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2009 |
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Recessione:
in America finirà tra poche settimane in Europa dopo
01 Luglio 2009 03:05
MILANO - di Alessandro Fugnoli
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La
recessione americana finirà fra poche settimane, qualche
mese prima di quella europea. Sarà anche, alla fine, molto
meno profonda. Fatto 100 il Pil d’inizio 2008, alla fine del
2010 quello americano si troverà a 99.2, mentre quello
europeo sarà a 95.7 (elaborazione su stime Ocse). Certo, la
demografia aiuta l’America di un 1 per cento all’anno, ma il
distacco, da qualunque parte lo si guardi, sarà cresciuto.
Nonostante questo l’America vive quello che sta
accadendo in modo soggettivamente più doloroso e acuto. La
sensazione di stare rivivendo giorno dopo giorno la Grande
Depressione, giusta o sbagliata che sia, è più diffusa.
Nessuno, in Germania, in Francia o in Italia va a cercarsi
quello che stava succedendo nel giugno 1930 al dodicesimo mese
della crisi. Di che cosa si discuteva? Che idea c’era di quello
che sarebbe successo nei tre mesi o nei tre anni successivi?
In Europa pensiamo al mondo dei nostri nonni (o bisnonni) come a
qualcosa di alieno. In America, per contro, il raffronto è
continuo. Da tre settimane un blog (News from 1930), curato da
un anonimo appassionato di storia, riassume ogni giorno notizie,
dibattiti ed editoriali del Wall Street Journal di 79 anni fa.
L’editoriale del 23 giugno 1930, ad esempio, è intitolato "La
Svolta è Vicina". Qualche giorno prima, del resto, gli
economisti della National City Bank (che oggi si chiama
Citibank) avevano affermato lo stesso concetto, mentre un
commento di un banchiere di Cleveland si diffondeva sulla
probabilità di una crisi a U piuttosto che a V.
Su un piano più formale
e accademico, i grafici di Barry Eichengreen di Berkeley
(disponibili su Vox) che sovrappongono in modo impressionante
indicatori macro e di mercato del 1930 e del 2009 hanno avuto
finora più di 100mila visite. Nei giorni scorsi è uscito
l’aggiornamento a giugno e la sovrapposizione rimane perfetta
per gli indicatori macro, mentre il mercato azionario, al
dodicesimo mese di crisi conclamata, era andato meglio allora.
L’unica cosa che è
cambiata, dice Eichengreen, è la risposta monetaria, questa
volta molto più aggressiva e veloce. E’ questa risposta che ci
fa essere oggi tutti fiduciosi del fatto che il peggio sia
veramente passato. Perfino i più pessimisti si concentrano al
momento sulla possibilità di una ricaduta a fine 2010 ma non
mettono in discussione la stabilizzazione in corso e la
(modesta, certo) ripresa a partire dall’autunno.
L'ultimo Fomc conferma
il messaggio. La risposta monetaria sarà all’altezza della
situazione e i tassi ufficiali rimarranno a zero "per un periodo
esteso". Nello stesso giorno la Bce, che formalmente rifiuta il
quantitative easing se non in dosi omeopatiche (i 60 miliardi di
covered bond), compie una colossale operazione di
rifinanziamento e ne prolunga la durata media.
Formalmente è ancora una
semplice immissione di liquidità, ma più si allunga la durata di
queste operazioni più gli effetti pratici vanno ad assomigliare
a quelli del credit easing della Fed. Il Fomc manda un secondo
messaggio in codice (anche questo espansivo) con le tre parole
"sostanziali risorse inutilizzate".
Per contestualizzare queste parole bisogna ricordare che negli
ultimi tempi si sono alzati i toni del dibattito sul fatto che
esistano o meno queste risorse. Se esistono, se cioè è vero che
ci sono disoccupati pronti a lavorare, case vuote pronte a
essere abitate e impianti fermi pronti a essere rimessi in moto,
allora non c’è motivo per preoccuparsi dell’inflazione il giorno
in cui riprenderà la domanda.
Se invece non esistono,
se cioè i disoccupati dopo qualche tempo si dequalificano, le
case vuote cadono in rovina e gli impianti fermi arrugginiscono,
allora la domanda in ripresa non incontrerà offerta sufficiente
e produrrà inflazione. Il dibattito ha lambito recentemente la
stessa Fed. La Fed di San Francisco ha pubblicato uno studio
secondo cui l’entità di queste risorse è molto più piccola di
quello che si pensa. Lo studio non impegna la Fed nazionale (che
come abbiamo visto è di parere opposto) ma ha sollevato un
vespaio di polemiche proprio nei giorni di massima psicosi
inflazionista sui mercati.
Il 5 giugno, al massimo d’intensità della psicosi, i Fed Funds a
termine
prezzavano due rialzi dei tassi entro dicembre e addirittura
quattro per marzo. La sera dell'ultimo Fomc, nonostante il
comunicato, i diffidentissimi mercati pensano ancora a un rialzo
abbondante per dicembre e due per marzo. Ne ricaviamo che c’è
ancora spazio per andare lunghi di Fed Funds a termine.
Il terzo messaggio del
Fomc è il non avere modificato tempi e quantità degli acquisti
di Treasuries e mutui, quando una parte del mercato si aspettava
invece un’intensificazione delle operazioni di acquisto,
impropriamente definite di monetizzazione del debito pubblico.
In questo caso il Fomc bilancia in parte il segno espansivo dei
primi due messaggi e mostra di non essere insensibile alle ansie
del mercato sull’uscita inflazionistica dalla crisi fiscale.
In pratica la Fed cerca una soluzione equilibrata. Vuole
mantenere una politica espansiva senza però spaventare
inutilmente i bond vigilantes. Questo atteggiamento favorirà nei
mercati un graduale recupero dei Treasuries.
Possiamo inquadrare questo recupero in quello che tentativamente
vorremmo chiamare il paradigma della Redistribuzione. Dopo i
Germogli di metà marzo – metà giugno, la Redistribuzione estiva
spalmerà una parte dei recuperi dell’azionario e delle materie
prime sugli asset lasciati indietro, ovvero i governativi. Non
solo quelli lunghi, ma anche i 6, 12 e 24 mesi.
Calmando gli animi sul
petrolio e sui bond si eviterà di compromettere la ripresa
autunnale, che non sarebbe certo favorita da un rincaro costante
della benzina e del tasso sui mutui. Quanto all’azionario, dopo
l’ondata di ricapitalizzazioni delle scorse settimane ci si può
ben concedere una sosta, che non significa in alcun modo una
rivisitazione dei minimi bensì il fluttuare in un trading range.
I corporate bond, che
hanno tratto benefici dai Germogli, attraverseranno la
Redistribuzione senza problemi. In pratica si avvantaggeranno
sia della riduzione dei rendimenti dei governativi sia di
un’ulteriore riduzione degli spread di credito. Più avanti, in
autunno, il paradigma cambierà nuovamente. L’azionario
riprenderà la strada del recupero e i governativi torneranno ad
arretrare.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero |
Divergenze
inflazionistiche
Thursday, 2 July, 2009 at 16:42 -
by phastidio ______________________________________________
Da alcuni giorni è in atto una
divergenza negli inflation swaps di Stati Uniti ed
Eurolandia.
Inflation Swap Euro a 5 anni |
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Inflation Swap Dollaro a 5 anni |
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Nel primo caso la scadenza
quinquennale ha evidenziato una riduzione dell’inflazione
attesa, nel secondo caso il trend di lieve ma costante aumento
appare intatto. Se pensate di trovare delle motivazioni
fondamentali a questa divergenza, non sprecate il vostro tempo.
Fonte
-
Macromonitor
La fine della
derivata seconda
Thursday, 2 July, 2009
at 17:42 - by phastidio ______________________________________________
Altro mese di dati fortemente
negativi sull’occupazione statunitense. Altri 467.000 posti
soppressi in giugno, che portano il totale a 5,7 milioni nel
corso dell’ultimo anno, e 6,46 milioni durante i 18 mesi
consecutivi di perdita di occupazione; disoccupazione al 9,5
per cento, massimo dal 1983. Anche l’indicatore più ampio
della disoccupazione continua a deteriorarsi. La misura,
nota come U-6, e che include i sotto-occupati e i lavoratori
scoraggiati, ha raggiunto il 16,5 per cento, superando dello
0,1 per cento il precedente picco, toccato nella rilevazione
di marzo, e segnando il nuovo massimo dall’inizio delle
rilevazioni, nel 1994.
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I nuovi ordini
tornano a calare |
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E mentre il numero di nuovi sussidi
settimanali di disoccupazione, o meglio la sua media mobile
a quattro settimane, continua a disegnare un trend di
flessione nella velocità di distruzione di occupazione, il
progressivo calo dei continuing claims sembra da porre in
relazione non tanto al riassorbimento dei disoccupati nel
mercato quanto alla fine del periodo di erogazione dei
sussidi. L’attuale recessione è la peggiore dalla Seconda
Guerra Mondiale, in termini di distruzione di occupazione.
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I nuovi ordini
tornano a calare |
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E mentre qualche buontempone legge i fondi
del caffè, intuendo una W nel trend dell’occupazione (e ora
ricomincia la discesa), anche il recente miglioramento
dell’indice manifatturiero ISM, avrebbe in sé un segnale
d’allarme: la componente relativa ai nuovi ordini è infatti
tornata a contrarsi. Anche se un singolo dato non autorizza
a lanciarsi in inferenze troppo trancianti, il rischio è che
finora abbiamo avuto solo una ricostituzione delle scorte,
terminata la quale la già fioca luce rischia di spegnersi.
Fonte
-
Macromonitor
CARTE DI CREDITO:
NEL 2009 INSOLVENZE RECORD
07 Luglio 2009 16:48 NEW YORK - di WSI ______________________________________________
Nel primo trimestre
e' salito ai massimi dal 1980 il numero degli americani che
non riescono a star dietro ai pagamenti mensili delle carte.
Il benessere delle famiglie e i redditi sono in calo, mentre
cresce la disoccupazione.
La continua inarrestabile crescita del tasso di
disoccupazione ha spinto le insolvenze sulle carte di
credito e sui finanziamenti garantiti da ipoteca sulla casa
su livelli record, con i consumatori statunitensi che fanno
fatica a ripagare i debiti, dovendo vedersela con redditti
in calo, mentre il benessere delle famiglie in calo
compromette gli investimenti.
Stando ai dati diffusi martedi' dall'Associazione Americana
dei Banchieri (ABA) e riportati dal Financial Times, le
insolvenze in tutti i prestiti al consumo sono salite al
3.23% del totale nei primi tre mesi dell'anno, portandosi
sui massimi dal 1980. Le insolvenze vengono definite tali
dalla ABA quando il rtiardo nel pagamento dei debiti supera
i 30 giorni.
"Il fattore numero uno a monte delle insolvenze e' la
perdita di posti di lavoro", dice James Chessen, chief
economist di ABA. "Quando la gente perde il lavoro, non
riesce a pagare le bollette".
Alcuni consumatori stanno sempre di piu' facendo affidamento
sulle carte di credito e sui prestiti "home equity",
strumenti che permettono di "estrarre" dagli immobili
liquidita' da destinare a investimenti o consumi. Nel primo
trimestre le insolvenze sulle carte bancarie sono balzate al
4.75% del totale, rispetto al 4.52% del periodo precedente.
I ritardi nei
pagamenti stanno inoltre provocando uno sbilanciamento nei
conti degli istituti finanziari, spingendo le societa' di
carte di credito a cercare di ricoprire le perdite
aumentando i tassi di interesse e i livelli di pagamento
minimi richiesti.
Per esempio a giugno
Citigroup si e' vista costretta ad incrementare fortemente i
tassi di interesse su 15 mila carte di credito in Usa. Da
parte sua JP Morgan Chase ha annunciato che da agosto alcuni
dei suoi clienti vedranno i livelli di pagamento minimi
richiesti crescere dal 2% al 5%.
I problemi del travagliato mercato immobiliare, che ha visto
crollare i prezzi delle case del 30% dalle punte massime
toccate nel 2006, ha spinto in rialzo le insolvenze nei
finanziamenti home equity. Secondo l'ABA, i ritardi nei
pagamenti sono cresciuti al 3.52% del totale e le insolvenze
sulle linee di credito di tali strumenti hanno toccato
l'1.89%. In entrambi i casi si tratta di massimi assoluti.
