Chat room segreta per i boss
delle monete
Banchieri,
autorità e operatori sono rimasti in contatto su un «sito sicuro» creato
dopo l’11 settembre e hanno reagito al caos dopo gli attacchi
terroristici di Londra, assicurando la stabilita' finanziaria e il
recupero globale delle borse.
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10 Luglio 2005 13:15
MILANO (di Federico Fubini)
Un sito segreto. Una «chat room» per
banchieri, operatori e autorità di controllo. E’ grazie a una struttura
creata dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle che i
mercati finanziari hanno potuto reagire all’attacco terroristico che ha
bloccato trasporti e comunicazioni della City londinese giovedì mattina.
E’ usando la «sezione sicura» del loro Financial Sector Continuity Web
che la Banca centrale d’Inghilterra, il Tesoro inglese e la Fsa
(l’autorità che controlla i mercati) hanno potuto restare in contatto
con le principali banche e piazze mondiali. Quelle cioè in grado di
assicurare la stabilità finanziaria globale e permettere quindi alle
Borse di reagire all’attacco.
Una struttura parallela di supporto a
uno spirito di reazione di cui i mercati sembravano però già disporre. A
un operatore di fondi speculativi con un passato da portiere di calcio,
quella mattinata ha ricordato una vecchia esperienza: «Come sfidare il
Real Madrid con i giovani della "primavera": loro fanno goal da tutte le
parti, ti travolgono. Ma tu devi restare in campo, continuare a
giocare». Per molti nelle Borse europee, il 7 luglio è andata così:
niente sospensioni, nessuna ritirata. A maggior ragione se la struttura
tecnologica, base ormai degli scambi, resta solida.
A un attentato, le banche nella vecchia
City o nell'avveniristica Canary Wharf, i fondi speculativi nel lusso di
Mayfair, la Bank of England e la Banca centrale europea (Bce) a
Francoforte, si erano preparati per anni. Forse non come certi fondi
Usa, dove i dipendenti per regolamento hanno maschera antigas e
bicicletta pieghevole per la fuga nel cassetto. Ma anche in Europa
ognuno sapeva cosa fare. E la prima cosa, era controllare che non si
riaffacciasse il fantasma dell'11 settembre a Wall Street: un blocco
della liquidità dopo il collasso delle linee della Federal Reserve di
New York. Poi lo stop a catena dei pagamenti, la sospensione degli
scambi per quattro giorni e infine una riapertura traumatica.
Stavolta i signori delle monete
sapevano come muoversi sostenendo, grazie alla «chat room» parallela, i
tanti Philippe Rakotovao sul mercato: francese del Madagascar, capo a
Londra della piattaforma dei titoli di Stato europei Mts da cui passano
70 miliardi di euro ogni giorno (20 solo nella City), Rakotovao a metà
mattina ha fatto così girare nei computer delle banche poche, chiare
parole: «Keep going, business as usual» : continuare, si lavora come
sempre. Sì che di coraggio per dirlo ce ne voleva. E non solo perché un
banchiere, di fronte alla strage, gli ha risposto a muso duro: «Non sei
certo diplomatico».
E' in queste condizioni che Mts ha
optato per un compromesso: si lasciano aperti i battenti di Borsa, ma
senza obbligare gli operatori a proporre valori d'acquisto o cessione.
Chi voleva, poteva restare alla finestra. Ma alla fine ha vinto la
determinazione (e il sito segreto) delle istituzioni finanziarie e delle
grandi banche mondiali a «fare i primi prezzi», come dicono gli addetti:
in fondo quel che la Regina d'Inghilterra chiama «continuare la nostra
way of life».

Fonte - Corriere della Sera
venerdì
8 luglio 2005 |
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venerdì
8 luglio 2005 |
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Milano affonda con il resto
delle borse europee (Francoforte perde il 3%) al susseguirsi
delle notizie sulle esplosioni nella metropolitana e negli
autobus a Londra. Col riemergere dell'incubo terrorismo il
Mibtel cede il 2,71% a 24.342 punti, lo S&P/Mib il 2,76% a
31.828. Giu' tutti i principali titoli con Fiat che cede il
3,94%. Telecom il 3,21%.
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Mercati: pericolose velleità
rialziste
I miglioramenti
transitori dei dati economici non cancellano i seri problemi strutturali
dell’economia americana. Il caro petrolio e l’aumento dei tassi presto
peseranno sui consumi. E l’effetto sulle borse...
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15 Luglio 2005 16:36
MILANO (di *Michele Pezzinga)
*Michele
Pezzinga e' lo strategist di CentroSim.
