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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Guru & Previsioni

In tempi di crisi affidatevi al Guru

Credit Crunch & Borse

Finanza, il punto sui vari catastrofismi

FED & Mercati

Borsa: la cura FED non salverà il mondo

Sentiment Mercati

Orsi e tori in battaglia. Ma si naviga a vista

Sentiment Mercati

Wall Street sorpassa l'Europa

   

Italia - Crisi mercato Fondi Comuni

Urge una ricetta anticrisi

Macro Italia

Crisi, crescita... e tutto quel che c'é in mezzo

Italia - Stock Options & Bilanci

Stipendi d'oro e bilanci in rosso

Macro Italia

Draghi: economia debole, serve impegno di tutti

   
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  giovedì 01 maggio 2008   Martedì 06 maggio 2008   Martedì 06 maggio 2008  
       
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GR1 RAI - 05 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 06 MAG ore 22:00

   

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In tempi di crisi affidatevi al Guru

02/05/2008 11.07 - di Marco Caprotti

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“La ragione più stupida per comprare un titolo è che il suo prezzo stia salendo”. Se la frase vi lascia perplessi, sappiate che è stata pronunciata da Warren Buffett, l’uomo che ha trasformato la Berkshire Hathaway da azienda tessile sull’orlo del fallimento in una holding da 200 miliardi di dollari le cui azioni negli ultimi 12 mesi, in piena crisi dei subprime e con l’America in recessione, hanno guadagnato il 22%, stracciando per l’ennesima volta l’S&P500. La società guidata dal guru di Omaha (come viene soprannominato dagli investitori), secondo gli analisti oggi ha disposizione 40 miliardi di dollari da utilizzare per fare acquisizioni.

Buffet ha mandato a memoria la lezione di Fred Schwed che, negli anni 40 nella sua bibbia degli investitori Where are the Customers’ Yachts? scriveva: “Quando il mercato azionario è in fase di boom, prendi tutti i tuoi titoli, vendili e acquista obbligazioni. Senza dubbio le azioni saliranno ancora. Non farci caso: aspetta il crollo che prima o poi arriverà. Quando questo crollo diventerà una catastrofe, vendi i bond e compra equity. Senza dubbio le azioni andranno ancora più a fondo. Anche questa volta non farci caso. Aspetta il prossimo boom. Continua con questa strategia per tutta la vita e avrai il piacere di morire ricco”.

Secondo Schwed, la storia dei mercati finanziari mostra che questa strategia, se fosse stata applicata, avrebbe sempre funzionato splendidamente. Il problema, aggiunge, sono le difficoltà psicologiche: bisogna comprare obbligazioni quando non sono popolari e acquistare azioni quando tutte le detestano. La domanda, a questo punto, è spontanea: se è così facile perché non lo fanno tutti? La risposta la dà Buffet che, in questo weekend, terrà l’assemblea degli azionisti di Berkshire Hathaway (un appuntamento seguito dai gestori di fondi di tutto il mondo per cercare di avere consigli dal Guru): è questione di carattere e di saper imparare dal passato.

Il primo suggerimento di Buffett è quello di isolarsi da tutte le informazioni che bombardano gli investitori. “Non fanno altro che aumentare la paura di perdere quello per cui si è lavorato duramente”, spiega Justin Fuller, strategist di Morningstar. “Invece che andare a giocare a golf o in vacanza, un investitore che in altre circostanze sarebbe paziente si mette a fare trading. Nella maggior parte dei casi con la strategia sbagliata”. Il rischio è ancora più alto oggi in cui le previsioni arrivano oltre che dai giornali specializzati, anche dalla televisione, dalla radio e da Internet. Una massa di informazioni, spesso contraddittorie, che confondono l’investitore medio. “Meglio spegnere tutto e ripassare più tardi”, dice Buffett.

Il secondo consiglio del Guru è di tornare ai fondamentali dell’economia. Investire significa, di fatto, seguire il principio della domanda e dell’offerta. Leggendo Schwed con questi occhiali si vede che consiglia di acquistare quegli asset per i quali c’è una grande offerta (grazie alla scarsità di domanda) e di vendere quelli per i quali c’è una maggiore richiesta (o una domanda maggiore). “Un investitore, normalmente per capire il rapporto fra domanda e offerta utilizza il multiplo del rapporto fra prezzo e utili”, spiega Fuller. “Ma è importante ricordare che si tratta di un indicatore degli squilibri esistenti sul mercato fra la domanda e l’offerta”.

Il terzo suggerimento di Buffett è quello di tenere a mente che il tempo è sempre dalla parte dell’investitore privato (per inciso, lui ha 77 anni). Anche in questo caso il fondamento è la teoria di Schwed, secondo cui l’investimento è un gioco a risultato zero. La ricchezza viene trasferita di periodo in periodo, spinta dai momenti di equilibrio fra domanda e offerta. In questi movimenti il tempo diventa un fattore cruciale. “E’ vero che i grandi gestori hanno informazioni migliori e maggiori fondi a loro disposizione rispetto ai piccoli investitori e possono sfruttare le inefficienze del mercato” dice Fuller. “Ma i primi devono fare i conti con le attese e le esigenze, anche di breve termine, dei loro clienti. Il privato, invece, non deve giustificarsi che con se stesso. Se ci pensate, è un vantaggio non da poco”.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

Finanziari al bivio: fiammata o vera ripresa?

