si
vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come
negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano
poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati
perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei
quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello
scorso mese di novembre. Il periodico rapporto della Fed, la banca
centrale americana, mostra una crisi che si estende a velocità mai
vista, che tocca tutti i comparti dell’economia americana e la cui
virulenza non promette affatto di diminuire nei prossimi mesi.
Non a caso, il presidente
eletto, Barack Obama, ha dichiarato che la situazione è destinata a
peggiorare. Per gli Stati Uniti, nel breve periodo, c’è ben poco da
fare. Vissuti per quasi due decenni in una cultura che aveva rimosso
l’idea stessa di crisi, gli americani risultano tecnicamente e
psicologicamente impreparati a subirne una.
Non esiste alcun bottone
magico da schiacciare, alcuna misura semplice perché gli
Stati Uniti possano uscire in tempi brevi da questa pesantissima
situazione; la riduzione del costo del denaro ha frenato
temporaneamente la spinta depressiva ma, nell’attuale situazione,
non crea alcuna spinta positiva; gli interventi di salvataggio
finanziario ingessano il malato ma non bastano a rimetterlo in
piedi.
A questo punto è
indispensabile che gli europei si domandino se sono necessariamente
costretti a essere risucchiati nel gorgo della caduta americana.
Molti pensano di sì: in Germania, la Bundesbank, prevede per
il 2009 le peggiori condizioni economiche da 16 anni; il pessimismo
è molto profondo in Gran Bretagna, la Spagna combatte a fatica
contro una violenta crisi edilizia. E tuttavia la «variante europea»
della crisi è nettamente meno virulenta di quella americana e
potrebbe risolversi con una caduta produttiva più ridotta e più
breve.
Che cosa rende l’Europa meno
vulnerabile dell’America? Il risparmio delle famiglie.
Le famiglie americane sono
state abituate da due generazioni a spendere oggi i soldi che
presumono di incassare domani; per anni i consumi delle famiglie
americane sono stati alimentati dai guadagni di Borsa, ora la
riduzione dei consumi è determinata anche dalle perdite del listino;
le loro carte di credito non hanno più credito residuo, i conti in
banca sono quasi sempre in rosso. Non si può quindi far conto
su un sussulto della voglia di consumare che non sarebbe
accompagnata, sempre nel breve periodo, da alcuno strumento
finanziario per soddisfarla.
L’Europa non è così. Quando
spendono, o, viceversa, decidono di non spendere, gli europei - con
l’eccezione degli inglesi - spendono o non spendono soldi propri.
Per questo in Europa una molla importante per la tenuta
dell’economia è in mano ai risparmiatori-consumatori che, per
parafrasare un detto di Einaudi, sono dotati di memoria di elefante
(che li ha portati subito a ricordare gli Anni Trenta) cuore di
coniglio (che li induce a non prendere alcun rischio) e gambe di
lepre (che li hanno fatti scappare dai supermercati come dai mercati
finanziari). Ma sono anche dotati di un conto in banca quasi sempre
in nero anziché in rosso.
Questa situazione, così diversa da quella americana, raggiunge la
sua massima peculiarità in Italia, come si ricava dal 42° Rapporto
Annuale del Censis, reso noto ieri, più della metà delle famiglie
italiane non ha veri problemi finanziari. Il Rapporto ritrae un
paese impaurito più che indebitato, capace di tenuta «trasversale»,
sul quale una modesta ridistribuzione a favore delle fasce di
reddito più basso potrebbe sostenere i consumi più che in altri
paesi. Non si tratta, naturalmente, di «consumare per consumare» ma
di non rinunciare a consumi abituali per paure irrazionali, oggi
molto diffuse; si può così costituire uno «zoccolo duro» di tenuta
nei prossimi mesi sul quale provare a costruire una ripresa, magari
con nuovi prodotti più a buon mercato e - per dirla con Giuseppe De
Rita, che del Censis è da anni l’animatore - più «frugali», più
adatti allo spirito dei tempi. Occorrerebbe aggiungere che proprio
questa situazione di emergenza può rappresentare l’occasione perché
si formi un consenso sociale attorno a molte delle riforme da troppo
tempo tenute nel cassetto.
In questa terribile tempesta dell’economia mondiale, insomma,
rischiano assai di più i paesi simili a moderni velieri costruiti
per le regate che una chiatta, pesante, assai lenta ma molto stabile
come è l’economia italiana. Non basta però che la barca italiana
corra meno rischi e che derivi un vantaggio dall’essere vecchia.
Occorre che questo vantaggio venga sfruttato; se è vera l’analisi di
De Rita, i consumi natalizi faranno registrare soltanto una
flessione relativamente modesta e il momento della verità verrà dopo
Natale quando milioni di famiglie, e l’élite politica che le
governa, dovranno prendere decisioni che vanno dai bilanci
famigliari ai bilanci pubblici. Se in Europa e in Italia prevarranno
i «cuori di coniglio», se tutti giocheranno a un «taglia, taglia»
indiscriminato, seguiremo l’America nel baratro di una crisi incerta
e di lunghezza indeterminata. Quanto più saremo, a tutti i livelli,
razionali e responsabili, tanto meno lunga e dura risulterà la
crisi.
 |
Fonte
- La Stampa |
Una
notte lunga 3 anni, dice il super-gufo
08 Dicembre 2008 00:57 NEW
YORK - di Nouriel Roubini
________________________________________
I mercati finanziari di tutto il mondo hanno attraversato nel 2008
la loro peggiore crisi dalla Grande depressione degli anni Trenta.
Sono falliti importanti istituti finanziari, altri sono stati
svenduti o sono sopravvissuti solo grazie a piani di salvataggio di
considerevoli dimensioni.
I mercati globali azionari hanno ceduto di più del 50 per cento; gli
spread sui tassi d´interesse sono saliti alle stelle; è emersa una
grave crisi della liquidità e del credito e molti paesi a economia
emergente si sono rivolti barcollando al Fondo Monetario
Internazionale in cerca di aiuto.
Che cosa ci riserva quindi
il 2009? Il peggio è alle spalle o è ancora davanti a noi? Per
rispondere a queste domande, dobbiamo comprendere che ciò che è
attualmente in corso è un circolo vizioso di contrazione economica e
di condizioni finanziarie in continuo peggioramento.
Quel che è certo è che gli
Stati Uniti vivranno la loro peggiore recessione da decenni: una
contrazione profonda e prolungata che si protrarrà per almeno 24
mesi oltre la fine del 2009. Inoltre, la contrazione si estenderà
all´insieme dell´economia globale. La recessione coinvolgerà
l´Eurozona, la Gran Bretagna, l´Europa Continentale, il Canada, il
Giappone e le altre economie avanzate. Sussiste anche il rischio di
un atterraggio violento per le economie dei paesi con mercati
emergenti, conseguentemente al graduale trasmettersi a queste zone
degli shock finanziari e reali tramite i rapporti commerciali,
finanziari e valutari.
Nella prima parte del 2008,
nelle economie avanzate, la recessione aveva suscitato il timore di
una stagflazione analoga a quella degli anni Settanta (inflazione
abbinata a una stagnazione economica). Dato, tuttavia, che la
domanda aggregata sta scendendo più dell´offerta aggregata,
l´indebolimento dei mercati dei beni, dove si saranno ristretti
anche i margini per una correzione al rialzo dei prezzi da parte dei
produttori, comporterà un´inflazione più bassa.
Per lo stesso meccanismo, l´aumento della disoccupazione avrà un
effetto di contenimento del costo del lavoro e della crescita dei
salari. Questi fattori, combinati con prezzi delle materie
prime in drastica caduta, produrranno, nelle economie avanzate, un
allentamento dell´inflazione che potrà avvicinarsi a un livello
dell´1 per cento, il che solleverà il timore di una deflazione
piuttosto che di una stagflazione.
La deflazione è pericolosa
perché porta alla trappola della liquidità: dato che i tassi
interbancari nominali a breve non possono scendere sotto lo zero, la
politica monetaria diventa inefficace. La flessione dei
prezzi riflette un costo reale del capitale alto e un aumento
dell´entità reale del debito nominale che a loro volta causano una
riduzione dei consumi e degli investimenti, generando un circolo
vizioso nel quale i redditi e l´occupazione si contraggono sempre di
più, aggravando la caduta della domanda e dei prezzi.
Poiché la politica monetaria
tradizionale diventa inefficace, si tende a insistere nell´utilizzo
di politiche non ortodosse: operazioni di salvataggio a favore di
investitori, di istituti finanziari e di debitori; iniezioni
massicce di liquidità alle banche affinché rendano più disponibile
il credito e azioni ancora più radicali per abbassare i tassi
d´interesse delle obbligazioni di Stato a lungo termine e per
ridurre lo spread tra i tassi delle obbligazioni societarie e quelle
del debito di Stato.
L´attuale crisi globale è
stata innescata dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense,
bolla che tuttavia non l´ha originata. Gli eccessi del credito negli
Stati Uniti hanno coinvolto il settore dei mutui per gli immobili
residenziali e per quelli commerciali, l´indebitamento con carte di
credito, per l´acquisto dell´auto e per finanziare gli studi.
L´eccesso ha pervaso anche il settore dei prodotti cartolarizzati,
dove questi debiti sono stati trasformati in derivati tossici;
quello dei finanziamenti alle amministrazioni locali; quello dei
finanziamenti destinati agli acquisti speculativi di attività
produttive con una leva alta ? mai conclusisi; quello delle
obbligazioni societarie che ora subiranno perdite massicce nello
scontare il repentino aumento dei fallimenti e, infine, quello del
pericoloso e non regolamentato mercato degli strumenti finanziari
per "assicurarsi" contro l´incapacità delle aziende di onerare i
debiti.
In aggiunta, queste
patologie non sono rimaste confinate agli Stati Uniti: in
molti altri paesi si è assistito al gonfiarsi di una bolla
immobiliare, alimentata da un eccesso di credito a condizioni
stracciate che non rifletteva i rischi sottostanti.
Contemporaneamente cresceva anche la bolla delle materie prime,
quella degli acquisti speculativi di attività produttive e quella
degli hedge fund. Difatti, ciò cui stiamo assistendo oggi è lo
smantellamento del sistema bancario "ombra", vale a dire,
dell´insieme degli istituti finanziari non-bancari che si
comportavano come banche, concedendo prestiti a breve termine e con
mezzi liquidi, avvalendosi di una leva alta e investendo a lungo
termine in attività illiquide.
Il risultato di tutto ciò è
oggi lo sgonfiarsi violento della più grande bolla del patrimonio e
del credito, con perdite per inesigibilità del credito che
potrebbero avvicinarsi alla spaventosa cifra di 2.000 miliardi di
dollari. Di conseguenza, a meno che i governi non ricapitalizzino
rapidamente gli istituti finanziari, la stretta creditizia si acuirà
in ragione del fatto che il ritmo dell´acquisizione delle perdite
supera quello della ricapitalizzazione, costringendo le banche a
restringere il credito.
I prezzi dei titoli azionari e di altri investimenti rischiosi sono
crollati drasticamente dalle punte del 2007, ma anche così
sussistono ancora i rischi di ribassi notevoli. Attorno alla
possibilità che la caduta dei prezzi di molti dei beni più rischiosi
su cui si è investito, tra cui i titoli azionari, sia stata tale da
suggerire che si stia consolidando un pavimento e che ad esso possa
seguire una rapida ripresa del mercato azionario, si sta formando
tra gli analisti un consenso.