"Anche se i prezzi delle case smettessero di diminuire alla
fine dell'anno, comunque il tasso di disoccupazione
continuera' a mantenere le insolvenze sui finanziamenti
estratti dal bene casa su livelli elevati ancora per un po'
di tempo", sostiene Chessen.
Fonte
- WSI
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Il
Papa: «Più etica in
finanza, armonizzare Stato e mercato»
07 Luglio 2009 12:23
MILANO - di Il Sole 24 Ore
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Ha visto
la luce ufficialmente questa mattina in Vaticano la «Caritas
in veritate» (Carità nella verità), la nuova enciclica di
papa Ratzinger dedicata all'economia e al lavoro, della
quale sono state già stampate 530 mila copie.
Il documento, che ha
subito numerose revisioni alla luce della crisi, e che è
stato presentato in Vaticano proprio alla vigilia del G8
dell'Aquila, ribadisce con forza il bisogno di nuove regole
e di un nuovo, trasversale, diffuso consenso etico sul modo
di governare un mondo e un sistema economico ormai
interdipendenti.
Centoventisette
pagine, sei capitoli, la Caritas in veritate è l'enciclica
sociale dell'inizio del terzo millennio, e si colloca nel
nobile solco che va dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891)
alla Populorum Progressio di Paolo VI (1967) alla Centesimus
Annus di Giovanni Paolo II (1991).
Una via d'uscita dalla crisi
Benedetto XVI cerca di tracciare una via d'uscita dalla
crisi economica mondiale e lo fa sottolineando come
l'economia abbia bisogno dell'etica per il suo corretto
funzionamento. Nuove regole, governo della globalizzazione,
un'economia fondata sull'uomo: ecco le parole chiave che la
Chiesa suggerisce a imprenditori, banchieri, governanti nel
momento attuale.
Il Papa sostiene che le disuguaglianze sociali, le povertà
estreme, il dramma del lavoro precario mettono a rischio
persino la democrazia e il rispetto dei diritti umani: per
questo, confermando anche i no della Chiesa all'aborto,
all'eutanasia e all'eugenetica, chiede lavoro stabile «per
tutti» e rispetto dei diritti degli immigrati (che «non sono
merce») e una maggiore tutela dell'ambiente.
Una curiosità sul
titolo dell'enciclica, che ribalta una frase di San Paolo
che esortava alla «verità nella carità». La carità, «via
maestra della dottrina sociale della Chiesa», deve dunque,
secondo Ratzinger, fondarsi sulla verità e sulla fede, per
evitare che un «cristianesimo di carità senza verità » possa
venire scambiato «per una riserva di buoni sentimenti
marginali».
No al precariato
Sottolineando ancora una voltra la centralità della persona
umana, il Papa invoca un lavoro «decente» per tutti: è «un
diritto inalienabile» di ogni essere umano; chiede rispetto
e accoglienza, in «qualunque circostanza», per i
lavoratori stranieri che, ammonisce, «non sono una merce».
Benedetto XVI denuncia inoltre la «riduzione delle reti di
sicurezza sociale», l'indebolimento dei sindacati nell'era
della globalizzazione e delle delocalizzazioni. Alle
organizzazioni sindacali, tra l'altro, il Pontefice rivolge
un appello inedito a superare gli interessi di bottega
nazionali e a «volgere lo sguardo» ai lavoratori senza
tutela dei paesi più poveri, dove vengono sempre più spesso
trasferite le produzioni a basso costo.
Stato e mercato devono convivere
L'enciclica ribadisce che la Chiesa non è contro
il «mercato», purchè esso non si riduca alla ricerca del
profitto e ammetta la presenza di più forme economiche, ed
anche di più Stato e società civile. Non è contro la
globalizzazione, purchè essa non sia frenata «con progetti
egoistici e protezionistici» e offra la possibilità di «una
grande redistribuzione della ricchezza». La crisi attuale -
sintetizza «ci obbliga a riprogettare il nostro cammino».
Basta saccheggio all'ambiente
L'enciclica affronta anche il problema della
tutela dell'ambiente, «un dono di Dio da usare
responsabilmente». Deve finire - scrive il Papa -
«l'accaparramento delle risorse» da parte di Stati e gruppi
di potere a danno dei «paesi poveri». La comunità
internazionale ha il compito di «trovare le strade
istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse
non rinnovabili», mentre le società sviluppate devono
diminuire «il loro fabbisogno energetico».
Critiche all'Onu: nuova autorità
mondiale per governare lo sviluppo
Servono dunque, scrive Ratzinger, un'urgente
riforma dell'Onu e una nuova «autorità politica
mondiale», capace di gestire i processi globali con un
«potere effettivo» e rispettando «i principi di solidarietà
e sussidiarietà». Serve, insiste il Papa, riportare l'etica
e la dignità umana al centro dello sviluppo. Benedetto XVI
ritiene che, di fronte alle sofferenze del pianeta, l'Onu si
sia dimostrata inadeguata, così come anche altri forum
internazionali. Ratzinger mette sotto accusa gli organismi
delle Nazioni Unite per l'incapacità dimostrata sinora nel
gestire i sommovimenti della globalizzazione. Non solo: il
Papa contesta alle agenzie dell'Onu di voler imporre piani
di controllo delle nascite - persino con l'uso dell'aborto -
ai paesi più poveri, e di non essere riuscite finora a
fronteggiare lo «scandalo delle fame», anche per sperperi e
mancanza di trasparenza negli aiuti. Il rispetto per la vita
- sottolinea - «non può in alcun modo essere disgiunto»
dallo sviluppo dei popoli.
Più etica in finanza
Sul
capitolo più specificamente finanziario, papa Ratzinger
chiede che ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla
miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo. «Tutta
l'economia e tutta la finanza, non solo alcuni loro
segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in
modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli». «Gli operatori
della finanza - aggiunge il Papa - devono riscoprire il
fondamento propriamente etico della loro attività per non
abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire
per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e
ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono
mai essere disgiunti», sottolinea Benedetto XVI in quello
che può essere letto come un riferimento al caso Madoff o
simili truffe. In questo senso, papa Ratzinger chiede «tanto
una regolamentazione del settore tale da garantire i
soggetti più deboli e impedire scandalose speculazioni,
quanto la sperimentazione di nuove forme di finanza
destinate a favorire progetti di sviluppo», tra cui
l'esperienza positiva della microfinanza e del microcredito
del premio Nobel Mohammed Yunus e della Banca etica. (M.
Do.)
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Fonte -
Il Sole 24 Ore |
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Martedì
07 Luglio
2009 |
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Giovedì
09 Luglio
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10 Luglio
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Ripresa priorità
del vertice ma il Global Standard è lontano
06 Luglio 2009 20:03 MILANO - di Piero Fornara - Il Sole 24 Ore ______________________________________________
L'esigenza di porre rimedio alla perdurante fragilità
dell'economia resta in cima alle priorità dei leader
mondiali, che da mercoledì 8 a venerdì 10 luglio si
riuniscono per il vertice che la presidenza italiana ha
voluto tenere a L'Aquila, ancora investita da scosse
sismiche. Se poco meno di un mese fa la riunione dei
ministri delle Finanze a Lecce si era conclusa con una
prudente valutazione sulla possibilità che il peggio della
crisi sia alle spalle, gli ultimi dati sul peggioramento
della disoccupazione negli Usa e nell'area euro, sebbene
attesi, hanno ribadito tutta la delicatezza della
situazione.
Dal "Legal Global Standard", termine coniato dal ministro
dell'Economia Giulio Tremonti per definire un insieme di
nuove regole per l'economia e la finanza si è passati al
meno impegnativo "Lecce Framework", definito così dal luogo
dove si è tenuto in giugno il G8 economico e finanziario che
è tornato ad affrontare il tema del nuovo codice di regole.
E per garantire solide fondamenta alla ripresa, come
recentemente avvertito dalla Banca dei regolamenti
internazionali nel suo rapporto annuale, è necessario
procedere senza indugio alla "riparazione" del sistema
finanziario.
Le possibili aree di intervento spaziano dai bonus ai
manager, alla governance di impresa, alla lotta alla
corruzione, all'evasione fiscale, alle tasse, al
funzionamento dei mercati. Ma su questo versante L'Aquila
dovrebbe segnare solo una tappa di un percorso che si
annuncia lungo. Oggi lo stesso presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi ha avvertito pochi giorni fa che «siamo
molto lontani da un risultato: prima di raggiungere un testo
condiviso, perché tale dovrà essere, ci vorranno molti altri
passaggi». Ma si potranno fare progressi su una strategia
comune, da sviluppare ulteriormente al G20 di Pittsburgh, a
settembre. Il tutto mentre nelle opinioni pubbliche dei vari
paesi serpeggia il malcontento per i ripetuti episodi di
manager strapagati, mentre le relative società fallivano e
magari effettuavano drastici tagli occupazionali.
Altro tema cruciale per il rilancio dell'economia è quello
del commercio internazionale. E qui sul tavolo potrebbe
trovare spazio un possibile rilancio dell'Organizzazione
mondiale del commercio, o Wto, attraverso il pluriennale
ciclo negoziale di Doha. La crisi ha duramente colpito anche
questo settore, prosciugando i finanziamenti, e la stessa
Wto ora prevede tassi di contrazione degli scambi che
quest'anno potrebbero raggiungere il 10 per cento.
L'appuntamento dell'Aquila sarebbe particolarmente propizio
per un rilancio del Doha Round, perché si tratterò di un G-8
enormemente allargato: oltre alle maggiori economie avanzate
ci saranno anche tutti i giganti emergenti, come Cina e
India, la controparte più rilevante nei negoziati, ma anche
una folta rappresentanza dell'Africa, per i paesi in via di
sviluppo, le cui prospettive di crescita sono profondamente
legate alla possibilità di sfruttare il commercio con
l'estero. utto questo mentre le lancette dell'economia
continuano a offrire alcuni spunti di possibile
miglioramento del quadro, ma anche altri segnali che tendono
a smorzare decisamente le valutazioni ottimistiche.
Nel frattempo le finanze pubbliche risultano sempre più
deteriorate sia dalle ingenti misure stanziate per
rispondere alla crisi, sia dalla recessione economica che
mina le entrate. La Bce ha appena ribadito che è necessario
iniziare subito a approntare strategie di uscita «ambiziose»
dalla fase di deficit gonfiati dalle esigenze di contrasto
alla crisi. Ma sulla tempistica con cui rimuovere gli
stimoli - anche dopo il G-8 finanziario di Lecce - le
posizioni dei vari paesi appaiono sfumate, sebbenesia stato
conferito al Fondo monetario internazionale un mandato
a supervisionare questo aspetto.
In ogni caso, anche per risanare le finanze il recupero
della crescita economica rappresenta un fattore
determinante. Dal G-8 potrebbero giungere indicazioni anche
sulle strategie di lungo termine, tramite l'individuazione
di fonti per assicurare la crescita nel futuro. Una
possibile area di intervento è quella di concordare tra
paesi avanzati e giganti emergenti un percorso di
progressivo aggiustamento degli squilibri globali che erano
lievitati negli anni scorsi. In particolare ai forti
esportatori dell'Asia, come la Cina, si chiederebbe di
rafforzare i propri consumi interni, magari facendo leva su
un miglioramento delle reti di protezione sociale che
stimolerebbe le spese delle famiglie, ora altamente
orientate al risparmio. L'opposto sarebbe necessario negli
Stati Uniti, dove per anni la crescita economica è stata
eccessivamente sbilanciato sull'inedbitamento.
Fonte
- Il Sole
24 Ore
G8: OK AL PIANO
ECONOMICO (SUPER-GENERICO)
08 Luglio 2009 18:12 ROMA - di WSI ______________________________________________
I Grandi hanno approvato la
dichiarazione del G8 relativa all’economia globale. Tra i
punti più importanti, il "no" al protezionismo, l’importanza
del lavoro, la lotta ai paradisi fiscali. Il "global legal
standard", il codice di regole globali fortemente sostenuto
dalla presidenza italiana di turno del G8, ha tratto spunto
dalle dodici tavole stilate dall’Ocse assieme al lavoro dei
tecnici dell’Economia.
L'impegno preso dai Grandi I Paesi del G8 si impegnano a
lavorare per "assicurare una stabilità finanziaria globale"
ed "eque condizioni competitive internazionali". Il G8
sottolinea "la necessità di un quadro globale rafforzato per
la regolamentazione e la supervisione finanziaria",
promuovendo "coerenza tra norme contabili e prudenziali",
creando "strumenti adeguati per affrontare la pro ciclicità"
e assicurando una "visione globale di tutte le attività ed
entità sistematicamente significative. Secondo il ministro
dell'Economia, Giulio Tremonti, il percorso per la
definizione delle nuove regole globali, il cosiddetto global
legal standard, "è stato dato oggi un colpo di manovella".