05/05/2008 15.39 - di Sara Silano
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Il mercato avrà anche paura dei subprime, ma chi investe nel comparto finanziario sembra non preoccuparsene più di tanto. L’indice Msci del settore nell’ultimo mese (fino al 5 maggio) ha guadagnato quasi il 4,4%. Nonostante la tempesta scatenata dai mutui americani di scarsa qualità e la recessione Usa che rischia di far rallentare tutto il mondo, quindi, gli operatori sono tornati ad acquistare titoli di banche e assicurazioni.

“Una parte del merito va alla Federal Reserve che ha lavorato sodo, attraverso presiti agli istituti finanziari e tagli dei tassi per riallacciare i rapporti fra le società e gli investitori”, spiega Bill Bergman, analista di Morningstar. “Non dimentichiamoci però che la Fed è una delle responsabili principali della situazione che sta cercando di risolvere”. Il punto, secondo l’esperto, è che non bisogna fidarsi troppo delle mosse della banca centrale americana. “Le iniezioni di liquidità e gli allentamenti della politica monetaria, da soli non bastano a giustificare una ripresa sostenibile del comparto finanziario”, continua Bergman. “Soprattutto in un momento in cui gli Usa fanno i conti con la recessione e la crisi del mattone, in Europa c’è uno scenario di inflazione crescente e l’Asia è preoccupata per quello che sta succedendo nelle altre due macroregioni”. Tutti elementi che fanno sentire i loro effetti soprattutto sui bilanci di banche e assicurazioni.

Secondo gli analisti interpellati da Bloomberg Fannie Mae e Freddie Mac (i più grandi gruppi americani di erogazione mutui) chiuderanno in perdita il terzo trimestre consecutivo. Le due società (controllate dal governo degli Stati Uniti) possiedono o garantiscono il 40% degli oltre 12mila miliardi di prestiti per l’acquisto della casa erogati negli Usa. C’è anche chi ha approfittato della crisi per fare un po’ di ristrutturazioni. Il colosso svizzero Ubs sta per mandare una lettera di licenziamento ad almeno 3mila impiegati. L’istituto elvetico per far fronte alla crisi dei subprime, ha dovuto svalutare (e quindi segnare come perdite) 12 miliardi di franchi svizzeri (7,4 miliardi di euro): un record per una banca europea.

Chi sta comprando titoli finanziari adesso, quindi, rischia di restare con il cerino in mano? “Tutto dipende dall’orizzonte temporale dell’investitore”, risponde Bergman. “Nel breve termine il comparto finanziario sarà ancora debole. Soprattutto se dovessero venire fuori altre cattive notizie sul fronte dei subprime. Chi ha obiettivi a lunga scadenza – cinque o 10 anni – può invece già mettersi a caccia di buoni affari, cercando di non farsi prendere dal panico quando ci saranno picchi di volatilità”.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

Finanza, il punto sui vari catastrofismi

05 Maggio 2008 00:53 MODENA - di Giovanni Zibordi

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In estrema sintesi penserei che tra qualche mese inizierà una crisi molto, molto grossa, ma bisogna fare una premessa perchè non c'è niente di più facile al mondo che fare il catastrofista a buon mercato.

I profeti di sventura in genere hanno torto e bisogna stare molto attenti a non farsi trascinare su questa strada del catastrofismo che ignora come poi milioni di individui reagiscano alle difficoltà e alle crisi in tanti modi "microeconomici" che non vengono notati dai media e dagli esperti che si fissano sulla "macroeconomia". Io non sono nato pessimista e catastrofista, mi danno istintivamente fastidio quelli che oggi vanno di moda come Grillo o Blondet che vengono citati qui sul forum per i quali al mondo non va mai bene niente. Anzi in questo sito ho in pratica rotto con diverse persone all'inizio proprio perchè ero l'ottimista filo-americano e fiducioso nel mercato e nell'economia globale.

Quando ho cominciato intorno al 2001-2002 in un periodo di borse in crisi, 11 Settembre, Enron, Argentina... sono rimasto spiazzato dalla quantità di interventi catastrofisti sul Forum (ricordo per chi c'era "michelino" "lu.luke" "noir" "usemlab" "rael" e altri che poi sono scomparsi) e ho reagito, forse anche per la coloritura politica che molti davano, sostenendo invece che non era la fine del mondo quando lo S&P500 da 1.500 era sceso a 1.100, poi 1.000 poi 900 fino a 780 punti e anzi un occasione per comprare, che la politica della FED di tagliare i tassi e di Bush di espansione fiscale avrebbe funzionato, che il sistema non era marcio e alla frutta come la maggioranza diceva e che sia l'economia che le borse si sarebbero riprese.