Il peggio, però, deve ancora
venire. Dato che gli analisti si illudono ancora che la contrazione
economica possa essere leggera e di breve durata, nei prossimi mesi,
le notizie macroeconomiche e le relazioni sui profitti e sugli utili
peggiori delle attese in tutto il mondo, aggraveranno la spinta al
ribasso delle quotazioni degli investimenti più rischiosi.
Anche se il rischio di un
crollo totale sistemico è stato ridotto dalle misure prese dal G7 e
da altre economie per sostenere i propri sistemi finanziari, il
sistema presenta ancora delle vulnerabilità. La stretta creditizia
si acuirà. Determinato dalla necessità degli hedge fund e di
altri istituti di investimento che operano con una leva alta di
vendere le attività finanziarie in mercati a corto di liquidità e in
sofferenza ? vendite che a loro volta determineranno una ulteriore
caduta dei prezzi e altri fallimenti di istituti finanziari ? andrà
avanti il processo di reintegro dei depositi richiesti per i margini
di garanzia. Qualche economia dei paesi emergenti potrà essere
colpita in pieno da una crisi finanziaria.
Il 2009 sarà quindi un anno
doloroso di recessione globale e di ulteriori sofferenze, perdite e
fallimenti. Solo delle azioni politiche aggressive coordinate
ed efficaci da parte dei paesi ad economia avanzata e da quelli ad
economia emergente possono garantire una ripresa dell´economia
globale nel 2010, evitando in questo modo che si entri in un periodo
ancor più lungo di stagnazione economica.
Nouriel Roubini è professore di
economia presso la Stern School of Business della New York
University e presidente della società di consulenza economica e
finanziaria Rge Monitor (www.rgemonitor.com)
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Fonte
- La Repubblica |
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Martedì
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Sabato 13
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Domenica 15
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Crisi,
la lobby
oligarchica di cui non dobbiamo fidarci
08 Dicembre 2008 01:13 LUGANO - di Alfonso Tuor
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L’economia statunitense a
novembre ha perso 533.000 posti di lavoro, si tratta del maggior
calo in un mese dal dicembre 1974 (602.000). Il tasso di
disoccupazione è passato dal 6,5% al 6,7%, il più elevato dal 1993.
Lo ha comunicato il Dipartimento del lavoro statunitense. La perdita
di 533.000 posizioni lavorative è nettamente superiore alle stime
degli economisti che avevano preventivato la perdita di 335.000
unità. È stato inoltre rivisto in peggio il dato di ottobre con una
perdita di occupati salita di 80.000 unità a 320.000 unità.
Nemmeno i più pessimisti
avrebbero potuto prevedere la rapidità e l’ampiezza dell’attuale
recessione. Le notizie, che si succedono a ritmo incalzante,
assomigliano sempre più ad un «bollettino di guerra».
L’ultima in ordine di tempo giunge dagli Stati Uniti: nel solo mese
di novembre sono stati persi 533mila posti di lavoro. Dall’inizio
dell’anno, ossia nell’arco di 11 mesi, ne sono andati in fumo 1.91
milioni. La situazione in
Europa non è migliore, come dimostrano i tagli dei tassi di
interesse annunciati giovedì scorso dalla Banca centrale europea e
dalla Banca d’Inghilterra e da quella di Svezia. Gli interventi di
banche centrali e governi, che si sono susseguiti negli ultimi mesi,
non producono risultati significativi e oggi il mondo è sull’orlo di
una nuova Grande Depressione.
Per evitare di cadere in una
spirale deflazionistica, gli Stati Uniti hanno chiaramente scelto di
usare tutti i mezzi a loro disposizione. Ancora ieri il presidente
della Federal Reserve, Ben Bernanke, non ha escluso che la banca
centrale, che oramai è diventata una banca onnipresente, possa
stampare dollari a ritmi ancora più sostenuti e mettersi ad
acquistare i titoli del debito pubblico americano. La scelta
americana è comprensibile: per gli Stati Uniti la caduta dei prezzi
avrebbe conseguenze devastanti.
Infatti il debito accumulato da famiglie, imprese, Stato federale e
dallo stesso Paese crescerebbe rispetto a redditi in calo e ad
entrate fiscali in forte diminuzione. Il rischio di una caduta del
valore del dollaro e dell’inflazione (o anche dell’iperinflazione),
come oramai viene ripetutamente scritto, appare accettabile, poiché
la tendenza all’aumento dei prezzi possiede la «virtù» taumaturgica
di erodere lo stock del debito.
L’Europa segue per il
momento la politica della Germania di Angela Merkel e della
Bancacentrale europea, che invitano a non bruciare tutte le
cartucce. Questa linea è sempre più avversata da Francia e Gran
Bretagna, che invocano invece una politica monetaria più aggressiva
e pacchetti fiscali di rilancio dell’economia più consistenti. La
posizione tedesca e quella della Bce hanno una loro legittimità.
Innanzitutto, non è certo
che pacchetti fiscali di rilancio dell’economia producano gli
effetti desiderati. I modesti risultati dei numerosi piani di
rilancio varati negli ultimi venti anni dal Giappone rafforzano
questi dubbi. Inoltre, la maggior parte dei Paesi europei
(l’Italia è un’eccezione) dispongono di ottimi leggi sociali, che
dovrebbero limitare l’impatto – pur molto doloroso – della crisi
soprattutto per i ceti meno favoriti.
In secondo luogo, ed è il
punto più importante, i deficit pubblici sono destinati ad aumentare
per il calo delle entrate fiscali e l’aumento delle spese sociali.
Dato che molti Paesi europei (come l’Italia, la Grecia e il
Portogallo) hanno già consistenti debiti pubblici, il varo di
dispendiosi pacchetti fiscali di rilancio farebbe esplodere i loro
disavanzi pubblici e soprattutto incrinerebbe la credibilità dei
titoli obbligazionari grazie ai quali gli Stati si finanziano.
Vi sono già alcuni segnali.
Se la sfiducia dei
risparmiatori dovesse intaccare anche i titoli statali, le
conseguenze sarebbero enormi. Per i Paesi di Eurolandia si
prospetterebbe un conflitto tra Paesi risparmiatori (Germania,
Olanda, ecc.) e quelli più indebitati, che metterebbe in pericolo
anche la stessa Unione monetaria. Per i Paesi non
appartenenti all’area euro, come la Gran Bretagna, si metterebbe in
discussione lo stesso valore della moneta. Il governo tedesco teme
che interventi avventati non producano risultati apprezzabili, ma
solo una gravissima crisi monetaria. Dato che il mercato dei
capitali è la nuova linea del fronte di questa crisi, per Berlino
l’imperativo categorico è che la credibilità dei titoli pubblici non
venga incrinata.
Queste considerazioni
assumono maggiore forza, ed è il secondo punto, per la
consapevolezza che la riduzione dei tassi della Bce permetterà la
diminuzione dei tassi ipotecari, dando fiato alle famiglie del
Vecchio Continente, ma non si tradurrà in una diminuzione del costo
del denaro per le imprese. Infatti per le piccole e medie
imprese l’accesso al credito bancario rimane molto arduo e per le
grandi imprese il finanziamento tramite l’emissione di obbligazioni
societarie è possibile solo a tassi proibitivi.
Il risultato è evidente:
l’aumento del costo del denaro crea una miscela esplosiva per
società che già devono fare i conti con una contrazione delle
vendite. In queste condizioni, rischia di non essere sbagliata la
decisione di conservare delle cartucce per evitare che vada
in fumo il bagaglio di competenze accumulato nel corso dei decenni
dall’industria europea, che rappresenta la vera ricchezza del
Vecchio Continente.
In terzo luogo, le famiglie
e le imprese europee non sono indebitate come quelle americane.
Anzi, in Europa, sebbene negli ultimi anni sia diminuito, vi è
ancora un consistente tasso di risparmio. Quindi intaccare i
risparmi sarebbe pericoloso sia economicamente sia politicamente.
Tutto ciò induce a sostenere che la posizione del governo tedesco e
della Banca centrale europea abbia solide motivazioni, non tenute in
sufficiente considerazione da coloro che le criticano e che invocano
interventi più incisivi.
Tra questi ultimi spiccano alcuni esponenti del mondo finanziario
anglosassone e i grandi giornali europei che a loro fanno
riferimento. Costoro sono riusciti negli ultimi mesi a convincere il
mondo che salvare il settore bancario equivarrebbe a salvare
l’economia. In queste operazioni di salvataggio sono state bruciate
centinaia di miliardi senza che gli Stati chiedessero nemmeno il
cambiamento dei manager che avevano provocato il disastro. Ora
costoro, consapevoli che questi salvataggi non hanno turato le
voragini nascoste nei bilanci delle banche che dirigono, sembrano
spingere per allentare ogni argine alla spesa pubblica per poter
ancora giustificare altri aiuti statali. Occorre che Governi e
Parlamenti europei riflettano attentamente prima di seguire questi
consigli e occorre che tutti si ricordino che questa gravissima
crisi non è il frutto di un destino cinico e baro, ma di
un’oligarchia finanziaria che ha retto le sorti del mondo negli
ultimi anni.
La
crisi peggiora, non si riesce a turare
le falle
15 Dicembre 2008 00:30 LUGANO - di Alfonso Tuor
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Siamo prossimi ad una nuova
fase di dirompente attività della crisi finanziaria. L’avvio di
questa nuova eruzione vulcanica è dato dall’inimmaginabile rapidità
e profondità della contrazione dell’economia mondiale, che ha
investito in pieno anche Paesi ad alta crescita, come India e Cina,
e dalla crisi del mercato dei capitali.
Quest’ultima verrà ulteriormente acuita dalla decisione del Senato
americano di negare gli aiuti alle tre case automobilistiche di
Detroit, che però verranno temporaneamente salvate grazie
all’intervento del Tesoro. L’accelerazione dei tempi della crisi
induce a ritenere che non saranno più rinviabili scelte dolorose che
intaccheranno la vita di tutti noi.
La nuova miscela esplosiva
di questa crisi è data dalla combinazione di una rapida e forte
contrazione delle vendite delle imprese industriali e dei ricavi
delle società attive nel settore dei servizi, da una parte, e
dell’insostenibile aumento del costo del credito o in alcuni casi
della completa chiusura dell’accesso al credito di molte società.
Questa miscela, che è una peculiarità dello scoppio di qualsiasi
bolla del credito, fa sì che imprese ritenute fino a poco tempo fa
sane e quindi immuni da eccessivi pericoli vengano risucchiate nel
vortice della crisi. Un esempio serve a chiarire questo processo: la
tedesca Daimler, che risente del crollo delle vendite di automobili,
ha potuto raccogliere lo scorso primo dicembre 1 miliardo di euro
per tre anni solo emettendo obbligazioni con rendimenti di 600 punti
base superiori al tasso Libor, ossia ha dovuto pagare 20 volte
quello che pagava nel 2005.
