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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Macro USA/€uro - Situazione e Previsioni

Recessione: in America finirà tra poche settimane in Europa dopo

Vaticano - Enciclica Papa Benedetto XVI

Il Papa: «Più etica in finanza, armonizzare Stato e mercato»

Geopolitica - Situazione e Previsioni

Il mondo senza centro di gravità

Geopolitica - Situazione e Previsioni

Multipolarismo, sanzioni e promozione della democrazia

Crisi economica Area €uro - Analisi e Opinioni

L’economia salvata dalle riforme

Crisi economica Area USA - Analisi e Opinioni

Gli stati Usa vendono i gioielli e pagano i debiti

USA - nuovi scenari politica militare e possibile impatto macro

L’era che cambia, a Chicago: dal discorso di Blair a quello di Gates

Valute - Pechino/Washinghton - proiezioni sul futuro dell'U$D

Pechino, Washinghton e il futuro del dollaro

   
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  Mercoledì 01 Luglio 2009   Venerdì 03 Luglio 2009   Sabato 04 Luglio 2009  
       
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  Recessione: in America finirà tra poche settimane in Europa dopo

01 Luglio 2009 03:05 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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La recessione americana finirà fra poche settimane, qualche mese prima di quella europea. Sarà anche, alla fine, molto meno profonda. Fatto 100 il Pil d’inizio 2008, alla fine del 2010 quello americano si troverà a 99.2, mentre quello europeo sarà a 95.7 (elaborazione su stime Ocse). Certo, la demografia aiuta l’America di un 1 per cento all’anno, ma il distacco, da qualunque parte lo si guardi, sarà cresciuto.

Nonostante questo l’America vive quello che sta accadendo in modo soggettivamente più doloroso e acuto. La sensazione di stare rivivendo giorno dopo giorno la Grande Depressione, giusta o sbagliata che sia, è più diffusa.
Nessuno, in Germania, in Francia o in Italia va a cercarsi quello che stava succedendo nel giugno 1930 al dodicesimo mese della crisi. Di che cosa si discuteva? Che idea c’era di quello che sarebbe successo nei tre mesi o nei tre anni successivi?

In Europa pensiamo al mondo dei nostri nonni (o bisnonni) come a qualcosa di alieno. In America, per contro, il raffronto è continuo. Da tre settimane un blog (News from 1930), curato da un anonimo appassionato di storia, riassume ogni giorno notizie, dibattiti ed editoriali del Wall Street Journal di 79 anni fa.

L’editoriale del 23 giugno 1930, ad esempio, è intitolato "La Svolta è Vicina". Qualche giorno prima, del resto, gli economisti della National City Bank (che oggi si chiama Citibank) avevano affermato lo stesso concetto, mentre un commento di un banchiere di Cleveland si diffondeva sulla probabilità di una crisi a U piuttosto che a V.

Su un piano più formale e accademico, i grafici di Barry Eichengreen di Berkeley (disponibili su Vox) che sovrappongono in modo impressionante indicatori macro e di mercato del 1930 e del 2009 hanno avuto finora più di 100mila visite. Nei giorni scorsi è uscito l’aggiornamento a giugno e la sovrapposizione rimane perfetta per gli indicatori macro, mentre il mercato azionario, al dodicesimo mese di crisi conclamata, era andato meglio allora.

L’unica cosa che è cambiata, dice Eichengreen, è la risposta monetaria, questa volta molto più aggressiva e veloce. E’ questa risposta che ci fa essere oggi tutti fiduciosi del fatto che il peggio sia veramente passato. Perfino i più pessimisti si concentrano al momento sulla possibilità di una ricaduta a fine 2010 ma non mettono in discussione la stabilizzazione in corso e la (modesta, certo) ripresa a partire dall’autunno.

L'ultimo Fomc conferma il messaggio. La risposta monetaria sarà all’altezza della situazione e i tassi ufficiali rimarranno a zero "per un periodo esteso". Nello stesso giorno la Bce, che formalmente rifiuta il quantitative easing se non in dosi omeopatiche (i 60 miliardi di covered bond), compie una colossale operazione di rifinanziamento e ne prolunga la durata media.

Formalmente è ancora una semplice immissione di liquidità, ma più si allunga la durata di queste operazioni più gli effetti pratici vanno ad assomigliare a quelli del credit easing della Fed. Il Fomc manda un secondo messaggio in codice (anche questo espansivo) con le tre parole "sostanziali risorse inutilizzate".

Per contestualizzare queste parole bisogna ricordare che negli ultimi tempi si sono alzati i toni del dibattito sul fatto che esistano o meno queste risorse. Se esistono, se cioè è vero che ci sono disoccupati pronti a lavorare, case vuote pronte a essere abitate e impianti fermi pronti a essere rimessi in moto, allora non c’è motivo per preoccuparsi dell’inflazione il giorno in cui riprenderà la domanda.

Se invece non esistono, se cioè i disoccupati dopo qualche tempo si dequalificano, le case vuote cadono in rovina e gli impianti fermi arrugginiscono, allora la domanda in ripresa non incontrerà offerta sufficiente e produrrà inflazione. Il dibattito ha lambito recentemente la stessa Fed. La Fed di San Francisco ha pubblicato uno studio secondo cui l’entità di queste risorse è molto più piccola di quello che si pensa. Lo studio non impegna la Fed nazionale (che come abbiamo visto è di parere opposto) ma ha sollevato un vespaio di polemiche proprio nei giorni di massima psicosi inflazionista sui mercati.

Il 5 giugno, al massimo d’intensità della psicosi, i Fed Funds a termine
prezzavano due rialzi dei tassi entro dicembre e addirittura quattro per marzo. La sera dell'ultimo Fomc, nonostante il comunicato, i diffidentissimi mercati pensano ancora a un rialzo abbondante per dicembre e due per marzo. Ne ricaviamo che c’è ancora spazio per andare lunghi di Fed Funds a termine.

Il terzo messaggio del Fomc è il non avere modificato tempi e quantità degli acquisti di Treasuries e mutui, quando una parte del mercato si aspettava invece un’intensificazione delle operazioni di acquisto, impropriamente definite di monetizzazione del debito pubblico. In questo caso il Fomc bilancia in parte il segno espansivo dei primi due messaggi e mostra di non essere insensibile alle ansie del mercato sull’uscita inflazionistica dalla crisi fiscale.

In pratica la Fed cerca una soluzione equilibrata. Vuole mantenere una politica espansiva senza però spaventare inutilmente i bond vigilantes. Questo atteggiamento favorirà nei mercati un graduale recupero dei Treasuries.


Possiamo inquadrare questo recupero in quello che tentativamente vorremmo chiamare il paradigma della Redistribuzione. Dopo i Germogli di metà marzo – metà giugno, la Redistribuzione estiva spalmerà una parte dei recuperi dell’azionario e delle materie prime sugli asset lasciati indietro, ovvero i governativi. Non solo quelli lunghi, ma anche i 6, 12 e 24 mesi.

Calmando gli animi sul petrolio e sui bond si eviterà di compromettere la ripresa autunnale, che non sarebbe certo favorita da un rincaro costante della benzina e del tasso sui mutui. Quanto all’azionario, dopo l’ondata di ricapitalizzazioni delle scorse settimane ci si può ben concedere una sosta, che non significa in alcun modo una rivisitazione dei minimi bensì il fluttuare in un trading range.

I corporate bond, che hanno tratto benefici dai Germogli, attraverseranno la Redistribuzione senza problemi. In pratica si avvantaggeranno sia della riduzione dei rendimenti dei governativi sia di un’ulteriore riduzione degli spread di credito. Più avanti, in autunno, il paradigma cambierà nuovamente. L’azionario riprenderà la strada del recupero e i governativi torneranno ad arretrare.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

Divergenze inflazionistiche

Thursday, 2 July, 2009 at 16:42 - by phastidio
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Da alcuni giorni è in atto una divergenza negli inflation swaps di Stati Uniti ed Eurolandia.

 

 

Inflation Swap Euro a 5 anni   Inflation Swap Dollaro a 5 anni
     
euiswap   euiswap

 


Nel primo caso la scadenza quinquennale ha evidenziato una riduzione dell’inflazione attesa, nel secondo caso il trend di lieve ma costante aumento appare intatto. Se pensate di trovare delle motivazioni fondamentali a questa divergenza, non sprecate il vostro tempo.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

La fine della derivata seconda

Thursday, 2 July, 2009 at 17:42 - by phastidio
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Altro mese di dati fortemente negativi sull’occupazione statunitense. Altri 467.000 posti soppressi in giugno, che portano il totale a 5,7 milioni nel corso dell’ultimo anno, e 6,46 milioni durante i 18 mesi consecutivi di perdita di occupazione; disoccupazione al 9,5 per cento, massimo dal 1983. Anche l’indicatore più ampio della disoccupazione continua a deteriorarsi. La misura, nota come U-6, e che include i sotto-occupati e i lavoratori scoraggiati, ha raggiunto il 16,5 per cento, superando dello 0,1 per cento il precedente picco, toccato nella rilevazione di marzo, e segnando il nuovo massimo dall’inizio delle rilevazioni, nel 1994.

 

 

  I nuovi ordini tornano a calare  
     
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E mentre il numero di nuovi sussidi settimanali di disoccupazione, o meglio la sua media mobile a quattro settimane, continua a disegnare un trend di flessione nella velocità di distruzione di occupazione, il progressivo calo dei continuing claims sembra da porre in relazione non tanto al riassorbimento dei disoccupati nel mercato quanto alla fine del periodo di erogazione dei sussidi. L’attuale recessione è la peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale, in termini di distruzione di occupazione.


 

  I nuovi ordini tornano a calare  
     
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Leggere le foglie del the

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E mentre qualche buontempone legge i fondi del caffè, intuendo una W nel trend dell’occupazione (e ora ricomincia la discesa), anche il recente miglioramento dell’indice manifatturiero ISM, avrebbe in sé un segnale d’allarme: la componente relativa ai nuovi ordini è infatti tornata a contrarsi. Anche se un singolo dato non autorizza a lanciarsi in inferenze troppo trancianti, il rischio è che finora abbiamo avuto solo una ricostituzione delle scorte, terminata la quale la già fioca luce rischia di spegnersi.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

CARTE DI CREDITO: NEL 2009 INSOLVENZE RECORD

07 Luglio 2009 16:48 NEW YORK - di WSI
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Nel primo trimestre e' salito ai massimi dal 1980 il numero degli americani che non riescono a star dietro ai pagamenti mensili delle carte. Il benessere delle famiglie e i redditi sono in calo, mentre cresce la disoccupazione.
La continua inarrestabile crescita del tasso di disoccupazione ha spinto le insolvenze sulle carte di credito e sui finanziamenti garantiti da ipoteca sulla casa su livelli record, con i consumatori statunitensi che fanno fatica a ripagare i debiti, dovendo vedersela con redditti in calo, mentre il benessere delle famiglie in calo compromette gli investimenti.
Stando ai dati diffusi martedi' dall'Associazione Americana dei Banchieri (ABA) e riportati dal Financial Times, le insolvenze in tutti i prestiti al consumo sono salite al 3.23% del totale nei primi tre mesi dell'anno, portandosi sui massimi dal 1980. Le insolvenze vengono definite tali dalla ABA quando il rtiardo nel pagamento dei debiti supera i 30 giorni.

"Il fattore numero uno a monte delle insolvenze e' la perdita di posti di lavoro", dice James Chessen, chief economist di ABA. "Quando la gente perde il lavoro, non riesce a pagare le bollette".

Alcuni consumatori stanno sempre di piu' facendo affidamento sulle carte di credito e sui prestiti "home equity", strumenti che permettono di "estrarre" dagli immobili liquidita' da destinare a investimenti o consumi. Nel primo trimestre le insolvenze sulle carte bancarie sono balzate al 4.75% del totale, rispetto al 4.52% del periodo precedente.

I ritardi nei pagamenti stanno inoltre provocando uno sbilanciamento nei conti degli istituti finanziari, spingendo le societa' di carte di credito a cercare di ricoprire le perdite aumentando i tassi di interesse e i livelli di pagamento minimi richiesti.