Segnali di stabilizzazione I Grandi della Terra ritengono
che permangano "rischi significativi" per l’economia
globale, e in quest’ottica nuove strategie di crescita
dovranno essere decise una volta avviata la ripresa. Nella
dichiarazione, si legge che "nonostante ci siano segni di
stabilizzazione e il sentimento di fiducia si stia
rafforzando, la ripresa economica non è ancora avviata e le
condizioni congiunturali sono ancora stagnanti". Nessuna
menzione invece sulla nuova moneta della riserva globale
alternativa al dollaro, e caldeggiata soprattutto dalla
Cina. Nella dichiarazione, si fa soltanto cenno a
"squilibri" globali. Squilibri che, si legge nella
dichiarazione, vanno governati sempre al fine di "una
ripresa stabile e sostenibile nel lungo termine". Infine, la
dichiarazione prevede un richiamo forte alla necessità di
resistere a qualsiasi tentazione di "protezionismo" ma di
considerare la dimensione sociale della crisi, mettendo la
persona al primo posto.
Lotta ai paradisi fiscali Lotta ai paradisi fiscali e
confronto sulle misure per il rimpatrio dei capitali. Sono
questi gli impegni che i Grandi assumono sul fronte del
contrasto all’evasione. "Non possiamo continuare a tollerare
- si legge nella dichiarazione - grossi ammontari di
capitali nascosti per evadere il fisco". Tanto più in questo
momento di crisi dove il ruolo della fiscalità ha un peso
significativo. Primario su questo fronte il ruolo dell’Ocse,
l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico. Nel doumento si fa poi riferimento a ipotesi di
misure per agevolare il rimpatrio ei capitali, il cosiddetto
"scudo" fiscale. "Diversi Paesi stanno attuando strategie -
prosegue la dichiarazione - per favorire il rimpatrio
volontario dei patrimoni detenuti in giurisdizioni non
cooperative e si sente la necessità di definire un quadro di
discussione per i Paesi interessati".
Fonte - Il Giornale
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I segnali positivi ci sono. Ma la situazione economica
mondiale rimane «incerta» con «rischi significativi per la
stabilità». Per questo i Paesi si impegnano a fare «tutti i
passi necessari per sostenere la domanda e ripristinare la
crescita», mantenendo «liberi e aperti i mercati» e
respingendo «il protezionismo di ogni genere» . È questo il
messaggio principale contenuto nella dichiarazione economica
approvata durante la prima giornata del G8 dell'Aquila.
Nuove regole globali, lotta ai paradisi fiscali e attenzione
al lavoro e al sociale sono le altre priorità toccate dal
documento.
CRISI ECONOMICA E VIA PER LA RIPRESA - I Grandi sottolineano
«i progressi raggiunti finora nel ripristinare la fiducia,
stabilizzare il settore finanziario e fornire lo stimolo per
sostenere la crescita e per creare posti di lavoro», ma «la
situazione rimane incerta e rimangono rischi significativi
per la stabilità economica e finanziaria». Le misure dei
governi a sostegno dell'economia, che gli stessi si
impegnano a continuare a fornire, «hanno avuto un impatto
sulle finanze pubbliche». Per questo i Grandi si impegnano
«ad assicurare la sostenibilità fiscale a medio termine».
Inoltre si ribadisce l'assistenza del Fondo Monetario
Internazionale a preparare «strategie di uscita» una volta
che la ripresa sarà assicurata.
LOTTA A PARADISI FISCO E CONFRONTO SU SCUDO - La lotta
all'evasione fiscale assume dimensioni internazionali: «Non
possiamo continuare a tollerare - dicono i Grandi - grossi
ammontari di capitali nascosti per evadere il fisco». Tanto
più in questo momento in cui la fiscalità gioca un ruolo
importante per sostenere la ripresa. Ruolo fondamentale è
affidato all'Ocse, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico che ha già stilato le black list sui
paradisi, alla quale si chiede di affrontare «rapidamente
queste sfide e proporre ulteriori passi» in vista del
prossimo G20 finanziario. Si parla anche delle ipotesi di
'scudo fiscale', le misure per agevolare il rimpatrio di
capitali detenuti illegalmente all'estero, sottolineando «la
necessità di definire un quadro di discussione per i Paesi
interessati».
AVANTI SU NUOVE REGOLE E LECCE FRAMEWORK - I Grandi
rinnovano il loro impegno all'applicazione di norme e
principi comuni di «correttezza, integrità e trasparenza»
coinvolgendo il G20 nella strategia definita dal "Lecce
Framework", il quadro di regole promosso dalla presidenza
italiana e dal ministro Tremonti nel recente vertice. Il G8
si impegna a anche a mantenere gli impegni presi nei vertici
di Washington e Londra per riformare la regolamentazione
finanziaria e stabilire norme più stringenti fra cui il
controllo sugli hedge funds e i tetti agli stipendi dei
manager. Per «assicurare una ripresa economica durevole» è
necessario «risanare il settore finanziario anche
stabilizzando i mercati finanziari e regolamentare
l'attività bancaria».
LAVORO: LE PERSONE PRIMA DI TUTTO - Il sostegno
all'economia, sostengono inoltre, passa per una maggiore
attenzione al lavoro e alla situazione della gente che vive
sulla pelle gli effetti della crisi. «Siamo impegnati a
trattare la dimensione sociale della crisi, ponendo le
persone al primo posto».
INTESA SUL CLIMA - I Paesi del G8 hanno poi raggiunto un
accordo sul clima per limitare «l'aumento globale della
temperatura media a due gradi centigradi rispetto ai livelli
preindustriali». Ma lo sperato storico accordo di riduzione
delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050 non ci
sarà. Il comunicato che chiuderà i lavori del Major
Economies Forum fornirà invece un'indicazione più blanda,
che sottolinea l'importanza di non consentire un
surriscaldamento del pianeta superiore ai due gradi
centigradi. Secondo fonti del vertice, India e Cina si
sarebbero infatti opposte a identificare obiettivi concreti
di riduzione delle emissioni. Nei giorni scorsi, gli sherpa
del vertice avevano indicato un target di riduzione del 50%
per tutti i paesi del mondo e dell'80% per i paesi
industrializzati. Ma Cina e India ritengono che i paesi
occidentali debbano prima tagliare drasticamente le loro
emissioni entro il 2020 se poi vogliono imporre target
ambiziosi al resto del mondo. Secondo quanto affermato da
Berlusconi, fra i partecipanti del G8 c'è un accordo
sostanziale sul clima, ora bisogna «verificare» se sia
possibile un'intesa con India e Cina.
SVILUPPO E AFRICA - Via libera dai leader del G8 anche alla
dichiarazione su «Sviluppo e Africa: per una globalizzazione
sostenibile e inclusiva». Gli Otto si impegnano a mitigare
l'impatto della crisi economica mondiale sui Paesi poveri e
a «rinnovare tutti gli impegni, in particolare verso
l'Africa» e gli sforzi per il raggiungimento degli Obiettivi
di sviluppo Onu del Millennio entro il 2015.
Fonte - Corriere della Sera
___________________________________________
La fase più acuta della crisi sembra superata e «ci sono
segnali di stabilizzazione» anche se «permangono rischi
significativi» per il prossimo futuro. È la disamina della
situazione congiunturale contenuta nella bozza di comunicato
finale preparata dagli sherpa del G-8 e su cui lavoreranno
nel corso delle prossime ore i presidenti delle otto
principali economie mondiali. «La situazione resta incerta -
recita il comunicato - e rimangono rischi per la stabilità
economica e finanziara. Notiamo dei segnali di
stabilizzazione delle nostre economie e pensiamo che
l'inversione di tendenza sarà rafforzata quando le nostre
misure avranno sortito pieno effetto».
Finanza, via libera al global standard
Nella bozza del comunicato finale del vertice in corso nella
città abbruzzese, secondo quanto riferito da fonti della
presidenza italiana, il G8 dei capi di Stato e di governo de
L'Aquila ha avallato pienamente il «Lecce framework» sul
global standard, (le linee guida sull'uniformizzazione
normativa nel settore finanziario lanciata il mese scorso
dal G8 dei ministri economici). Si tratta di una delle
decisioni chiave contenute . In questo modo il G8 pone «le
fondamenta», spiegano le fonti, su cui verranno costruite le
regole unificate, in un percorso di lavori che proseguirà al
G20 di Pittsburg. Ma si tratta anche di una decisione che
indirettamente avrà effetti immediati, aggiungono le fonti
della presidenza italiana, perché impartendo un deciso
impulso al global standard determinerà un mutamento di
atteggiamento da parte di tutti gli operatori della finanza,
che progressivamente inzieranno a adeguarsi alla prospettiva
di una normalizzazione delle regole nel comparto a livello
mondiale.
Lotta ai paradisi fiscali
Il comunicato ribadisce poi l'impegno della comunità
internazionale a ridurre il problema dei paradisi fiscali
auspicando un maggiore grado di collaborazione fra stati
sulla base degli standard Ocse. Da ricordare che nel corso
delle ultime settimane, uno degli Stati più sotto i
riflettori per questa vicenda, vale a dire la Svizzera, ha
aggiornato numerosi accordi fiscali bilaterali per meglio
aderire agli standard Ocse.
Fonte - Il Sole 24 Ore
Le relazioni tra
Mosca e Washington
July 8th, 2009 by editor - di Andrea Gilli ______________________________________________
Come preannunciato in campagna
elettorale, il presidente Obama sta continuando a cercare il
dialogo con nemici, oppositori e avversari degli Stati
Uniti. Tra questi vi è la Russia, con la quale si è giunti
ieri ad un importante traguardo: gli accordi START sono
stati de facto ripristinati. Mosca e Washington si impegnano
dunque nuovamente ad una progressiva riduzione degli
arsenali atomici – dopo la pausa imposta dalla presidenza
Bush che aveva invece optato per la nuclear primacy.
Alla fine della presidenza Bush jr., le relazioni tra Stati
Uniti e Russia erano andate precipitando. Obama sembra però
voler davvero realizzare quel reset di cui ha parlato
recentemente Hillary Clinton. In questo articolo proviamo a
capire le cause del peggioramento e le opportunità di
miglioramento delle relazioni tra Russia e Stati Uniti.
Quando si parla di relazioni bilaterali fra Paesi, la stampa
tende spesso a favorire interpretazioni che tendono ad
enfatizzare eccessivamente i fattori interni agli Stati. Si
passa dalla personalizzazione all’enfasi sulla natura dei
regimi senza considerare quella che in realtà è la variabile
più importante: i rapporti di forza relativi tra Paesi.
Rapporti di forza che, è bene ricordare, sono determinati
anche da fattori interni: il Pil, il nazionalismo,
l’efficienza amministrativa e la stabilità politica, e così
via.
Se guardiamo alle relazioni russo-americane degli ultimi
dieci anni, è facile notare come esse siano effettivamente
state soggette alle variazioni dei rapporti di forza tra i
due Paesi. All’inizio degli anni Duemila, gli Stati Uniti
erano la superpotenza incontrastata, e dunque si potevano
permettere di uscire dagli accordi START, di intervenire in
Afghanistan, e poi, via via, di sostenere le opposizioni
Georgiane e Ucraine, di intervenire massicciamente nel
Caucaso e in Asia centrale sulle rotte energetiche fino al
tentativo di installare lo scudo missilistico in Polonia e
Repubblica Ceca.
In questi dieci anni, però, due fenomeni hanno iniziato ad
attecchire. Da una parte, abbiamo assistito al rafforzamento
di alcuni Paesi (Cina, India, Brasile e la stessa Russia).
Dall’altra, le politiche dell’amministrazione Bush hanno sia
dilapidato enormi risorse finanziarie con esiti spesso
deludenti che creato forti tensioni interne al Paese,
indebolendo la sua capacità di intervento all’estero.
Abbiamo cioè assistito ad un indebolimento relativo degli
Stati Uniti. Se un Paese si indebolisce, ipso facto, uno si
rafforza. E l’indebolimento americano ha dunque significato
un rafforzamento relativo della Russia. Gli esempi più
palesi sono offerti dal sostegno russo all’Iran e,
recentemente, dalla guerra Russo-georgiana dell’agosto 2008.