Questa esplosione dei costi
di finanziamento non riguarda solo le case automobilistiche ed è
dovuta non solo alla crescente avversione al rischio degli
investitori, ma anche alle garanzie statali offerte dagli Stati
europei sulle obbligazioni emesse dalle banche. Questa grave
distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali
ha conseguenze gravissime: sul mercato dei capitali le banche, anche
sull’orlo della bancarotta, hanno costi di rifinanziamento inferiori
alle imprese industriali.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto: giovedì 4
dicembre il colosso bancario americano Citigroup, recentemente
salvato da Washington e che usufruisce della garanzia statale, ha
potuto raccogliere 3,75 miliardi di dollari per tre anni grazie
all’emissione di obbligazioni valutate dalle società di rating con
la tripla A (che sta ad indicare titoli emessi da società giudicate
a minore rischio di fallimento) offrendo un rendimento inferiore al
3%.
Gli interventi statali delle
ultime settimane determinano un duplice paradosso: gli aiuti alle
banche non solo non hanno riaperto l’accesso delle imprese al
credito e hanno contribuito a rendere più elevato il costo del
finanziamento delle società industriali sul mercato dei capitali, ma
stanno anche cominciando ad erodere la credibilità degli stessi
titoli con cui gli Stati si finanziano.
Questo fenomeno si manifesta
finora soprattutto in modo indiretto attraverso il tasso di cambio,
che colpisce in particolare i Paesi indebitati con l’estero.
L’esempio sotto gli occhi di tutti è la caduta del tasso di cambio
della lira sterlina, che è dovuto alla crescente sfiducia sul fatto
che lo Stato britannico sia in grado di attirare i capitali esteri
necessari per finanziare un deficit pubblico esploso a causa degli
enormi costi del salvataggio del sistema bancario inglese, del
pacchetto di misure di rilancio dell’economia e della contrazione
delle entrate fiscali.
In Europa i primi segnali di
sfiducia nei titoli di Stato si manifestano anche in modo diretto
attraverso l’aumento del differenziale dei rendimenti tra le
obbligazioni dello Stato tedesco e quelle di Paesi come Grecia,
Portogallo ed Italia.
E proprio il timore di una crisi di fiducia nei confronti dei titoli
di Stato dei Paesi con debiti pubblici considerevoli ha giustamente
spinto il governo tedesco a contrastare le proposte di grandi
pacchetti di rilancio economico perorate da Francia e Gran Bretagna.
Tutto ciò fa prevedere che le scelte dolorose non siano più
rinviabili. I governi saranno presto costretti a prendere atto che è
fallito il tentativo di salvare il sistema bancario. Gli interventi
non sono riusciti a ricreare un clima di fiducia (le stesse banche
continuano a non prestarsi i soldi tra loro), i buchi nascosti nelle
pieghe dei bilanci delle grandi banche continuano ad allargarsi e
sono destinati ad aumentare ancor più a causa della crescita delle
insolvenze dovuta alla recessione.
Inoltre, nonostante i capitali e le garanzie statali, le banche
stanno stringendo l’accesso al credito da parte di imprese e
famiglie, e la crisi, che all’inizio era limitata al mercato
interbancario, si è estesa investendo il mercato monetario, i
finanziamenti a breve delle imprese e ora anche il mercato dei
capitali. Si deve purtroppo
constatare il fallimento delle misure finora adottate ed evitare che
si distrugga la vera ricchezza di tutti i Paesi, ossia il loro
tessuto industriale.
Gli Stati Uniti, che
continuano ad essere l’epicentro della crisi, hanno implicitamente
già riconosciuto il fallimento delle azioni finora intraprese e
hanno deciso di correre il rischio del crollo del dollaro e
dell’iperinflazione, stampando in grande quantità dollari per
cercare di turare le falle che continuano ad aprirsi.
Questa scelta appare logica e forse anche attraente per un Paese
fortemente indebitato, che teme la deflazione come un disastro dal
quale non riuscirebbe più a risollevarsi. L’inflazione invece ha il
potere di ridurre lo stock del debito di famiglie, imprese, Stato e
Paese e quindi anche di risanare il sistema bancario statunitense.
Il sogno dei banchieri
americani è proprio un grande incendio inflazionistico che bruci la
carta straccia prodotta negli ultimi anni. Il sentiero imboccato
dagli Stati Uniti, che oggi sembra in discesa, diventerà però una
salita particolarmente ripida non appena asiatici ed arabi si
dimostreranno riluttanti a finanziare le enormi spese americane. Il
segnale d’allarme verrà quindi dato dal calo del dollaro.
I Paesi europei, invece, che
possono vantare conti con l’estero equilibrati e buoni tassi di
risparmio delle famiglie, non dovrebbero seguire la politica
americana, ma quella indicata dal governo tedesco. Berlino
dice sostanzialmente che la crisi sarà lunga e non bisogna bruciare
subito tutte le cartucce, anche perché non è certo che i piani di
rilancio producano risultati significativi.
Inoltre, sempre secondo il
governo tedesco, bisogna difendere la credibilità dei titoli con cui
gli Stati si finanziano, evitando di trasformare questa crisi in una
devastante crisi monetaria. Questa prudenza appare
condivisibile anche perché nessuno sa se c’è e quale sia la ricetta
per uscire dal disastro provocato dall’oligarchia finanziaria di
Wall Street e da coloro che in tutto il mondo ne hanno imitato le
gesta.
 |
Fonte
- Corriere del Ticino |
DRAMMATICO SIMBOLO DI UNA
PRESIDENZA:
BUSH PRESO A SCARPE IN FACCIA
15 Dicembre 2008 00:18 BAGDAD
(IRAQ)
-
di Corriere della Sera ______________________________________________
Fuori programma a Bagdad per
George W. Bush. Durante la conferenza stampa congiunta con il
premier iracheno Nuri al Maliki nella sua residenza un
giornalista iracheno ha lanciato le scarpe contro il presidente
Usa che è riuscito a schivarle.
L'uomo, portato via dalle forze di sicurezza, era seduto in
terza fila e mentre i due leader si stringevano le mani davanti
alle telecamere, si è alzato in piedi gridando rivolto a Bush
«questo è il tuo bacio d'addio, cane» e lanciando subito dopo
una scarpa dopo l'altra verso il presidente Usa.
SCHIVATE - Bush si è chinato per evitare la prima scarpa mentre
la seconda l'ha evitata per un pelo. Il presidente ha tentato di
sdrammatizzare l'accaduto ironizzando: «L'unica cosa che posso
dirvi che si trattava di scarpe taglia 10 (una 42 in Italia,
ndr)». Nella cultura islamica l'insulto «cane» con cui Bush è
stato apostrofato dal giornalista è considerato uno tra i più
pesanti perché quello che in occidente è considerato il miglior
amico dell'uomo dai musulmani è visto come un animale impuro.
Allo stesso modo essere colpito dalla suole delle scarpe è un
altro affronto. Quando il 9 aprile del 2003 le truppe Usa
entrarono a Baghdad abbattendo una grande statua di Saddam
Hussein molti tra gli iracheni presenti si scagliarono
sull'effigie del rais colpendola con le scarpe per sfregio.
CHI È -Il giornalista iracheno è stato individuato come Muntazer
al-Zaidi del canale tv «Al-Baghdadia», di proprietà irachena ma
diffuso dal Cairo. Altri giornalisti iracheni presenti nella
sala si sono alzati in piedi per scusarsi con Bush che ha
ringraziato minimizzando: «Vi ringrazio... ma in realtà non ho
capito cosa volesse quel tizio».
LA GUERRA NON È ANCORA FINITA - L'incidente dopo che il
presidente aveva affermato, parlando davanti ai giornalisti che
«la guerra in Iraq non è ancora finita». Scambiando alcune
battute con la stampa al suo seguito dopo avere incontrato il
premier iracheno Nuri al-Maliki, Bush ha aggiunto: «C'è ancora
lavoro da fare», prima di precisare che l'accordo di sicurezza
firmato tra Usa ed Iraq, garantisce al paese mediorientale «una
solida base, per oggi e per il futuro». L'accordo, che prevede
la fine di una presenza militare americana di ampio respiro
entro il 2011, è stato raggiunto nei giorni scorsi
LA VISITA - Era stata una visita a sorpresa. Come sempre è
avvenuto, per ovvie ragioni di sicurezza. Ma la sicurezza non è
mai troppa. Il presidente americano George W. Bush è giunto
domenica in Iraq, ha precisato la Casa Bianca, per incontrare i
leader iracheni, ringraziare le truppe e per celebrare il nuovo
accordo sulla sicurezza raggiunto con il governo iracheno.
La visita arriva all'indomani del via libera nel Parlamento
iracheno dell'intesa siglata con gli Usa, che prevede il ritiro
di tutte le truppe statunitensi entro la fine del 2011. Si
tratta della quarta visita di Bush dall'invasione americana del
paese nel 2003.
GLI INCONTRI - Sebbene l'Iraq sia ormai scivolato nell'ordine di
priorità delle preoccupazioni statunitensi, surclassato dalla
recessione che ha colpito l'economia Usa, i sondaggi mostrano
che per la maggior parte degli americani la guerra è stata un
errore. Dopo quasi 6 anni dall'inizio di un conflitto che è
costato la vita a più di 4.200 militari Usa e e a decine di
migliaia di iracheni, in Iraq rimangono ancora 140.00 soldati
statunitensi. Il segretario alla Difesa, Robert Gates, giunto a
Baghdad sabato, anche lui senza preavviso, ha comunque
assicurato passando in rassegna le truppe «che le forze
statunitensi nel Paese sono entrate nell'ultima tappa
dell'impegno preso da Washington in Iraq».
Fonte
-
Corriere della Sera
Fed porterà tassi vicino a zero,
pensa a misure non tradizionali
15 Dicembre 2008 13:56
-
di REUTERS ______________________________________________
WASHINGTON (Reuters) - Federal
Reserve dovrebbe tagliare domani i tassi di interesse Usa,
avvicinandoli allo zero, ma quello che realmente avrà importanza
saranno le osservazioni dell'istituto centrale su eventuali
misure 'non convenzionali' da utilizzare contro la recessione.
Gli economisti prevedono una dichiarazione chiara da parte della
banca centrale su un dispiego aggressivo di "manovre
quantitative di allentamento", per mettere al riparo l'economia
da una forte contrazione, ma si dovrà probabilmente attendere
per conoscere i dettagli di tali misure. La dichiarazione,
secondo gli economisti, accompagnerà la decisione di un taglio
del target per i tassi overnight di almeno mezzo punto
percentuale che porterebbe i tassi sui fondi federali allo 0,5%,
ai minimi della serie ufficiale iniziata nel luglio del 1954.
Il taglio dovrebbe essere
annunciato domani al termine di un incontro di due giorni,
prolungato rispetto all'originale durata di un giorno proprio
per permettere lo studio di passi inusuali finalizzati a ridare
fiato all'economia in crisi. "Da adesso in poi la politica
monetaria, nel tentativo di stimolare l'economia, dovrà basarsi
su strumenti non tradizionali, che non rientrano esclusivamente
nei cambiamenti dei tassi di interesse", ha commentato l'ex
governatore della Fed Lyle Gramley. "Si dovrà certamente
ammettere che in futuro andranno utilizzati in maniera
aggressiva metodi non tradizionali per aiutare l'economia". Dal
fallimento a settembre della banca d'investimenti Lehman
Brothers, il crollo dell'immobiliare Usa ha scatenato il panico
nel mercato del credito, colpendo l'intera economia. Molti
economisti prevedono la riduzione dell'attività economica
americana di almeno un annualizzato 6% nel quarto trimestre,
mentre balza il livello di disoccupazione. E' stato lo stesso
presidente della Fed Ben Bernanke a prevedere, in un discorso a
inizio mese, l'utilizzo di misure quantitative di allentamento,
le stesse che la banca del Giappone he messo in atto per porre
fine a dieci anni di stagnazione deflazionistica negli anni '90,
iniettando liquidità nel sistema bancario.