Questo per buona parte del 2002 e inizio 2003, cioè nel 2002 il forum era pieno di interventi che dicevano che c'era troppo debito, che la bolla del debito era scoppiata ed era la fine. Da metà 2003 invece come sappiamo è arrivata l'onda di rimbalzo che si è estesa nel 2004, l'economia si è ripresa nel mondo, la paura del terrorismo dopo la strage di Madrid e Londra e la stagione dei tagli di teste in video si è ridotta, non si è più parlato di Bin Laden, si è cominciato a parlare di Cina, di India, poi di Brasile, Est Europa, del boom del materie prime, si è parlato di Boom Globale, gli immobili sono diventati un settore bollente e fino al 2006 io sono stato contento di aver avuto alla fine complessivamente ragione, anzi sono rimasto stupito verso metà 2006 che le cose andassero così bene.

A partire da fine 2006 mentre l'onda di rialzo arrivava in tutto il mondo e la gente investiva in fondi Vietnam o Cina o India ho cominciato a leggere molto sui derivati e sul boom immobiliare e del credito e a scrivere che c'era qualcosa che non andava. A leggere troppo ci si fa influenzare e si perde il polso del mercato che continuava a salire per cui a fine 2006 e inizio 2007 ero negativo mentre le borse salivano e l'entusiasmo diventava generale per tutto: materie prime, emergenti, Cina, Brasile, small cap italiane, DAX, fondi immobiliari.

Ho ignorato il fatto che il mercato saliva ai massimi e continuato a insistere che c'erano troppe cose che non andavano sul lato Cina, India, Deficit esteri, Boom immobiliare e del Credito, Globalizzazione e Delocalizzazione, Ingegneria Finanziaria e Derivati esotici e alla fine ho completamente rovesciato il mio modo di pensare rispetto alla situazione, vedendo e anticipando una crisi finanziaria globale stile anni '30 imminente nel mezzo di un boom generale delle borse e di tutti gli asset.

Da luglio 2007 una crisi finanziaria e bancaria è però improvvisamente scoppiata e dopo il crac delle borse di gennaio e dopo i crac di diverse banche e alcune ondate di panico alla fine anche i giornali ora ne parlano e cominci di nuovo a sentire scenari catastrofisti come nel 2002.

Da febbraio però ho spiegato che le azioni delle banche centrali possono guadagnare alcuni mesi di tempo e mi sembra che ci sia ora una PAUSA in questa crisi, che questo "intermezzo" possa durare fino ad agosto e che si possa sfruttare tatticamente per fare qualche soldo comprando azioni.

Ma continuo a scrivere un mucchio di post di tipo "economico-filosofico" che magari non sembrano molto utili praticamente per avvertire che a differenza del 2001-2003 ad esempio questa volta siamo nei guai, questa volta si è rotto qualcosa veramente a tutti i livelli (vedi qua per una rassegna), che le famiglie italiane di lavoratori dipendenti in particolare vanno verso il soffocamento finanziario e questo non è solo un fatto sociale ma l'ingrediente cruciale su cui si regge tutta la piramide economica.

Volendo sintetizzare al massimo, a mio avviso da settembre-ottobre 2008, al massimo massimo da gennaio 2009 quando la nuova amministrazione americana entrerà in funzione, inizierà una crisi finanziaria globale che si scaricherà in particolare sugli Stati Uniti e su paesi occidentali deboli come l'Italia e che può dare conseguenze simili agli anni '30.
 

Fonte - Cobraf.com

 

 

 
 