Per esempio a giugno Citigroup si e' vista costretta ad incrementare fortemente i tassi di interesse su 15 mila carte di credito in Usa. Da parte sua JP Morgan Chase ha annunciato che da agosto alcuni dei suoi clienti vedranno i livelli di pagamento minimi richiesti crescere dal 2% al 5%.

I problemi del travagliato mercato immobiliare, che ha visto crollare i prezzi delle case del 30% dalle punte massime toccate nel 2006, ha spinto in rialzo le insolvenze nei finanziamenti home equity. Secondo l'ABA, i ritardi nei pagamenti sono cresciuti al 3.52% del totale e le insolvenze sulle linee di credito di tali strumenti hanno toccato l'1.89%. In entrambi i casi si tratta di massimi assoluti.

"Anche se i prezzi delle case smettessero di diminuire alla fine dell'anno, comunque il tasso di disoccupazione continuera' a mantenere le insolvenze sui finanziamenti estratti dal bene casa su livelli elevati ancora per un po' di tempo", sostiene Chessen.
 

Fonte - WSI

 

 

 

 

 

  Il Papa: «Più etica in finanza, armonizzare Stato e mercato»

07 Luglio 2009 12:23 MILANO - di Il Sole 24 Ore

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Ha visto la luce ufficialmente questa mattina in Vaticano la «Caritas in veritate» (Carità nella verità), la nuova enciclica di papa Ratzinger dedicata all'economia e al lavoro, della quale sono state già stampate 530 mila copie. Il documento, che ha subito numerose revisioni alla luce della crisi, e che è stato presentato in Vaticano proprio alla vigilia del G8 dell'Aquila, ribadisce con forza il bisogno di nuove regole e di un nuovo, trasversale, diffuso consenso etico sul modo di governare un mondo e un sistema economico ormai interdipendenti.

Centoventisette pagine, sei capitoli, la Caritas in veritate è l'enciclica sociale dell'inizio del terzo millennio, e si colloca nel nobile solco che va dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891) alla Populorum Progressio di Paolo VI (1967) alla Centesimus Annus di Giovanni Paolo II (1991).

Una via d'uscita dalla crisi

Benedetto XVI cerca di tracciare una via d'uscita dalla crisi economica mondiale e lo fa sottolineando come l'economia abbia bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento. Nuove regole, governo della globalizzazione, un'economia fondata sull'uomo: ecco le parole chiave che la Chiesa suggerisce a imprenditori, banchieri, governanti nel momento attuale.

Il Papa sostiene che le disuguaglianze sociali, le povertà estreme, il dramma del lavoro precario mettono a rischio persino la democrazia e il rispetto dei diritti umani: per questo, confermando anche i no della Chiesa all'aborto, all'eutanasia e all'eugenetica, chiede lavoro stabile «per tutti» e rispetto dei diritti degli immigrati (che «non sono merce») e una maggiore tutela dell'ambiente.

Una curiosità sul titolo dell'enciclica, che ribalta una frase di San Paolo che esortava alla «verità nella carità». La carità, «via maestra della dottrina sociale della Chiesa», deve dunque, secondo Ratzinger, fondarsi sulla verità e sulla fede, per evitare che un «cristianesimo di carità senza verità » possa venire scambiato «per una riserva di buoni sentimenti marginali».

No al precariato

Sottolineando ancora una voltra la centralità della persona umana, il Papa invoca un lavoro «decente» per tutti: è «un diritto inalienabile» di ogni essere umano; chiede rispetto e accoglienza, in «qualunque circostanza», per i lavoratori stranieri che, ammonisce, «non sono una merce». Benedetto XVI denuncia inoltre la «riduzione delle reti di sicurezza sociale», l'indebolimento dei sindacati nell'era della globalizzazione e delle delocalizzazioni. Alle organizzazioni sindacali, tra l'altro, il Pontefice rivolge un appello inedito a superare gli interessi di bottega nazionali e a «volgere lo sguardo» ai lavoratori senza tutela dei paesi più poveri, dove vengono sempre più spesso trasferite le produzioni a basso costo.

Stato e mercato devono convivere

L'enciclica ribadisce che la Chiesa non è contro il «mercato», purchè esso non si riduca alla ricerca del profitto e ammetta la presenza di più forme economiche, ed anche di più Stato e società civile. Non è contro la globalizzazione, purchè essa non sia frenata «con progetti egoistici e protezionistici» e offra la possibilità di «una grande redistribuzione della ricchezza». La crisi attuale - sintetizza «ci obbliga a riprogettare il nostro cammino».

Basta saccheggio all'ambiente

L'enciclica affronta anche il problema della tutela dell'ambiente, «un dono di Dio da usare responsabilmente». Deve finire - scrive il Papa - «l'accaparramento delle risorse» da parte di Stati e gruppi di potere a danno dei «paesi poveri». La comunità internazionale ha il compito di «trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili», mentre le società sviluppate devono diminuire «il loro fabbisogno energetico».

Critiche all'Onu: nuova autorità mondiale per governare lo sviluppo

Servono dunque, scrive Ratzinger, un'urgente riforma dell'Onu e una nuova «autorità politica
mondiale», capace di gestire i processi globali con un «potere effettivo» e rispettando «i principi di solidarietà e sussidiarietà». Serve, insiste il Papa, riportare l'etica e la dignità umana al centro dello sviluppo. Benedetto XVI ritiene che, di fronte alle sofferenze del pianeta, l'Onu si sia dimostrata inadeguata, così come anche altri forum internazionali. Ratzinger mette sotto accusa gli organismi delle Nazioni Unite per l'incapacità dimostrata sinora nel gestire i sommovimenti della globalizzazione. Non solo: il Papa contesta alle agenzie dell'Onu di voler imporre piani di controllo delle nascite - persino con l'uso dell'aborto - ai paesi più poveri, e di non essere riuscite finora a fronteggiare lo «scandalo delle fame», anche per sperperi e mancanza di trasparenza negli aiuti. Il rispetto per la vita - sottolinea - «non può in alcun modo essere disgiunto» dallo sviluppo dei popoli.

Più etica in finanza

Sul capitolo più specificamente finanziario, papa Ratzinger chiede che ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo. «Tutta l'economia e tutta la finanza, non solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell'uomo e dei popoli». «Gli operatori della finanza - aggiunge il Papa - devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti», sottolinea Benedetto XVI in quello che può essere letto come un riferimento al caso Madoff o simili truffe. In questo senso, papa Ratzinger chiede «tanto una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e impedire scandalose speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove forme di finanza destinate a favorire progetti di sviluppo», tra cui l'esperienza positiva della microfinanza e del microcredito del premio Nobel Mohammed Yunus e della Banca etica. (M. Do.)
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Martedì 07 Luglio 2009   Giovedì 09 Luglio 2009   Venerdì 10 Luglio 2009  
       
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Ripresa priorità del vertice ma il Global Standard è lontano

06 Luglio 2009 20:03 MILANO - di Piero Fornara - Il Sole 24 Ore
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L'esigenza di porre rimedio alla perdurante fragilità dell'economia resta in cima alle priorità dei leader mondiali, che da mercoledì 8 a venerdì 10 luglio si riuniscono per il vertice che la presidenza italiana ha voluto tenere a L'Aquila, ancora investita da scosse sismiche. Se poco meno di un mese fa la riunione dei ministri delle Finanze a Lecce si era conclusa con una prudente valutazione sulla possibilità che il peggio della crisi sia alle spalle, gli ultimi dati sul peggioramento della disoccupazione negli Usa e nell'area euro, sebbene attesi, hanno ribadito tutta la delicatezza della situazione.

Dal "Legal Global Standard", termine coniato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti per definire un insieme di nuove regole per l'economia e la finanza si è passati al meno impegnativo "Lecce Framework", definito così dal luogo dove si è tenuto in giugno il G8 economico e finanziario che è tornato ad affrontare il tema del nuovo codice di regole. E per garantire solide fondamenta alla ripresa, come recentemente avvertito dalla Banca dei regolamenti internazionali nel suo rapporto annuale, è necessario procedere senza indugio alla "riparazione" del sistema finanziario.

Le possibili aree di intervento spaziano dai bonus ai manager, alla governance di impresa, alla lotta alla corruzione, all'evasione fiscale, alle tasse, al funzionamento dei mercati. Ma su questo versante L'Aquila dovrebbe segnare solo una tappa di un percorso che si annuncia lungo. Oggi lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha avvertito pochi giorni fa che «siamo molto lontani da un risultato: prima di raggiungere un testo condiviso, perché tale dovrà essere, ci vorranno molti altri passaggi». Ma si potranno fare progressi su una strategia comune, da sviluppare ulteriormente al G20 di Pittsburgh, a settembre. Il tutto mentre nelle opinioni pubbliche dei vari paesi serpeggia il malcontento per i ripetuti episodi di manager strapagati, mentre le relative società fallivano e magari effettuavano drastici tagli occupazionali.

Altro tema cruciale per il rilancio dell'economia è quello del commercio internazionale. E qui sul tavolo potrebbe trovare spazio un possibile rilancio dell'Organizzazione mondiale del commercio, o Wto, attraverso il pluriennale ciclo negoziale di Doha. La crisi ha duramente colpito anche questo settore, prosciugando i finanziamenti, e la stessa Wto ora prevede tassi di contrazione degli scambi che quest'anno potrebbero raggiungere il 10 per cento.

L'appuntamento dell'Aquila sarebbe particolarmente propizio per un rilancio del Doha Round, perché si tratterò di un G-8 enormemente allargato: oltre alle maggiori economie avanzate ci saranno anche tutti i giganti emergenti, come Cina e India, la controparte più rilevante nei negoziati, ma anche una folta rappresentanza dell'Africa, per i paesi in via di sviluppo, le cui prospettive di crescita sono profondamente legate alla possibilità di sfruttare il commercio con l'estero. utto questo mentre le lancette dell'economia continuano a offrire alcuni spunti di possibile miglioramento del quadro, ma anche altri segnali che tendono a smorzare decisamente le valutazioni ottimistiche.

Nel frattempo le finanze pubbliche risultano sempre più deteriorate sia dalle ingenti misure stanziate per rispondere alla crisi, sia dalla recessione economica che mina le entrate. La Bce ha appena ribadito che è necessario iniziare subito a approntare strategie di uscita «ambiziose» dalla fase di deficit gonfiati dalle esigenze di contrasto alla crisi. Ma sulla tempistica con cui rimuovere gli stimoli - anche dopo il G-8 finanziario di Lecce - le posizioni dei vari paesi appaiono sfumate, sebbenesia stato conferito al Fondo monetario internazionale un mandato
a supervisionare questo aspetto.

In ogni caso, anche per risanare le finanze il recupero della crescita economica rappresenta un fattore determinante. Dal G-8 potrebbero giungere indicazioni anche sulle strategie di lungo termine, tramite l'individuazione di fonti per assicurare la crescita nel futuro. Una possibile area di intervento è quella di concordare tra paesi avanzati e giganti emergenti un percorso di progressivo aggiustamento degli squilibri globali che erano lievitati negli anni scorsi. In particolare ai forti esportatori dell'Asia, come la Cina, si chiederebbe di rafforzare i propri consumi interni, magari facendo leva su un miglioramento delle reti di protezione sociale che stimolerebbe le spese delle famiglie, ora altamente orientate al risparmio. L'opposto sarebbe necessario negli Stati Uniti, dove per anni la crescita economica è stata eccessivamente sbilanciato sull'inedbitamento.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

G8: OK AL PIANO ECONOMICO (SUPER-GENERICO)

08 Luglio 2009 18:12 ROMA - di WSI
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I Grandi hanno approvato la dichiarazione del G8 relativa all’economia globale. Tra i punti più importanti, il "no" al protezionismo, l’importanza del lavoro, la lotta ai paradisi fiscali. Il "global legal standard", il codice di regole globali fortemente sostenuto dalla presidenza italiana di turno del G8, ha tratto spunto dalle dodici tavole stilate dall’Ocse assieme al lavoro dei tecnici dell’Economia.
L'impegno preso dai Grandi I Paesi del G8 si impegnano a lavorare per "assicurare una stabilità finanziaria globale" ed "eque condizioni competitive internazionali". Il G8 sottolinea "la necessità di un quadro globale rafforzato per la regolamentazione e la supervisione finanziaria", promuovendo "coerenza tra norme contabili e prudenziali", creando "strumenti adeguati per affrontare la pro ciclicità" e assicurando una "visione globale di tutte le attività ed entità sistematicamente significative. Secondo il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, il percorso per la definizione delle nuove regole globali, il cosiddetto global legal standard, "è stato dato oggi un colpo di manovella".