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Superato, con una pronta reazione,
l'impatto emotivo legato alla nuova ondata di attacchi terroristici, i
mercati finanziari sembrano ora sposare scenari persino migliori
rispetto a quelli che avevamo lasciato a fine giugno. Paradossalmente,
proprio le capacità di tenuta dell'azionario di fronte ai drammatici
eventi di Londra hanno rafforzato tra gli investitori le velleità
rialziste, diffondendo la convinzione che i rischi di caduta in questa
fase siano molto contenuti e, per gli hedge funds, che i tentativi di
forzatura all'ingiù, almeno per ora, non paghino.
Ne sanno qualcosa coloro che avevano
venduto, anche solo per motivi precauzionali, durante la convulsa seduta
del 7 luglio. Ma è davvero cambiato il quadro di riferimento? Sotto
questo profilo, non ci sembra di cogliere novità sostanziali rispetto ad
un mese fa: i problemi strutturali, sostanzialmente riconducibili
all'economia USA e che ci facevano dubitare della sostenibilità degli
attuali trend, rimangono infatti sempre vivi. Continuiamo inoltre a
credere che tra altri tre-sei mesi l'aumento dei tassi e il caro energia
finiranno per frenare davvero i consumi delle famiglie americane, vero
motore della crescita globale.
Tuttavia, nelle ultime settimane
proprio da questi fronti sono giunti segnali più incoraggianti, a nostro
avviso solo interlocutori, ma comunque tali da spostare un po' più
avanti nel tempo le temute verifiche di tenuta.
Il disavanzo federale
USA del 2005, per esempio, viene ora visto in calo verso quota 330 mld
di dollari circa, 100 in meno rispetto a quello 2004 e alle proiezioni
che circolavano ad inizio anno. La notizia è confortante, anche se
finora il merito è stato del boom di entrate fiscali, più che di un
taglio delle spese, il che lascia dubitare dell'auspicato innesco di un
circuito davvero virtuoso.
Anche il deficit della bilancia
commerciale USA ha registrato un'altra contrazione in maggio, ma siamo
pur sempre a quota 55,4 mld di dollari, in progresso rispetto alla punta
record di quasi 60 mld a inizio anno, ma molto oltre rispetto ai 48,7
mld registrati dodici mesi prima. Le proiezioni per giugno, a causa del
rafforzamento del cambio e del balzo dei prezzi dell'energia importata,
puntano inoltre verso un netto peggioramento (di nuovo verso quota 60 mld), che non sembra destinato a rientrare in maniera significativa
nella seconda metà dell'anno.
Se il disavanzo record (che ormai
viaggia su ritmi del 5,6% rispetto al PIL) era il sintomo di un problema
strutturale - l'eccesso di consumi delle famiglie americane finanziato
con il risparmio d'oltreoceano - questo non appare affare in via di
risoluzione; e anche il dollaro, ora contagiato da un diffuso consenso
rialzista, quanto prima dovrà tornare a renderne conto. Al tempo stesso,
però, la maggiore e forse unica sorpresa negativa di questa fase, il
rinnovato balzo in avanti nelle quotazioni del greggio, oltre la soglia
finora inviolata dei 60 dollari il barile, non sembra aver generato
allarmi dal lato nè dell'inflazione, nè della crescita economica.
Dal punto di vista degli investitori
azionari, una simile reazione rappresenta un altro segnale decisamente
rassicurante: se l'effetto di un'ascesa da 50 a 60 dollari il barile non
è tale da far deragliare crescita e performance di Borsa, perchè mai le
cose dovrebbero andare diversamente qualora il greggio salisse ancora a
65 o a 70 dollari? L'esperienza passata ci direbbe che l'impatto sulla
congiuntura di incrementi annui del 30-40% è tutt'altro che marginale e
che si registra con la maggiore intensità solo 6 mesi-1 anno dopo gli
aumenti sottostanti;
ma nel clima attuale di compiacente ottimismo sulle
capacità di reazione delle economie, inclusa quella di assorbire gli
aumenti dei costi energetici, il rischio viene quasi ignorato.
Qui dal nostro punto di vista potrebbe
però esserci qualche sorpresa positiva: condividiamo infatti l'idea che
nelle ultime settimane i prezzi del greggio abbiano mostrato eccessi di
natura speculativa e che il rallentamento della domanda reale di
energia, in atto anche da parte dei Paesi asiatici, Cina inclusa (-1,3%
su base annua il suo import di greggio in giugno e -21% quello di
prodotti raffinati), possa produrre uno sgonfiamento delle quotazioni,
magari solo temporaneo, ma comunque significativo. A neutralizzare i
timori sul petrolio forse hanno provvidenzialmente contribuito anche
alcuni segnali di riaccelerazione dell'economia USA, in grado di
cancellare quei pericolosi indizi di frenata congiunturale che avevamo
segnalato ad inizio primavera.