TRE BUONI MOTIVI PER ESSERE ANCORA TORO

06 Maggio 2008 15:19 NEW YORK - di Bernie Schaeffer*
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Gli indicatori che monitoriamo suggeriscono che il rialzo in atto dal doppio minimo di gennaio-marzo ha ancora le gambe per proseguire. Ci sono essere dei sobbalzi lungo il cammino, ma ogni ripiegamento è da vedersi come opportunità di acquisto. In particolare ci sono tre indicatori che confortano nell'essere bullish: l'ISE Sentiment Index, il CBOE Market Volatility Index (VIX), una serie di livelli tecnici.
Il 10 marzo commentavo il livello raggiunto dalla media a 10 giorni dell'ISEE Call/Put ratio: 117 punti, vale a dire 117 opzioni call comprate rispetto a 100 opzioni put; ad agosto, l'indicatore raggiunse il medesimo livello, prima di un rally del 10% dello S&P, e anche il 18 gennaio l'ISEE è sceso a 118 prima di un rimbalzo del mercato fino agli inizi di febbraio. Quando ho evidenziato questo indicatore, lo S&P valeva 1273 punti, il che vuol dire che la borsa è rimbalzata dell'11% in due mesi. Al momento, la media a 10 giorni si colloca a 166 punti e punta verso l'alto: l'attuale direzione è positiva per i rialzisti, con il sentiment negativo che continua a dissiparsi.
Inoltre, può essere una buona idea individuare i precedenti picchi per scorgere i livelli del mercato dove si è concentrata una eccessiva euforia: limitatamente ai quattro estremi più significativi dell'ultimo anno, i valori sono 149 (1° febbraio), 177 (11 dicembre), 223 (10 ottobre) e 231 (20 luglio).
Si può notare come i livelli del Call/Put ratio siano stati tendenzialmente decrescenti in prossimità di ogni picco del mercato; ma bisogna anche riconoscere che il quadro tecnico dello S&P era notevolmente più debole a dicembre e a febbraio: allora l'indice veniva da massimi decrescenti, e affrontava la media mobile a 80 settimane, mentre oggi si trova oltre questa soglia e sui livelli più alti degli ultimi tre mesi e mezzo. Inoltre, l'indice si colloca al di sopra della trendline che congiungeva i massimi discendenti dal picco di ottobre. Per cui in queste condizioni occorre un call/put ratio decisamente più elevato (forse oltre i 200 punti) per indurre a temere.
Per quanto invece concerne il CBOE Market Volatility Index, il 7 aprile ho affermato "Incoraggia anche il fatto che il CBOE Market Volatility Index (VIX) non solo ha chiuso sotto i 25 punti e la media a 80 giorni, ma è sceso anche sotto la media a 40 settimane. Dalla fine di aprile 2007, tutti i ribassi del VIX tranne uno sono stati contenuti da questa media mobile. L'unico caso di chiusura inferiore è stato a metà dicembre, quando il VIX chiuse a 18.47. Con la tendenza ascendente di lungo periodo in procinto di ribaltarsi, è una buona notizia per i Tori, in quando i rialzi del VIX tendono a coincidere con i ribassi del mercato".
Il VIX continua a puntare verso il basso, il che è un dato favorevole per i Tori. Per il quinto venerdì consecutivo, ha chiuso sotto la media a 40 settimane. Va ricordato che questo sostegno ha contenuto i pullback della volatilità nel 2007. Trovo interessante che un panel di strategist si aspetti che la volatilità cresca significativamente nei prossimi mesi: questo sentiment può avere implicazioni bullish, tenuto conto anche dell'umore dei media ben espresso dalle copertine dei periodici degli ultimi mesi.

 

Fonte - * Todd Salamone per Schaefferresearch.com

 

 

HEDGE FUND: DA QUESTO MOMENTO, ATTENTI AGLI ORSI

08 Maggio 2008 00:14 NEW YORK - di WSI
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Deutsche Bank ha fatto sapere, mediante una sua ricera, che i gestori di hedge funds stanno valutando la possibilita’ di incrementare la loro esposizione verso i mercati emergenti, dai quali si aspettano i maggiori rendimenti. Il sentiment generale comunque e' che rimangono pessimisti nei confronti degli scenari che si prospettano per il prosieguo dell’anno.
La banca tedesca ha asserito che l’80% degli intervistati si sono dichiarati bearish per il 2008. Per converso il 40% e’ pronto a scommettere su una ripresa dell’economia nel 2009. La maggior parte degli operatori prevede che le strategie "macro", "distressed" e "equity volatility" saranno quelle di maggiore successo per il 2008, e buona parte di essi dichiara che incrementera’ la sua allocazione sui mercati emergenti.
"La previsione che Medio Oriente e Africa saranno le regioni top performer indica una chiara redistribuzione di capitale verso i mercati emergenti", ha affermato Sean Capstick, gestore del fondo Hedge Fund Capital Group. "La ricerca ha messo in luce che il numero di investitori neofiti e’ crollato del 25%, rendendo dunque il 2008 molto piu’ difficile per i fondi start-up".
Un altro importante fattore e’ costituito dal fatto che per la prima volta gli hedge fund tendono ad indicare con maggiore insistenza i sistemi di risk management come criterio di selezione associato alle peformance in termini di rendimento. Nonostante le previsioni negative sul settore, si prevede che i fondi, nel loro complesso, riusciranno a raccoglier piu’ di $200 miliardi nel corso dell'anno.
I livelli di liquidta’ nel sistema sono elevati, anche se questa disponibilita’ di cassa sara’ eliminata (cioe’ investita) nei prossimi 12 mesi, suggerendo dunque una potenziale riallocazione verso il comparto degli hedge fund. E' interessante notare che il 70% dei fondi attualmente non fa ricorso alla leva sul proprio portafoglio, il 30% ne fa invece un uso attivo; il 6% di questi ultimi anche utilizzando prodotti strutturati. Lo studio e’ stato condotto a marzo su un campione di 1000 professionisti facenti parte di oltre 500 hdege fund.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

  Sabato 17 maggio 2008   Domenica 18 maggio 2008   Giovedì 22 maggio 2008  
       
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GR1 RAI - 15 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 19 MAG ore 22:00

   

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Borsa: la cura FED non salverà il mondo