Bernanke ha sottolineato che
Federal Reserve utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione per
proteggere l'economia. Sullo sfondo di rendimenti dei titoli di
Stato già molto bassi ed elevati costi nel finanziamento al
settore privato legati al timore delle banche nel concedere
prestiti, gli analisti sono del parere che la banca centrale
potrebbe intervenire sui mutui privati per far scendere i costi
dei prestiti garantiti da immobili. Acquistando titoli garantiti
da mutui la banca centrale potrebbe favorire il ridursi del
differenziale di rendimento tra i tassi sulle obbligazioni e
quelli sui titoli di Stato, consentendo alle banche di concedere
finanziamenti a tassi meno elevati. Tassi inferiori sui mutui
dovrebbero rilanciare la domanda di immobili frenandone la
discesa dei prezzi e limitando così le massicce perdite nei
bilanci bancari che hanno innescato la crisi globale del
credito. "Il mio consiglio alla Fed si riassume in un'unica
parola; 'spread'. Fortunatamente non cerdo Bernanke abbia
bisogno di un consiglio simile perché lo capisce" osserva Alan
Blinder, ex vice Fed e docente di economia a Princeton. La banca
centrale Usa ha già avviato un orientamento monetario espansivo
di un genere simile a quello quantitativo, iniettando oltre
1.000 miliardi di dollari di nuovi fondi sul mercato
interbancario in modo da prevenirne il congelamento. Simili
misure di liquidità vengono tradizionalmente "sterilizzate" al
fine di non accrescere l'offerta di moneta con ricadute
sull'inflazione.
Federal Reserve ha però
abbandonato simili misure nel tentativo di ridurre i costi dei
finanziamenti al settore privato, rimasti finora elevati
nonostante ripetuti e aggressivi tagli dei tassi ufficiali. I
timori di inflazione sono inoltre stati sostituiti da quelli di
un'eccessiva caduta dei prezzi che porti addirittura a
deflazione, come è successo all'economia nipponica negli anni
'90. "L'obiettivo chiave è quello di acquistare asset che
possano muovere gli spread: la politica monetaria ha lo scopo di
ridurre i costi di finanziamento per consumatori e imprese"
osserva Dean Maki, uno dei due economisti capo per gli Usa di
Barclays Capital. "Non riteniamo che il miglior utilizzo del
bilancio Fed sia un'ulteriore riduzione del tasso privo di
rischio" aggiunge. Per tasso 'risk-free' si intende quello sui
titoli di Stato dal momento che Washington, che può far stampare
dollari attraverso Federal Reserve, non potrebbe per questo
risultare insolvente sul debito in valuta Usa. Sul sito
www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano
Fonte
- Reuters
TASSI USA: TARGET FED FUNDS DA 0.0%
A 0.25%
16 Dicembre 2008 20:21 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Una mossa clamorosa, non era mai
accaduto prima: la Federal Reserve abbassa i tassi americani
drasticamente, lasciando il target dei fed funds in un range
compreso tra 0.00% e 0.25%, rispetto al precedente 1.0%.
Una mossa clamorosa, non era mai accaduto prima: la Federal
Reserve abbassa i tassi americani drasticamente, lasciando il
target dei fed funds in un range compreso tra 0.00% e 0.25%,
rispetto al precedente 1.0%.
Il taglio, il nono consecutivo nella serie di ribassi iniziata
nell'ottobre 2007, ha un’entita’ minima pari allo 0.75%. La
decisione segue il taglio di mezzo punto percentuale deciso nel
meeting di fine ottobre. Abbassato dello 0.75% anche il tasso di
sconto allo 0.50%.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di fissare il
target sui fed funds in un range compreso tra lo 0.00% e lo
0.25%.
Dall’ultimo meeting del Comitato, le condizioni del mercato del
lavoro si sono deteriorate, e gli ultimi dati disponibili
indicano che la spesa al consumo, gli investimenti aziendali e
la produzione industriale sono diminuiti. I mercati finanziari
restano sotto pressione e le condizioni del mercato del credito
restano difficili. Nel complesso, l’outlook sull’attivita’
economica si e’ indebolito ulteriormente.
Nel frattempo, le pressioni inflazionistiche si sono ridotte
considerevolmente. Alla luce del calo dei prezzi energetici e di
altre commodities e delle deboli prospettive per l’attivita’
economica, il Comitato si aspetta un’ulteriore moderazione
dell’inflazione nei prossimi trimestri.
La Federal Reserve fara’ uso di tutti gli strumenti disponibili
per promuovere il ripristino di una crescita economica
sostenibile e garantire la stabilita’ dei prezzi. In
particolare, il Comitato anticipa che le deboli condizioni
economiche garantiranno probabilmente bassi livelli del costo
del denaro per ancora diverso tempo.
L’obiettivo della politica adottata dal Comitato in futuro sara’
quello di supportare il funzionamento dei mercati finanziari e
stimolare l’economia attraverso operazioni a mercato aperto ed
altre misure che sostengano il bilancio della Fed ad un elevato
livello. Come annunciato in precedenza, nei prossimi trimestri
la Federal Reserve acquistera’ larghe quantita’ di debito ed MBS
(Mortgage Debt Securities) per fornire supporto ai mercati dei
mutui ed immobiliare, e rimarra’ pronta ad espandere l’acquisto
di tali strumenti. Il Comitato sta inoltre valutando i
potenziali benefici legati all’acquisto di Treasury di lungo
termine. Agli inizi del prossimo anno la Federal Reserve
implementera’ il programma di Term Asset-Backed Securities Loan
Facility per facilitare l’estensione del credito alle famiglie e
alle aziende. La Federal Reserve continuera’ a considerare
diversi modi nell’utilizzo del proprio bilancio per supportare
ulteriormente i mercati del credito e l’attivita’ economica.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Christine M. Cumming;
Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn; Randall S.
Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; e
Kevin M. Warsh.
In un’azione collegata, Il Consiglio dei Governatori ha
approvato all’unanimita’ l’abbassamento di 75 punti base del
tasso di sconto allo 0.50%. In tale azione, il Consiglio ha
approvato le richieste presentate da Board of Directors delle
Federal Reserve Bank di New York, Cleveland, Richmond, Atlanta,
Minneapolis e San Francisco.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di ridurre il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
The Federal Open Market Committee decided today to establish a
target range for the federal funds rate of 0 to 1/4 percent.
Since the Committee's last meeting, labor market conditions have
deteriorated, and the available data indicate that consumer
spending, business investment, and industrial production have
declined. Financial markets remain quite strained and credit
conditions tight. Overall, the outlook for economic activity has
weakened further.
Meanwhile, inflationary pressures have diminished appreciably.
In light of the declines in the prices of energy and other
commodities and the weaker prospects for economic activity, the
Committee expects inflation to moderate further in coming
quarters.
The Federal Reserve will employ all available tools to promote
the resumption of sustainable economic growth and to preserve
price stability. In particular, the Committee anticipates that
weak economic conditions are likely to warrant exceptionally low
levels of the federal funds rate for some time.
The focus of the Committee's policy going forward will be to
support the functioning of financial markets and stimulate the
economy through open market operations and other measures that
sustain the size of the Federal Reserve's balance sheet at a
high level. As previously announced, over the next few quarters
the Federal Reserve will purchase large quantities of agency
debt and mortgage-backed securities to provide support to the
mortgage and housing markets, and it stands ready to expand its
purchases of agency debt and mortgage-backed securities as
conditions warrant. The Committee is also evaluating the
potential benefits of purchasing longer-term Treasury securities.
Early next year, the Federal Reserve will also implement the
Term Asset-Backed Securities Loan Facility to facilitate the
extension of credit to households and small businesses. The
Federal Reserve will continue to consider ways of using its
balance sheet to further support credit markets and economic
activity.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke,
Chairman; Christine M. Cumming; Elizabeth A. Duke; Richard W.
Fisher; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto;
Charles I. Plosser; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh.
In a related action, the Board of Governors unanimously approved
a 75-basis-point decrease in the discount rate to 1/2 percent.
In taking this action, the Board approved the requests submitted
by the Boards of Directors of the Federal Reserve Banks of New
York, Cleveland, Richmond, Atlanta, Minneapolis, and San
Francisco. The Board also established interest rates on required
and excess reserve balances of 1/4 percent.
Fonte
- WallStreetItalia.com
FED: CONTINUA A FARE
GLI STESSI ERRORI DI SEMPRE
17 Dicembre 2008 02:28 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Inutile che la borsa festeggi con
grandi rialzi la decisione della Fed. Non ha alcun senso.
L'amara realta' invece, e' che la situazione economica americana
e mondiale e' grave, anzi gravissima. Siamo tutti nei guai piu'
neri. E il trasformare gli Stati Uniti in Giappone, non aiuta
affatto.
Lo straordinario passo della Federal Reserve, che ieri ha
abbassato i tassi Usa a breve ad un record minimo storico
assoluto, praticamente a ZERO, non ha precedenti. Non si era mai
visto nulla del genere, ne' in questa generazione ne' in altre,
nemmeno durante la fase di ricostruzione seguita alle
devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. E nemmeno ai tempi
della Grande Depressione.
Di fatto, l'attuale scenario puo' essere simbolizzato
figurativamente in un detto popolare americano: "Quando tutto
quel che hai e' un martello, ogni cosa somiglia a un chiodo". Il
che tradotto significa: con una recessione pesante, con tassi
addirittura negativi rispetto all'inflazione, proprio per
l'eccesso di creazione di credito causata - dal 2001 in poi -
dalla Federal Reserve di Alan Greenspan, la soluzione della
Federal Reserve di Ben Bernanke e'... "ancora piu' credito"?
Aiuto! Cos'altro ci puo' aspettare adesso?
Intanto i problemi sistemici sul mercato monetario, come dice
Goldman Sachs, si intensificheranno invece di diminuire. Ad un
tasso dello 0%, sara' dura per i fondi monetari sia coprire i
costi, sia dare un qualsiasi rendimento "positivo" agli
investitori. Il che equivale a incoraggiare la fuga da questi
fondi.
Senza contare che si prepara lo scoppio fragoroso di un'altra
bolla ormai gia' formata, quella dei prezzi dei titoli del
Tesoro americano, giunti a livelli pericolosi (senza contare il
parallelo affossamento del dollaro). Inoltre, se avete
conservato ancora un minimo di buon senso, basta guardare il
grafico qui sopra: c'e' da aver paura. Altro che "elicottero
Bernanke" dell'iconografia finanziaria popolare.
Ma per capire davvero per quali motivi Bernanke e Paulson stanno
difendendo SOLO gli interessi della solita lobby di potere e non
quelli della gente comune, dei cittadini e dei proprietari di
case, bisogna che sappiate qualcosa in piu'. Che finora nessuno
vi aveva mai detto.