La Russia si è potuta cioè prendere lussi che non erano
neppure immaginabili solo cinque anni fa. Se li è presi
quando era più forte. Era più forte, quando gli Stati Uniti
sono diventati più deboli.
Ora Obama vuole un maggiore dialogo con la Russia. Su questo
punto vanno fatte tre considerazioni.
In primo luogo, Obama vuole il dialogo perché ha bisogno del
dialogo. E ha bisogno del dialogo perché ha bisogno della
Russia: dall’Afghanistan all’Iran, dalla lotta al terrorismo
fino alla lotta alla proliferazione nucleare, il ruolo di
Mosca è imprescindibile.
In secondo luogo, Obama ha bisogno del dialogo, perché non
può fare da solo. Contrariamente a quanto molti pensano,
l’unilateralismo non è assolutamente una prerogativa
dell’era Bush, anzi. Esso era ben presente già nell’epoca di
Clinton: si pensi su tutti alla guerra in Kosovo. Se Obama
potesse, andrebbe da solo. Non può. E non può perché è
debole: il suo Paese è schiacciato da troppe sfide e dunque
non è in grado di risolverle tutte da solo, anche perché
molte di esse sono collegate (Russia e Iran, Iran e Iraq,
Iraq e terrorismo, terrorismo e Afghanistan, Afghanistan e
Russia, etc.).
Ne consegue, che gli USA hanno bisogno della Russia più di
quanto la Russia abbia bisogno degli USA. Mentre la Russia
si cura infatti solo di quanto avviene nella massa
eurasiatica, gli Stati Uniti, in quanto Paese più forte al
mondo, devono preoccuparsi di quanto avviene in tutti gli
scenari regionali. E per mantenere stabilità e sicurezza, la
cooperazione dei principali attori regionali è fondamentale.
In quest’ottica, due variabili sono da considerare per
capire se, quanto e come le relazioni tra Russia e Stati
Uniti possono effettivamente migliorare.
La prima riguarda, ovviamente, i rapporti di forza tra i due
Paesi. Le relazioni tra i due verranno plasmate
drammaticamente da quanto essi cresceranno nei prossimi
anni: dai loro trend demografici, a quelli socio-politici,
fino allo sviluppo del loro apparato militare alla loro
efficienza interna. Tutto ciò influenzerà direttamente la
seconda questione: le richieste che ognuno di essi avanzerà.
Abbiamo detto che gli USA hanno più bisogno della Russia di
quanto la Russia abbia bisogno degli Stati Uniti. Ciò
significa, in definitiva, che il miglioramento dei rapporti
tra i due Paesi dipende anche dalla volontà americana di
fare concessioni: sullo scudo missilistico, sulla Georgia,
sull’espansione della NATO. Ovviamente, un avvertimento è
d’obbligo: se le concessioni sono necessarie per avere la
cooperazione russa, troppe concessioni rischiano di
rafforzare la Russia. E rafforzare la Russia significa anche
indebolire gli Stati Uniti.
Il compito non è facile. Per questo la storia ricorda poche
epoche dominate da una solo grande potenza. Essere il più
forte, infatti, non è solo raro, è anche difficile.
Fonte
-
Epistemes.org
IRAN, IL GRANDE
BROGLIO
13 Luglio 2009 03:44 NEW YORK - di Tudor City Citizen ______________________________________________
Il 12 Giugno si sono avute in Iran
le elezioni Presidenziali ed Ahmadinejad ha vinto con un
tale margine di vantaggio che si è subito gridato al
broglio. La gente ha cominciato a protestare e scendere per
strada, prima a Tehran e poi in altri centri urbani. Dopo
oltre due settimane di contestazione e confronto si sono
avuti una ventina di morti e qualcosa come un migliaio di
arresti. Mai, dai tempi della Rivoluzione, si eran visti nel
Paese cortei e manifestazioni di tale entità. La società
iraniana ne è uscita ferita e dilaniata ed il regime ha
visto esplodere al suo interno una lotta di potere così
intensa da poterne minare la stabilità.
A seguito delle proteste dei candidati sconfitti vi è stata
ieri la riconta del dieci per cento dei voti: Ahmadinejad ne
è uscito nuovamente vincitore ed è ora da considerarsi a
tutti gli effetti eletto Presidente.
Si è trattato di una vera e propria farsa: la maggior parte
del Paese avrebbe espresso il suo suffragio a favore di
Mir-Hossein Moussavi ed Ahmadinejad, più che rieletto,
sarebbe da considerarsi nominato. Secondo dati del Ministero
degli Interni, raccolti da fonti dell'intelligence
occidentale, Moussavi avrebbe trionfato raccogliendo
qualcosa come 19 milioni di voti. Dopo di lui si sarebbe
piazzato Karroubi, con circa 8–9 milioni di suffragi.
Ahmadinejad sarebbe giunto terzo con pressappoco 4 milioni
di preferenze ed ultimo Mohsen Rezai, con non più di
800mila.
La successiva riconta delle schede sarebbe stata puro
teatro. Infatti, se non vi fossero stati brogli, la riconta
si sarebbe fatta subito e non dopo poco più di due
settimane: con questo sistema si è avuto tutto il tempo per
preparare le schede ed ottenere il risultato voluto. Le
fazioni al potere sapevano perfettamente che avrebbero
dovuto mentire e che queste bugie, per risultare credibili,
dovano essere colossali. Cosa aspettarsi a questo punto?
Ci si dovrebbe aspettare un primo anno segnato dalla scelta
di dar precedenza alla politica interna ed ai fatti di casa.
La fiducia della nazione, rispetto alla politica, ha subito
un duro colpo e si è incrinata. Il paradigma repubblicano ed
il principio di sovranità popolare sono stati violati: il
voto ha finito col contar ben poco e l'elettore si è visto
ignorato, tradito e scavalcato. Sono seguite sommosse,
morti, feriti, una dura repressione e non pochi arresti tra
moderati, riformisti e tutti coloro favorevoli ad un sistema
più aperto e ad un dialogo tra le parti.
L'alleanza tra l'Ayatollah Khamenei, Capo Supremo della
Rivoluzione, ed i Pasdaran si è rinsaldata. Ahmadinejad,
come portavoce di quest' alleanza, ne è emerso più forte e
si è visto rinnovare la sua carica di Presidente. Per
giungere a questo risultato sono stati gradualmente isolati
gli altri gruppi: Moussavi, con sua moglie, agli arresti
domiciliari; le comunicazioni interrotte; la stampa
imbavagliata; i siti oscurati; Rafsanjani tagliato fuori: la
sua nomina a capo del Consiglio degli Esperti ed a quello
del Discernimento è da interpretarsi come un contentino
offerto all' altare della sua irrilevanza. Tutti i
principali gruppi riformisti e gli elementi più moderati
sono stati esautorati o tolti di mezzo. Molti son finiti in
carcere, le loro pubblicazioni bloccate ed i loro siti
chiusi. Hanno fatto la fine del Movimento per la Libertà
dell'Iran di Yazdi. Si è trattato a tutti gli effetti di un
vero e proprio colpo di stato.
In politica Estera i prossimi quattro anni saran marcati da
confronto e tensioni: Ahmadinejad ha descritto il Presidente
Obama come un nuovo Bush e Khamenei ha posto un freno al
dialogo con gli Stati Uniti, arrivando al punto di
menzionare una lettera riservata indirizzatagli dal
Presidente Americano. Malgrado ciò, tuttavia, non sono da
escludersi tentativi di approccio con Washington. Resta
comunque dubbio che per il primo anno si possa iniziare ad
aprire un dialogo fecondo con l'amministrazione Americana.
Riguardo al popolo, è oggi impossibile far predizioni. Una
cosa è però certa: sotto le ceneri continua a covare il
fuoco. L'orgoglio e la fiducia della nazione iraniana sono
usciti in frantumi. Buona parte della gioventù vedrebbe con
favore un sistema caratterizzato da maggior democrazia,
libere elezioni, concorrenza politica ed un informazione non
imbavagliata. Indipendentemente dal loro credo politico o
religioso, coloro che hanno sostenuto Moussavi e Karroubi
vorrebbero fruire di più ampie libertà.
La domanda è: che cosa questi giovani intendono per libertà
e quale tipo di governo sembrerebbero richiedere? È dato
sapere che cosa pensa la maggioranza di loro? Sono per
conservare la Repubblica Islamica, pur volendola modificare
in senso liberale, oppure le loro scelte andrebbero ad uno
stato laico caratterizzato da una democrazia come la si
concepisce in Occidente?
E' una domanda di non facile risposta: mancano i sondaggi,
non vi sono referendum, i giovani non vengono consultati e
ciò che si sa è frammentario ed incompleto. È tuttavia
evidente che le opinioni sono numerose e tra loro
discordanti: non tutti sono ostili all'idea di una
Repubblica Islamica, altri vedono come nefasto il concetto
sciita del Velayat – al – Faqih, ovvero il Governo del
Giurista, nel quale uno studioso di dottrina coranica –
presumibilmente di nomina divina – esercita piena autorità
sul governo ed il corpo degli eletti. Costoro eliminerebbero
volentieri il termine "Islamico" dalla parola Repubblica. I
tempi non sono ancora maturi e forse è ancora presto per
avere una risposta.
Per i prossimi quattro anni non vi sarà purtroppo da
scherzare: il controllo politico risulterà molto intenso,
come fortissima la tentazione di chiudere il Paese e
soffocare il dissenso. Assisteremo ad uno scontro di lunga
durata con protagonista uno stato nazionalista e
militarizzato, sostenuto dagli apparati di sicurezza,
animato da un unica ideologia e mirante al controllo di ogni
settore della società, incurante dell'opinione pubblica e
senza la minima intenzione di spartire questo controllo.
Regnerà sul Paese un atmosfera di chiusura e di censura a
scapito soprattutto dei giovani, degli elementi riformisti e
di tutti coloro che vorrebbero un Iran più moderno e meglio
integrato nella comunità internazionale.
Il popolo è oggi piegato al silenzio. Fino a quando potrà
durare? Due anni? Quattro anni? Dieci anni? Rispondere a
queste domande non è per ora possibile: molto dipende da ciò
che finirà con l'accadere in seno alla società. La
situazione economica è in fase di peggioramento, il lavoro
difficile da trovare, la repressione dura ed efficace. Nei
confronti del cittadino aspettarsi, purtroppo, maggiore
durezza e violazione dei diritti umani. Di particolare
interesse sarà l'osservazione del mondo femminile che in
questi anni si è mostrato sempre più attivo ed aperto alla
contestazione. Al suo interno fervono discussioni sui
diritti sociali, giuridici, politici, di lavoro, di
divorzio, di eredità. Per un gran numero di queste donne
libertà, e tutto ciò che recepiscono come loro diritti
fondamentali, va ben oltre il pensiero religioso: sono da
intendersi come essenza stessa dei diritti umani.
Dopo il giuramento di Ahmadinejad e la formazione del nuovo
governo, l'obbiettivo principale, in campo internazionale,
sarà assicurarsi che il Paese mantenga – se non addirittura
accresca – il suo ruolo di potenza regionale, facendo
passare in secondo piano persino il dialogo con gli Stati
Uniti e l' Europa. Questa politica avrebbe anche l'appoggio
di Mosca e di Pechino che, non a caso, sono stati i primi a
riconoscere come valida l' elezione di Ahmadinejad. Tra
Russia, Cina ed Iran vi è anche cooperazione strategica per
limitare la portata delle sanzioni internazionali, come reso
evidente dalla recente presa di posizione del Ministro degli
Esteri Russo Lavrov nel corso dell'ultimo vertice di
Trieste.
I Russi sono furbissimi e fanno di tutto per giocarsi al
meglio la carta Iraniana. Per loro la partita consiste nel
controllare ed eventualmente tenere sotto scacco la presenza
di Washington in Medio Oriente ed in Asia Centrale, in
particolar modo nelle regioni del Caucaso e l'area del mar
Caspio. Fondamentale per Mosca è veder diminuire la
pressione Americana in quelle zone ed anche in Pakistan,
India e Turchia.
La carta dell' Iran è dunque di grande importanza per la
Russia. Serve per ricavarsi uno spazio all'interno di queste
crisi regionali e riequilibrare la presenza degli Stati
Uniti. Oltre a non nutrire una grande fiducia nell' azione
Americana, Mosca vede con sospetto la politica della NATO,
come evidenziato dai recenti sviluppi in Georgia ed Ucraina.