13 Maggio 2008 00:33 ROMA - di Marcello De Cecco

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E’ stato scritto su alcuni giornali che l’intervento di Bernanke a salvataggio della Bear Stearns ha ottenuto effetti positivi: da marzo i listini sono saliti del 10% negli Usa e del 12 in Europa, i rendimenti delle obbligazioni si sono dimezzati, il rischio di paesi come l’Italia si è ridimensionato. Le azioni immobiliari sono cresciute del 21%.
Grosso risultato, non c’è che dire. A suo tempo criticai insieme a commentatori molto più autorevoli di me le misure, perché beneficavano gli azionisti di Bear Stearns in modo ingiustificato e mettevano una pezza sui problemi strutturali che hanno causato la crisi riverberatasi dagli Usa sul resto del mondo.
Gli stessi giornali rilevavano tuttavia che due fattori di criticità rimangono dopo gli interventi di Bernanke: il prezzo del petrolio che continua a salire imperturbabile, e il tasso Libor, che è restato assai alto rispetto ai tassi a breve della Fed.
Cominciamo dal tasso Libor: è parecchio superiore ai tassi ai quali la banca centrale americana effettua i suoi prestiti a breve, perché gli utilizzatori del mercato sul quale il Libor si forma sono gli intermediari tramite i quali sono passati in questi anni ruggenti enormi quantità di mutui immobiliari, rivenduti da coloro che li avevano concessi alla clientela subprime degli Stati Uniti, dopo essere stati impacchettati in confezioni tali da ottenere buone o addirittura ottime valutazioni di rischio dalle società di rating.
Il guaio è che dopo il crollo del mercato dei mutui subprime, gli intermediari (che sono le prime cinque banche di investimento degli Stati Uniti) non sono riusciti, come accadeva ai bei tempi di prima dell’agosto 2007, a rivendere ad investitori finali i pacchetti degli stessi mutui cartolarizzati dai loro emittenti, e se li sono trovati a stazionare nei propri bilanci.
Le banche d’investimento (una delle quali, Bear Stearns, è stata salvata col denaro pubblico prestato a JP Morgan dalla Fed) si sono trovate con basi patrimoniali insufficienti a reggere il peso delle enormi quantità di mutui subprime impacchettati e cartolarizzati che gli investitori finali rifiutavano e hanno cominciato una corsa affannosa, che dura tuttora, a rafforzarsi, prendendo a prestito sui mercati a breve e in tal modo facendo lievitare e tenendo costantemente al disopra dei tassi Fed il Libor in dollari.
Hanno anche agito sui costi, licenziando grandi quantità di dipendenti (come fanno in tutte le fasi di congiuntura bassa) e tagliando molto altro. Ma rifiutano di tagliare le remunerazioni dei loro dirigenti principali, malgrado gli inviti pressanti a farlo che da parecchie direzioni vengono. E cercano di non tagliare i dividendi da distribuire agli azionisti per non deprimere ulteriormente i corsi di borsa.
Hanno altresì, imitate da altre grandi banche che costituiscono la loro clientela principale e partecipano così all’enorme mercato dei mutui subprime, accettato iniezioni di capitale da parte dei sovereign fund dei paesi che accumulano riserve in dollari. Ci si chiede perché questi broker dealer, sangue blu della finanza mondiale, non scelgano di fruire di prestiti a breve della banca centrale americana, che li concede a tasso inferiore al Libor.
Il motivo sta nella caduta di reputazione che ciò comporterebbe sui mercati. E’ un segno palese di debolezza da evitare a tutti i costi, perché di tali prestiti si avrebbe notizia immediatamente, con nome e cognome di chi li ha richiesti: una manifestazione di debolezza da evitare a ogni costo.
Gli anni e anche i secoli passano, ma queste tradizioni restano immutate. Era lo stesso quando le banche d’affari di Londra erano al centro della finanza mondiale, a fine ottocento. Il fatto che il Libor resti ancorato a livelli di assoluta emergenza indica appunto che all’epicentro del sistema finanziario mondiale la situazione è ancora critica, malgrado gli interventi, del tutto irrituali e ai limiti della legalità, della Fed.