Fonte
- WallStreetItalia.com
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Soldi
regalati. Così Bernanke scuote l'America
17 Dicembre 2008 14:23 NEW
YORK - di Massimo Gaggi
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«Hanno sparato tutti i
proiettili del loro cannone in una volta sola», commenta Alan
Blinder, economista democratico, compagno di accademia di Ben
Bernanke a Princeton ed ex membro del Consiglio dei governatori
della Banca centrale statunitense.
Sono trascorsi pochi momenti dopo la decisione della Federal Reserve
di chiudere il 2008, l’"anno orribile" della finanza Usa, con una
raffica di misure senza precedenti: riduzione di tre quarti di punto
(dall’1 allo 0,25 per cento, con un margine di flessibilità fino a
zero) del tasso-base ("federal funds") applicato ai finanziamenti a
breve scadenza della Fed alle banche; spostamento dell’attenzione
dalla politica dei tassi (che ha, ormai, un’efficacia limitata) al
cosiddetto "quantitative easing", cioè un fortissimo aumento della
liquidità trasmessa al sistema economico basato sull’allargamento
della base monetaria ottenuto stampando moneta e su massicci
acquisiti di titoli a lungo termine del Tesoro e di obbligazioni
basate su pacchetti di mutui-casa per cercare di ridare fiato al
settore immobiliare; uso di un ventaglio sempre più ampio di
strumenti innovativi per far affluire prestiti a breve al sistema
bancario.
Mai, nemmeno in tempo di
guerra, la Fed aveva portato i suoi tassi praticamente a zero: un
costo del denaro ormai ampiamente negativo, se teniamo conto
dell’inflazione. Mai aveva adottato simultaneamente tante misure
così impegnative per il suo bilancio. Del resto il momento è di
assoluta emergenza e gli strumenti tradizionali della politica
monetaria sono ormai praticamente arrivati a fine corsa, come ha
fatto notare ieri anche Barack Obama, senza aver dato i risultati
attesi.
Non resta, quindi, che
passare alle "cure da cavallo": denaro praticamente "regalato"; Fed
che in pochi mesi ha triplicato le dimensioni del suo bilancio per
cercare di sostenere l’economia e che si si è praticamente
sostituita alle banche ordinarie, semiparalizzate dalla grave crisi
finanziaria. Una banca centrale che, da creditore di "ultima
istanza", diventa il creditore di prima e unica istanza e che
accetta di essere pagato dagli istituti del mercato coi titoli
"tossici" che hanno accumulato in portafoglio, rappresenta
un’assoluta anomalìa, un evento senza precedenti nella storia delle
istituzioni monetarie.
Ma, come detto, questi sono tempi senza precedenti e la Fed ha
deciso di rischiare il tutto per tutto: inondare il mercato di
denaro a basso costo in genere è il modo giusto per provocare una
fiammata inflazionista, ma stavolta il pericolo è quello opposto, la
deflazione e quindi, almeno nel breve periodo, Bernanke ritiene che
questo intervento sia giustificato.
Certo, esponendosi in modo
così estremo la Fed mette in pericolo la sua stessa stabilità e
favorisce lo sviluppo di un’altra bolla, quella del debito pubblico
del Tesoro. Ma, anche qui, i banchieri centrali americani ritengono
di non avere più alternative.
E infatti, nonostante, le
divergenze che erano emerse nei mesi scorsi su alcune scelte di
fondo dell’Istituto, ieri i governatori del Fomc, il comitato che
guida la politica monetaria Usa, ieri hanno votato all’unanimità le
misure draconiane adottate dopo un "conclave" durato due giorni.
La Fed ha addirittura messo
nero su bianco che, davanti all’indebolimento dell’economia e alla
prospettiva di una recessione prolungata, i "governatori" intendono
perseguire a lungo l’attuale politica di sostanzia le azzeramento
del costo del denaro per il sistema bancario.
Ben Bernanke, che da
economista ha lungamente studiato gli errori commessi dalle autorità
monetarie Usa all’epoca della "Grande Depressione" e che una decina
d’anni fa consigliò di curare la lunga stagnazione giapponese con
una ricetta analoga a quella che sta applicando oggi negli Usa,
sta praticamente applicando
una logica espansiva "rooseveltiana" alla politica monetaria, in
attesa del nuovo "New Deal" di Obama che si insedierà alla Casa
Bianca solo alla fine di gennaio. I maligni sostegno che, col
suo attivismo, Bernanke stia cercano di guadagnare credito col nuovo
presidente, visibilmente deluso dai scarsi risultati fin qui
ottenuti dalla cura della Fed e del Tesoro di Henry Paulson.
Ma è un sospetto ingeneroso, visto che
l’ex professore di Princeton
ha dedicato gran parte della sua vita accademica a studiare le
conseguenze negative dello scarso attivismo delle autorità monetarie
Usa nella crisi degli anni ’30 del secolo scorso. Seguire la rotta
opposta è, quindi, per lui un obbligo.
Il problema è quello di
stabilire fino a che punto spingersi per non mettere a repentaglio
la stessa Fed.
Per ora Bernanke è alle prese con soggetti privati che, impauriti
dalla crisi, neutralizzano la spinta dei poteri pubblici in
direzione di una riattivazione del credito. Per questo è costretto a
spingersi sempre più in là: a immettere più moneta per compensare la
riduzione della velocità di circolazione di quella esistente. Un
equilibrio delicato che diventerà esplosivo quando sui mercati
tornerà un buon livello di fiducia.
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Fonte
- Corriere della Sera |
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Mercoledì 17
Dicembre 2008 |
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Mercoledì 17
Dicembre 2008 |
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Domenica 28
Dicembre 2008 |
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Recessione
USA: la bomba atomica di Bernanke
17 Dicembre 2008 14:51
PECHINO - di Federico Rampini
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Audace, avventurosa, o
disperata. La Federal Reserve ha tagliato i tassi d´interesse a un
livello senza precedenti nella storia americana. È una svolta,
l´inizio di una nuova fase nella guerra di resistenza combattuta
dall´autorità monetaria Usa contro questa crisi.
Nel centro del capitalismo globale si apre l´era del "denaro allo
zero per cento". È un territorio inesplorato. L´euforia iniziale di
Wall Street segnala la speranza che la banca centrale americana
abbia tirato fuori l´arsenale nucleare, che Ben Bernanke sia
disposto a tutto pur di impedire una Grande Depressione.
Ma quali segnali profondi
riceve tutto il resto dell´economia da questo gesto? Secondo
l´ultimo sondaggio Gallup il 70% degli americani è convinto di
essere già in una depressione. Per loro la mossa estrema della Fed
potrebbe suonare come una conferma, e quindi incitare a
comportamenti ancora più prudenti.
S´intuisce una nota di
panico anche nelle stanze di comando delle banche centrali. Ormai
sono crollati i miti sulla loro onnipotenza. Anche nella
decisione di ieri in realtà la Fed si è mossa a rimorchio dei
mercati. Già da diversi
giorni nelle aste dei Treasury Bonds (i Bot americani) era accaduto
l´inverosimile: la domanda di quei titoli sicuri da parte degli
investitori era impazzita, fino a fare calare i tassi di alcune
emissioni sotto lo zero. La corsa verso il titolo pubblico -
a questo punto più sicuro di un conto corrente o di un libretto
postale - aveva portato a questo paradosso: masse di capitalisti
privati e gestori di fondi sono disposti a pagare un interesse al
Tesoro Usa pur di prestargli del denaro. E´ il mondo alla rovescia,
il salto dall´altra parte dello specchio.
Se alcuni Bot americani danno un rendimento negativo, un interesse
passivo, i tassi ufficiali si adeguano. E´ la presa d´atto che siamo
in piena deflazione, una malattia che in Occidente nessun
contemporaneo ha sperimentato in età adulta.
Il mondo normale, quello in
cui siamo vissuti dalla seconda guerra mondiale in poi, è un luogo
dove i prezzi aumentano di anno in anno. Chi presta i propri
risparmi - a una banca, allo Stato - deve tutelarsi dal fatto che il
tempo è inflazione e svaluta il denaro, quindi occorre ricevere un
interesse adeguato.
Ma se improvvisamente i prezzi scendono - come stanno scendendo in
America - il ragionamento si rovescia. La liquidità guadagna valore
col passare del tempo, anche se frutta tasso zero. Un tasso negativo
può essere il prezzo da pagare per chi te la custodisce al sicuro,
come si paga un affitto per usare una cassetta di sicurezza in una
banca.
Il rendimento zero però
riguarda i tassi ufficiali della banca centrale americana. Non
significa affatto che siano precipitati i tassi sui mutui
immobiliari, sulle carte di credito, sui prestiti alle imprese. Le
banche commerciali il denaro se lo fanno ancora pagare; addirittura
lo razionano. Qui sta una contraddizione che attanaglia la Fed. La
cinghia di trasmissione della politica monetaria si è rotta.
Anche se l´autorità centrale presta capitali a costo zero, gli
intermediari bancari non "passano il favore" al resto dell´economia.
Perciò Bernanke è costretto ad aggiungere all´arma del tasso zero
altre azioni eterodosse: la Fed va sul mercato a comprare
titoli scadentissimi, emessi dalle società di finanziamento
immobiliare, perché la sua generosità arrivi alle famiglie sotto
forma di mutui a buon mercato. Neppure questa politica però dà
risultati certi nell´immediato.
Si rischia di scivolare
dentro la "trappola della liquidità" che Keynes studiò nella crisi
degli anni Trenta: anche regalando i soldi alle banche o alle
famiglie, quei fondi vengono accaparrati e messi in riserva, tale è
la paura sistemica.
Una immagine hollywoodiana descrive il caso-limite in cui la Fed
manda a sorvolare l´America degli elicotteri che lanciano pacchi di
banconote su tutto il territorio nazionale.
Ormai la realtà si avvicina
a quello: dal mese di settembre la banca centrale di Washington ha
stampato mille miliardi di dollari di nuova moneta. Senza effetti di
ripresa. I consumi, la produzione industriale, le costruzioni di
case, tutto continua a scendere.
Se i leader dell´Occidente
fossero meno convinti di essere l´ombelico del mondo, da mesi
starebbero studiando il caso dell´unico grande paese sviluppato ad
avere conosciuto la deflazione dopo la seconda guerra mondiale. Il
Giappone ne è stato prigioniero negli anni Novanta. La sua banca
centrale provò rimedi molto simili a quelli ora sperimentati dalla
Fed. Per sei anni Tokyo ebbe tassi negativi, senza successo.
E´ come la politica degli sconti favolosi che le catene degli
ipermercati americani stanno offrendo ai clienti. Non c´è saldo che
tenga quando il consumatore non vuole spendere, per ragioni profonde
che nulla hanno a che vedere col livello dei prezzi: per esempio se
si è convinto di dover ridurre in modo durevole il livello dei suoi
debiti.
L´azzardo di ieri della Fed
non è condiviso da tutti. Il mondo è spaccato in due. Da una parte
c´è chi vede la Grande Depressione alle porte, e dunque ritiene che
si debba abbandonare ogni cautela. Altri, Germania in testa,
osservano con orrore l´escalation incontrollata dei debiti, foriera
di future iperinflazioni.
Ma se il resto del mondo si dissocia dalla terapia americana, questo
accelera la sfiducia nel dollaro che riprende a cadere, aprendo
possibili scenari di guerre protezioniste. Un autorevole consigliere
economico di Obama ha osservato che ormai non si tratta di «evitare
un altro 1929» perché quella sfida è già stata persa con la
distruzione di ricchezza finanziaria del 2008. Ora si tratta di
capire come evitare il 1930, il 1931, il 1932, il 1933.
 |
Fonte
- La Repubblica |
Bear Stearns, un salvataggio
superfluo?