Non è troppo entusiasta neanche della sua presenza in
Afghanistan e del ruolo della Turchia al suo interno. Di
particolare fastidio è stata la recente creazione di una
base Francese negli Emirati, seguita dalla vendita di un
certo numero di modernissimi aerei da caccia e da
conversazioni con gli Stati Uniti per un eventuale
installazione di missili. È bene anche ricordare il ruolo di
Parigi nelle recenti elezioni in Libano. Non a caso Tehran
ha passato alla Cina una concessione di ricerche petrolifere
precedentemente destinata alla Total.
Per Tehran, la Russia è sopratutto strumento di
temporeggiamento che consente di guadagnare tempo. Inoltre,
pur rimanendo contraria alla produzione di un suo ordigno
nucleare, essa offre all'Iran tecnologie sofisticate anche
in campo militare. Per assicurarsi questo rapporto l' Iran
viene incontro a tutta una serie di timori di Mosca, negando
il proprio appoggio ai numerosi gruppi separatisti Islamici
operanti negli ex-territori Sovietici, come Daghestan e
Cecenia.
La Cina ha intenzionalmente separato la politica
dall'economia. L'Iran è per Pechino un partner economico di
grande importanza, con qualcosa come 56 miliardi di dollari
di interscambio annuale. Esporta soprattutto gas e petrolio,
ricevendone in cambio una quantità di prodotti finiti,
incluse componenti missilistiche per la sua industria
bellica.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
|
Il
mondo senza centro di
gravità
11 Luglio 2009 09:52
MILANO - di Gianni Riotta
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Nel 1989, per conto del Corriere della Sera,
andai a parlare con un giovane economista che aveva appena
pubblicato un saggio dal titolo insolito The age of
diminished expectations, l'era delle speranze ridotte. Oggi
Krugman è il celebre studioso premio Nobel che, dal suo foro
sul New York Times e da innumerevoli siti, ammonisce sui
pericoli del nostro tempo, ancora formidabile quando parla
di economia, discutibile quando la foga lo trascina sul
terreno onnivoro della polemica.
Allora, rileggo sul logoro taccuino, si presentava «barbuto
e con i sandali», geniale anticonformista.
La sua tesi,
argomentata con dovizia di dati e poi comprovata dalla
durezza dei fatti, proponeva una lezione che la società
occidentale, non solo l'americana, non era affatto pronta ad
accettare e che invece a me, da pochissimo felice e
preoccupato padre, suonò convincente. Che cioè le future
generazioni non avrebbero più potuto contare su un tenore di
vita sempre migliore rispetto a padri e nonni...
A ben guardare ora, quel 1989, giusto 20 anni fa, fu un anno
seminale... Le idee anticipano e accompagnano sempre la
storia del mondo: in contemporanea al saggio di Krugman, il
filosofo Francis Fukuyama scrive il saggio che tanto scosse
le coscienze in quel fatale '89, The end of history, la fine
della storia. È oggi persino comico vedere come Fukuyama sia
stato maltrattato dal dibattito caduco. Dapprima la sua
teoria - morto il comunismo non resta che l'ideologia
liberale -, da acuto tentativo di interpretare il mondo del
dopo Guerra Fredda, divenne moda da salotto, poi fu
caricaturata in una specie di elementare vignetta tutta
bianca in cui nulla più poteva accadere, fermi tutti morta
la storia.
Fukuyama invece aveva per primo intuito che le ideologie
nate via via dalla Rivoluzione francese, o in reazione ad
essa, e alla cui ombra erano sorti la rivoluzione
industriale, il liberalismo in chiave europea o americana,
il conservatorismo classico, il socialismo, il comunismo, la
socialdemocrazia, i fascismi, il New Deal e le
interpretazione del welfare alla Keynes o alla scandinava,
insieme declinavano all'alba informatica, atomizzata e
globale del XXI secolo...
Perché quel 1989 segnò anche l'era
della globalizzazione, aperta dal grande Deng Xiao Ping -
che dice ai cinesi di arricchirsi e riscopre le virtù
classiche asiatiche del lavoro e della comunità - e dalla
foga con cui piccoli affamati paesi, dalla Sud Corea a Hong
Kong, sperano di vincere negli affari. Nei garage della Silicon Valley ragazzini come Jobs e Wozniak intuiscono che
il computer, inventato per triturare numeri per gigantesche
burocrazie, può invece comunicare parole per individui e che
la Darpanet, sistema nervoso militare via cavo progettato
per resistere alle bombe termonucleari russe, può evolvere
in internet e diffondere notizie, ricette della nonna,
bilanci e lettere d'amore.
Nel tumultuoso passare di una generazione, un miliardo di
esseri umani muove dalla fame a un lavoro decente e mezzo
miliardo di loro, tra India e Cina, muta da contadini a ceto
medio. Ieri una ciotola di riso era il sogno, oggi lo è una
borsa Fendi. La velocità del mutamento travolge gli esperti.
Nel saggio The end of work, la fine del lavoro, del 1995,
Jeremy Rifkin preconizza fosco un mondo senza lavoro, giusto
mentre Robert Rubin, segretario del Tesoro con il presidente
Bill Clinton e veterano di Goldman Sachs, contribuisce a
creare una dozzina di milioni di posti negli Usa e il
pianeta intero lavora con una furia senza precedenti. È la
speranza di un nuovo ordine mondiale che viene però spezzata
dalle fiamme su Washington e New York dell'11 settembre
2001, culminate nelle guerre in Afghanistan e Iraq mentre la
Russia, ricca di petrolio, e la Cina, ricca di lavoro,
tornano protagoniste.
Nel contesto di queste idee, di questi dubbi e angosce,
matura e scoppia la crisi finanziaria ed economica del 2008.
Provare a spiegarla solo in base a criteri moralistici, gli
americani cicale il resto del mondo formiche (e se mai gli
americani interpretavano negli anni del boom la favola
antica in modo bizzarro, consumando sì da cicale ma
sgobbando da formiche!), o solo economici e giuridici, è
fallace. La corsa di quello che il consigliere di Reagan, il
falco Luttwak, per primo chiamò "turbocapitalismo" dalle
colonne della London Review of books e la mancanza di regole
per il lassismo di Rubin e del presidente della Federal
Reserve Alan Greenspan si spiegano solo partendo
dall'equilibrio precario della geopolitica 2000. Certo,
d'intesa con Greenspan, già nel 1997 Rubin contrastò i freni
ai derivati proposti da Brooksley Born, l'avvocato
femminista a capo della Commodity Futures Trading Commission:
ma davvero qualcuno ritiene che quei poveri legacci
avrebbero fermato la piena della storia?
Orfani di ideologie, angosciati dalla crisi industriale e
dal nuovo terrorismo, milioni di esseri umani trovarono
forza nella globalizzazione... ma nessuna istituzione,
nessuno stato, nessun sistema economico, nessuna dottrina
politica offriva riparo davanti alla crescita tumultuosa, e
alla sua tumultuosa versione dell'azzardo "turbofinanziario".
Fallito l'ordine di Bush padre, esaurita la globalizzazione
del boom di Clinton e impantanata a Kabul e a Baghdad
l'America di Bush figlio, il mondo alla soglia della crisi è
confuso e senza progetto politico. L'Europa ha bocciato la
sua Costituzione e rinunciato a crescere insieme come
comunità, non solo mercato.
Nello storico discorso all'Università Humboldt di Berlino
del 2000, il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer
lo dice con nettezza: l'euro è un progetto politico. Una
comune valuta per un comune organismo politico del
continente. Spenta quella strategia con il no alla
Costituzione e lo shock seguito all'allargamento affrettato
dell'Unione, l'euro non è più un "progetto" di idee e
politica, ma solo una moneta.
Il dollaro, orfano di Bretton
Woods ma anche dell'egemonia multipolare di Bush padre e di
quella soft di Clinton, resta rifugio dei cinesi ma non è
più la bandiera di un mondo.
Qualcuno da Pechino sogna una
divisa internazionale, moneta sonante di un ulteriore e
auspicato ordine mondiale dopo la crisi. Ma la verità è che
il pianeta resta senza ordine né potenza egemonica e
stabilizzante. Nel settembre 2008 i due candidati alla Casa
Bianca, Obama e McCain, sono in volata, le curve dei
sondaggi a poca distanza. È la crisi a spezzare l'equilibrio
e far vincere il democratico, ma la buona volontà di Obama è
per ora solo speranza, non poco in un'era che non sa più
sperare.
Questo vuoto ha reso devastante la crisi del 2008, che
qualcuno calcola come peggiore dei danni delle due guerre
mondiale in fila. Non la fine del mercato, di cui pure
perfino il Financial Times ha discusso con serietà, né la
fine del capitalismo o del modo di produzione post moderno o
dell'impero tecnologico criticato da Severino. È la
coscienza drammatica che senza un quadro d'ordine planetario
- la storia dirà presto se condiviso o imposto, occidentale,
orientale o multipolare, con istituzioni internazionali o
attraverso gli stati classici - la somma dei desideri degli
individui e la meccanica della crescita può indurre al caos.
Il dibattito sul Sole 24 Ore
La foga con cui economisti e altri studiosi si sono
affrontati in questo dibattito del Sole 24 Ore,
magistralmente aperto e chiuso da Guido Tabellini e con
interventi internazionali d'eccellenza, darà spazio e
alimento a ogni teoria corrente, keynesiani e anti,
regolatori e liberisti, classici e innovatori. Ciascuno
troverà radici alle proprie teorie.
Se manca ancora un punto
d'equilibrio condiviso è perché il quadro teorico seguito
alla fine della Guerra Fredda resta in movimento, il mondo
non ha una sintesi né di idee, né di impero, né di forza
consolidate e restiamo in balia delle nostre pulsioni alla
crescita, moltiplicate e confuse dal pantografo globale. Dal
dibattito innescato da Tabellini e irradiato da firme
insigni cito solo l'esemplare saggio del presidente Carlo
Azeglio Ciampi che si chiede amaro, perché ci siam smarriti?
Non chiedete la risposta solo agli economisti, né solo date
a loro la colpa. La responsabilità è politica e storica, di
ciascuno di noi e dei nostri leader, tutti scolari confusi
all'alba del XXI secolo. Come diceva Orazio nella sua
Epistola all'amico tormentato Bullazio Strenua nos exercet
inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere...
Un'inerzia irriducibile ci frustra e andiamo per mari e
terre inseguendo la felicità…
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
Multipolarismo,
sanzioni e promozione della democrazia
July 20st, 2009 - di Andrea Gilli
________________________________________
Da lungo tempo, Epistemes cerca di spiegare una
serie di cambiamenti in atto nel sistema internazionale.
Questi cambiamenti sono strutturali, riguardano cioè non
solo il sistema internazionale nelle sue parti costituenti
(stati, organizzazioni internazionali, gruppi non-statali,
etc.) ma anche nel loro modo di interagire.
Questa transizione può essere descritta con vari
termini che spaziano dal multipolarismo al declino americano
fino alla fine dell’Occidente. Per quanto il loro
significato vari, questi concetti hanno lo stesso minimo
comune denominatore: l’indebolimento relativo di quel gruppo
di Paesi che ha dominato il mondo dal 1500 in avanti.
Indebolimento significa minore capacità di influenzare e
plasmare il corso della politica internazionale. E su questo
processo abbiamo puntato i fari in tutte quelle situazioni
nelle quali molti hanno chiesto l’intervento dell’Occidente
a difesa di questioni etiche, morali o umanitarie. La nostra
posizione è sempre stata la stessa: abbiamo sottolineato
l’incapacità di intervenire e soprattutto la scarsa
lungimiranza di chi chiede posizioni dure contro l’Iran, la
Cina, la Russia o qualsiasi altra dittatura.
La ragione è semplice: la crescita economica di questi Paesi
sta indebolendo la posizione monopsonistica di cui godeva
l’Occidente. In altre parole, fino a ieri, la Cina poteva
vendere i suoi beni solo all’Occidente, come il Sudan poteva
vendere il petrolio solo all’Europa o all’America, e così
via. Ciò ci permetteva di dettare loro condizioni (e
prezzi). Oggi, se le nostre condizioni non sono accettabili,
questi Paesi possono rivolgersi ad altri acquirenti.