Tenuto conto della forza dei consumi -
confermata ieri dal +1,7% delle vendite al dettaglio di giugno, di nuovo
trainate dal balzo del comparto auto (+4,8%) - e dalla tenuta degli
investimenti, il PIL americano sembrerebbe in grado di confermarsi in
crescita di circa il 3% anche nel 3° trimestre, un ritmo analogo a
quello stimato per il 2°, non eccezionale (era pari al 3,8% nel 1°
trimestre 2005 e al 4,4% per l'intero 2004) ma comunque soddisfacente,
soprattutto rispetto ai depressi standard europei.
I dilemmi di fondo
riguardano però le modalità con cui si muoverà la congiuntura più
avanti, diciamo nella parte finale dell'anno: in altri termini se
davvero l'economia USA riuscirà a viaggiare ancora alla velocità
attuale, se l'area euro riuscirà finalmente ad uscire dalla stagnazione
corrente e quanto sarà pronunciata la frenata della Cina, e con essa
dell'intero blocco asiatico, che ancora una volta si sta iniziando a
profilare. Tutti elementi ancora molto dibattuti tra gli addetti ai
lavori.
Rimane invece diffuso il consenso sul
fatto che l'inflazione continuerà a non rappresentare una minaccia
concreta: a conferma di ciò proprio ieri sono stati resi noti i prezzi
al consumo USA di giugno, rimasti invariati sul mese precedente e
cresciuti solo di uno 0,1% esclusi alimentari ed energia, un
rassicurante +2% su base annua, ma soprattutto un +1,2% annualizzato
nell'ultimo trimestre, in netto calo da quel +3,3% che si era
minacciosamente profilato nel 1° trimestre 2005. Ha comunque ripreso
quota l'idea che la FED, dopo aver alzato i tassi di un altro quarto di
punto anche ad agosto, possa spingersi fin verso la soglia del 4% entro
l'inizio del 2006, un'ipotesi che a inizio giugno, con i bond ai
massimi, sembrava fin troppo aggressiva.
Il focus della Banca Centrale
non è infatti sull'inflazione, ma sul persistente boom immobiliare da
cui traggono sostegno, indebitandosi a ritmi crescenti, i redditi (e i
consumi) delle famiglie: anche a costo di frenare ulteriormente la
crescita del 2006 Greenspan dovrà quindi intervenire ancora su questa
spirale, in modo da scongiurare la formazione di una pericolosa bolla
speculativa.
Per quanto riguarda invece la BCE,
l'idea di un taglio dei tassi entro fine anno, richiesto dalle
difficoltà economiche e politiche dell'area, ha perso quota; la Banca
Centrale potrebbe quindi rimanere ferma su questi livelli ancora a
lungo, un cambiamento di prospettiva che ha contribuito da un lato a
rafforzare l'euro, riportandolo nelle ultime sedute sopra quota 1.20
contro dollaro, e dall'altro a frenare l'euforia sull'obbligazionario,
dove la parte lunga della curva sembra aver esaurito, almeno in questa
fase, tutto il suo potenziale. In ogni caso, i rendimenti
obbligazionari, pur lievemente risaliti dai minimi di giugno, non ci
sembrano destinati a risalire molto dagli ancora contenuti livelli
correnti (un 4,16% sul decennale USA e un 3,29% su quello tedesco); i
tempi per una decisiva inversione di trend a nostro avviso non sono
ancora maturi e anzi dopo l'estate, se la ripresa non si farà strada, il
tema del taglio potrebbe tornare d'attualità.
Si tratta di livelli tali comunque da
mantenere in vita un significativo effetto liquidità, di cui continuano
a beneficiare i mercati finanziari e l'immobiliare. Gli spread sui bond
dei mercati emergenti segnano continuamente nuovi minimi (siamo ormai
intorno ai 300 punti base, rispetto ai 1000 di tre anni fa e agli oltre
500 toccati ancora l'anno scorso), analoga euforia traspare dai junk
bond, mentre le Borse continuano a registrare progressi, sia pure
modesti, che hanno comunque portato molti dei listini europei sui record
degli ultimi quattro anni. In assenza di particolari traumi esterni, si
tratta di uno situazione che potrebbe auto-alimentarsi, favorita dalla
mancanza di sbocchi concreti per gli investimenti nell'economia reale e
dalla ricerca di rendimenti competitivi rispetto a quelli, risibili in
termini reali, offerti dalle attività prive di rischio.
Continuiamo a credere che sui mercati
azionari i rischi al ribasso rimangano abbastanza contenuti, visto che
nessuno dei due elementi chiave su cui si fondano, la crescita degli
utili, che prosegue persino nel caso di un'Europa in completo stallo
congiunturale, e i bassi rendimenti obbligazionari sembra mostrare
pericolosi segni di cedimento. Finora semmai era il potenziale al rialzo
delle Borse a non convincerci: nemmeno ora vediamo grandi cose, ma visto
che nell'immediato i bond ci sembrano ormai arrivati, un temporaneo
cambiamento di peso a favore delle azioni potrebbe risultare opportuno.