Segnali di stabilizzazione I Grandi della Terra ritengono che permangano "rischi significativi" per l’economia globale, e in quest’ottica nuove strategie di crescita dovranno essere decise una volta avviata la ripresa. Nella dichiarazione, si legge che "nonostante ci siano segni di stabilizzazione e il sentimento di fiducia si stia rafforzando, la ripresa economica non è ancora avviata e le condizioni congiunturali sono ancora stagnanti". Nessuna menzione invece sulla nuova moneta della riserva globale alternativa al dollaro, e caldeggiata soprattutto dalla Cina. Nella dichiarazione, si fa soltanto cenno a "squilibri" globali. Squilibri che, si legge nella dichiarazione, vanno governati sempre al fine di "una ripresa stabile e sostenibile nel lungo termine". Infine, la dichiarazione prevede un richiamo forte alla necessità di resistere a qualsiasi tentazione di "protezionismo" ma di considerare la dimensione sociale della crisi, mettendo la persona al primo posto.

Lotta ai paradisi fiscali Lotta ai paradisi fiscali e confronto sulle misure per il rimpatrio dei capitali. Sono questi gli impegni che i Grandi assumono sul fronte del contrasto all’evasione. "Non possiamo continuare a tollerare - si legge nella dichiarazione - grossi ammontari di capitali nascosti per evadere il fisco". Tanto più in questo momento di crisi dove il ruolo della fiscalità ha un peso significativo. Primario su questo fronte il ruolo dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Nel doumento si fa poi riferimento a ipotesi di misure per agevolare il rimpatrio ei capitali, il cosiddetto "scudo" fiscale. "Diversi Paesi stanno attuando strategie - prosegue la dichiarazione - per favorire il rimpatrio volontario dei patrimoni detenuti in giurisdizioni non cooperative e si sente la necessità di definire un quadro di discussione per i Paesi interessati".

Fonte - Il Giornale

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I segnali positivi ci sono. Ma la situazione economica mondiale rimane «incerta» con «rischi significativi per la stabilità». Per questo i Paesi si impegnano a fare «tutti i passi necessari per sostenere la domanda e ripristinare la crescita», mantenendo «liberi e aperti i mercati» e respingendo «il protezionismo di ogni genere» . È questo il messaggio principale contenuto nella dichiarazione economica approvata durante la prima giornata del G8 dell'Aquila. Nuove regole globali, lotta ai paradisi fiscali e attenzione al lavoro e al sociale sono le altre priorità toccate dal documento.

CRISI ECONOMICA E VIA PER LA RIPRESA - I Grandi sottolineano «i progressi raggiunti finora nel ripristinare la fiducia, stabilizzare il settore finanziario e fornire lo stimolo per sostenere la crescita e per creare posti di lavoro», ma «la situazione rimane incerta e rimangono rischi significativi per la stabilità economica e finanziaria». Le misure dei governi a sostegno dell'economia, che gli stessi si impegnano a continuare a fornire, «hanno avuto un impatto sulle finanze pubbliche». Per questo i Grandi si impegnano «ad assicurare la sostenibilità fiscale a medio termine». Inoltre si ribadisce l'assistenza del Fondo Monetario Internazionale a preparare «strategie di uscita» una volta che la ripresa sarà assicurata.

LOTTA A PARADISI FISCO E CONFRONTO SU SCUDO - La lotta all'evasione fiscale assume dimensioni internazionali: «Non possiamo continuare a tollerare - dicono i Grandi - grossi ammontari di capitali nascosti per evadere il fisco». Tanto più in questo momento in cui la fiscalità gioca un ruolo importante per sostenere la ripresa. Ruolo fondamentale è affidato all'Ocse, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che ha già stilato le black list sui paradisi, alla quale si chiede di affrontare «rapidamente queste sfide e proporre ulteriori passi» in vista del prossimo G20 finanziario. Si parla anche delle ipotesi di 'scudo fiscale', le misure per agevolare il rimpatrio di capitali detenuti illegalmente all'estero, sottolineando «la necessità di definire un quadro di discussione per i Paesi interessati».

AVANTI SU NUOVE REGOLE E LECCE FRAMEWORK - I Grandi rinnovano il loro impegno all'applicazione di norme e principi comuni di «correttezza, integrità e trasparenza» coinvolgendo il G20 nella strategia definita dal "Lecce Framework", il quadro di regole promosso dalla presidenza
italiana e dal ministro Tremonti nel recente vertice. Il G8 si impegna a anche a mantenere gli impegni presi nei vertici di Washington e Londra per riformare la regolamentazione finanziaria e stabilire norme più stringenti fra cui il controllo sugli hedge funds e i tetti agli stipendi dei manager. Per «assicurare una ripresa economica durevole» è necessario «risanare il settore finanziario anche stabilizzando i mercati finanziari e regolamentare l'attività bancaria».

LAVORO: LE PERSONE PRIMA DI TUTTO - Il sostegno all'economia, sostengono inoltre, passa per una maggiore attenzione al lavoro e alla situazione della gente che vive sulla pelle gli effetti della crisi. «Siamo impegnati a trattare la dimensione sociale della crisi, ponendo le persone al primo posto».

INTESA SUL CLIMA - I Paesi del G8 hanno poi raggiunto un accordo sul clima per limitare «l'aumento globale della temperatura media a due gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali». Ma lo sperato storico accordo di riduzione delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050 non ci sarà. Il comunicato che chiuderà i lavori del Major Economies Forum fornirà invece un'indicazione più blanda, che sottolinea l'importanza di non consentire un surriscaldamento del pianeta superiore ai due gradi centigradi. Secondo fonti del vertice, India e Cina si sarebbero infatti opposte a identificare obiettivi concreti di riduzione delle emissioni. Nei giorni scorsi, gli sherpa del vertice avevano indicato un target di riduzione del 50% per tutti i paesi del mondo e dell'80% per i paesi industrializzati. Ma Cina e India ritengono che i paesi occidentali debbano prima tagliare drasticamente le loro emissioni entro il 2020 se poi vogliono imporre target ambiziosi al resto del mondo. Secondo quanto affermato da Berlusconi, fra i partecipanti del G8 c'è un accordo sostanziale sul clima, ora bisogna «verificare» se sia possibile un'intesa con India e Cina.

SVILUPPO E AFRICA - Via libera dai leader del G8 anche alla dichiarazione su «Sviluppo e Africa: per una globalizzazione sostenibile e inclusiva». Gli Otto si impegnano a mitigare l'impatto della crisi economica mondiale sui Paesi poveri e a «rinnovare tutti gli impegni, in particolare verso l'Africa» e gli sforzi per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo Onu del Millennio entro il 2015.

Fonte - Corriere della Sera
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La fase più acuta della crisi sembra superata e «ci sono segnali di stabilizzazione» anche se «permangono rischi significativi» per il prossimo futuro. È la disamina della situazione congiunturale contenuta nella bozza di comunicato finale preparata dagli sherpa del G-8 e su cui lavoreranno nel corso delle prossime ore i presidenti delle otto principali economie mondiali. «La situazione resta incerta - recita il comunicato - e rimangono rischi per la stabilità economica e finanziara. Notiamo dei segnali di stabilizzazione delle nostre economie e pensiamo che l'inversione di tendenza sarà rafforzata quando le nostre misure avranno sortito pieno effetto».

Finanza, via libera al global standard
Nella bozza del comunicato finale del vertice in corso nella città abbruzzese, secondo quanto riferito da fonti della presidenza italiana, il G8 dei capi di Stato e di governo de L'Aquila ha avallato pienamente il «Lecce framework» sul global standard, (le linee guida sull'uniformizzazione normativa nel settore finanziario lanciata il mese scorso dal G8 dei ministri economici). Si tratta di una delle decisioni chiave contenute . In questo modo il G8 pone «le fondamenta», spiegano le fonti, su cui verranno costruite le regole unificate, in un percorso di lavori che proseguirà al G20 di Pittsburg. Ma si tratta anche di una decisione che indirettamente avrà effetti immediati, aggiungono le fonti della presidenza italiana, perché impartendo un deciso impulso al global standard determinerà un mutamento di atteggiamento da parte di tutti gli operatori della finanza, che progressivamente inzieranno a adeguarsi alla prospettiva di una normalizzazione delle regole nel comparto a livello mondiale.

Lotta ai paradisi fiscali
Il comunicato ribadisce poi l'impegno della comunità internazionale a ridurre il problema dei paradisi fiscali auspicando un maggiore grado di collaborazione fra stati sulla base degli standard Ocse. Da ricordare che nel corso delle ultime settimane, uno degli Stati più sotto i riflettori per questa vicenda, vale a dire la Svizzera, ha aggiornato numerosi accordi fiscali bilaterali per meglio aderire agli standard Ocse.

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Le relazioni tra Mosca e Washington

July 8th, 2009 by editor - di Andrea Gilli
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Come preannunciato in campagna elettorale, il presidente Obama sta continuando a cercare il dialogo con nemici, oppositori e avversari degli Stati Uniti. Tra questi vi è la Russia, con la quale si è giunti ieri ad un importante traguardo: gli accordi START sono stati de facto ripristinati. Mosca e Washington si impegnano dunque nuovamente ad una progressiva riduzione degli arsenali atomici – dopo la pausa imposta dalla presidenza Bush che aveva invece optato per la nuclear primacy.
Alla fine della presidenza Bush jr., le relazioni tra Stati Uniti e Russia erano andate precipitando. Obama sembra però voler davvero realizzare quel reset di cui ha parlato recentemente Hillary Clinton. In questo articolo proviamo a capire le cause del peggioramento e le opportunità di miglioramento delle relazioni tra Russia e Stati Uniti.
Quando si parla di relazioni bilaterali fra Paesi, la stampa tende spesso a favorire interpretazioni che tendono ad enfatizzare eccessivamente i fattori interni agli Stati. Si passa dalla personalizzazione all’enfasi sulla natura dei regimi senza considerare quella che in realtà è la variabile più importante: i rapporti di forza relativi tra Paesi. Rapporti di forza che, è bene ricordare, sono determinati anche da fattori interni: il Pil, il nazionalismo, l’efficienza amministrativa e la stabilità politica, e così via.
Se guardiamo alle relazioni russo-americane degli ultimi dieci anni, è facile notare come esse siano effettivamente state soggette alle variazioni dei rapporti di forza tra i due Paesi. All’inizio degli anni Duemila, gli Stati Uniti erano la superpotenza incontrastata, e dunque si potevano permettere di uscire dagli accordi START, di intervenire in Afghanistan, e poi, via via, di sostenere le opposizioni Georgiane e Ucraine, di intervenire massicciamente nel Caucaso e in Asia centrale sulle rotte energetiche fino al tentativo di installare lo scudo missilistico in Polonia e Repubblica Ceca.
In questi dieci anni, però, due fenomeni hanno iniziato ad attecchire. Da una parte, abbiamo assistito al rafforzamento di alcuni Paesi (Cina, India, Brasile e la stessa Russia). Dall’altra, le politiche dell’amministrazione Bush hanno sia dilapidato enormi risorse finanziarie con esiti spesso deludenti che creato forti tensioni interne al Paese, indebolendo la sua capacità di intervento all’estero.
Abbiamo cioè assistito ad un indebolimento relativo degli Stati Uniti. Se un Paese si indebolisce, ipso facto, uno si rafforza. E l’indebolimento americano ha dunque significato un rafforzamento relativo della Russia. Gli esempi più palesi sono offerti dal sostegno russo all’Iran e, recentemente, dalla guerra Russo-georgiana dell’agosto 2008. La Russia si è potuta cioè prendere lussi che non erano neppure immaginabili solo cinque anni fa. Se li è presi quando era più forte. Era più forte, quando gli Stati Uniti sono diventati più deboli.
Ora Obama vuole un maggiore dialogo con la Russia. Su questo punto vanno fatte tre considerazioni.