Lo sviluppo industriale del BRIC e dei Paesi in
via di Sviluppo più in generale sta infatti favorendo questa
transizione. Non vogliamo comprare il petrolio del Sudan per
via della sua politica in Darfur? La Cina (o l’India) non si
fanno questi problemi. Un recente articolo apparso sul
Corriere.it è abbastanza illuminante a riguardo. Non
vogliamo fare affari con l’Iran? Ci pensa il gigante
petrolifero cinese Cnooc. Riteniamo ripugnante la violenza
del regime birmano? Cina, India e Russia non la pensano
nello stesso modo. Questo pattern è evidente oramai da
diversi anni. Nel 2000, il Pil congiunto di Cina, India,
Russia e Brasile ammontava al 27% di quello americano. Nel
2007, la somma era già salita al 51%. Visti i differenziali
nei tassi di crescita tra questi Paesi, il trend non può che
accentuarsi.
La scorsa settimana rilevavamo come questi cambiamenti nella
struttura economica mondiale intacchino il nostro stesso
sistema universitario e il nostro mercato del lavoro. Ora
vediamo come essi indeboliscano la nostra libertà di azione
in politica estera, e con essa quella delle altre democrazie
occidentali.
Ciò che stupisce è che l’opinione pubblica, e la classe
politica con essa, non solo non si sia ancora resa conto di
questi cambiamenti, ma anzi, come buona parte di essa
continui a sostenere la necessità di dure prese di
posizioni, sanzioni e condanne che, come l’articolo in
questione dimostra, soddisfano una sola condizione: quella
posta da Carlo Cipolla per definire la stupidità. Stupido
sarebbe l’atteggiamento di chi non solo fa male agli altri,
ma così facendo arreca danno anche a se stesso.
L’articolo citato illustra chiaramente come non
solo le nostre sanzioni non portino ad alcun risultato ma
come anche, inibendo le nostre relazioni commerciali con
questi Paesi, finiscano per privarci anche del poco leverage
ancora a nostra disposizione.
L’era dei sogni, e del privilegio, è finita. Il mondo è
cambiato. Non siamo più nel periodo post-Guerra fredda,
siamo nella fase successiva. Non riusciamo ancora a capire
le sue caratteristiche, ma un dato è tratto: l‘Occidente è
più debole, e non possiamo fare niente per alterare questa
situazione. La nostra politica estera, anziché identificare
obiettivi sempre più ambiziosi, dovrebbe iniziare a prendere
atto di questa situazione. Il più in fretta possibile.
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Fonte -
Epistemes.org |
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Sabato
11 Luglio
2009 |
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Martedì
14 Luglio
2009 |
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Sabato
18 Luglio
2009 |
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L’economia
salvata dalle riforme
July 21st, 2009 - di Mario Seminerio
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Mentre si attende sempre il materializzarsi
della ripresa, o almeno la stabilizzazione del livello di
attività economica, l’ultimo bollettino mensile della Banca
Centrale Europea segnala che il tasso al quale l’economia
della zona euro può espandersi senza innescare inflazione
potrebbe avere rallentato a causa della crisi.
Il
ridimensionamento della crescita potenziale potrebbe essere
un motivo per cui a Francoforte non sembrano disposti a
sfruttare l’ultimo margine di allentamento della politica
monetaria, il tasso zero, pur avendo di fronte la
prospettiva di un basso tasso di inflazione.
La BCE ha tagliato i tassi d’interesse all’1%, ma i
responsabili della politica monetaria hanno segnalato che
non sono disposti ad andare oltre, a meno di un netto
peggioramento delle prospettive economiche. Il programma di
acquisto di 60 miliardi di euro-bond da parte della BCE è
inferiore a quelli analoghi adottati finora negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, mentre il tasso d’inflazione
annuale della zona Euro, che la BCE, che mira a tenere sotto
il 2%, è sceso in giugno sotto zero, a meno 0,1%, e le
previsioni sono a circa 0,3% quest’anno e l’1% nel 2010.
Perché quindi tanta prudenza da parte di Trichet?
Tradizionalmente, il potenziale di crescita
dell’Area Euro si colloca intorno al 2-2,25%, e la BCE
prende molto sul serio tali stime: a giugno 2007, quando le
previsioni ipotizzavano un incremento del Pil dell’Area del
2,6 per cento sull’anno precedente, la BCE aumentò
rapidamente il tasso di riferimento, dal 3,75 al 4%. Ora,
però, la crisi potrebbe avere assestato un colpo a tale
potenziale di crescita, portandolo fino a sotto l’1 per
cento nel periodo 2009-2010, secondo la BCE.
A parità di altre condizioni e in linea di massima, quando
la crescita dell’economia supera il suo potenziale di lungo
periodo, le pressioni inflazionistiche tendono ad
accumularsi. Un minor tasso di crescita potenziale di lungo
periodo potrebbe quindi costringere i banchieri centrali a
tirare prima il freno, dal momento che serve meno espansione
per fornire combustibile all’inflazione.
Tra le ragioni del calo del Pil potenziale, la BCE cita la
rigidità dei mercati del lavoro, che potrebbe tenere le
persone persistentemente fuori dal mercato del lavoro; la
scarsità e maggiore onerosità del credito, che potrebbe
frenare l’investimento; mentre interi settori, come il
manifatturiero, potrebbero subire un ridimensionamento,
frenando la spinta al recupero di produttività. I governi
potrebbero poi peggiorare la situazione, in caso il
perdurare della crisi determinasse un aumento delle
dimensioni del settore pubblico, perché in quel caso le
tasse prima o poi dovranno essere aumentate, e ciò
rallenterà la crescita del prodotto potenziale. Ecco perché,
in assenza di misure di rilancio della produttività,
sull’Europa grava un rischio di stagflazione strutturale dal
momento in cui la ripresa tenderà a materializzarsi.
Per questo, come ha recentemente scritto
l’economista statunitense, Kenneth Rogoff, l’Europa deve
recuperare crescita di lungo termine non con politiche
fiscali espansive bensì attraverso riforme strutturali quali
un mercato del lavoro flessibile, un mercato finanziario
pan-europeo e la continua apertura del commercio estero.
Sfortunatamente, quello che stiamo vedendo oggi in Europa è
l’esatto contrario di quanto andrebbe realizzato. Se e
quando la ripresa si manifesterà sarà certamente più comodo,
per i governi, incolpare la BCE delle azioni di freno.
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Fonte -
Liberal Quotidiano |
Performance
a misura di investitore
23-07-09 - di Sara Silano ______________________________________________
Puntuale, anche quest’anno è
arrivato il rapporto Mediobanca sui fondi. E’ la
fotografia di un’industria, che come quella mondiale, ha
sofferto un forte ridimensionamento a causa della crisi
finanziaria. Rispetto al 1999, il patrimonio si è
dimezzato e l’incidenza sul Prodotto interno lordo è
scesa al 13,6% rispetto al 41,9% di dieci anni fa. Nel
contesto internazionale l’asset management tricolore è
sceso al decimo posto, dopo essere stato uno dei mercati
più floridi.
Come sempre, Mediobanca è stata impietosa sui costi di
gestione che, a livello aggregato, sono pari all’1,2%
del patrimonio, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Le
analisi qualitative realizzate da Morningstar sui fondi
italiani (una quarantina in tutto da dicembre 2008)
confermano la maggior onerosità dei prodotti italiani a
confronto con quelli europei. La conseguenza è una
compressione dei rendimenti e una diminuzione delle
probabilità di sovra-performance rispetto ai
concorrenti.
L’istituto di piazzetta Cuccia ripropone l’ormai
consueto (e discutibile perché il livello di rischio è
differente) confronto con i BoT a dodici mesi, rispetto
ai quali i rendimenti dei fondi escono perdenti, non
solo nell’ultimo anno, ma anche nel lungo periodo. Ma
rileva anche che a livello aggregato i prodotti italiani
hanno perso meno degli esteri. Il motivo, spiega lo
studio, è la bassa incidenza delle azioni sul patrimonio
complessivo, che si traduce in un portafoglio più
difensivo (ma purtroppo non meno costoso). Nel
dettaglio, il 63,6% è costituito da titoli di Stato e
obbligazioni, il 10,8% da azioni e la rimanente parte da
quote di fondi e altre attività. A livello
internazionale, solo il Brasile ha un’esposizione alle
Borse inferiore. La media europea, invece, è del 26%,
quella degli Stati Uniti e del Canada del 38% e quella
del Giappone del 78%.
Dal punto di vista dell’investitore, questi dati hanno
un significato relativo, in quanto aggregati. E’
importante, invece, comprendere come si comporta un
determinato fondo rispetto ai concorrenti (ad esempio un
fondo azionario Europa a confronto con un altro
specializzato sul Vecchio continente), sia in termini di
performance sia di rischio. Le statistiche mostrano che
i comparti equity italiani hanno in media una componente
di liquidità superiore a quelli esteri, che rappresenta
un vantaggio nelle fasi di discesa delle Borse, ma
limita la possibilità di partecipare ai rialzi. Questo
non è necessariamente un aspetto negativo, al contrario
può essere vantaggioso se l’investitore non ha
un’elevata propensione al rischio.
Un altro aspetto è la qualità della gestione. Spesso è
stato detto che le migliori professionalità sono
all’estero, in realtà le analisi qualitative di
Morningstar mostrano che in Italia esistono casi di
eccellenza che purtroppo, però, non emergono a causa dei
costi e dei vincoli imposti dalle politiche di
investimento, che si traducono in una gestione
sostanzialmente passiva (a questo si aggiunge il regime
fiscale non vantaggioso)
Infine, quando valuta un investimento, il risparmiatore
deve guardare alla redditività che gli offre, ossia a
quello che Morningstar definisce l’investor return e
tiene conto dei flussi in entrata e uscita da un fondo
per determinare il rendimento effettivo di chi lo ha
acquistato. Questo differisce dal cosiddetto total
return, che viene calcolato su date prestabilite (ad
esempio sull’anno solare), perché tiene conto del
particolare momento in cui il risparmiatore è entrato e
uscito e del trend di mercato.
Fonte
- MorningStar.it
La bolla delle
carte sbarca in Europa
28 Luglio 2009 18:11 MILANO - di Miaeconomia ______________________________________________
Il Fondo Monetario
Internazionale parla chiaro: la prossima bolla che si
abbattera’ sull’economia europea sara’ quella delle
carte di credito. Cresce, infatti, il rischio di
insolvenza per le preziose tesserine anche nel Vecchio
Continente sull’onda di cio’ che e’ gia’ successo negli
Usa, dove molte famiglie che avevano perso il lavoro non
hanno poi piu’ pagato i conti delle carte.
Il rapporto dell’Fmi, ripreso dal sito del Financial
Times, stima che in Europa verra’ bruciato il 7% dei
circa 1.739 miliardi di euro di credito al consumo.
Cifra, comunque, bassa se si pensa che negli Stati Uniti
e’ a forte rischio il 14% del totale del debito dei
consumatori americani, pari a 1.914 miliardi di dollari,
e che banche come Citigroup, Bank of America, JPMorgan
Chase e Wells Fargo ed emittenti di carte di credito
come American Express hanno sofferto miliardi di dollari
di perdite nei loro portafogli e si preparano a subirne
altre.
Il paese piu’ a rischio in Europa e’ la Gran Bretagna:
conta il maggior numero di sottoscrittori e di casi di
morosita’. L’ultimo indice di Moody’s evidenzia,
infatti, come nel Regno Unito la percentuale di rate non
pagate sia salita dal 6,4% del totale dei crediti di
maggio 2008 al 9,37% di maggio 2009. mentre negli Usa la
percentuale e’ di oltre il 10%.
Ora gli analisti attendono ulteriori default visto che
cresce il numero dei disoccupati, cosi’ come il numero
delle insolvenze personali con l’indebitamento medio
della famiglia anglosassone che ha raggiunto il 170% del
reddito, mentre negli Stati Uniti e’ al 140%.
Anche in Europa la causa dell’insolvenza e’ la
recessione e la pioggia di licenziamenti che hanno reso
piu’ difficile il rimborso dei prestiti.
Chi fino a pochi mesi fa era ritenuto affidabile sotto
il profilo finanziario, ora non riesce a stare al passo
con i pagamenti dal momento che si tende a usare la
carta di credito come un ponte per coprire i bisogni
quotidiani, finche’ non si trova un nuovo lavoro. Con le
banche che, di conseguenza, hanno iniziato a restringere
i criteri della concessione delle carte.
Il possibile scoppio della bolla delle carte di credito
era comunque gia’ stata annunciato lo scorso autunno dal
presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Junker che ne
prevedeva l’alto rischio di insolvenza. Ma per l’Italia
non ci sono molti pericoli.