La criticità dipende dal fatto che la situazione, sui mercati immobiliari degli Stati Uniti, non ha raggiunto ancora un punto di equilibrio. I valori delle case sono scesi, ma non abbastanza da riportarsi ai livelli ai quali erano cinque anni fa, quando la bolla immobiliare cominciò a gonfiarsi. E proprio da uno studio della Fed si evince con chiarezza che nel passato e in un gran numero di paesi, compresi gli Usa, tali prezzi sono invariabilmente tornati ai valori di partenza. Questo per gli immobili Usa vuol dire diminuire di prezzo di circa il 20%. Al momento la discesa è stata di circa il 3% a livello nazionale, e si calcola che ciò corrisponda ad una perdita di valore di circa 450 miliardi di dollari. E’ facile moltiplicare e vedere a quale somma catastroficamente elevata si arrivi.
Questi sono i numeri che tolgono i sonni (ma non i soldi) ai capi delle banche americane e del resto del mondo, in particolare quelle che hanno fatto da broker alle cartolarizzazioni immobiliari e se ne sono trovate a un tratto un numero strabiliante immobilizzato nei loro bilanci, senza la possibilità di rivenderle per l’evaporazione della liquidità dai mercati di tutte le asset backed securities.
Evidentemente non sono bastati finora a restaurare la situazione in questo cruciale settore della finanza americana e mondiale né la politica monetaria della Fed, che continua ad essere espansiva malgrado le minacce sempre più forti dell’inflazione, né gli interventi ad hoc della stessa Fed, fatti sfidando la legittimità statutaria, né le iniezioni di capitale di arabi, cinesi e russi nelle grandi banche americane ed europee, e nemmeno i tagli da parte di queste, che già sono costati il posto di lavoro a circa centomila dipendenti.
Tutto questo si verifica perché la dirigenza politica ed economica degli Stati Uniti non vuole prendere il toro per le corna, intervenendo con misure direttamente fiscali per risolvere la crisi dei mutui subprime alla sua radice. Questo comporta il sostituirsi dello stato o di qualche sua agenzia ai debitori o la fornitura ad essi di garanzie statali sui mutui che hanno acceso e che non riescono a pagare. Tra le soluzioni di mercato bisogna infatti aggiungere la più classica, l’aumento degli interessi su tutti i mutui a tasso variabile, che negli Usa sono la maggioranza.
E’ una soluzione deleteria perché non solo aumenta la probabilità di insolvenza dei debitori, ma provoca la diminuzione del valore degli immobili sui quali i mutui sono stati accesi. Si calcola che tra pochi mesi gran parte dei debitori immobiliari americani avrà in proprietà case che valgono meno del debito su di esse esistente. E allora le cose cominceranno veramente a precipitare.
Le soluzioni cosiddette fiscali, che coinvolgono direttamente lo stato e le sue risorse finanziarie, possono essere di molti tipi. Luigi Spaventa consiglia da qualche tempo di ricorrere a una versione, adattata al caso dei Brady Bonds, con i quali si uscì dalla crisi dell’America Latina dei primi anni novanta. Qui basterà dire che si tratta di una soluzione forse difficile da adeguare, data la scala gigantesca del problema e il tipo di debitori, che negli anni novanta erano i governi e gli stati dell’America Latina e oggi sono privati con scarso merito di credito ed enormi banche di investimento.
Ma è una soluzione rigorosa e onesta, che fronteggia direttamente il problema dove esso si presenta. Esattamente come sarebbe una via di uscita un diretto sussidio, di capitale e interesse, ai debitori incapienti, fornito dalle casse federali.
Le autorità americane continuano invece (Bernanke lo ha fatto anche qualche giorno fa) a chiedere riduzioni volontarie di interessi e capitale ai debitori incapienti da parte delle banche che hanno ad essi concesso mutui. E a credere che parte della soluzione possa venire dalla politica monetaria espansiva o da altri interventi ad hoc nei confronti di istituzioni finanziarie che possano trovarsi in difficoltà.

Come meravigliarsi, dunque, se il prezzo del petrolio e quelli di numerose altre materie prime e prodotti agricoli continuano nella loro folle corsa? Ad alimentarla non ci sono solo motivi strutturali che riguardano domanda e offerta di tali merci. Questi esistono e, dopo che ci sono stati ripetuti ogni giorno dai media, dalle autorità politiche ed economiche e dagli esperti, li conosciamo a memoria ormai, e credo li conoscano anche i bambini delle elementari.
Ma queste ragioni strutturali valgono per domanda e offerta dei consumatori effettivi di tali merci, che possono e forse devono, in queste circostanze, trasformarsi in incettatori delle medesime, se pensano di doverle utilizzare anche in futuro nelle stesse quantità o in quantità maggiori. Ma questa è una scommessa sul livello della domanda futura, anche in condizioni di offerta strutturalmente scarsa.
Petrolio e altre materie prime e prodotti alimentari, tuttavia, sono da decenni trattati su mercati all’ingrosso estremamente ampi ed organizzati, ai quali hanno libero accesso anche speculatori puri, che tali merci non producono né consumano. Questi mercati sono divenuti da decenni anche mercati finanziari, frequentati da scommettitori al rialzo o al ribasso. Sono persone e operatori finanziari istituzionali.
Lord Keynes era uno di loro, negli anni venti e trenta, con alterne fortune per il suo patrimonio e per quello del suo College. Oggi, a guardare le reclame dei giornali e di internet, molti intermediari finanziari offrono prodotti che permettono scommesse sulle merci primarie ai piccoli risparmiatori, facendo intravedere mirabolanti guadagni.
Si parla inoltre, negli ambienti appropriati, della presenza in forze su tali mercati di hedge fund e di grandi speculatori individuali, e forse anche dei molto poco trasparenti sovereign fund. Tutti costoro continuano a scommettere al rialzo perché hanno capito che le autorità americane non hanno intenzione di adottare soluzioni dirette, dichiaratamente fiscali, per risolvere la crisi del mercato immobiliare americano e di quello finanziario ad esso collegato.
Sanno, gli scommettitori, che si continuerà a usare la politica monetaria per iniettare denaro nel sistema, stimolando ulteriormente la crescita dei prezzi, (ma non quella dei prezzi delle case, per il peso delle ragioni che abbiamo ricordato). Sanno dunque che la bolla del petrolio, delle materie prime e dei prodotti agricoli riceverà ulteriore alimento dal prolungarsi della moneta facile negli Stati Uniti e dal persistere del differenziale dei tassi di interesse tra Stati Uniti e Europa, che spinge verso il basso il dollaro, la moneta nella quale tutte le materie prime si negoziano.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