In primo luogo, Obama vuole il dialogo perché ha bisogno del dialogo. E ha bisogno del dialogo perché ha bisogno della Russia: dall’Afghanistan all’Iran, dalla lotta al terrorismo fino alla lotta alla proliferazione nucleare, il ruolo di Mosca è imprescindibile.
In secondo luogo, Obama ha bisogno del dialogo, perché non può fare da solo. Contrariamente a quanto molti pensano, l’unilateralismo non è assolutamente una prerogativa dell’era Bush, anzi. Esso era ben presente già nell’epoca di Clinton: si pensi su tutti alla guerra in Kosovo. Se Obama potesse, andrebbe da solo. Non può. E non può perché è debole: il suo Paese è schiacciato da troppe sfide e dunque non è in grado di risolverle tutte da solo, anche perché molte di esse sono collegate (Russia e Iran, Iran e Iraq, Iraq e terrorismo, terrorismo e Afghanistan, Afghanistan e Russia, etc.).
Ne consegue, che gli USA hanno bisogno della Russia più di quanto la Russia abbia bisogno degli USA. Mentre la Russia si cura infatti solo di quanto avviene nella massa eurasiatica, gli Stati Uniti, in quanto Paese più forte al mondo, devono preoccuparsi di quanto avviene in tutti gli scenari regionali. E per mantenere stabilità e sicurezza, la cooperazione dei principali attori regionali è fondamentale.
In quest’ottica, due variabili sono da considerare per capire se, quanto e come le relazioni tra Russia e Stati Uniti possono effettivamente migliorare.
La prima riguarda, ovviamente, i rapporti di forza tra i due Paesi. Le relazioni tra i due verranno plasmate drammaticamente da quanto essi cresceranno nei prossimi anni: dai loro trend demografici, a quelli socio-politici, fino allo sviluppo del loro apparato militare alla loro efficienza interna. Tutto ciò influenzerà direttamente la seconda questione: le richieste che ognuno di essi avanzerà. Abbiamo detto che gli USA hanno più bisogno della Russia di quanto la Russia abbia bisogno degli Stati Uniti. Ciò significa, in definitiva, che il miglioramento dei rapporti tra i due Paesi dipende anche dalla volontà americana di fare concessioni: sullo scudo missilistico, sulla Georgia, sull’espansione della NATO. Ovviamente, un avvertimento è d’obbligo: se le concessioni sono necessarie per avere la cooperazione russa, troppe concessioni rischiano di rafforzare la Russia. E rafforzare la Russia significa anche indebolire gli Stati Uniti.
Il compito non è facile. Per questo la storia ricorda poche epoche dominate da una solo grande potenza. Essere il più forte, infatti, non è solo raro, è anche difficile.

 

Fonte - Epistemes.org

 

 

IRAN, IL GRANDE BROGLIO

13 Luglio 2009 03:44 NEW YORK - di Tudor City Citizen
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Il 12 Giugno si sono avute in Iran le elezioni Presidenziali ed Ahmadinejad ha vinto con un tale margine di vantaggio che si è subito gridato al broglio. La gente ha cominciato a protestare e scendere per strada, prima a Tehran e poi in altri centri urbani. Dopo oltre due settimane di contestazione e confronto si sono avuti una ventina di morti e qualcosa come un migliaio di arresti. Mai, dai tempi della Rivoluzione, si eran visti nel Paese cortei e manifestazioni di tale entità. La società iraniana ne è uscita ferita e dilaniata ed il regime ha visto esplodere al suo interno una lotta di potere così intensa da poterne minare la stabilità.
A seguito delle proteste dei candidati sconfitti vi è stata ieri la riconta del dieci per cento dei voti: Ahmadinejad ne è uscito nuovamente vincitore ed è ora da considerarsi a tutti gli effetti eletto Presidente.

Si è trattato di una vera e propria farsa: la maggior parte del Paese avrebbe espresso il suo suffragio a favore di Mir-Hossein Moussavi ed Ahmadinejad, più che rieletto, sarebbe da considerarsi nominato. Secondo dati del Ministero degli Interni, raccolti da fonti dell'intelligence occidentale, Moussavi avrebbe trionfato raccogliendo qualcosa come 19 milioni di voti. Dopo di lui si sarebbe piazzato Karroubi, con circa 8–9 milioni di suffragi. Ahmadinejad sarebbe giunto terzo con pressappoco 4 milioni di preferenze ed ultimo Mohsen Rezai, con non più di 800mila.

La successiva riconta delle schede sarebbe stata puro teatro. Infatti, se non vi fossero stati brogli, la riconta si sarebbe fatta subito e non dopo poco più di due settimane: con questo sistema si è avuto tutto il tempo per preparare le schede ed ottenere il risultato voluto. Le fazioni al potere sapevano perfettamente che avrebbero dovuto mentire e che queste bugie, per risultare credibili, dovano essere colossali. Cosa aspettarsi a questo punto?

Ci si dovrebbe aspettare un primo anno segnato dalla scelta di dar precedenza alla politica interna ed ai fatti di casa. La fiducia della nazione, rispetto alla politica, ha subito un duro colpo e si è incrinata. Il paradigma repubblicano ed il principio di sovranità popolare sono stati violati: il voto ha finito col contar ben poco e l'elettore si è visto ignorato, tradito e scavalcato. Sono seguite sommosse, morti, feriti, una dura repressione e non pochi arresti tra moderati, riformisti e tutti coloro favorevoli ad un sistema più aperto e ad un dialogo tra le parti.

L'alleanza tra l'Ayatollah Khamenei, Capo Supremo della Rivoluzione, ed i Pasdaran si è rinsaldata. Ahmadinejad, come portavoce di quest' alleanza, ne è emerso più forte e si è visto rinnovare la sua carica di Presidente. Per giungere a questo risultato sono stati gradualmente isolati gli altri gruppi: Moussavi, con sua moglie, agli arresti domiciliari; le comunicazioni interrotte; la stampa imbavagliata; i siti oscurati; Rafsanjani tagliato fuori: la sua nomina a capo del Consiglio degli Esperti ed a quello del Discernimento è da interpretarsi come un contentino offerto all' altare della sua irrilevanza. Tutti i principali gruppi riformisti e gli elementi più moderati sono stati esautorati o tolti di mezzo. Molti son finiti in carcere, le loro pubblicazioni bloccate ed i loro siti chiusi. Hanno fatto la fine del Movimento per la Libertà dell'Iran di Yazdi. Si è trattato a tutti gli effetti di un vero e proprio colpo di stato.

In politica Estera i prossimi quattro anni saran marcati da confronto e tensioni: Ahmadinejad ha descritto il Presidente Obama come un nuovo Bush e Khamenei ha posto un freno al dialogo con gli Stati Uniti, arrivando al punto di menzionare una lettera riservata indirizzatagli dal Presidente Americano. Malgrado ciò, tuttavia, non sono da escludersi tentativi di approccio con Washington. Resta comunque dubbio che per il primo anno si possa iniziare ad aprire un dialogo fecondo con l'amministrazione Americana.

Riguardo al popolo, è oggi impossibile far predizioni. Una cosa è però certa: sotto le ceneri continua a covare il fuoco. L'orgoglio e la fiducia della nazione iraniana sono usciti in frantumi. Buona parte della gioventù vedrebbe con favore un sistema caratterizzato da maggior democrazia, libere elezioni, concorrenza politica ed un informazione non imbavagliata. Indipendentemente dal loro credo politico o religioso, coloro che hanno sostenuto Moussavi e Karroubi vorrebbero fruire di più ampie libertà.

La domanda è: che cosa questi giovani intendono per libertà e quale tipo di governo sembrerebbero richiedere? È dato sapere che cosa pensa la maggioranza di loro? Sono per conservare la Repubblica Islamica, pur volendola modificare in senso liberale, oppure le loro scelte andrebbero ad uno stato laico caratterizzato da una democrazia come la si concepisce in Occidente?

E' una domanda di non facile risposta: mancano i sondaggi, non vi sono referendum, i giovani non vengono consultati e ciò che si sa è frammentario ed incompleto. È tuttavia evidente che le opinioni sono numerose e tra loro discordanti: non tutti sono ostili all'idea di una Repubblica Islamica, altri vedono come nefasto il concetto sciita del Velayat – al – Faqih, ovvero il Governo del Giurista, nel quale uno studioso di dottrina coranica – presumibilmente di nomina divina – esercita piena autorità sul governo ed il corpo degli eletti. Costoro eliminerebbero volentieri il termine "Islamico" dalla parola Repubblica. I tempi non sono ancora maturi e forse è ancora presto per avere una risposta.

Per i prossimi quattro anni non vi sarà purtroppo da scherzare: il controllo politico risulterà molto intenso, come fortissima la tentazione di chiudere il Paese e soffocare il dissenso. Assisteremo ad uno scontro di lunga durata con protagonista uno stato nazionalista e militarizzato, sostenuto dagli apparati di sicurezza, animato da un unica ideologia e mirante al controllo di ogni settore della società, incurante dell'opinione pubblica e senza la minima intenzione di spartire questo controllo. Regnerà sul Paese un atmosfera di chiusura e di censura a scapito soprattutto dei giovani, degli elementi riformisti e di tutti coloro che vorrebbero un Iran più moderno e meglio integrato nella comunità internazionale.

Il popolo è oggi piegato al silenzio. Fino a quando potrà durare? Due anni? Quattro anni? Dieci anni? Rispondere a queste domande non è per ora possibile: molto dipende da ciò che finirà con l'accadere in seno alla società. La situazione economica è in fase di peggioramento, il lavoro difficile da trovare, la repressione dura ed efficace. Nei confronti del cittadino aspettarsi, purtroppo, maggiore durezza e violazione dei diritti umani. Di particolare interesse sarà l'osservazione del mondo femminile che in questi anni si è mostrato sempre più attivo ed aperto alla contestazione. Al suo interno fervono discussioni sui diritti sociali, giuridici, politici, di lavoro, di divorzio, di eredità. Per un gran numero di queste donne libertà, e tutto ciò che recepiscono come loro diritti fondamentali, va ben oltre il pensiero religioso: sono da intendersi come essenza stessa dei diritti umani.

Dopo il giuramento di Ahmadinejad e la formazione del nuovo governo, l'obbiettivo principale, in campo internazionale, sarà assicurarsi che il Paese mantenga – se non addirittura accresca – il suo ruolo di potenza regionale, facendo passare in secondo piano persino il dialogo con gli Stati Uniti e l' Europa. Questa politica avrebbe anche l'appoggio di Mosca e di Pechino che, non a caso, sono stati i primi a riconoscere come valida l' elezione di Ahmadinejad. Tra Russia, Cina ed Iran vi è anche cooperazione strategica per limitare la portata delle sanzioni internazionali, come reso evidente dalla recente presa di posizione del Ministro degli Esteri Russo Lavrov nel corso dell'ultimo vertice di Trieste.

I Russi sono furbissimi e fanno di tutto per giocarsi al meglio la carta Iraniana. Per loro la partita consiste nel controllare ed eventualmente tenere sotto scacco la presenza di Washington in Medio Oriente ed in Asia Centrale, in particolar modo nelle regioni del Caucaso e l'area del mar Caspio. Fondamentale per Mosca è veder diminuire la pressione Americana in quelle zone ed anche in Pakistan, India e Turchia.