Con l'idea però di fare nuovamente retromarcia tra qualche mese e
riscoprire le obbligazioni, se, come continuiamo a credere, la crescita
globale per allora segnalerà un più significativo rallentamento.

Fonte - CentroSim
per Wall Street Italia.com
Azioni
in gran forma,
ma il risparmiatore non lo sa
Le Borse europee
(e certamente Piazza Affari) salgono da oltre due anni, ma il pubblico
non ne ha approfittato. Anzi, gli investitori si sono presi in pieno la
batosta 2001-2002 senza partecipare al bel rialzo 2003-2005.
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24 Luglio 2005 17:45
MILANO (di Vincenzo Sciarretta)
IL PARADOSSO DELLA LIQUIDITÀ Le Borse
europee salgono da oltre due anni, ma il pubblico non ne ha
approfittato. Anzi, si è preso in pieno la batosta del 2001-2002 senza
partecipare al rialzo vigoroso del 2003-2005. Forse al punto da
legittimare l’espressione un po’ cattiva di «parco buoi», in voga
qualche tempo addietro. Il quadro emerge dai dati di raccolta dei fondi
azionari europei. Ci sono naturalmente differenze da Paese a Paese, ma
la fotografia d’insieme è piuttosto uniforme:
i risparmiatori si sono
imbottiti di titoli fra il 1999 e il 2000. Dopo aver subito forti minusvalenze con il crollo della new economy, non hanno più trovato il
coraggio di rientrare in Borsa per beneficiare del rimbalzo del
2003-2005.
Un caso rappresentativo delle tendenze
continentali è quello tedesco, dove la raccolta netta dei fondi azionari
è stata negativa sia nel 2004 sia nel 2005, mentre l’attività era
risultata febbrile in coincidenza del massimo storico del Dax
(1999-2000). Persino peggiore il trend in Italia, dove l’emorragia dei
fondi azionari prosegue dal 2001. E nel 2005 la fuoriuscita ha toccato i
4,2 miliardi di euro.
TANTI SOLDI, POCA BORSA. Di positivo
c’è che la composizione dei portafogli medi assomiglia alla situazione
del 1996-97, quando iniziò uno dei più forti mercati Toro della storia
recente. In particolare, gli europei hanno un’esposizione modesta verso
la Borsa e sono invece ricchi di liquidità. Gli analisti si augurano
perciò che abbia luogo un travaso di risorse a favore delle piazze
azionarie, capace di innescare un secondo flusso di acquisti,
alimentando così il rialzo.
Ma vediamo i dati: i fondi azionari
rappresentano solo il 34% del totale amministrato in Europa. Nel 2000 la
quota era oltre il 45 per cento. Nel 1997, invece, era più o meno sui
valori attuali, cioè 30-35 per cento. Insomma, la ricchezza investita in
azioni non è eccessiva. E c’è spazio per crescere. Anche perché i
quattrini parcheggiati nei fondi di liquidità sono al contrario
tantissimi: oggi valgono il 70% di quello che è impiegato nei fondi
azionari. Una cifra davvero elevata. Basti dire che fra il 1998 e
l’inizio del 2002, il rapporto era sempre stato sotto il 50 per cento.
Per ritrovare una situazione analoga occorre tornare di nuovo al 1997,
cioè all’inizio dell’ultimo grande rialzo. Ma con una differenza
capitale. Allora, nel 1996-1997, gli strumenti monetari rendevano
qualcosa ai risparmiatori e avevano di conseguenza una loro attrattiva.
Nel 2005 non sono in grado neppure di coprire l’inflazione tanto sono
anemici i rendimenti. Perciò una fuga dalla liquidità potrebbe
coincidere con una rinnovata corsa delle piazze europee.
LA MONETA. Naturalmente, anche a
livello macroeconomico le condizioni risultano buone, e più accomodanti
che sull’altra sponda dell’Atlantico, tanto che un flusso rilevante di
ordini in acquisto arriva dagli Stati Uniti.
Il rapido accrescimento
dell’offerta di moneta è pure un carburante abituale delle Borse.
Infatti, ogniqualvolta c’è abbondanza di contante, almeno una parte
finisce negli asset finanziari. E i dati recenti forniti dalla Banca
centrale europea parlano di una crescita dell’offerta di moneta al 7,3%,
ben superiore a quella dell’economia.