Wednesday, 17 December, 2008 at
11:06
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il New York Times si chiede il
motivo della disparità di trattamento fra Lehman e Bear Stearns,
implicando che le autorità avrebbero dovuto salvare anche Lehman.
Ci si dovrebbe chiedere, invece, perché non abbia lasciato fare
per una volta al mercato anche nel caso di Bear Stearns.
La Fed ha concesso finanziamenti e garanzie per 28 miliardi di
dollari a J.P.Morgan pur di salvare Bear Stearns, ma ha
rifiutato di farlo per salvare Lehman, che era in trattative per
vendersi a Barclays. Eppure, dagli ultimi documenti emerge come
subito dopo il fallimento abbia concesso liquidità per 138
miliardi, seppure a brevissimo termine, ad una delle sussidiarie
di Lehman.
Si noti che il prestito a brevissimo termine a Lehman, prima o
dopo il fallimento, è molto più vicino alla mission “originale”
della Federal Reserve che il finanziamento da 28 miliardi al
veicolo in cui sono confluiti gli asset tossici di Bear Stearns.
La giustificazione addotta per entrambi i prestiti è la
medesima: evitare che l’insolvenza di una banca d’affari
attivissima nella compravendita di derivati scatenasse una
reazione a catena che destabilizzasse il sistema bancario
americano.
Il motivo addotto può essere valido o meno, ma un risultato è
chiaro: la Fed sta perdendo miliardi sul deal di Bear Stearns,
mentre il contribuente non ha perso un dollaro su Lehman, il cui
fallimento ha creato problemi persino maggiori di Bear Stearns,
ma che non ha avuto certo l’effetto devastante che si temeva. Le
procedure per smontare e liquidare ordinatamente le attività di
intermediazione in derivati hanno retto alla prova, anche se
ovviamente la lezione ha evidenziato la necessità di una
ulteriore evoluzione.
Il mercato, insomma, ha dimostrato di poter sopportare
fallimenti anche giganteschi e di aver evoluto meccanismi,
sicuramente molto migliorabili, per gestire la liquidazione di
uno degli intermediari principali, confutando la necessità delle
condizioni di favore concesse a J.P.Morgan. Il dubbio, quindi,
non dovrebbe essere sul motivo per cui Lehman non è stata
aiutata, ma sul motivo per cui la Fed abbia gettato soldi e
reputazione nell’inutile salvataggio di Bear Stearns.
Sempre più vicini alle porte di
Tannhauser
Thursday, 18 December, 2008 at
17:18
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il grande critico dei salvataggi
bancari Willem Buiter è convinto che le Banche Centrali abbiano
un metodo drastico, ma radicale per risolvere il maggiore
problema del sistema dei pagamenti, l’unico di cui si dovrebbero
veramente preoccupare: l’assenza di liquidità nel mercato del
prestito interbancario e l’elevato livello del tasso Libor a 3
mesi, il benchmark per tale mercato. Buitler vorrebbe che le
Banche centrali diventassero, di fatto, dealer sul mercato e
fornitori diretti di liquidità sino a scadenze trimestrali.
La proposta è quella di prestare direttamente, senza garanzie,
ad uno spread fisso sopra l’OIS, Overnight Interest Rate Swap,
per banche con rating AA ed A; in contemporanea, la banca
centrale accetterebbe anche depositi ad uno spread inferiore o
negativo, in modo da stabilire un benchmark anche per le
operazioni di segno opposto. La BCE e la Fed, al momento,
cercano di influenzare il mercato monetario ed interbancario
tramite la manipolazione dei tassi per operazioni della durata
tipica di due settimane al massimo, lasciando il resto
all’interazione di mercato.
Si tratta di una misura estrema, che va ben oltre la proposta di
garantire le transazioni sul mercato ed aumenterebbe enormemente
i rischi per gli istituti di emissione. D’altro canto, tempi
disperati richiedono misure disperate e le banche centrali hanno
già chiarito in più di una occasoine quanto siano pronte di
fatto a statalizzare l’intero settore bancario: la foglia di
fico si fa sempre più tenue.
Autointossicazione o modello da
imitare?
Friday, 19 December, 2008 at 9:00
-
di phastidio ______________________________________________
La divisione banca d’investimento
del Credit Suisse Group ha scoperto un nuovo modo per ridurre il
rischio di perdite derivanti da circa 5 miliardi di dollari di
proprie obbligazioni e prestiti: usarli per pagare i bonus di
fine anno dei dipendenti. La banca userà le cartolarizzazioni su
immobili commerciali ed i leveraged loans, alcuni tra i titoli
accusati di aver causato la peggiore crisi finanziaria dalla
Grande Depressione, per finanziare i compensi dei dirigenti. La
nuova policy si applica solo ai managing directors ed ai
directors, le due prime linee gerarchiche della banca. La platea
interessata all’iniziativa è stimata nell’ordine di alcune
migliaia di dipendenti. Secondo il Chief Executive Officer della
banca, Brady Dougan, e della divisione banca d’investimento,
Paul Calello, questa iniziativa rappresenterà un punto
d’equilibrio tra gli interessi di dipendenti, azionisti e
regolatori, ed aiuterà la banca a posizionarsi correttamente per
il 2009. I titoli verranno posti in un apposito veicolo
d’investimento, di cui i dipendenti interessati all’erogazione
riceveranno titoli. In caso gli attivi conferiti al veicolo
dovessero subire svalutazioni e perdite, i bonus verranno quindi
colpiti per primi.
A inizio dicembre Credit Suisse ha comunicato che eliminerà 5300
impieghi e cancellerà i bonus per i dirigenti, dopo aver
contabilizzato perdite per circa 3 miliardi di franchi svizzeri
in ottobre e novembre, che portano il totale dall’inizio della
crisi all’equivalente di 800 miliardi di dollari. A differenza
di Ubs, la sua rivale di maggiori dimensioni, Credit Suisse non
ha richiesto sostegno governativo. Anche gli investitori esterni
potranno partecipare al veicolo speciale, che sarà dotato di
leva finanziaria per spingerne il rendimento, in quella che
appare l’unica caratteristica “tradizionale” della struttura del
fondo. La banca sarà ripagata per prima. I titoli conferiti al
veicolo (già svalutati mediamente del 65 per cento rispetto al
loro valore originario) resteranno sul bilancio di Credit Suisse,
e saranno detenuti presso la divisione di fund management del
gruppo. La struttura del veicolo implica che ogni guadagno (o
perdita) sui titoli si traduca in una riduzione (aumento) di
pari entità della passività della banca verso i dipendenti.
Questi ultimi riceveranno delle cedole semestrali indicizzate al
Libor più 2,5 punti percentuali. Il valore finale del veicolo
sarà determinato durante i prossimi otto anni, alla scadenza (o
all’insolvenza) di cartolarizzazioni e prestiti.
I pagamenti in denaro che rappresentano una parte del bonus
potranno in futuro essere erogati ai partecipanti, ma saranno
condizionati alla performance degli attivi del veicolo
d’investimento. La banca si attende di iniziare i primi
pagamenti dopo cinque anni, e si accinge anche a modificare
l’erogazione della parte in contanti dei bonus. Nel nuovo
regime, la banca avrà il diritto di recuperare parte del bonus
pagato in contanti a managing directors e directors nei due anni
successivi alla erogazione, in caso di dimissioni del
dipendente.
Il meccanismo progettato da Credit Suisse ha tutta l’aria di una
revocatoria fallimentare ma è un primo, interessante tentativo
di legare i compensi dei top manager alla redditività di lungo
periodo ed al rischio reputazionale della banca, riducendo
drasticamente gli incentivi alla massimizzazione degli utili di
breve periodo. Forse i vertici delle banche americane dovrebbero
organizzare dei periodi di studio in Svizzera.
Fonte
- Fonte
- Macromonitor
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Il
fallimento di coloro che fanno
previsioni economiche
23 Dicembre 2008 02:30 NEW
YORK - di Giuseppe Turani
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Secondo lo scenario
Bloomberg Consensus tanto in America quanto in Europa il trimestre
più duro dovrebbe essere l´ultimo del 2008, quello cioè che finirà
il 31 dicembre. Ma c'e' da crederci, dopo i clamorosi sbagli di
quest'anno?
Per il mondo delle
previsioni economiche questa non è stata una buona annata. Mai sono
stati collezionati così tanti errori in uno spazio di tempo così
ridotto. Basterà dire che ancora sei mesi fa gli esperti e i più
grandi centri di ricerca si interrogavano sulla possibilità che il
prezzo del petrolio arrivasse a 200 dollari al barile piuttosto che
a 180. Oggi, invece, siamo poco sopra i 30 dollari e, di
nuovo, fra gli stessi esperti circola l´idea che si potrebbe
scendere fino a dieci dollari al barile. E le navi piene di petrolio
stazionano all´esterno dei porti di destinazione e non scaricano
(prendono tempo) nella speranza che nel giro di qualche giorno il
greggio possa salire almeno di qualche dollaro.
Però la gente ha bisogno di avere un´idea su dove può andare il
mondo e quindi, nonostante i recenti, clamorosi, insuccessi, ecco
che si torna a fare previsioni.
Una delle più aggiornate è
quella di Bloomberg Consensus, per la quale sono stati interrogati
decine e decine di esperti. Lo scenario che esce da queste
previsioni (America e Europa) è molto sconfortante. Ma va detto che
si tratta anche, in un certo senso, dello scenario migliore oggi
possibile (al punto che molti non vi crederanno). In sostanza,
questo scenario ha un senso solo se tutto va bene e se nessuno
(sulle due sponde dell´Atlantico) fa una mossa sbagliata.
Ci si aspetta, ad esempio,
che il 20 gennaio Barack Obama vada alla cerimonia del suo
insediamento come presidente degli Stati Uniti con già in tasca i
decreti (da emanare nel pomeriggio) per il rilancio dell´economia
americana. E si parla di mille miliardi di dollari di
investimenti. Molti lavori pubblici, perché sono quelli che fanno
più effetto, vengono meglio in televisione e si pagano poco alla
volta (mano a mano che i cantieri vanno avanti). Ma anche, si dice,
un maxi-piano di super- autostrade informatiche (e tecnologia in
generale) per dare all´America una nuova scossa tecnologica dopo
quella che segnò l´inizio dell´era Clinton.
Lo scenario Bloomberg parte
dalla premessa che tutto questo accadrà. E quindi si esclude che
Obama possa passare due mesi a discutere con i suoi consiglieri e il
Congresso su che cosa mettere nel piano di rilancio. Ma anche in
questo caso (tutti fanno quello che devono fare e nessuno sbaglia)
ne viene fuori il ritratto di un 2009 duro e difficile. La
ripresa, secondo questa previsione, dovrebbe partire nel terzo
trimestre dell´anno prossimo, quindi in autunno, su entrambe le
sponde dell´Atlantico. Solo che l´America avrà una partenza più
sportiva e bruciante. Nel terzo trimestre, infatti, l´aumento del
suo Pil dovrebbe essere dell´1 per cento sul trimestre precedente
(dato annualizzato). Dopo di che l´economia dovrebbe prendere
progressivamente forza e la crisi, a quel punto, potrà essere
considerata veramente superata.