La carta dell' Iran è dunque di grande importanza per la Russia. Serve per ricavarsi uno spazio all'interno di queste crisi regionali e riequilibrare la presenza degli Stati Uniti. Oltre a non nutrire una grande fiducia nell' azione Americana, Mosca vede con sospetto la politica della NATO, come evidenziato dai recenti sviluppi in Georgia ed Ucraina. Non è troppo entusiasta neanche della sua presenza in Afghanistan e del ruolo della Turchia al suo interno. Di particolare fastidio è stata la recente creazione di una base Francese negli Emirati, seguita dalla vendita di un certo numero di modernissimi aerei da caccia e da conversazioni con gli Stati Uniti per un eventuale installazione di missili. È bene anche ricordare il ruolo di Parigi nelle recenti elezioni in Libano. Non a caso Tehran ha passato alla Cina una concessione di ricerche petrolifere precedentemente destinata alla Total.

Per Tehran, la Russia è sopratutto strumento di temporeggiamento che consente di guadagnare tempo. Inoltre, pur rimanendo contraria alla produzione di un suo ordigno nucleare, essa offre all'Iran tecnologie sofisticate anche in campo militare. Per assicurarsi questo rapporto l' Iran viene incontro a tutta una serie di timori di Mosca, negando il proprio appoggio ai numerosi gruppi separatisti Islamici operanti negli ex-territori Sovietici, come Daghestan e Cecenia.

La Cina ha intenzionalmente separato la politica dall'economia. L'Iran è per Pechino un partner economico di grande importanza, con qualcosa come 56 miliardi di dollari di interscambio annuale. Esporta soprattutto gas e petrolio, ricevendone in cambio una quantità di prodotti finiti, incluse componenti missilistiche per la sua industria bellica.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

  Il mondo senza centro di gravità

11 Luglio 2009 09:52 MILANO - di Gianni Riotta

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Nel 1989, per conto del Corriere della Sera, andai a parlare con un giovane economista che aveva appena pubblicato un saggio dal titolo insolito The age of diminished expectations, l'era delle speranze ridotte. Oggi Krugman è il celebre studioso premio Nobel che, dal suo foro sul New York Times e da innumerevoli siti, ammonisce sui pericoli del nostro tempo, ancora formidabile quando parla di economia, discutibile quando la foga lo trascina sul terreno onnivoro della polemica.

Allora, rileggo sul logoro taccuino, si presentava «barbuto e con i sandali», geniale anticonformista. La sua tesi, argomentata con dovizia di dati e poi comprovata dalla durezza dei fatti, proponeva una lezione che la società occidentale, non solo l'americana, non era affatto pronta ad accettare e che invece a me, da pochissimo felice e preoccupato padre, suonò convincente. Che cioè le future generazioni non avrebbero più potuto contare su un tenore di vita sempre migliore rispetto a padri e nonni...

A ben guardare ora, quel 1989, giusto 20 anni fa, fu un anno seminale... Le idee anticipano e accompagnano sempre la storia del mondo: in contemporanea al saggio di Krugman, il filosofo Francis Fukuyama scrive il saggio che tanto scosse le coscienze in quel fatale '89, The end of history, la fine della storia. È oggi persino comico vedere come Fukuyama sia stato maltrattato dal dibattito caduco. Dapprima la sua teoria - morto il comunismo non resta che l'ideologia liberale -, da acuto tentativo di interpretare il mondo del dopo Guerra Fredda, divenne moda da salotto, poi fu caricaturata in una specie di elementare vignetta tutta bianca in cui nulla più poteva accadere, fermi tutti morta la storia.

Fukuyama invece aveva per primo intuito che le ideologie nate via via dalla Rivoluzione francese, o in reazione ad essa, e alla cui ombra erano sorti la rivoluzione industriale, il liberalismo in chiave europea o americana, il conservatorismo classico, il socialismo, il comunismo, la socialdemocrazia, i fascismi, il New Deal e le interpretazione del welfare alla Keynes o alla scandinava, insieme declinavano all'alba informatica, atomizzata e globale del XXI secolo... Perché quel 1989 segnò anche l'era della globalizzazione, aperta dal grande Deng Xiao Ping - che dice ai cinesi di arricchirsi e riscopre le virtù classiche asiatiche del lavoro e della comunità - e dalla foga con cui piccoli affamati paesi, dalla Sud Corea a Hong Kong, sperano di vincere negli affari. Nei garage della Silicon Valley ragazzini come Jobs e Wozniak intuiscono che il computer, inventato per triturare numeri per gigantesche burocrazie, può invece comunicare parole per individui e che la Darpanet, sistema nervoso militare via cavo progettato per resistere alle bombe termonucleari russe, può evolvere in internet e diffondere notizie, ricette della nonna, bilanci e lettere d'amore.

Nel tumultuoso passare di una generazione, un miliardo di esseri umani muove dalla fame a un lavoro decente e mezzo miliardo di loro, tra India e Cina, muta da contadini a ceto medio. Ieri una ciotola di riso era il sogno, oggi lo è una borsa Fendi. La velocità del mutamento travolge gli esperti. Nel saggio The end of work, la fine del lavoro, del 1995, Jeremy Rifkin preconizza fosco un mondo senza lavoro, giusto mentre Robert Rubin, segretario del Tesoro con il presidente Bill Clinton e veterano di Goldman Sachs, contribuisce a creare una dozzina di milioni di posti negli Usa e il pianeta intero lavora con una furia senza precedenti. È la speranza di un nuovo ordine mondiale che viene però spezzata dalle fiamme su Washington e New York dell'11 settembre 2001, culminate nelle guerre in Afghanistan e Iraq mentre la Russia, ricca di petrolio, e la Cina, ricca di lavoro, tornano protagoniste.

Nel contesto di queste idee, di questi dubbi e angosce, matura e scoppia la crisi finanziaria ed economica del 2008. Provare a spiegarla solo in base a criteri moralistici, gli americani cicale il resto del mondo formiche (e se mai gli americani interpretavano negli anni del boom la favola antica in modo bizzarro, consumando sì da cicale ma sgobbando da formiche!), o solo economici e giuridici, è fallace. La corsa di quello che il consigliere di Reagan, il falco Luttwak, per primo chiamò "turbocapitalismo" dalle colonne della London Review of books e la mancanza di regole per il lassismo di Rubin e del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan si spiegano solo partendo dall'equilibrio precario della geopolitica 2000. Certo, d'intesa con Greenspan, già nel 1997 Rubin contrastò i freni ai derivati proposti da Brooksley Born, l'avvocato femminista a capo della Commodity Futures Trading Commission: ma davvero qualcuno ritiene che quei poveri legacci avrebbero fermato la piena della storia?

Orfani di ideologie, angosciati dalla crisi industriale e dal nuovo terrorismo, milioni di esseri umani trovarono forza nella globalizzazione... ma nessuna istituzione, nessuno stato, nessun sistema economico, nessuna dottrina politica offriva riparo davanti alla crescita tumultuosa, e alla sua tumultuosa versione dell'azzardo "turbofinanziario". Fallito l'ordine di Bush padre, esaurita la globalizzazione del boom di Clinton e impantanata a Kabul e a Baghdad l'America di Bush figlio, il mondo alla soglia della crisi è confuso e senza progetto politico. L'Europa ha bocciato la sua Costituzione e rinunciato a crescere insieme come comunità, non solo mercato.
Nello storico discorso all'Università Humboldt di Berlino del 2000, il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer lo dice con nettezza: l'euro è un progetto politico. Una comune valuta per un comune organismo politico del continente. Spenta quella strategia con il no alla Costituzione e lo shock seguito all'allargamento affrettato dell'Unione, l'euro non è più un "progetto" di idee e politica, ma solo una moneta. Il dollaro, orfano di Bretton Woods ma anche dell'egemonia multipolare di Bush padre e di quella soft di Clinton, resta rifugio dei cinesi ma non è più la bandiera di un mondo. Qualcuno da Pechino sogna una divisa internazionale, moneta sonante di un ulteriore e auspicato ordine mondiale dopo la crisi. Ma la verità è che il pianeta resta senza ordine né potenza egemonica e stabilizzante. Nel settembre 2008 i due candidati alla Casa Bianca, Obama e McCain, sono in volata, le curve dei sondaggi a poca distanza. È la crisi a spezzare l'equilibrio e far vincere il democratico, ma la buona volontà di Obama è per ora solo speranza, non poco in un'era che non sa più sperare.

Questo vuoto ha reso devastante la crisi del 2008, che qualcuno calcola come peggiore dei danni delle due guerre mondiale in fila. Non la fine del mercato, di cui pure perfino il Financial Times ha discusso con serietà, né la fine del capitalismo o del modo di produzione post moderno o dell'impero tecnologico criticato da Severino. È la coscienza drammatica che senza un quadro d'ordine planetario - la storia dirà presto se condiviso o imposto, occidentale, orientale o multipolare, con istituzioni internazionali o attraverso gli stati classici - la somma dei desideri degli individui e la meccanica della crescita può indurre al caos.

Il dibattito sul Sole 24 Ore
La foga con cui economisti e altri studiosi si sono affrontati in questo dibattito del Sole 24 Ore, magistralmente aperto e chiuso da Guido Tabellini e con interventi internazionali d'eccellenza, darà spazio e alimento a ogni teoria corrente, keynesiani e anti, regolatori e liberisti, classici e innovatori. Ciascuno troverà radici alle proprie teorie. Se manca ancora un punto d'equilibrio condiviso è perché il quadro teorico seguito alla fine della Guerra Fredda resta in movimento, il mondo non ha una sintesi né di idee, né di impero, né di forza consolidate e restiamo in balia delle nostre pulsioni alla crescita, moltiplicate e confuse dal pantografo globale. Dal dibattito innescato da Tabellini e irradiato da firme insigni cito solo l'esemplare saggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi che si chiede amaro, perché ci siam smarriti? Non chiedete la risposta solo agli economisti, né solo date a loro la colpa. La responsabilità è politica e storica, di ciascuno di noi e dei nostri leader, tutti scolari confusi all'alba del XXI secolo. Come diceva Orazio nella sua Epistola all'amico tormentato Bullazio Strenua nos exercet inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere... Un'inerzia irriducibile ci frustra e andiamo per mari e terre inseguendo la felicità…
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Multipolarismo, sanzioni e promozione della democrazia

July 20st, 2009 - di Andrea Gilli

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Da lungo tempo, Epistemes cerca di spiegare una serie di cambiamenti in atto nel sistema internazionale. Questi cambiamenti sono strutturali, riguardano cioè non solo il sistema internazionale nelle sue parti costituenti (stati, organizzazioni internazionali, gruppi non-statali, etc.) ma anche nel loro modo di interagire.

Questa transizione può essere descritta con vari termini che spaziano dal multipolarismo al declino americano fino alla fine dell’Occidente. Per quanto il loro significato vari, questi concetti hanno lo stesso minimo comune denominatore: l’indebolimento relativo di quel gruppo di Paesi che ha dominato il mondo dal 1500 in avanti.
Indebolimento significa minore capacità di influenzare e plasmare il corso della politica internazionale. E su questo processo abbiamo puntato i fari in tutte quelle situazioni nelle quali molti hanno chiesto l’intervento dell’Occidente a difesa di questioni etiche, morali o umanitarie. La nostra posizione è sempre stata la stessa: abbiamo sottolineato l’incapacità di intervenire e soprattutto la scarsa lungimiranza di chi chiede posizioni dure contro l’Iran, la Cina, la Russia o qualsiasi altra dittatura.
La ragione è semplice: la crescita economica di questi Paesi sta indebolendo la posizione monopsonistica di cui godeva l’Occidente. In altre parole, fino a ieri, la Cina poteva vendere i suoi beni solo all’Occidente, come il Sudan poteva vendere il petrolio solo all’Europa o all’America, e così via. Ciò ci permetteva di dettare loro condizioni (e prezzi). Oggi, se le nostre condizioni non sono accettabili, questi Paesi possono rivolgersi ad altri acquirenti.