Le avventure del Crossover

Tuesday, 13 May, 2008 - by Charles Dexter Ward
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Cosa sta accadendo nel mondo del credito a due mesi di distanza dal salvataggio di Bear Stearns?
Cerchiamo di capirlo osservando l’andamento dell’Itraxx Crossover, l’indice sintetico che riflette l’andamento degli spread di 40 derivati di credito “scritti” sul debito di aziende non investment grade. Il Crossover è balzato agli onori della cronaca per la prima volta nel luglio dello scorso anno quando il mercato del credito ha anticipato violentemente la correzione dei listini azionari mondiali e l’indice ha raggiunto in un paio di settimane quota 500 punti base, di fatto raddoppiando i livelli precedenti, e una improvvisa quanto indesiderata popolarità.
Da quel momento si sono accesi i riflettori della stampa e degli investitori su questo indice il cui andamento sembrava esser divenuto improvvisamente centrale per i destini del mondo.
In realtà il movimento di luglio del Crossover nasce “semplicemente” da una frettolosa corsa alla copertura delle posizioni di credito strutturato detenute da Hedge Fund ed Investment Bank, posizioni che fino a quel momento erano state estremamente profittevoli e che ora, tutto ad un tratto, erano divenute particolarmente pericolose. La bolla inizia a sgonfiarsi, il nuovo paradigma del credito sembra un po’ meno solido di quanto sperato e secondo i critici tende sempre più ad assomigliare ad uno schema di Ponzi.
Di qui la corsa alla ricerca della copertura dei rischi: ma il mercato del credito, si sa, non è necessariamente liquido, e quindi tutta questa domanda di copertura si è riversata sull’unico strumento “liquido” esistente sul mercato: il crossover, appunto. Salvo poi scoprire in corsa che si trattava semplicemente di una prima quanto grossolana approssimazione, in quanto in gioco erano rischi di natura qualitativa profondamente diversa: così quando a settembre la Federal Reserve è intervenuta in maniera decisa sul livello dei tassi di interesse, il conseguente rally sul crossover (parallelo al rimbalzo dei mercati azionari) è stato acuito dalla situazione di ipervenduto che era venuta a crearsi su questo strumento e il rally si è tramutato in un vero e proprio short squeeze che ha riportato ad ottobre lo spread sul crossover sotto i 300 punti base
In questa fase è stato molto più coerente il movimento dei cash bond, le obbligazioni “in carne ed ossa”, che hanno fatto registrare dei movimenti molto meno accentuati che, confrontati con l’elevatissima volatilità dei derivati di credito ha dato vita ad interessanti opportunità di Basis Trading, dove per base si fa riferimento al differenziale di spread che esiste tra il derivato di credito e il bond di uno stesso emittente.
Il violento allargamento degli spread, per quanto “erroneamente” acuito nella sua intensità dalla scelta di usare il crossover come strumento di copertura polivalente ed onnicomprensivo, ha comunque segnato il punto di inizio del più ampio trend di allargamento degli spread tutt’ora in corso, risultato dell’inversione del ciclo del credito, fin lì assolutamente positivo salvo una brevissima pausa ad inizio marzo 2007, primo warning di quel che sarebbe accaduto da li a poco.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

Orsi e tori in battaglia. Ma si naviga a vista

13 Maggio 2008 00:44 MILANO - di Vincenzo Sciarretta

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Interrogate dieci analisti e otterrete dieci prognosi diverse sulla direzione delle Borse europee. Si va da chi prevede guadagni del 35% nei prossimi 8 mesi (Ian Scott di Lehman Brothers), a chi teme flessioni nell’ordine del 5-10% con uno schianto dei profitti (Alain Bokobza di Société Générale).
È il contrario di ciò che avveniva lo scorso gennaio, quando l’opinione unanime degli esperti era polarizzata sull’ottimismo. Basti ricordare che in un sondaggio di allora di Borsa & Finanza, 10 analisti su 11 scommettevano su una Borsa piatta o rialzista e soltanto uno (Francesco Caruso di Gestione Lombarda) adombrava l’eventualità di un ribasso. Stesso umore sull’altra sponda dell’Atlantico. Lì, il settimanale Barron’s registrava la previsione di 12 guru di chiara fama, secondo cui l’indice S&P500 sarebbe salito abbondantemente, raggiungendo per fine 2008 obiettivi collocati fra 1.525 e 1.750 punti (adesso è a quota 1.400 circa). Non resta dunque che fotografare le opposte diagnosi e tentare qualche considerazione.