PREZZI ANCORA BASSI. Alcuni
esperti hanno però lanciato l’allarme: le piazze europee sarebbero
salite troppo e troppo in fretta, rendendole vulnerabili a un
capovolgimento. Ma è avvenuta anche una cosa curiosa: le valutazioni
delle azioni europee sono ancora quelle del 2003, o persino più
allettanti. La ragione? Gli
utili hanno ricalcato la parabola ascendente delle quotazioni cosicché i
multipli delle compagnie restano su livelli interessanti. Francoforte
offre un ottimo esempio: il multiplo sugli utili è oggi il più basso
degli ultimi due decenni e oscilla intorno a 12,4 volte i profitti del
2006.
Tra il 1985 e il 2000, le richieste
erano maggiori del 15-65%, anche senza considerare gli eccessi della
bolla di fine millennio. E inoltre, quelli erano anni in cui i tassi
d’interesse offerti dalle obbligazioni viaggiavano ben al di sopra delle
cedole correnti. Come se non bastasse, di recente anche l’euro ha smesso
di correre, favorendo i profitti degli esportatori. Essi hanno tirato la
cinghia per diverso tempo e ora si trovano nella migliore condizione per
beneficiare della robusta congiuntura internazionale. Insomma, il
mercato azionario sembra aver sposato una chiara tesi rialzista in cui i
prezzi bassi, i tassi d’interesse minimi e il ciclo positivo degli utili
hanno un peso maggiore rispetto al rincaro del petrolio e alle tensioni
internazionali. La ciliegina sulla torta potrebbe venire proprio dal
ritorno in Borsa dei piccoli risparmiatori.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza
Greenspan non cambia rotta
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01 Luglio 2005
20:40 MILANO (ANSA)
Nessuna sorpresa, il
presidente della Fed rispetta le previsioni e alza per la nona
volta di fila i tassi d'interesse dello 0,25% portandoli al
3,5%. "La crescita - dice la Fed - resta inoltre solida,
nonostante il caro-petrolio, e le condizioni del mercato del
lavoro continuano a migliorare gradualmente".
Si prosegue quindi sulla
strada del stretta monetaria, certo in maniera graduale, ma
senza ripensamenti, tanto che si ipotizza che ci sarà un
ulteriore ritocco già nelle prossima riunione, in programma il 9
di agosto.
La Fed sottolinea che le pressioni congiunturali della dinamica
dei prezzi sono presenti, ma dovrebbero rientrare sul lungo
termine."Le preoccupazioni sull'andamento dell'inflazione negli
Stati Uniti - scrive il board della banca centrale - sono ancora
presenti, ma le aspettative sulla dinamica dei prezzi al consumo
nel lungo termine restano contenute".
Come prassi, il board
ribadisce che "risponderà se necessario ai cambiamenti delle
prospettive economiche per rispettare l'impegno di mantenere la
stabilità dei prezzi".
Sulla base degli ultimi dati,
gli Stati Uniti sembrano comunque crescere bene come conferma la
stima definitiva sul Pil del primo trimestre, rivista al rialzo
al 3,8% rispetto al 3,5% della seconda rilevazione, grazie al
calo del deficit commerciale e al settore immobiliare, con
l'aumento delle costruzioni abitative, anche i prezzi segnano
una dinamica moderata, con l'apposito indicatore compreso nel
computo del Pil rivisto al ribasso, al tasso annualizzato del
2,9% dal +3,2% della precedente rilevazione.
Fonte - ANSA
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Tassi USA: curva piatta guai in
vista
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01 Luglio 2005
21:16 NEW YORK (ANSA)
Con il nono rialzo consecutivo
dei tassi a breve (+0,25%) deciso dal Federal Open Market
Committee della Fed, al 3,25% (la stretta comincio' esattamente
un anno fa, il 30 giugno 2004, con i feds fund all'1%)
la curva
dei rendimenti dei Treasury americani fara' un altro passo
avanti verso la cosiddetta "inversione". E questo, stando alle
ricerche statistiche, e' un fenomeno che in passato ha sempre
provocato conseguenze funeste, si dice in ambienti finanziari di
New York.
La curva dei rendimenti - la differenza tra i tassi a breve e
lungo termine - si e' notevolmente appiattita in quest'ultimo
anno nel corso del quale la Federal Reserve guidata da Alan
Greenspan ha alzato i fed funds. Dodici mesi fa, la differenza
del rendimento tra il Treasury a 2 anni e il Treasury a 10 anni
era di 1.92 punti percentuali, mentre all'inizio di questa
settimana lo "spread" (differenza) si era ristretto a 0.31%, il
minimo dagli inizi del 2001.
La sostanza e' questa: se i tassi a lungo termine, quelli del
T-Bond a 10 anni, nei prossimi mesi non si muoveranno un poco
verso l'alto, lo spread potrebbe addirittura diventare negativo.