Lo sviluppo industriale del BRIC e dei Paesi in via di Sviluppo più in generale sta infatti favorendo questa transizione. Non vogliamo comprare il petrolio del Sudan per via della sua politica in Darfur? La Cina (o l’India) non si fanno questi problemi. Un recente articolo apparso sul Corriere.it è abbastanza illuminante a riguardo. Non vogliamo fare affari con l’Iran? Ci pensa il gigante petrolifero cinese Cnooc. Riteniamo ripugnante la violenza del regime birmano? Cina, India e Russia non la pensano nello stesso modo. Questo pattern è evidente oramai da diversi anni. Nel 2000, il Pil congiunto di Cina, India, Russia e Brasile ammontava al 27% di quello americano. Nel 2007, la somma era già salita al 51%. Visti i differenziali nei tassi di crescita tra questi Paesi, il trend non può che accentuarsi.
La scorsa settimana rilevavamo come questi cambiamenti nella struttura economica mondiale intacchino il nostro stesso sistema universitario e il nostro mercato del lavoro. Ora vediamo come essi indeboliscano la nostra libertà di azione in politica estera, e con essa quella delle altre democrazie occidentali.
Ciò che stupisce è che l’opinione pubblica, e la classe politica con essa, non solo non si sia ancora resa conto di questi cambiamenti, ma anzi, come buona parte di essa continui a sostenere la necessità di dure prese di posizioni, sanzioni e condanne che, come l’articolo in questione dimostra, soddisfano una sola condizione: quella posta da Carlo Cipolla per definire la stupidità. Stupido sarebbe l’atteggiamento di chi non solo fa male agli altri, ma così facendo arreca danno anche a se stesso.

L’articolo citato illustra chiaramente come non solo le nostre sanzioni non portino ad alcun risultato ma come anche, inibendo le nostre relazioni commerciali con questi Paesi, finiscano per privarci anche del poco leverage ancora a nostra disposizione.
L’era dei sogni, e del privilegio, è finita. Il mondo è cambiato. Non siamo più nel periodo post-Guerra fredda, siamo nella fase successiva. Non riusciamo ancora a capire le sue caratteristiche, ma un dato è tratto: l‘Occidente è più debole, e non possiamo fare niente per alterare questa situazione. La nostra politica estera, anziché identificare obiettivi sempre più ambiziosi, dovrebbe iniziare a prendere atto di questa situazione. Il più in fretta possibile.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

  Sabato 11 Luglio 2009   Marte 14 Luglio 2009   Sabato 18 Luglio 2009  
       
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  L’economia salvata dalle riforme

July 21st, 2009 - di Mario Seminerio

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Mentre si attende sempre il materializzarsi della ripresa, o almeno la stabilizzazione del livello di attività economica, l’ultimo bollettino mensile della Banca Centrale Europea segnala che il tasso al quale l’economia della zona euro può espandersi senza innescare inflazione potrebbe avere rallentato a causa della crisi. Il ridimensionamento della crescita potenziale potrebbe essere un motivo per cui a Francoforte non sembrano disposti a sfruttare l’ultimo margine di allentamento della politica monetaria, il tasso zero, pur avendo di fronte la prospettiva di un basso tasso di inflazione.

La BCE ha tagliato i tassi d’interesse all’1%, ma i responsabili della politica monetaria hanno segnalato che non sono disposti ad andare oltre, a meno di un netto peggioramento delle prospettive economiche. Il programma di acquisto di 60 miliardi di euro-bond da parte della BCE è inferiore a quelli analoghi adottati finora negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre il tasso d’inflazione annuale della zona Euro, che la BCE, che mira a tenere sotto il 2%, è sceso in giugno sotto zero, a meno 0,1%, e le previsioni sono a circa 0,3% quest’anno e l’1% nel 2010. Perché quindi tanta prudenza da parte di Trichet?

Tradizionalmente, il potenziale di crescita dell’Area Euro si colloca intorno al 2-2,25%, e la BCE prende molto sul serio tali stime: a giugno 2007, quando le previsioni ipotizzavano un incremento del Pil dell’Area del 2,6 per cento sull’anno precedente, la BCE aumentò rapidamente il tasso di riferimento, dal 3,75 al 4%. Ora, però, la crisi potrebbe avere assestato un colpo a tale potenziale di crescita, portandolo fino a sotto l’1 per cento nel periodo 2009-2010, secondo la BCE.
A parità di altre condizioni e in linea di massima, quando la crescita dell’economia supera il suo potenziale di lungo periodo, le pressioni inflazionistiche tendono ad accumularsi. Un minor tasso di crescita potenziale di lungo periodo potrebbe quindi costringere i banchieri centrali a tirare prima il freno, dal momento che serve meno espansione per fornire combustibile all’inflazione.
Tra le ragioni del calo del Pil potenziale, la BCE cita la rigidità dei mercati del lavoro, che potrebbe tenere le persone persistentemente fuori dal mercato del lavoro; la scarsità e maggiore onerosità del credito, che potrebbe frenare l’investimento; mentre interi settori, come il manifatturiero, potrebbero subire un ridimensionamento, frenando la spinta al recupero di produttività. I governi potrebbero poi peggiorare la situazione, in caso il perdurare della crisi determinasse un aumento delle dimensioni del settore pubblico, perché in quel caso le tasse prima o poi dovranno essere aumentate, e ciò rallenterà la crescita del prodotto potenziale. Ecco perché, in assenza di misure di rilancio della produttività, sull’Europa grava un rischio di stagflazione strutturale dal momento in cui la ripresa tenderà a materializzarsi.

Per questo, come ha recentemente scritto l’economista statunitense, Kenneth Rogoff, l’Europa deve recuperare crescita di lungo termine non con politiche fiscali espansive bensì attraverso riforme strutturali quali un mercato del lavoro flessibile, un mercato finanziario pan-europeo e la continua apertura del commercio estero.
Sfortunatamente, quello che stiamo vedendo oggi in Europa è l’esatto contrario di quanto andrebbe realizzato. Se e quando la ripresa si manifesterà sarà certamente più comodo, per i governi, incolpare la BCE delle azioni di freno.
 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

 

 

Performance a misura di investitore

23-07-09 - di Sara Silano
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Puntuale, anche quest’anno è arrivato il rapporto Mediobanca sui fondi. E’ la fotografia di un’industria, che come quella mondiale, ha sofferto un forte ridimensionamento a causa della crisi finanziaria. Rispetto al 1999, il patrimonio si è dimezzato e l’incidenza sul Prodotto interno lordo è scesa al 13,6% rispetto al 41,9% di dieci anni fa. Nel contesto internazionale l’asset management tricolore è sceso al decimo posto, dopo essere stato uno dei mercati più floridi.

Come sempre, Mediobanca è stata impietosa sui costi di gestione che, a livello aggregato, sono pari all’1,2% del patrimonio, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Le analisi qualitative realizzate da Morningstar sui fondi italiani (una quarantina in tutto da dicembre 2008) confermano la maggior onerosità dei prodotti italiani a confronto con quelli europei. La conseguenza è una compressione dei rendimenti e una diminuzione delle probabilità di sovra-performance rispetto ai concorrenti.

L’istituto di piazzetta Cuccia ripropone l’ormai consueto (e discutibile perché il livello di rischio è differente) confronto con i BoT a dodici mesi, rispetto ai quali i rendimenti dei fondi escono perdenti, non solo nell’ultimo anno, ma anche nel lungo periodo. Ma rileva anche che a livello aggregato i prodotti italiani hanno perso meno degli esteri. Il motivo, spiega lo studio, è la bassa incidenza delle azioni sul patrimonio complessivo, che si traduce in un portafoglio più difensivo (ma purtroppo non meno costoso). Nel dettaglio, il 63,6% è costituito da titoli di Stato e obbligazioni, il 10,8% da azioni e la rimanente parte da quote di fondi e altre attività. A livello internazionale, solo il Brasile ha un’esposizione alle Borse inferiore. La media europea, invece, è del 26%, quella degli Stati Uniti e del Canada del 38% e quella del Giappone del 78%.

Dal punto di vista dell’investitore, questi dati hanno un significato relativo, in quanto aggregati. E’ importante, invece, comprendere come si comporta un determinato fondo rispetto ai concorrenti (ad esempio un fondo azionario Europa a confronto con un altro specializzato sul Vecchio continente), sia in termini di performance sia di rischio. Le statistiche mostrano che i comparti equity italiani hanno in media una componente di liquidità superiore a quelli esteri, che rappresenta un vantaggio nelle fasi di discesa delle Borse, ma limita la possibilità di partecipare ai rialzi. Questo non è necessariamente un aspetto negativo, al contrario può essere vantaggioso se l’investitore non ha un’elevata propensione al rischio.

Un altro aspetto è la qualità della gestione. Spesso è stato detto che le migliori professionalità sono all’estero, in realtà le analisi qualitative di Morningstar mostrano che in Italia esistono casi di eccellenza che purtroppo, però, non emergono a causa dei costi e dei vincoli imposti dalle politiche di investimento, che si traducono in una gestione sostanzialmente passiva (a questo si aggiunge il regime fiscale non vantaggioso)

Infine, quando valuta un investimento, il risparmiatore deve guardare alla redditività che gli offre, ossia a quello che Morningstar definisce l’investor return e tiene conto dei flussi in entrata e uscita da un fondo per determinare il rendimento effettivo di chi lo ha acquistato. Questo differisce dal cosiddetto total return, che viene calcolato su date prestabilite (ad esempio sull’anno solare), perché tiene conto del particolare momento in cui il risparmiatore è entrato e uscito e del trend di mercato.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

La bolla delle carte sbarca in Europa

28 Luglio 2009 18:11 MILANO - di Miaeconomia
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Il Fondo Monetario Internazionale parla chiaro: la prossima bolla che si abbattera’ sull’economia europea sara’ quella delle carte di credito. Cresce, infatti, il rischio di insolvenza per le preziose tesserine anche nel Vecchio Continente sull’onda di cio’ che e’ gia’ successo negli Usa, dove molte famiglie che avevano perso il lavoro non hanno poi piu’ pagato i conti delle carte.
Il rapporto dell’Fmi, ripreso dal sito del Financial Times, stima che in Europa verra’ bruciato il 7% dei circa 1.739 miliardi di euro di credito al consumo. Cifra, comunque, bassa se si pensa che negli Stati Uniti e’ a forte rischio il 14% del totale del debito dei consumatori americani, pari a 1.914 miliardi di dollari, e che banche come Citigroup, Bank of America, JPMorgan Chase e Wells Fargo ed emittenti di carte di credito come American Express hanno sofferto miliardi di dollari di perdite nei loro portafogli e si preparano a subirne altre.
Il paese piu’ a rischio in Europa e’ la Gran Bretagna: conta il maggior numero di sottoscrittori e di casi di morosita’. L’ultimo indice di Moody’s evidenzia, infatti, come nel Regno Unito la percentuale di rate non pagate sia salita dal 6,4% del totale dei crediti di maggio 2008 al 9,37% di maggio 2009. mentre negli Usa la percentuale e’ di oltre il 10%.
Ora gli analisti attendono ulteriori default visto che cresce il numero dei disoccupati, cosi’ come il numero delle insolvenze personali con l’indebitamento medio della famiglia anglosassone che ha raggiunto il 170% del reddito, mentre negli Stati Uniti e’ al 140%.
Anche in Europa la causa dell’insolvenza e’ la recessione e la pioggia di licenziamenti che hanno reso piu’ difficile il rimborso dei prestiti.
Chi fino a pochi mesi fa era ritenuto affidabile sotto il profilo finanziario, ora non riesce a stare al passo con i pagamenti dal momento che si tende a usare la carta di credito come un ponte per coprire i bisogni quotidiani, finche’ non si trova un nuovo lavoro. Con le banche che, di conseguenza, hanno iniziato a restringere i criteri della concessione delle carte.
Il possibile scoppio della bolla delle carte di credito era comunque gia’ stata annunciato lo scorso autunno dal presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Junker che ne prevedeva l’alto rischio di insolvenza. Ma per l’Italia non ci sono molti pericoli.
L’Associazione bancaria italiana ha rimarcato infatti come nel Belpaese il mercato dei pagamenti elettronici sia ancora arretrato e poco maturo. Il sistema nazionale e’ messo al riparo dal fatto che il contante domina rispetto alle carte elettroniche, in particolare quelle tipiche del credito al consumo.
Pertanto, a detta dell’Abi, “in Italia non succedera’ nulla” perche’ e’ un Paese dove ancora dominano il contante e i Bancomat”. Ad esempio, le carte revolving (che anticipano denaro da rimborsare a interessi stabiliti) rappresentano solo il 2-3% delle transazioni delle carte di credito.
Rassicurante anche il direttore di Visa Europe, Davide Steffanini: “Gli istituti italiani sono stati cauti e i consumatori accorti nell’indebitarsi. Il problema di una esposizione non controllata non esiste sui prestiti personali e sui mutui”.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 

 

  Gli stati Usa vendono i gioielli e pagano i debiti

28 Luglio 2009 10:05 MILANO - di Paolo Madron

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Il senatore Dan Sparks, democratico del Minnesota, per ridurre i 4,8 miliardi di deficit statale scrive ai suoi elettori propugnando un'idea non proprio folgorante: riempiamo bar e ristoranti di slot machine, e naturalmente tassiamo alle stelle le giocate. Il sindaco di Denver invece non azzarda sull'azzardo, ma attraverso un referendum chiede democraticamente ai suoi cittadini di scegliere. «Nei prossimi 18 mesi dobbiamo tagliare 120 milioni di dollari – ha sentenziato John Hickenlooper – ditemi voi da dove prenderli».