L’Associazione bancaria italiana ha rimarcato infatti
come nel Belpaese il mercato dei pagamenti elettronici
sia ancora arretrato e poco maturo. Il sistema nazionale
e’ messo al riparo dal fatto che il contante domina
rispetto alle carte elettroniche, in particolare quelle
tipiche del credito al consumo.
Pertanto, a detta dell’Abi, “in Italia non succedera’
nulla” perche’ e’ un Paese dove ancora dominano il
contante e i Bancomat”. Ad esempio, le carte revolving
(che anticipano denaro da rimborsare a interessi
stabiliti) rappresentano solo il 2-3% delle transazioni
delle carte di credito.
Rassicurante anche il direttore di Visa Europe, Davide
Steffanini: “Gli istituti italiani sono stati cauti e i
consumatori accorti nell’indebitarsi. Il problema di una
esposizione non controllata non esiste sui prestiti
personali e sui mutui”.
Fonte
-
Miaeconomia
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Gli
stati Usa vendono i
gioielli e pagano i debiti
28 Luglio 2009 10:05
MILANO - di
Paolo Madron
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Il senatore Dan Sparks, democratico del
Minnesota, per ridurre i 4,8 miliardi di deficit statale
scrive ai suoi elettori propugnando un'idea non proprio
folgorante: riempiamo bar e ristoranti di slot machine, e
naturalmente tassiamo alle stelle le giocate. Il sindaco di
Denver invece non azzarda sull'azzardo, ma attraverso un
referendum chiede democraticamente ai suoi cittadini di
scegliere. «Nei prossimi 18 mesi dobbiamo tagliare 120
milioni di dollari – ha sentenziato John Hickenlooper –
ditemi voi da dove prenderli».
All'appello i denveriani hanno risposto così: 10 dollari in
più al mese sulla tassa per la raccolta dei rifiuti, stop
alla manutenzione delle strade, riduzione al minimo
indispensabile di quella del verde pubblico. A Seattle,
città dello stato di Washington e patria della Microsoft che
due giorni fa ha spaventato i mercati con i suoi deludenti
risultati, l'anno fiscale 2010 cominciato a luglio prevede
3,6 miliardi di deficit. Occorre quindi senza indugio
intervenire sulla spesa. Ma siccome la fretta è cattiva
consigliera, la scure si è abbattuta anche sui 2,6 milioni
di dollari stanziati per far fronte all'influenza A, che qui
già da un pezzo è pandemia, nonché alle emergenze dei senza
casa.
Insomma, da qualsiasi parte si guardi, eccezion fatta per un
paio che vivono sul petrolio e le materie prime, come il New
Mexico o il Montana, non c'è stato d'America che non sia
alle prese con enormi buchi di bilancio. E non c'è stato che
non sia impegnato in una ecumenica e invero assai ansiogena
corsa a trovare i soldi per tapparli. Lasciare i buchi sulle
strade, come si è visto, può essere uno dei tanti modi per
risparmiare, fatto salvo che il rischio di incidenti può far
lievitare le spese mediche vanificando gli intenti
risanatori. Ma in tempi di recessione il welfare è come un
San Sebastiano trafitto e martoriato.
L'ultima notizia rilanciata ieri con grande enfasi dal New
York Times è che ci sono 16 stati, troppi, che si indebitano
per pagare i sussidi di disoccupazione. Il cui indice
viaggia ormai intorno al 10 per cento.
Punte del 15% di disoccupazione si registrano in alcuni
stati come il Michigan, che paga oggi la gran disgrazia di
ospitare l'industria dell'auto e il suo indotto.
In fatto di debiti l'America vive una curiosa dicotomia tra
privati e pubblico. Tanto i primi sono stati abituati a
scialare vivendo al di sopra delle loro possibilità, tanto
il secondo li soffre con apprensione e un filo di vergogna.
Bisognava vedere, per esempio, l'espressione sollevata di
Arnold Schwarzenegger, governatore della California ormai
agli sgoccioli del mandato, quando lunedì scorso ha
annunciato l'accordo raggiunto per coprire gli attuali 26
miliardi di deficit dello stato più ricco della federazione,
ma al contempo pecora nera in materia di bilancio.
Terminator nella carriera artistica, l'indimenticato
protagonista dell'eroe bionico si è rivelato una mammola con
i numeri, salvo poi dover correre ai ripari con una manovra
interamente giocata sui tagli alla spesa. Tanto tagliente
che il bodygovernatore ha visivamente reso l'idea
presentandosi alla conferenza stampa con un coltellaccio in
mano. Siccome mettere nuove imposte sui redditi personali,
che per la prima volta dopo settant'anni hanno cominciato a
scendere, sarebbe un non senso, e siccome i ricavi sono un
auspico e i costi una certezza, in California si va a colpo
sicuro (e tra grandi mugugni dell'opinione pubblica) a
grattare il barile senza prevedere un dollaro di nuove
entrate. Del resto che siano alla frutta lo dimostra anche
la levantina proposta di cui il mese scorso tutto il mondo
ha parlato: liberalizzare la marijuana, la cui vendita è sin
qui consentita solo per curarsi. Salverà la canna legale una
gestione dello stato economicamente alla canna del gas?
Schwarzenegger, repubblicano un po' bacchettone ma coniugato
liberal, ha detto che se ne potrebbe anche discutere. Tanto,
se si farà, non sarà lui ma il suo successore a firmare la
legge.
E chi invidia l'erba del vicino ma non ce l'ha come se la
passa? I dati rilasciati a fine giugno dal Center on budget
and policy priorities dipingono un inquietante quadro
d'insieme. Sono 48 gli stati che devono far fronte a buchi
di bilancio pari nel 2010 a circa 166 miliardi, destinati
con una progressione geometrica a diventare 350 nel 2011. Ma
le stime sono tutte per difetto, perché la diminuzione del
gettito obbliga a revisioni continue, fino al paradosso che
12 stati hanno registrato 23 miliardi di perdite nel budget
preventivo ancora prima della sua effettiva entrata in
esercizio.
Insomma, in una situazione economica che nonostante i
glimmers of hope, i barlumi di speranza intravisti dal
presidente Obama, non accenna a riprendersi, la contabilità
degli stati è materia quanto mai disastrata. Per cercare di
porvi rimedio, nella battagliera missione degli
amministratori locali alla spasmodica ricerca di nuove
entrate si trova davvero di tutto. Con una discriminante che
non è un dettaglio: mentre in California non è neanche stata
presa in considerazione l'idea di aumentare le imposte,
altrove il dibattito se intervenire sulla qualità della
spesa o pescare nelle tasche dei cittadini è quanto mai
sugli scudi. In molti casi, il compromesso si traduce
nell'inopinato aumento delle tasse sui consumi. E siccome
tutto il mondo è paese, benzina e sigarette sono quelle più
prese di mira.
Pat Quinn, governatore dell'Illinois, non va per il sottile
e propone di raddoppiare la tassa sulle sigarette portandola
da 98 cents a 2 dollari. Del resto lo stato è soffocato da
11 miliardi di deficit e la terapia deve essere drastica.
Jennifer Granholm, democratica governatrice del Michigan,
denuncia allarmata il fatto che un'imposta di 19 cents al
gallone di benzina non basta più a riparare le strade. Ma
invece che infierire sulla pompa avanza l'idea di aumentare
quella che si paga per l'iscrizione al registro
automobilistico. Insorgono i repubblicani: in Michigan si
pagano già 101 dollari contro una media nazionale di 61. Il
dibattito è aperto.
In South Carolina il Budget and control board, una sorta di
ragioneria dello stato, ha deciso di andarci piano con le
tasse, ma di procedere spedito con la dismissione di bene
pubblici. Compreso il mobilio. Funziona così: diritto di
prima scelta lo hanno gli enti pubblici, poi quel che resta
va in asta ai privati. Incasso dell'ultima vendita: 6,7
milioni di dollari, interamente devoluti a finanziare
programmi di pubblica assistenza. Il comune di Charleston,
tanto per restare in zona, ha portato a casa dei bei soldi
vendendo intere serie di biglietti e monete antiche.
All'obiezione di chi osservava che così facendo si
dilapidavano preziosi reperti di storia patria, la risposta
è stata laconica: «Tanto li abbiamo doppi».
Beverly Eaves Perdue, detta Bev, governatrice democratica
della Nord Carolina, ha tra i suoi slogan preferiti «La
famiglia, innanzitutto». Però quando si tratta di
fronteggiare i 3,4 miliardi di deficit del suo stato non
esita a mettere in difficoltà più di mille famiglie mandando
a casa altrettanti dipendenti pubblici. La Perdue così
risponde coi fatti a un'altra delle polemiche che in questa
tremenda recessione sta dilaniando la collettività. Le
statistiche dicono infatti che per ogni dipendente pubblico
che perde il lavoro ce ne sono cento di privati che
subiscono la stessa sorte. Nell'America liberista lavorare
per lo stato è dunque, almeno in termini di sicurezza, un
gran privilegio.
Nel New Jersey in piena campagna elettorale, John Corzine da
deciso di ricorre all'italica idea di un bel condono fiscale
che consenta una sanatoria sugli ultimi sette anni, a patto
che chi ha evaso non sia già finito nel mirino dell'Internal
revenue service. Il governatore democratico ex pezzo grosso
di Goldman Sachs può così rispondere in televisione al suo
rivale repubblicano che lui le tasse non le aumenta, anzi
cerca almeno in parte di farle pagare a chi se n'è
dimenticato. Alla controreplica che non è così, Corzine
ammette di averle alzate solo per i super ricchi, incassando
il plauso di Obama che vuole fare la stessa cosa per
finanziare l'immane piano di riforma della sanità.
Spiegazioni che non bastano però a evitare che politico.com,
il blog di attualità che meglio ha seguito la corsa alla
Casa Bianca, includa il New Jersey, soprannominato The
Soprano State per via della propensione a corrompere, che
anche in questi giorni ha portato in galera una quarantina
di persone compresi tre ex sindaci, nella lista dei cinque
stati peggio gestiti d'America. Gli altri, per la cronaca,
sono California (maglia nera di tutte le classifiche), New
York, Arizona e Michigan.
Il più virtuoso, come abbiamo accennato, è di gran lunga il
Montana, non per virtù propria ma perché graziato da un
territorio ricco dove basta grattare e si trovano carbone e
petrolio. L'anno scorso il montuoso stato a ridosso del
Canada ha chiuso il bilancio con 1 miliardo di surplus.
Nel 2009, si legge in una nota a corredo del budget
preventivo, visto che la crisi morderà di più, si dovrà
accontentare di 957 milioni. Però c'è "il trucco": il
Montana è uno stato grande come l'Italia ma abitato da poco
meno di un milione di persone.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore |
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L’era
che cambia, a Chicago: dal
discorso di Blair a quello di Gates
July 28th, 2009 - di WP Greet Box
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Due settimane fa, il Segretario della Difesa
statunitense Robert Gates ha tenuto un importante discorso a
Chicago. A nostro modo di vedere, l’intervento merita
particolare attenzione per tre distinte ragioni. A livello
più generale, e a dieci anni di distanza, esso si pone come
il nuovo paradigma del sistema internazionale – andando così
a sostituire il famoso discorso di Tony Blair tenuto proprio
a Chicago nel 1999. In secondo luogo, a livello intermedio,
Gates identifica le importanti sfide domestiche che la
presidenza Obama deve essere in grado di affrontare. Infine,
il segretario americano getta uno sguardo alla defensive
posture americana analizzando i cambiamenti necessari sia
per prendere atto dei mutamenti intervenuti a livello
internazionale che del malfunzionamento del sistema
americano.
Se un discorso può essere elevato a paradigma di un’era,
l’intervento che Tony Blair, allora primo ministro
britannico, tenne il 24 Aprile 1999 al Chicago Council on
Foreign Affairs rappresenta senz’altro la chiave di lettura
più adeguata per capire gran parte degli anni Novanta e
l’inizio del nuovo millennio. Blair annunciava la dottrina
dell’interventismo umanitario, sottolineava la sua fiducia
nel commercio internazionale e nella globalizzazione ed
enfatizzava l’importanza ma anche i problemi delle
organizzazioni internazionali. La parte più importante del
discorso di Blair è però il non detto, l’implicito.
Unipolarismo, egemonia, primazia non sono mai citate. Blair
dà un vago accenno alla supremazia americana, ma non dedica
all’argomento molto spazio.
Questo è il più grande vizio dell’intera formulazione logica
(e teorica) dell’ex-Primo ministro. Nel suo intervento,
cioè, Blair non ha colto (come la maggior parte dei
commentatori dell’epoca) come l’interventismo umanitario, i
diritti umani, le sanzioni, la promozione della democrazia
fossero possibili per una semplice ragione: la supremazia
americana.