E cio' avrebbe - per money manager e investitori istituzionali -
un significato ben preciso. Infatti l'ultima volta che la curva
dei rendimenti ha cominciato a "invertirsi" fu nei primi mesi
del 2000 (il Nasdaq inizio' il suo catastrofico crollo da oltre
quota 5000 il 14 marzo) cioe' un anno prima che l'economia degli
Stati Uniti entrasse in recessione. E prima ancora, lo stesso
fenomeno funesto accadde nel 1989, e in quel caso l'inversione
della curva anticipo' la recessione del 1990.
Date queste premesse, le domande sono: perche' mai, allora, la
Fed non smette di alzare i tassi americani e non si ferma? Vuole
forse prima far scoppiare la bolla immobiliare che essa stessa
ha creato? O forse Alan Greenspan - mago dei mercati per la
maggioranza degli operatori, vero avventuriero per pochi
estremisti della finanza -
non e' piu' in grado di risolvere
quell'enigma sui tassi ("conundrum") di cui parlo'
misteriosamente qualche settimana fa?
Fonte -
ANSA
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Ancora
dubbi sull'enigma di Grennspan
Tassi e bolla immobiliare. L'ampia
liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva.
Nuove tipologie di investitori e di gestione di portafoglio tali da
aumentare la domanda di bond. A scapito dell' azionario?
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5 Luglio 2005 20:57 Siena
(di *Antonio Cesarano)
*Antonio Cesarano e' il responsabile
dell'ufficio ricerca MPS Finance. Il contenuto di questo articolo
esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente
rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane
autonoma e indipendente.
E' da poco iniziato il secondo
semestre che concretamente si inaugura oggi dopo il ponte lungo Usa e
con la presenza di tutti i principali players sui mercati
internazionali.
Proviamo a ricostruire ex post quanto
accaduto nel semestre appena conclusosi, la cui dinamica a sua volta in
gran parte è la prosecuzione di un complesso di fattori che hanno
cominciato a manifestarsi già nel corso del 2004 e che sono divenuti più
evidenti nel momento in cui, pur essendo iniziata la fase di rialzo dei
tassi della Fed, è continuato il trend calante dei tassi di mercato
dando luogo all'ormai celebre "conundrum" evocato da Greenspan a
febbraio.
Schematicamente la sequenza logica
della interazione dei fattori prima menzionati può essere così
sintetizzata:
1)
la lunga fase di politica monetaria
espansiva inaugurata dalla Fed e dalla Bce a partire dalla metà del 2001
fino a toccare l'apice a metà del 2003, ha prodotto come conseguenza
un’enorme massa di liquidità alla ricerca di rendimenti addizionali
rispetto a quanto offerto dai titoli governativi che nel frattempo hanno
continuato a seguire un trend calante;
2)
contemporaneamente sono divenuti
sempre più rilevanti nel quadro finanziario internazionale investitori
come le banche centrali asiatiche che hanno dimostrato di seguire
logiche diverse da quelle tipiche dei gestori del risparmio gestito,
essendo ispirate a considerazioni politco/strategiche nella gestione
delle enormi masse di riserve accumulate dalla fine degli anni '90,
piuttosto che a criteri più strettamente inerenti le performance di
portafoglio. La lunga fase di deprezzamento del Dollaro pertanto non ha
intaccato in modo rilevante la preferenza verso i Treasuries Usa che
hanno beneficiato di un flusso costante e copioso di domanda estera fino
ad arrivare alla situazione attuale in cui
circa la metà del debito pubblico Usa è in mano a investitori esteri;
3)
altra novità di rilevo è stata
rappresentata dall'affermarsi di nuovi criteri di gestione del
portafoglio da parte soprattutto dei fondi pensione Usa che gradualmente
hanno cominciato a ribilanciare i proprio portafogli spostando la
preferenza verso gli asset obbligazionari rispetto a quelli azionari.
Questa nuova filosofia di gestione è figlia probabilmente di due fattori
principali:
a) le cocenti perdite subite dopo lo
sgonfiamento della bolla azionaria a partire dal 2000; b) la presa
d'atto di una profonda mutazione della dinamica demografica tale da
comportare l'esigenza di gestire flussi di risparmio con finalità
prettamente previdenziali. In sostanza si prende atto del fatto che la
popolazione nei principali paesi sta invecchiando (finisce ad es. negli
Usa il periodo dei baby-boomers che ora sono in prossimità del
pensionamento) e che quindi in futuro sarà maggiore la quota di reddito
destinata a scopo ad esempio sanitario vs. quella destinata in
precedenza a beni di consumo di massa.