All'appello i denveriani hanno risposto così: 10 dollari in più al mese sulla tassa per la raccolta dei rifiuti, stop alla manutenzione delle strade, riduzione al minimo indispensabile di quella del verde pubblico. A Seattle, città dello stato di Washington e patria della Microsoft che due giorni fa ha spaventato i mercati con i suoi deludenti risultati, l'anno fiscale 2010 cominciato a luglio prevede 3,6 miliardi di deficit. Occorre quindi senza indugio intervenire sulla spesa. Ma siccome la fretta è cattiva consigliera, la scure si è abbattuta anche sui 2,6 milioni di dollari stanziati per far fronte all'influenza A, che qui già da un pezzo è pandemia, nonché alle emergenze dei senza casa.

Insomma, da qualsiasi parte si guardi, eccezion fatta per un paio che vivono sul petrolio e le materie prime, come il New Mexico o il Montana, non c'è stato d'America che non sia alle prese con enormi buchi di bilancio. E non c'è stato che non sia impegnato in una ecumenica e invero assai ansiogena corsa a trovare i soldi per tapparli. Lasciare i buchi sulle strade, come si è visto, può essere uno dei tanti modi per risparmiare, fatto salvo che il rischio di incidenti può far lievitare le spese mediche vanificando gli intenti risanatori. Ma in tempi di recessione il welfare è come un San Sebastiano trafitto e martoriato.

L'ultima notizia rilanciata ieri con grande enfasi dal New York Times è che ci sono 16 stati, troppi, che si indebitano per pagare i sussidi di disoccupazione. Il cui indice viaggia ormai intorno al 10 per cento.

Punte del 15% di disoccupazione si registrano in alcuni stati come il Michigan, che paga oggi la gran disgrazia di ospitare l'industria dell'auto e il suo indotto.
In fatto di debiti l'America vive una curiosa dicotomia tra privati e pubblico. Tanto i primi sono stati abituati a scialare vivendo al di sopra delle loro possibilità, tanto il secondo li soffre con apprensione e un filo di vergogna.
Bisognava vedere, per esempio, l'espressione sollevata di Arnold Schwarzenegger, governatore della California ormai agli sgoccioli del mandato, quando lunedì scorso ha annunciato l'accordo raggiunto per coprire gli attuali 26 miliardi di deficit dello stato più ricco della federazione, ma al contempo pecora nera in materia di bilancio.

Terminator nella carriera artistica, l'indimenticato protagonista dell'eroe bionico si è rivelato una mammola con i numeri, salvo poi dover correre ai ripari con una manovra interamente giocata sui tagli alla spesa. Tanto tagliente che il bodygovernatore ha visivamente reso l'idea presentandosi alla conferenza stampa con un coltellaccio in mano. Siccome mettere nuove imposte sui redditi personali, che per la prima volta dopo settant'anni hanno cominciato a scendere, sarebbe un non senso, e siccome i ricavi sono un auspico e i costi una certezza, in California si va a colpo sicuro (e tra grandi mugugni dell'opinione pubblica) a grattare il barile senza prevedere un dollaro di nuove entrate. Del resto che siano alla frutta lo dimostra anche la levantina proposta di cui il mese scorso tutto il mondo ha parlato: liberalizzare la marijuana, la cui vendita è sin qui consentita solo per curarsi. Salverà la canna legale una gestione dello stato economicamente alla canna del gas? Schwarzenegger, repubblicano un po' bacchettone ma coniugato liberal, ha detto che se ne potrebbe anche discutere. Tanto, se si farà, non sarà lui ma il suo successore a firmare la legge.

E chi invidia l'erba del vicino ma non ce l'ha come se la passa? I dati rilasciati a fine giugno dal Center on budget and policy priorities dipingono un inquietante quadro d'insieme. Sono 48 gli stati che devono far fronte a buchi di bilancio pari nel 2010 a circa 166 miliardi, destinati con una progressione geometrica a diventare 350 nel 2011. Ma le stime sono tutte per difetto, perché la diminuzione del gettito obbliga a revisioni continue, fino al paradosso che 12 stati hanno registrato 23 miliardi di perdite nel budget preventivo ancora prima della sua effettiva entrata in esercizio.

Insomma, in una situazione economica che nonostante i glimmers of hope, i barlumi di speranza intravisti dal presidente Obama, non accenna a riprendersi, la contabilità degli stati è materia quanto mai disastrata. Per cercare di porvi rimedio, nella battagliera missione degli amministratori locali alla spasmodica ricerca di nuove entrate si trova davvero di tutto. Con una discriminante che non è un dettaglio: mentre in California non è neanche stata presa in considerazione l'idea di aumentare le imposte, altrove il dibattito se intervenire sulla qualità della spesa o pescare nelle tasche dei cittadini è quanto mai sugli scudi. In molti casi, il compromesso si traduce nell'inopinato aumento delle tasse sui consumi. E siccome tutto il mondo è paese, benzina e sigarette sono quelle più prese di mira.
Pat Quinn, governatore dell'Illinois, non va per il sottile e propone di raddoppiare la tassa sulle sigarette portandola da 98 cents a 2 dollari. Del resto lo stato è soffocato da 11 miliardi di deficit e la terapia deve essere drastica.

Jennifer Granholm, democratica governatrice del Michigan, denuncia allarmata il fatto che un'imposta di 19 cents al gallone di benzina non basta più a riparare le strade. Ma invece che infierire sulla pompa avanza l'idea di aumentare quella che si paga per l'iscrizione al registro automobilistico. Insorgono i repubblicani: in Michigan si pagano già 101 dollari contro una media nazionale di 61. Il dibattito è aperto.

In South Carolina il Budget and control board, una sorta di ragioneria dello stato, ha deciso di andarci piano con le tasse, ma di procedere spedito con la dismissione di bene pubblici. Compreso il mobilio. Funziona così: diritto di prima scelta lo hanno gli enti pubblici, poi quel che resta va in asta ai privati. Incasso dell'ultima vendita: 6,7 milioni di dollari, interamente devoluti a finanziare programmi di pubblica assistenza. Il comune di Charleston, tanto per restare in zona, ha portato a casa dei bei soldi vendendo intere serie di biglietti e monete antiche. All'obiezione di chi osservava che così facendo si dilapidavano preziosi reperti di storia patria, la risposta è stata laconica: «Tanto li abbiamo doppi».

Beverly Eaves Perdue, detta Bev, governatrice democratica della Nord Carolina, ha tra i suoi slogan preferiti «La famiglia, innanzitutto». Però quando si tratta di fronteggiare i 3,4 miliardi di deficit del suo stato non esita a mettere in difficoltà più di mille famiglie mandando a casa altrettanti dipendenti pubblici. La Perdue così risponde coi fatti a un'altra delle polemiche che in questa tremenda recessione sta dilaniando la collettività. Le statistiche dicono infatti che per ogni dipendente pubblico che perde il lavoro ce ne sono cento di privati che subiscono la stessa sorte. Nell'America liberista lavorare per lo stato è dunque, almeno in termini di sicurezza, un gran privilegio.

Nel New Jersey in piena campagna elettorale, John Corzine da deciso di ricorre all'italica idea di un bel condono fiscale che consenta una sanatoria sugli ultimi sette anni, a patto che chi ha evaso non sia già finito nel mirino dell'Internal revenue service. Il governatore democratico ex pezzo grosso di Goldman Sachs può così rispondere in televisione al suo rivale repubblicano che lui le tasse non le aumenta, anzi cerca almeno in parte di farle pagare a chi se n'è dimenticato. Alla controreplica che non è così, Corzine ammette di averle alzate solo per i super ricchi, incassando il plauso di Obama che vuole fare la stessa cosa per finanziare l'immane piano di riforma della sanità. Spiegazioni che non bastano però a evitare che politico.com, il blog di attualità che meglio ha seguito la corsa alla Casa Bianca, includa il New Jersey, soprannominato The Soprano State per via della propensione a corrompere, che anche in questi giorni ha portato in galera una quarantina di persone compresi tre ex sindaci, nella lista dei cinque stati peggio gestiti d'America. Gli altri, per la cronaca, sono California (maglia nera di tutte le classifiche), New York, Arizona e Michigan.

Il più virtuoso, come abbiamo accennato, è di gran lunga il Montana, non per virtù propria ma perché graziato da un territorio ricco dove basta grattare e si trovano carbone e petrolio. L'anno scorso il montuoso stato a ridosso del Canada ha chiuso il bilancio con 1 miliardo di surplus.

Nel 2009, si legge in una nota a corredo del budget preventivo, visto che la crisi morderà di più, si dovrà accontentare di 957 milioni. Però c'è "il trucco": il Montana è uno stato grande come l'Italia ma abitato da poco meno di un milione di persone.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Lunedì 20 Luglio 2009   Mercole 22 Luglio 2009   Martedì 28 Luglio 2009  
       
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  L’era che cambia, a Chicago: dal discorso di Blair a quello di Gates

July 28th, 2009 - di WP Greet Box

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Due settimane fa, il Segretario della Difesa statunitense Robert Gates ha tenuto un importante discorso a Chicago. A nostro modo di vedere, l’intervento merita particolare attenzione per tre distinte ragioni. A livello più generale, e a dieci anni di distanza, esso si pone come il nuovo paradigma del sistema internazionale – andando così a sostituire il famoso discorso di Tony Blair tenuto proprio a Chicago nel 1999. In secondo luogo, a livello intermedio, Gates identifica le importanti sfide domestiche che la presidenza Obama deve essere in grado di affrontare. Infine, il segretario americano getta uno sguardo alla defensive posture americana analizzando i cambiamenti necessari sia per prendere atto dei mutamenti intervenuti a livello internazionale che del malfunzionamento del sistema americano.
Se un discorso può essere elevato a paradigma di un’era, l’intervento che Tony Blair, allora primo ministro britannico, tenne il 24 Aprile 1999 al Chicago Council on Foreign Affairs rappresenta senz’altro la chiave di lettura più adeguata per capire gran parte degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio. Blair annunciava la dottrina dell’interventismo umanitario, sottolineava la sua fiducia nel commercio internazionale e nella globalizzazione ed enfatizzava l’importanza ma anche i problemi delle organizzazioni internazionali. La parte più importante del discorso di Blair è però il non detto, l’implicito. Unipolarismo, egemonia, primazia non sono mai citate. Blair dà un vago accenno alla supremazia americana, ma non dedica all’argomento molto spazio.
Questo è il più grande vizio dell’intera formulazione logica (e teorica) dell’ex-Primo ministro. Nel suo intervento, cioè, Blair non ha colto (come la maggior parte dei commentatori dell’epoca) come l’interventismo umanitario, i diritti umani, le sanzioni, la promozione della democrazia fossero possibili per una semplice ragione: la supremazia americana.