Questa lacuna è ben visibile guardando il discorso
pronunciato da Gates. Sebbene il tema in discussione sia la
difesa americana e la sua riforma, dalle parole dell’ex-Capo
della Cia emerge chiaramente la consapevolezza di come
quello di oggi sia un mondo nettamente diverso da quello del
1999. E non per colpa di Al Qaeda, della proliferazione
nucleare in Iraq e Corea del Nord o della Guerra in Iraq, ma
per via della crescita di nuove Grandi Potenze: Cina, India,
Russia, Brasile. L’implicazione principale è presto tratta:
l’America, prima di promuovere diritti umani, democrazia e
libertà, deve pensare a difendere i propri cittadini e a
prepararsi per le guerre del futuro. L’intera difesa
americana (dalle forze armate allo sviluppo di nuovi sistemi
d’arma) deve dunque adeguarsi a questa duplice necessità.
Per il resto, non c’è né tempo né soldi.
E qui si arriva al secondo punto. Anche questo viene toccato
leggermente, ma pur sempre dimostra una chiara presa d’atto
delle sfide interne all’America. Guardando ai problemi che
hanno bloccato, rallentato o aumentato i costi di gran parte
dei sistemi d’arma sviluppati negli ultimi anni, Gates
lancia uno sguardo cupo e pieno di perplessità sul risultato
prodotto dall’interazione tra lobby, interessi
particolaristici del Congresso, burocrazie del Pentagono e
bilancio federale. Ovvero sulla capacità del sistema
americano di reggere le sfide del futuro.
La menzione è indiretta e veloce, ma certo non può non
suonare una campana, soprattutto per chi ha in mente la
scarsa fiducia di autori quali Tocqueville o Schumpeter
sulla democrazia, sul suo funzionamento e sulla sua capacità
di reggere alle sue sfide interne.
Questo punto è importante in quanto sembra sposare
totalmente la tesi di alcuni dei più importanti studiosi in
materia quali Gholz e Sapolski (1, 2 e 3) sul (mal)
funzionamento dell’industria della difesa americana. In
breve, il Congresso, preoccupato attraverso i suoi vari
membri di mantenere alti livelli di produzione nei suoi vari
distretti elettorali, in modo da preservare i posti di
lavoro dell’economia locale (e dunque i propri voti),
favorirebbe una spesa schizofrenica quando si tratta di
approvigionamenti militari e in questo processo verrebbe
aiutato dagli interessi particolaristici delle varie
burocrazie militari – a loro volta interessate ad aumentare
a dismisura le loro sfere di competenza e i programmi sotto
la loro supervisione. E’ interessante, in questo frangente,
notare come gli stessi Gholz e Sapolski (1 e 2) siano anche
a favore di un “Come Home, America”, ovvero di una politica
isolazionista che riporti a casa truppe, basi e soprattutto
soldi americani. Politica isolazionista che sottolinea in
primo luogo l’incapacità americana di ottenere obiettivi
ambiziosi in giro per il mondo – soprattutto quando altre
Potenze sono in ascesa. La stessa perplessità viene espressa
da Gates nel suo intervento (come abbiamo sottolineato nel
precedente paragrafo).
Infine, il Capo del Pentagono sottolinea la necessità di
riallineare la defense posture americana al nuovo sistema
internazionale. In primo luogo, maggiori risorse devono
essere allocate per le operazioni in cordo e quindi ai
conflitti asimmetrici, alle operazioni di stabilizzazione,
ricostruzione e di nation-building. E’ infatti inutile –
secondo Gates – spendere miliardi di dollari per vincere le
guerre del futuro quando non si vincono le guerre di oggi.
In secondo luogo, l’ascesa di Potenze potenzialmente rivali
richiede di prepararsi a possibili conflitti futuri. In
questo contesto, Gates sottolinea la necessità di superare
la dicotomia tra guerre convenzionali e guerre asimmetriche
che spesso polarizza il dibattito sulla difesa americana.
Come sia alcune formulazioni logiche e teoriche che
l’evidenza empirica dimostrano, è probabile che i conflitti
del futuro siano a metà di questo spettro. Ciò significa che
eventuali Potenze nemiche ricorreranno a tattiche
asimmetriche nel caso di un conflitto con l’America. Allo
stesso modo, gruppi non-statali quali terroristi,
guerriglieri, o criminali ricorreranno a strumenti più
convenzionali (quali missili terra-aria, difese
anti-missile, etc.) per attaccare gli Stati Uniti. Queste
considerazioni richiedono un mix di strumenti per affrontare
qualsiasi minaccia. Una sintesi tra la tesi e l’antitesi
delle guerre convenzionali e asimmetriche, dunque.
Infine, tutto ciò richiede riforme. Riforme delle forze
armate. Riforme istituzionali. Riforme procedurali. Riforme,
tutte, che ledono gli interessi particolaristici di molti ma
che sono essenziali per l’interesse collettivo. Come
abbiamo sottolineato nel precedente paragrafo, per Gates
questa è la sfida più importante.
Change è la parola chiave dell’era americana. Change
dell’America, per via del change del mondo, come unica
soluzione per mantenere la forza dell’America nel mondo.
Questo è il paradigma di Gates.
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Fonte -
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Pechino,
Washinghton e il futuro del dollaro
30 Luglio 2009 00:54
LUGANO - di Alfonso Tuor
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Il futuro del dollaro è stato il tema centrale
(sebbene non appaia nell’ordine del giorno) dell’incontro
ministeriale che si e' tenuto a Washington dal presidente
Obama nell’ambito del cosiddetto «dialogo strategico ed
economico» tra Stati Uniti e Cina.
Infatti Pechino è sempre
più preoccupata che la politica monetaria fortemente
espansiva della Federal Reserve e l’esplosione del deficit
pubblico americano portino ad un forte deprezzamento del
dollaro e quindi a perdite notevoli sulle riserve valutarie
cinesi, che superano i 2.100 miliardi di dollari, dei quali
due terzi sono denominati in dollari.
L’inquietudine di Pechino, che con oltre 800 miliardi di
dollari è il principale creditore dello Stato americano, non
è di questi giorni. La prima clamorosa manifestazione si
ebbe alla vigilia del vertice del G20 tenutosi a Londra
all’inizio di aprile, quando la Banca centrale cinese
pubblicò un documento in cui si proponeva di cominciare a
studiare la sostituzione del dollaro, quale moneta mondiale,
con i Diritti speciali di prelievo del Fondo monetario
internazionale. Questa uscita è stata seguita dagli accordi
con Russia e Brasile, in base ai quali gli scambi
commerciali con la Cina verranno regolati in renminbi o in
rubli o in real brasiliani, e da ripetuti inviti agli Stati
Uniti ad assicurare la stabilità del cambio del dollaro e
proteggere gli investimenti cinesi.
Queste prese di posizione ufficiali, inabituali per lo stile
cinese, possono essere lette in vari modi. Innanzitutto,
la
Cina teme veramente che il tasso di cambio del dollaro possa
crollare e non crede assolutamente alle rassicurazioni
americane. Il quotidiano «Il Sole 24ore» ha recentemente
riferito che in occasione della sua ultima visita a Pechino
il segretario al Tesoro Tim Geithner tenne un discorso
all’Università.
Ebbene quando Geithner insistette sul fatto
che gli Stati Uniti restano a favore di una politica del
dollaro forte, il pubblico scoppiò in una crassa risata.
Il crescente scetticismo cinese nei confronti degli Stati
Uniti non può oscurare il fatto che i due Paesi siano sempre
più interdipendenti. Le enormi riserve valutarie di Pechino
sono anche il prodotto del forte disavanzo americano negli
interscambi commerciali con il gigante asiatico.
È stato
giustamente scritto che quando la Cina chiede a Washington
maggiore rigore economico è paragonabile «allo spacciatore
che chiede al drogato di disintossicarsi».
Per questi motivi
è anche certo che Pechino non sarà mai l’origine di un
crollo del dollaro che danneggerebbe gli interessi cinesi e
farebbe precipitare l’attuale crisi economica.
Gli obiettivi di Pechino sono invece molto probabilmente sia
politici sia economici. La Cina è perfettamente consapevole
che le attuali difficoltà degli Stati Uniti non sono
passeggere e che il divario economico tra i due Paesi sta
rapidamente diminuendo. Alcuni ritengono che già nel 2015 le
due economie avranno dimensioni simili in base alle parità
di potere d’acquisto e Goldman Sachs prevede che nel 2020
l’economia cinese supererà quella americana.
Tenendo conto
di queste ipotesi, Pechino comincia ad avanzare la richiesta
che le istituzioni economiche, finanziarie e politiche
internazionali debbano cominciare a prenderne atto e che
anche il ruolo mondiale del dollaro, simbolo della
superpotenza americana, debba essere ridimensionato.
Questi obiettivi strategici nascondono però obiettivi
tattici dovuti anche a preoccupazioni reali. La Cina non
vuole più continuare ad accumulare carta americana (Treasuries
bonds, Treasuries bills, obbligazioni emesse da Fannie Mae e
Freddie Mac, ecc.), che teme possa rivelarsi di dubbio
valore e quindi fonte di ingenti perdite. Vuole invece avere
la possibilità di usare le sue riserve valutarie (che
corrispondono ad un quarto della capitalizzazione delle
società incluse nell’indice Standard & Poor’s) per
acquistare attività reali.
È quanto la Cina sta facendo in Africa, in America Latina ed
in Asia, ma non nei Paesi occidentali, poiché lo shopping
cinese si scontra con una forte resistenza politica, come è
stato confermato dal fallimento dell’acquisto del 20% del
capitale dell’australiana Rio Tinto, una delle maggiori
società minerarie del mondo. La Cina sta dunque dicendo a
Washington di essere disposta ad acquistare altri titoli,
con cui gli americani finanziano i loro debiti, ma è pronta
a sostenere il dollaro attraverso l’acquisto di importanti
partecipazioni azionarie di società statunitensi.
È evidente che Washington non può accettare questa
richiesta, che provocherebbe forti reazioni del Congresso e
dell’opinione pubblica. E proprio questa difficoltà ha
effetti a breve e a lungo termine. Nell’immediato
l’amministrazione Obama non è in grado di contrastare le
iniziative, anche politiche, di Pechino. A più lungo
termine, la questione rischia di diventare ancora più
critica.
Pechino sta facendo passi da gigante per affrancare
la propria economia (le proprie esportazioni) dai mercati di
sbocco occidentali, anche sviluppando la domanda interna.
Già oggi le esportazioni cinesi verso l’Europa e l’America
del Nord sono inferiori a quelle dirette verso il resto del
mondo.
Non solo: gli Stati Uniti sanno che la penetrazione
commerciale cinese nei mercati emergenti si accompagna ad
ingenti investimenti (ed anche prestiti) e alla creazione di
un’area di influenza anche politica da parte di Pechino. Ma
c’è di più. È stato di fatto creata un’alternativa al Fondo
monetario internazionale. Infatti recentemente sono stati
sottoscritti gli accordi di Chiang Mai, in base ai quali i
Paesi asiatici hanno accantonato ingenti capitali che
verranno usati per aiutare i Paesi firmatari in caso di
crisi valutaria. Tutto ciò sta a dimostrare che il Governo
cinese, mentre persegue l’obiettivo strategico di creare un
sistema monetario non più ancorato al dollaro, agisce per
allargare la propria area di influenza commerciale,
finanziaria e ovviamente anche politica.
Si può azzardare l’ipotesi che l’attuale crisi economica sia
destinata a segnare la fine dell’ordine economico che si è
affermato dopo la seconda guerra mondiale e che si è
ulteriormente allargato e rafforzato dopo l’implosione
dell’impero sovietico.
La crisi ha accelerato i tempi del
declino di questo ordine politico ed economico imperniato
sulla potenza americana e sul ruolo mondiale del dollaro.
Oggi viviamo una fase di transizione, i cui sbocchi sono
difficilmente prevedibili.
Si può comunque ipotizzare che il crescente peso economico
di Cina, India, Brasile e Russia e le ferite che l’attuale
crisi lascerà nel corpo dell’economia americana incideranno
sull’ordine economico e politico mondiale, che potrebbe
uscirne profondamente diverso da quello in cui ci eravamo
abituati a vivere prima dello scoppio della bolla creditizia
statunitense.
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Fonte -
Corriere del Ticino |
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