La stessa cosa succederà
(secondo queste previsioni, che in realtà sono solo uno scenario del
genere "quello che vorremmo che accadesse") su questa sponda
dell´Atlantico, in Europa. Solo che nell´area euro la ripresa sarà
visibile solo con microscopi molto potenti: sul trimestre
precedente, infatti, a fine 2009 la crescita dell´area euro sarà
solo dello 0,3 per cento. Ma questo è un dato annualizzato: per
avere quello effettivo, bisogna dividerlo per quattro. E quindi la
crescita effettiva europea sarà inferiore allo 0,1 per cento. Un
soffio, praticamente una brezza avvertibile solo da chi abita ai
piani alti. In compenso l´Europa pagherà il prezzo più alto in
termini sociali. Come "danno collaterale" a fine 2009 si ritroverà
infatti con una disoccupazione complessiva superiore all´8 per cento
(8,35, per la precisione). L´America andrà un po´ meglio, nonostante
le preoccupazioni di questi giorni: solo il 7,90 per cento di
disoccupazione contro il 6,70 per cento di adesso.
Forse a questo diverso
andamento (minore crescita e più disoccupati) non risulterà estraneo
il comportamento delle due banche centrali. Negli Stati Uniti si
pensa che il costo del denaro sarà uguale a zero per tutto l´anno
prossimo. In Europa, invece, non si scenderà mai al di sotto
dell´1,75 per cento. Insomma, su questa sponda dell´Atlantico
trovare dei soldi "per fare delle cose" costerà molto di più che non
in America. E infatti se ne faranno meno (e quindi ci sarà, in
proporzione, più gente senza lavoro e senza busta paga).
Lo scenario Bloomberg
Consensus contiene una sola consolazione: tanto in America quanto in
Europa il trimestre più duro dovrebbe essere l´ultimo del 2008,
quello cioè che finirà il 31 dicembre. Poi andrà ancora male (fino
al terzo trimestre 2009), ma in termini meno pesanti. Come si vede
non c´è da stare allegri. Ma, ripeto, questo che ho appena
illustrato è lo scenario migliore che può capitarci. Qualunque
sbaglio, qualunque "buco" sommerso nel mondo bancario, qualunque
scelta sbagliata nei tempi di intervento potrebbe portarci molto più
in giù. Magari con una crescita che nel 2009 non si fa vedere
affatto e con una disoccupazione che in Europa vola oltre il 10 per
cento.
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Fonte
- La Stampa |
BCE, che
complesso di inferiorità nei confronti della FED
23 Dicembre 2008 04:12 MILANO - di Mario Seminerio
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Nei giorni scorsi è
circolata la notizia di un approccio della Federal Reserve presso il
Congresso, per valutare la possibilità (ad oggi preclusa dalla
legge) che la banca centrale statunitense possa emettere propri
titoli di debito fruttiferi. Secondo gli analisti, questa
eventualità avrebbe soprattutto l’obiettivo di modificare la
composizione delle passività della banca centrale, ad evitare che,
quando la ripresa economica si manifesterà, possa verificarsi una
devastante fiammata inflazionistica.
Pare singolare discutere di inflazione proprio nelle settimane in
cui va formandosi un preoccupato consenso sul rischio di deflazione.
Ma la natura e le implicazioni di questa crisi epocale portano con
sé anche rischi molto eterogenei e potenziali rovesciamenti di
scenario. Per valutare la
mossa della Fed occorre comprendere che, storicamente, le riserve
detenute dalle banche statunitensi presso la banca centrale sono
ammontate ad una cifra compresa tra i 5 e i 10 miliardi di dollari.
Oggi, sono pari a 650 miliardi e la recente decisione di Bernanke di
procedere ad acquisti a titolo definitivo di mutui ipotecari e
cartolarizzazioni aggiungerà non meno di altri 800 miliardi di
dollari al totale.
Al momento della ripresa, la
Fed dovrà "prosciugare" questa montagna di riserve bancarie, per
evitare che si trasformino in una bomba inflazionistica. Per fare
ciò, è possibile che Bernanke ed i suoi collaboratori pensino ad
emettere titoli fruttiferi di debito, che produrrebbero l’effetto di
ricomporre il passivo della Fed. Naturalmente, queste sono
considerazioni (per ora) teoriche. Pensare che la Fed, eventualmente
dotata di autorizzazione ad emettere proprio debito fruttifero,
possa rapidamente prosciugare 1500 miliardi di dollari di riserve in
eccesso che essa ha creato per combattere la stretta creditizia,
rischia di essere irrealistico. Soprattutto perché si tratterebbe di
debito aggiuntivo a quello del Tesoro statunitense, e gli
investitori internazionali (soprattutto la Cina) potrebbero non
volere o potere sottoscrivere questa montagna di carta.
Ma ci sono altre situazioni
di forte rischio potenziale, tutte in qualche modo interconnesse
dall’attuale situazione dei mercati. Una di esse è rappresentata dai
rendimenti sui titoli di stato statunitensi. Nei giorni scorsi
l’asta del T-Bill (l’equivalente del nostro Bot) ha fatto segnare un
rendimento di aggiudicazione lievemente negativo. In altri
termini, gli investitori hanno pagato il Tesoro statunitense per
poterne comprare il debito, ritenuto un porto sicuro nella tempesta
finanziaria. Ma è tutta la curva dei rendimenti a trovarsi su valori
eccezionalmente bassi, ormai del tutto simili a quelli che
caratterizzano da oltre vent’anni i titoli di stato giapponesi.
Possiamo affermare che sui
Treasury bond è in atto una bolla? Per molti aspetti si. E che
accadrà quando sui mercati tornerà la fiducia? Che gli investitori
si libereranno rapidamente di titoli di stato che rendono pressoché
nulla, alla ricerca di opportunità di investimento più remunerative.
In quel momento la Fed si troverà di fronte al dilemma se lasciare
schizzare al rialzo i rendimenti di mercato o frenarne l’ascesa, pur
senza combattere la tendenza di fondo. In questo secondo caso
Bernanke dovrà necessariamente iniettare nuova liquidità nel
sistema, monetizzando il debito, e ciò metterà pressione
all’inflazione.
Nel primo caso, invece, il
violento calo dei prezzi dei titoli di stato, venduti a mani basse
dagli investitori, causerebbe la fuga degli stranieri (si pensi allo
stock di titoli americani detenuto dalla sola Cina), ed un violento
deprezzamento del dollaro. Come si può cogliere da questo abbozzo di
scenario evolutivo, la lungamente agognata ripresa rischia di
portare con sé turbolenze altrettanto gravi di quelle con cui ci
confrontiamo in questo momento di recessione profonda.
Ma anche dall’altro lato
dell’Atlantico, alla sede della Banca Centrale Europea, si cerca di
gestire problematiche altrettanto complesse. Da alcuni giorni
circola l’indiscrezione di un intervento formale dell’istituto di
emissione di Francoforte per sbloccare definitivamente il mercato
interbancario. La Bce è da sempre criticata per la lentezza con cui
sta riducendo il costo del denaro.
Critiche non sempre fondate, sia perché basate sul confronto con
l’azione della Fed, che si svolge entro una differente cornice
istituzionale, sia perché i fondamentali dell’economia dell’Area
Euro sono diversi rispetto a quelli statunitensi. I recenti tagli
dei tassi ufficiali d’interesse sono riusciti a pilotare al ribasso
anche l’interbancario, ma il movimento appare ancora piuttosto
vischioso. Le banche restano timorose a prestarsi fondi oltre
scadenze molto brevi, e ciò malgrado la rete di garanzie pubbliche
messe in atto dai governi nazionali, spesso in modo scarsamente
coordinato.
La apparente "lentezza" con
cui la Bce ha tagliato i tassi deriva, oltre che dai motivi sopra
indicati, anche dal fatto che, nell’attuale contesto, la politica
monetaria non si trasmette completamente ed immediatamente al
sistema creditizio, e da lì all’economia reale. Abbassare i
tassi verso lo zero come fatto dalla Fed, in assenza di un sistema
interbancario e creditizio funzionante equivarrebbe a sprecare
munizioni e raggiungere rapidamente, in caso di aggravamento della
crisi, la condizione di "trappola della liquidità" in cui si trovano
oggi gli Stati Uniti.
Per questo motivo la Bce
starebbe pensando di creare una sorta di cassa di compensazione e
garanzia per il credito interbancario, ed un gruppo di studio è
stato a tal fine istituito presso la Bundesbank. L’obiettivo della
Bce è manifestamente quello di evitare che le misure prese per
garantire i prestiti interbancari siano di tipo nazionale, perché
questo causerebbe una segmentazione del mercato monetario che
sarebbe fonte di distorsioni, dirottando gli scambi sui paesi che
offrono le maggiori garanzie.
In alternativa alla clearing
house, la Bce potrebbe ridurre il tasso che paga alle banche che
depositano presso di essa sulla scadenza overnight. Oggi quel tasso
(pari a 50 centesimi sotto il tasso-chiave di rifinanziamento) è del
2 per cento, inferiore a quello che si potrebbe ottenere
sull’interbancario per pari scadenza, ma le banche continuano a
preferire la sicurezza assoluta. Ridurre quel tasso potrebbe (ma il
condizionale è d’obbligo) modificarne i calcoli di convenienza
relativa. Ove si giungesse anche in Europa a condizioni di
blocco del credito, la Bce avrebbe margini di autonomia molto
inferiori a quelli della Fed, soprattutto a causa della
frammentazione dei mercati nazionali europei di credito.
Non sarebbe ipotizzabile, ad esempio, pensare ad un programma di
acquisto di carta commerciale come quello della Fed, perché in
Europa quel mercato rappresenta una fonte di finanziamento aziendale
soprattutto in Francia, mentre in Germania prevale il tradizionale
credito bancario. Discorso analogo per l’eventuale azione di "easing
quantitativo" compiuta attraverso l’acquisto a fermo di
obbligazioni, pubbliche e private, a scadenza media e lunga:
premesso che oggi la Bce non può acquistare titoli all’emissione ma
solo sul mercato secondario, di quali titoli di stato dovrebbe
trattarsi, trovandosi di fronte a quindici diversi emittenti
nazionali?
Come si comprende da queste considerazioni, spesso le critiche alla
Bce nascono dalla mancata comprensione della frammentazione del
quadro istituzionale e di mercato in cui l’istituto di emissione
opera. Iniziative volte a creare ambiti di gestione sovranazionale
delle criticità, come la citata ipotesi della cassa di compensazione
sull’interbancario, indicano il ruolo di forte supplenza (anche
politica) che la Bce si trova a dover gestire negli ambiti di
propria pertinenza, in assenza di quel federalismo politico che
l’Europa continua a non riuscire a realizzare.
"Armi nascoste? Così ho ingannato tutto il mondo"
31/12/2008 (8:34) - INCHIESTA - di
E. FOLLATH, J. GOETZ, V. WINDFUHR, B. ZAND ______________________________________________
Metà dicembre 2003: Saddam Hussein
è stato catturato e viene tenuto prigioniero in una cella
provvisoria nella zona di massima sicurezza dell’aeroporto
di Baghdad. Intanto, nelle stanze del potere di Washington,
Casa Bianca, Segreteria di Stato, Cia e Fbi si combattono
aspramente sul trattamento da riservare al prigioniero. Sono
tutti d’accordo su un aspetto: dev’essere umiliato. Ma come
procedere? Saddam è la loro unica carta vincente, un’isola
nel mare di notizie catastrofiche, non la si vuole giocare
malamente. Alla fine decidono di lasciarlo a Baghdad sotto
la custodia americana e di farlo processare da giudici
iracheni. Si tratta però di scegliere con particolare cura
l’uomo che dovrà interrogarlo in cella.