Questa lacuna è ben visibile guardando il discorso pronunciato da Gates. Sebbene il tema in discussione sia la difesa americana e la sua riforma, dalle parole dell’ex-Capo della Cia emerge chiaramente la consapevolezza di come quello di oggi sia un mondo nettamente diverso da quello del 1999. E non per colpa di Al Qaeda, della proliferazione nucleare in Iraq e Corea del Nord o della Guerra in Iraq, ma per via della crescita di nuove Grandi Potenze: Cina, India, Russia, Brasile. L’implicazione principale è presto tratta: l’America, prima di promuovere diritti umani, democrazia e libertà, deve pensare a difendere i propri cittadini e a prepararsi per le guerre del futuro. L’intera difesa americana (dalle forze armate allo sviluppo di nuovi sistemi d’arma) deve dunque adeguarsi a questa duplice necessità. Per il resto, non c’è né tempo né soldi.

E qui si arriva al secondo punto. Anche questo viene toccato leggermente, ma pur sempre dimostra una chiara presa d’atto delle sfide interne all’America. Guardando ai problemi che hanno bloccato, rallentato o aumentato i costi di gran parte dei sistemi d’arma sviluppati negli ultimi anni, Gates lancia uno sguardo cupo e pieno di perplessità sul risultato prodotto dall’interazione tra lobby, interessi particolaristici del Congresso, burocrazie del Pentagono e bilancio federale. Ovvero sulla capacità del sistema americano di reggere le sfide del futuro.
La menzione è indiretta e veloce, ma certo non può non suonare una campana, soprattutto per chi ha in mente la scarsa fiducia di autori quali Tocqueville o Schumpeter sulla democrazia, sul suo funzionamento e sulla sua capacità di reggere alle sue sfide interne.
Questo punto è importante in quanto sembra sposare totalmente la tesi di alcuni dei più importanti studiosi in materia quali Gholz e Sapolski (1, 2 e 3) sul (mal) funzionamento dell’industria della difesa americana. In breve, il Congresso, preoccupato attraverso i suoi vari membri di mantenere alti livelli di produzione nei suoi vari distretti elettorali, in modo da preservare i posti di lavoro dell’economia locale (e dunque i propri voti), favorirebbe una spesa schizofrenica quando si tratta di approvigionamenti militari e in questo processo verrebbe aiutato dagli interessi particolaristici delle varie burocrazie militari – a loro volta interessate ad aumentare a dismisura le loro sfere di competenza e i programmi sotto la loro supervisione. E’ interessante, in questo frangente, notare come gli stessi Gholz e Sapolski (1 e 2) siano anche a favore di un “Come Home, America”, ovvero di una politica isolazionista che riporti a casa truppe, basi e soprattutto soldi americani. Politica isolazionista che sottolinea in primo luogo l’incapacità americana di ottenere obiettivi ambiziosi in giro per il mondo – soprattutto quando altre Potenze sono in ascesa. La stessa perplessità viene espressa da Gates nel suo intervento (come abbiamo sottolineato nel precedente paragrafo).
Infine, il Capo del Pentagono sottolinea la necessità di riallineare la defense posture americana al nuovo sistema internazionale. In primo luogo, maggiori risorse devono essere allocate per le operazioni in cordo e quindi ai conflitti asimmetrici, alle operazioni di stabilizzazione, ricostruzione e di nation-building. E’ infatti inutile – secondo Gates – spendere miliardi di dollari per vincere le guerre del futuro quando non si vincono le guerre di oggi. In secondo luogo, l’ascesa di Potenze potenzialmente rivali richiede di prepararsi a possibili conflitti futuri. In questo contesto, Gates sottolinea la necessità di superare la dicotomia tra guerre convenzionali e guerre asimmetriche che spesso polarizza il dibattito sulla difesa americana. Come sia alcune formulazioni logiche e teoriche che l’evidenza empirica dimostrano, è probabile che i conflitti del futuro siano a metà di questo spettro. Ciò significa che eventuali Potenze nemiche ricorreranno a tattiche asimmetriche nel caso di un conflitto con l’America. Allo stesso modo, gruppi non-statali quali terroristi, guerriglieri, o criminali ricorreranno a strumenti più convenzionali (quali missili terra-aria, difese anti-missile, etc.) per attaccare gli Stati Uniti. Queste considerazioni richiedono un mix di strumenti per affrontare qualsiasi minaccia. Una sintesi tra la tesi e l’antitesi delle guerre convenzionali e asimmetriche, dunque.
Infine, tutto ciò richiede riforme. Riforme delle forze armate. Riforme istituzionali. Riforme procedurali. Riforme, tutte, che ledono gli interessi particolaristici di molti ma che sono essenziali per l’interesse collettivo. Come abbiamo sottolineato nel precedente paragrafo, per Gates questa è la sfida più importante.
Change è la parola chiave dell’era americana. Change dell’America, per via del change del mondo, come unica soluzione per mantenere la forza dell’America nel mondo. Questo è il paradigma di Gates.
 

Fonte - xxx

 

 

 

  Pechino, Washinghton e il futuro del dollaro

30 Luglio 2009 00:54 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Il futuro del dollaro è stato il tema centrale (sebbene non appaia nell’ordine del giorno) dell’incontro ministeriale che si e' tenuto a Washington dal presidente Obama nell’ambito del cosiddetto «dialogo strategico ed economico» tra Stati Uniti e Cina. Infatti Pechino è sempre più preoccupata che la politica monetaria fortemente espansiva della Federal Reserve e l’esplosione del deficit pubblico americano portino ad un forte deprezzamento del dollaro e quindi a perdite notevoli sulle riserve valutarie cinesi, che superano i 2.100 miliardi di dollari, dei quali due terzi sono denominati in dollari.

L’inquietudine di Pechino, che con oltre 800 miliardi di dollari è il principale creditore dello Stato americano, non è di questi giorni. La prima clamorosa manifestazione si ebbe alla vigilia del vertice del G20 tenutosi a Londra all’inizio di aprile, quando la Banca centrale cinese pubblicò un documento in cui si proponeva di cominciare a studiare la sostituzione del dollaro, quale moneta mondiale, con i Diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. Questa uscita è stata seguita dagli accordi con Russia e Brasile, in base ai quali gli scambi commerciali con la Cina verranno regolati in renminbi o in rubli o in real brasiliani, e da ripetuti inviti agli Stati Uniti ad assicurare la stabilità del cambio del dollaro e proteggere gli investimenti cinesi.

Queste prese di posizione ufficiali, inabituali per lo stile cinese, possono essere lette in vari modi. Innanzitutto, la Cina teme veramente che il tasso di cambio del dollaro possa crollare e non crede assolutamente alle rassicurazioni americane. Il quotidiano «Il Sole 24ore» ha recentemente riferito che in occasione della sua ultima visita a Pechino il segretario al Tesoro Tim Geithner tenne un discorso all’Università. Ebbene quando Geithner insistette sul fatto che gli Stati Uniti restano a favore di una politica del dollaro forte, il pubblico scoppiò in una crassa risata.

Il crescente scetticismo cinese nei confronti degli Stati Uniti non può oscurare il fatto che i due Paesi siano sempre più interdipendenti. Le enormi riserve valutarie di Pechino sono anche il prodotto del forte disavanzo americano negli interscambi commerciali con il gigante asiatico. È stato giustamente scritto che quando la Cina chiede a Washington maggiore rigore economico è paragonabile «allo spacciatore che chiede al drogato di disintossicarsi». Per questi motivi è anche certo che Pechino non sarà mai l’origine di un crollo del dollaro che danneggerebbe gli interessi cinesi e farebbe precipitare l’attuale crisi economica.

Gli obiettivi di Pechino sono invece molto probabilmente sia politici sia economici. La Cina è perfettamente consapevole che le attuali difficoltà degli Stati Uniti non sono passeggere e che il divario economico tra i due Paesi sta rapidamente diminuendo. Alcuni ritengono che già nel 2015 le due economie avranno dimensioni simili in base alle parità di potere d’acquisto e Goldman Sachs prevede che nel 2020 l’economia cinese supererà quella americana. Tenendo conto di queste ipotesi, Pechino comincia ad avanzare la richiesta che le istituzioni economiche, finanziarie e politiche internazionali debbano cominciare a prenderne atto e che anche il ruolo mondiale del dollaro, simbolo della superpotenza americana, debba essere ridimensionato.

Questi obiettivi strategici nascondono però obiettivi tattici dovuti anche a preoccupazioni reali. La Cina non vuole più continuare ad accumulare carta americana (Treasuries bonds, Treasuries bills, obbligazioni emesse da Fannie Mae e Freddie Mac, ecc.), che teme possa rivelarsi di dubbio valore e quindi fonte di ingenti perdite. Vuole invece avere la possibilità di usare le sue riserve valutarie (che corrispondono ad un quarto della capitalizzazione delle società incluse nell’indice Standard & Poor’s) per acquistare attività reali.

È quanto la Cina sta facendo in Africa, in America Latina ed in Asia, ma non nei Paesi occidentali, poiché lo shopping cinese si scontra con una forte resistenza politica, come è stato confermato dal fallimento dell’acquisto del 20% del capitale dell’australiana Rio Tinto, una delle maggiori società minerarie del mondo. La Cina sta dunque dicendo a Washington di essere disposta ad acquistare altri titoli, con cui gli americani finanziano i loro debiti, ma è pronta a sostenere il dollaro attraverso l’acquisto di importanti partecipazioni azionarie di società statunitensi.

È evidente che Washington non può accettare questa richiesta, che provocherebbe forti reazioni del Congresso e dell’opinione pubblica. E proprio questa difficoltà ha effetti a breve e a lungo termine. Nell’immediato l’amministrazione Obama non è in grado di contrastare le iniziative, anche politiche, di Pechino. A più lungo termine, la questione rischia di diventare ancora più critica. Pechino sta facendo passi da gigante per affrancare la propria economia (le proprie esportazioni) dai mercati di sbocco occidentali, anche sviluppando la domanda interna. Già oggi le esportazioni cinesi verso l’Europa e l’America del Nord sono inferiori a quelle dirette verso il resto del mondo.

Non solo: gli Stati Uniti sanno che la penetrazione commerciale cinese nei mercati emergenti si accompagna ad ingenti investimenti (ed anche prestiti) e alla creazione di un’area di influenza anche politica da parte di Pechino. Ma c’è di più. È stato di fatto creata un’alternativa al Fondo monetario internazionale. Infatti recentemente sono stati sottoscritti gli accordi di Chiang Mai, in base ai quali i Paesi asiatici hanno accantonato ingenti capitali che verranno usati per aiutare i Paesi firmatari in caso di crisi valutaria. Tutto ciò sta a dimostrare che il Governo cinese, mentre persegue l’obiettivo strategico di creare un sistema monetario non più ancorato al dollaro, agisce per allargare la propria area di influenza commerciale, finanziaria e ovviamente anche politica.

Si può azzardare l’ipotesi che l’attuale crisi economica sia destinata a segnare la fine dell’ordine economico che si è affermato dopo la seconda guerra mondiale e che si è ulteriormente allargato e rafforzato dopo l’implosione dell’impero sovietico. La crisi ha accelerato i tempi del declino di questo ordine politico ed economico imperniato sulla potenza americana e sul ruolo mondiale del dollaro. Oggi viviamo una fase di transizione, i cui sbocchi sono difficilmente prevedibili.

Si può comunque ipotizzare che il crescente peso economico di Cina, India, Brasile e Russia e le ferite che l’attuale crisi lascerà nel corpo dell’economia americana incideranno sull’ordine economico e politico mondiale, che potrebbe uscirne profondamente diverso da quello in cui ci eravamo abituati a vivere prima dello scoppio della bolla creditizia statunitense.
 

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 
 

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