Di conseguenza i rendimenti attesi dal
mercato azionario diventano inferiori rispetto al passato vista la
minore propensione marginale al consumo attesa a causa del processo di
invecchiamento stesso. In questo contesto allora i gestori Usa
riscoprono il mercato obbligazionario che negli anni '90 era invece
divenuto un corollario nei portafogli dei fondi pensione dove la netta
prevalenza era invece assegnata al comparto azionario;
Sinteticamente i fattori finora esposti
possono essere sintetizzati come: 1) ampia liquidità come effetto della
lunga fase di politica monetaria espansiva; 2) presenza di nuove
tipologie di investitori e filosofie di gestione di portafoglio tali da
aumentare in modo molto forte la domanda di bond.
Tali fattori hanno generato un
perdurante trend calante dei tassi che non è stato affatto scalfito
dall'inizio della fase di rimozione dell'accomodamento monetario iniziato
dalla Fed nel mese di giugno 2004. Tale andamento ha finito a sua volta
per supportare il settore immobiliare su cui gradualmente si è innestata
una nuova potenziale bolla.
Greenspan per ora ha negato di trovarsi di
fronte ad una situazione di questo tipo preferendo piuttosto parlare di
surriscaldamento dei prezzi immobiliari confinato solo a singole aree
piuttosto che trattarsi di un fenomeno diffuso.
Anche in Europa i prezzi delle case ne
hanno beneficiato. Se si osservano gli indici di settore pubblicati
dall'Economist si scopre ad esempio che in Europa nell'ultimo anno, ad
eccezione della Germania, i prezzi immobiliari hanno registrato
incrementi spesso a due cifre (Spagna + 15,5%, Francia +15%, Italia
+9,7%) paragonabili a quanto verificatosi negli Usa (+12,5%) nello
stesso periodo di tempo.
A parità di rialzo dei prezzi delle
case negli Usa ed in gran parte dell'Europa, gli effetti sui consumi
sono stati però nettamente differenti, risultando determinanti per la
crescita Usa e del tutto irrilevanti in Europa. La ragione risiede nel
fatto che in Europa il mercato dei mutui immobiliari non è strutturato
come quello Usa dove risulta molto più semplice estrarre valore per i
consumatori anche dal rialzo del prezzo della sola prima casa. Basti
pensare alle rinegoziazioni dei mutui a tasso fisso (possibili anche
grazie all'esistenza delle GSE come Fannie Mae e Freddie Mac),
alla
possibilità di liquidare mediante mutui gli incrementi di valore
dell'immobile, alla diffusione (fin troppo marcata al punto da allarmare
la stessa Fed) di forme di mutui strutturati (i c.d. ARM, Adjustable
Rate Mortgages) che consentono di abbattere il peso della rata nei primi
anni di vita del mutuo per consentire l'acquisto di immobili a prezzi
anche molto più elevati rispetto al passato.
Greenspan si è trovato così di fronte
ad un fenomeno del tutto imprevisto quale appunto il rialzo dei prezzi
delle case. Il fenomeno era inatteso in quanto il capo della Fed
immaginava che ad un rialzo dei tassi della Fed avesse fatto seguito un
comportamento analogo dei tassi di mercato. Greenspan si era anzi
preoccupato di evitare che il rialzo fosse troppo brusco ribadendo
esplicitamente nel comunicato successivo ad ogni riunione che
l'approccio adottato sarebbe stato "misurato".
Di conseguenza, il vecchio capo della
Fed si è trovato di fronte ad un'economia in cui il settore immobiliare
sta rappresentando uno dei motivi di sostegno principali per i consumi
al punto da sostituirsi al supporto in precedenza offerto dalla politica
fiscale espansiva. Di conseguenza occorre fare molta attenzione a porre
in essere provvedimenti tali da innescare un ridimensionamento brusco
dei prezzi delle case stesse, pena un impatto marcato anche sui consumi.
Forse anche per tale ragione Greenspan evita di parlare di bolla
immobiliare, pur essendovi diversi elementi per lasciare immaginare una
tale possibilità.
Diventa pertanto estremamente complesso
il percorso che la Fed dovrà seguire nella gestione di politica
monetaria onde evitare che il delicato equilibrio su cui l'economia al
momento si regge possa essere compromesso. La scelta per ora è
semplicemente quella di continuare con l'approccio graduale, sperando
che poco alla volta anche i tassi di mercato seguano un sentiero
rialzista altrettanto graduale.
In realtà però , oltre alla Fed, il
vero fulcro della situazione macro attuale risiede nella continuazione
del forte flusso di acquisti di fonte asiatica che consente per ora
anche di porre in secondo piano il problema del deficit di partite
correnti che nel frattempo non ha accennato a diminuire raggiungendo il
non invidiabile livello di 6,4% del PIl.
Fin qui abbiamo provato a ricostruire
lo status quo che aiuta almeno a comprendere il delicato compito che
spetta alla Fed. In realtà, come spiegato anche da Greenspan in
interventi successivi a quello di febbraio, stanno probabilmente
cambiando soprattutto i players protagonisti della partita dei tassi. I
gestori insieme agli stessi hedge funds hanno spesso orientato le
proprie scelte di investimento sulla base dell'attesa di una fase di
rialzo dei tassi conseguente ad un recupero dell’economia, ritrovandosi
nettamente spiazzati.