Si cerca un americano con genitori arabi, leale verso gli
Stati Uniti e familiare con la mentalità irachena. Un uomo
capace di guadagnarsi la fiducia di Saddam, magari carpirgli
qualche segreto. Fbi e Cia, a sorpresa, arrivano allo stesso
nome: George L. Piro, patriota americano ma anche cittadino
del mondo arabo, conversatore gioviale ma agente spietato,
il genero ideale ma anche un latin lover - un cocktail di
Pierce Brosnan, Enrique Iglesias e molto, molto James Bond.
E’ nato a Beirut, ma ai tempi della guerra civile, quando
aveva 12 anni, fugge con la famiglia negli Stati Uniti. A
vent’anni si arruola nell’Aviazione militare, poi lavora
come poliziotto e, studiando di sera, completa quegli studi
che gli aprono le porte dell’Fbi e della Cia.
Subito dopo l’ingresso a Baghdad Piro ha la sua prima
occasione per studiare i rapporti in Iraq: raccoglie
informazioni e viene istruito su che cosa è «classified» e
che cosa no. Lavora in modo così professionale e sensibile
che i servizi segreti scelgono proprio lui per affidare il
compito più delicato: l’interrogatorio di Saddam. All’epoca
Piro aveva appena compiuto 36 anni e ne aveva appena sei di
servizio: una carriera davvero folgorante.
Nel gennaio 2004 Piro torna dunque in Iraq. Per sei mesi -
fino al processo - visiterà Saddam Hussein in cella quasi
ogni giorno. Il prigioniero, dopo i primi giorni di
disorientamento, ha recuperato il suo sangue freddo, è
tornato a essere il grande manipolatore che cerca di giocare
le sue carte, nulla concede, si tiene coperto.
Piro viene preparato alla sua missione da esperti della Cia,
che gli mostrano il profilo psicologico di Saddam,
sottolineando i suoi punti deboli: è un egomane con una
volontà di ferro che, cresciuto senza padre e senza denaro,
si è ferocemente aperto la strada verso l’alto. Ha manie di
grandezza che si nutrono del suo potere senza limiti e degli
onori che gli vengono tributati. Tutto questo l’ha accecato
al punto che si considera l’erede del re di Babilonia
Nabucodonosor II.
La prima visita di Piro avviene nella cella provvisoria
all’aeroporto di Baghdad. Si rivolge al prigioniero con
molto rispetto ma lo chiama «Mister Saddam», senza titoli.
Lui si presenta come «Mister George». L’ex presidente non
gli chiede il rango, capisce da sé che dev’essere alto,
certamente un agente con accesso diretto al presidente Bush.
Piro rafforza questa impressione dando ordini concisi alle
guardie, che eseguono in un battibaleno. «D’ora in poi sono
io responsabile per qualunque aspetto della sua vita», gli
dice. Sarà lui ad occuparsi di tutto ciò che gli serve,
cibo, abiti, generi di conforto.
Il primo colloquio verte sull’intera storia della
Mesopotamia. Quel giorno non parlano della politica di
Saddam, ma della storia dell’Iraq, delle poesie dell’ex
dittatore, dei suoi quattro romanzi, dei versi che continua
a scrivere in cella. I due uomini si testano a vicenda.
Saddam saggia la forza e le possibilità di manovra
dell’agente che gli siede davanti, gli chiede ad esempio
della carta da scrivere - che ottiene subito - e dei
fazzolettini umidi, con cui si deterge continuamente mani e
viso. Teme i virus.
Il primo incontro è un successo. Piro ha centrato il suo
obiettivo: Saddam è disposto a continuare a parlare con lui,
non lo rifiuta. Per giorni e giorni si parlerà delle nuove
poesie d’amore che va scrivendo, e di donne. Dell’infermiera
che gli ha fatto i prelievi di sangue, Saddam dice che è
«carina». Poi aggiunge che in generale trova le americane
indipendenti: sono capaci, a differenza delle irachene, «di
cavarsela senza uomini».
Nei confronti degli Stati Uniti l’ex dittatore manifesta un
odio-amore. Disprezza i politici di Washington, soprattutto
i due Bush. Reagan invece è l’eccezione: «Era un uomo
d’onore». Ammira però gli americani «normali». Non essendo
mai uscito dai confini del Medio Oriente, la conoscenza che
ha dell’America è quella che gli viene dai film, in
particolare dal «Padrino», il suo preferito. Gli piace Don
Corleone, e ci si identifica.
Lentamente, Piro si avvicina all’interrogatorio vero e
proprio. Usa i soliti mezzi - niente sonno, rumori continui,
freddo estremo, magari anche quell’annegamento simulato che
è il «waterboarding»? No: Piro va contro le procedure
dell’Fbi perché «con uno come Saddam Hussein uno scenario di
paura non porta da nessuna parte». La sua arma segreta è la
noia del criminale - e il tempo. E’ Piro che lo controlla.
Né a Saddam né alle sue guardie è concesso l’orologio,
mentre lui sfoggia un enorme cronometro, che Saddam guarda
fisso, ipnotizzato, continuando a chiedere che ora è.
Saddam, il prigioniero disorientato, comincia a simpatizzare
con George, l’inquisitore simpatico. E in quelle
interminabili sedute si mette a raccontare le sue imprese
eroiche e la sua ardimentosa fuga da Baghdad già occupata
dagli Americani. Racconta nei dettagli come ha beffato gli
americani che gli davano la caccia: ha attraversato a nuoto
le impetuose acque del Tigri, con un coltello tra i denti,
opponendosi alle correnti che volevano trascinarlo via, poi
si è arrampicato per forre e burroni fino al villaggio dove
si è nascosto. Tra interrogante e interrogato si va formando
un legame di fiducia, quasi di dipendenza. Piro lo sfrutta,
ma a un certo punto cambia registro: vuole provocare Saddam,
farlo infuriare, portandolo sulle montagne russe delle
emozioni.
Così gli mostra le immagini del nuovo governo, i resoconti
negativi su di lui, anche il video dell’abbattimento della
sua statua nella piazza centrale di Baghdad. «Pensavo che il
popolo ti amasse - lo irride -, me lo hai sempre detto,
invece guarda come balla sulla tua testa di bronzo staccata
dal corpo...». Quando poi aggiunge che forse già quando
aveva il potere aveva perso il contatto con la gente,
ignorava che cosa pensasse davvero, che cosa succedeva nel
Paese, Saddam vede rosso, «i suoi occhi divennero freddi e
pieni di odio». «Avevo tutto sotto controllo. Ero io che
davo gli ordini», dice. «Anche quello di gassare i curdi?»,
gli chiede Piro.
Saddam non vuole scendere nei dettagli, dice solo: «Quelle
erano le mie indicazioni. Questo dovevano fare i miei
uomini, perché io avevo detto loro che l’attacco era
necessario. E lo era davvero». Poi si parla dei suoi sosia:
non si è mai servito di loro nei discorsi pubblici così
spesso come scriveva la stampa occidentale perché, spiega,
«non era necessario».
Parla poi della sua diffidenza verso tutti, di come
suscitasse contese tra i suoi fedelissimi per vedere chi gli
era contrario e farlo uccidere. Nemmeno dei suoi figli si
fidava, sebbene li avesse designati suoi eredi: «Non
possiamo sceglierci i figli». L’unica persona di cui non
aveva mai dubitato era sua madre.
Il 28 aprile, giorno del suo compleanno, Piro arriva con un
regalo a sorpresa. «Dobbiamo festeggiare noi, sennò in tutto
il Paese non c’è nessuno che lo fa», e gli mostra i giornali
nei quali non c’è più traccia dell’anniversario. Allora tira
fuori dalla tasca un pacco di biscotti e gli dice, mentendo:
«Li ha fatti la mia mamma libanese e me li ha spediti perché
te li dessi. Li ha fatti secondo un’antica ricetta araba».
Ha portato anche un altro regalo: un sacchetto di semi.
Vanno insieme nel piccolo giardino che Saddam ha a
disposizione per l’ora d’aria, l’ex dittatore scava la
terra, li pianta, li ricopre, poi si chiede ad alta voce se
riuscirà a vederli germogliare, se la terra è buona. E dice
che nemmeno i suoi figli l’hanno mai conosciuto così bene
«come lei, Mister George». Il dittatore crudele che ha
tenerezze da giardiniere.
A quel punto Saddam passa da un tema tabù all’altro - tutti
accuratamente registrati nelle 700 pagine del rapporto
segreto di Piro, ovviamente «classified» - e comincia dal
suo primo errore tattico: aver ritirato le sue truppe di
terra dopo l’invasione del Kuwait. Il secondo era stato non
credere all’invasione del 2003, sottovalutando l’effetto
degli attentati dell’11 settembre 2001 sugli americani, la
politica Usa e «la perfidia di alcuni uomini a Washington»,
che a lui, il laico, attribuivano legami con Al Qaeda e i
fondamentalisti islamici. «Non ho mai avuto contatti con Bin
Laden - dice a Piro - Dei fanatici religiosi non ci si può
fidare».
Poi arriva il momento di parlare delle armi di distruzione
di massa, il motivo ufficiale utilizzato dagli Stati Uniti
per la dichiarazione di guerra all’Iraq. Cinque mesi dopo il
primo interrogatorio arriva il crollo. Saddam ogni giorno
scrive una poesia, che mostra tutto fiero all’agente. Quello
lo loda e, mentendo, gli dice che «è una grande opera
letteraria». Lo liscia, gli chiede se, con quelle capacità,
non si scrivesse da solo anche i discorsi ufficiali. Non
tutti, risponde Saddam. Ma è lusingato. E le armi? lo
incalza allora. «Erano solo parole. Erano un trucco per
ingannare il mondo». E racconta, asciutto, che la maggior
parte delle sue armi di distruzione di massa erano state
rimosse già negli Anni 90 dagli ispettori dell’Onu e le
poche rimaste le aveva fatte distruggere lui stesso. Allora
perché mettere a rischio il destino dell’Iraq e la propria
vita? Secondo Piro, «Saddam era convinto di poter tenere a
distanza il nemico iraniano solo facendogli credere che
poteva distruggerlo. In questo modo contava di conservare
anche il suo potere». Dunque, Saddam temeva Teheran, non
Washington - almeno non lo temette, finché non vide arrivare
i suoi aerei e le sue truppe.
Il primo luglio 2004, dopo sei mesi di incontri quasi
quotidiani, Piro conduce Saddam in tribunale, per consegnare
il suo destino giuridico, almeno formalmente, in mani
irachene. L’agente Fbi si congeda. Prima dell’ultimo
incontro compra, nel sukh di Baghdad, per sei dollari al
pezzo, due sigari Cohiba, la marca preferita dell’iracheno.
Li fumano insieme nella cella. Poi si dicono addio alla
maniera araba: baciandosi le due guance.
Fonte
- La
Stampa
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