Ammettiamo che in passato, trovandoci
di fronte alla necessità di formulare previsioni sull'andamento dei
tassi, il focus sul solo andamento macro è stato anche per noi talora
fuorviante, almeno negli Usa perché nel frattempo la situazione europea
lasciava invece ipotizzare la possibilità di mantenimento dei tassi
fermi, visto il basso livello di crescita e le continue revisioni al
ribasso delle stime per il 2005.
Veniamo all'arduo compito di provare ad
ipotizzare cosa potrebbe ora accadere sul fronte tassi.
Premettiamo che
al momento non riteniamo che le forze in gioco prima evidenziate abbiano
dispiegato in modo completo il loro effetto. Il processo di ribilanciamento dei fondi pensione, la presenza di investitori come le
banche centrali, verosimilmente manterrà ancora aperto il "conundrum sui
tassi".
Inoltre a ciò si aggiunga la necessità
da parte della Fed di evitare che i prezzi immobiliari possano
bruscamente risentire di rapide accelerazioni al rialzo dei tassi di
riferimento. Di conseguenza almeno fino ad agosto la Fed rimane
orientata ad un approccio graduale.
Nell’ipotesi di un rallentamento
dell’economia che ancora non è del tutto da escludere, rimarrebbe ancora
aperta la possibilità di una fase di arresto nel processo di rialzo dei
tassi che pertanto chiuderebbero l’anno al 3,5%.
In Europa inoltre la Bce probabilmente
manterrà i tassi fermi al 2% per tutto l'anno. Insomma diversi fattori
depongono ancora a favore di politiche monetarie che difficilmente
dovrebbero determinare un rientro dell'ampia liquidità in circolazione
alla ricerca forsennata di investimenti profittevoli.
Infine i gestori che da oltre un anno
hanno cercato di difendersi dal temuto rialzo dei tassi mantenendo
profili di duration di portafoglio piuttosto contenuti rispetto ai
benchmark di riferimento, si trovano ora nella necessità di procedere a
graduali allungamenti di tale parametro privilegiando pertanto i
segmenti più a lungo termine della curva.
In tale contesto, laddove dovesse
materializzarsi un rallentamento dell'economia Usa nel secondo
trimestre, si tratterebbe di un elemento che si aggiungerebbe ad un
clima sui tassi già surriscaldato per altri fattori estranei a
considerazioni prettamente macro.
In ogni caso, il primo semestre
dell’anno ha educato gli investitori a non immaginare gli sviluppi
futuri dei tassi solo in base al quadro macro ipotizzato ma anche
tenendo conto del mutato quadro dei players in azione.
Sul tratto lungo della curva pertanto
l'eventuale rialzo dei tassi decennali (innescato in settimana ad
esempio anche grazie a favorevoli attese sui non farm payrolls di
venerdì soprattutto laddove l'indice Ism non manifatturiero supportasse
tale ottimismo) potrebbe incontrare livelli di resistenza molto vicini
situati tra 4,15/4,20 sui T-note e tra 3,30/3,35 sul Bund. In prossimità
di tali livelli potrebbero tornare gli acquisti dei fund managers che
vedrebbero così soddisfatta la necessità di riadeguare i parametri di
sensitività dei propri portafogli, attualmente ancora molto scarichi di
duration.
La "sete di rendimenti" in sintesi
continua ad essere un fattore predominante nelle scelte degli asset
allocators che sta spingendo i gestori internazionali anche a valutare
l'investimento in titoli di stato nipponici, che al momento risultano
essere competitivi rispetto a quelli Usa ed europei se analizzati in
termini di tassi reali, come evidenziato anche da un recente articolo
del WSJ in cui si segnala un incremento dell'attività su tale comparto
da parte di alcune grosse case di investimento internazionali. Un dato
per tutti: gli acquisti di titoli di stato nipponici da parte di
investment banks straniere sono stati pari al 15,7% del totale emesso
nel 2004. Quest'anno lo stesso rapporto calcolato da inizio 2005 è
risultato pari al 24,3%.
Il presente documento è stato
predisposto in maniera indipendente da MPS Finance Banca Mobiliare SpA
(di seguito: MPS Finance). Esso contiene opinioni, informazioni e dati,
con fine divulgativo, ottenuti dalla predetta MPS Finance tramite fonti
ritenute in buona fede attendibili, tuttavia MPS Finance non ha la
qualifica di agenzia di rating, quindi non intende certificare, come in
effetti non certifica la veridicità, l'accuratezza e la completezza
delle predette informazioni e dei predetti dati.