FUOCHI D’ARTIFICIO. Chi preannuncia nella seconda metà del 2008 i fuochi d’artificio lega le proprie speranze alle valutazioni depresse. «Valutazioni fra le più attraenti che la storia azionaria abbia mai conosciuto», scrive la Lehman Brothers. Questo perché i multipli sono bassi e i titoli del debito offrono rendimenti troppo magri per costituire un’alternativa. Gli ottimisti enfatizzano la grande disponibilità di liquidità che potrebbe sostenere il rialzo dei corsi.
Dice Kevin Gardiner, stratega del colosso bancario Hsbc: «Se guardiamo agli Stati Uniti, ci accorgiamo che ben 3.400 miliardi di dollari riposano nel porto sicuro dei fondi monetari. È una somma gigantesca. In termini di capitalizzazione, vale il 28% dell’S&P500, cioè l’identica percentuale del 2003, poco prima che il mercato azionario decollasse in una cavalcata durata cinque anni». Gardiner nota pure come il rimbalzo di aprile sia stato accompagnato da una diminuzione di questa montagna di liquidità soltanto nella misura del 2 per cento. Di conseguenza, se il pendolo della fiducia tornasse verso le Borse, il carburante per sostenere una gamba rialzista certo non mancherebbe.
Andrea Huerkamp di Commerbank richiama l’attenzione sulla politica della Federal Reserve, che spesso impronta il movimento all’insù o all’ingiù dei listini occidentali. Afferma Huerkamp: «Quando la curva dei tassi è così ripida come adesso (con i saggi a breve assai inferiori a quelli di lungo termine, ndr), la marcia di Wall Street tende a essere soddisfacente, con effetti positivi sull’altra sponda dell’Atlantico».

UTILI IN DISCESA. Gli Orsi guardano con apprensione alla tenuta dei conti societari. «Rischiamo una grande delusione - commenta Ronan Carr di Morgan Stanley - perché i margini di profitto sono a livelli record e un ritorno verso le medie storiche si tradurrebbe nel crollo degli utili, forse sino al 20 per cento». Parole identiche da Alain Bokobza di Société Générale: «In base ai nostri calcoli, gli utili dovrebbero scendere del 19% in due anni per riportare l'azionario europeo in linea con il suo roe storico».
In parte, questa prospettiva è già scontata nelle quotazioni, sicché i due esperti non anticipano una Caporetto degli indici continentali ma la mancanza di spunti rialzisti e la possibilità di una discesa nell’ordine del 5 per cento. Ulteriori fattori negativi vengono ascritti alla corsa delle commodity (greggio in testa), e alla malferma posizione di bilancio nella quale versano le banche d’affari, che non consente loro di avventurarsi in campagne d’investimento.

IL QUADRO TECNICO. Come si vede, le opinioni degli ottimisti sono solide, ma contraddette da opinioni egualmente circostanziate che negano le promesse dei primi. Bruno Estier, ex presidente dell’associazione internazionale degli analisti tecnici, suggerisce allora di navigare a vista. «L’Eurostoxx 50 - spiega - ha costruito una base fra 3.500 e 3.800 punti, per poi rompere il limite superiore di questa banda. Se riesce a consolidare sopra 3.800 punti ha buone chance di spingersi verso 4.080. Dopo occorrerà rivalutare la situazione».
Dai ragionamenti degli esperti è infine lecito distillare qualche imbeccata specifica. Per esempio, il 2008 sarà forse l’anno in cui Wall Street si prenderà la rivincita sui listini europei. Da inizio 2003, l’indice Msci Europe è salito in dollari del 173%, mentre la controparte Usa di un meno eclatante 75 per cento. Gli analisti pensano che il divario tenderà ad assottigliarsi nel 2008, magari per il rimbalzo del biglietto verde o magari per la migliore performance di Wall Street. Spostando l’attenzione sui comparti, si riscontra un buon apprezzamento per i settori petroliferi, delle utility e delle risorse di base, complice la forza schiacciatutto del barile.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

  Mercoledì 21 maggio 2008   Venerdì 23 maggio 2008   Giovedì 29 maggio 2008  
       
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GR1 RAI - 20 MAG ore 22:00

   

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GR1 RAI - 22 MAG ore 22:00

   

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Sell in May and go away ? MANCO PER NIENTE

14 Maggio 2008 02:00 NEW YORK - di Louis Navellier
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Esistono cinque ordini di ragioni che, secondo gli analisti, dovrebbero confutare la regola del "Sell in may and go away" (a maggio, vendi e vattene in vacanza). Almeno per quest’anno.
1) Innanzitutto, giacchè l’anno è iniziato nel peggiore dei modi e trader e broker sull'azionario non hanno, fino ad oggi, guadagnato un granche' (piuttosto, in molti hanno perso soldi), non si capisce perche' debbano andarsene in vacanza a maggio. Qualcosa ci dice anzi che dovranno lavorare duro, quest'estate.
2) La seconda motivazione è relativa all’oceano di liquidità in cui navigano i fondi di investimento. Le attività in strumenti di gestione della liquidità sono cresciute a dismisura, raggiungendo il livello insolitamente alto del 26.2% delle allocazioni totali. Naturalmente, si tratta di una contingenza: gran parte di questa massa di cash in parcheggio, potra' essere presto dirottata sul mercato azionario. Insomma: ci sono ancora ingenti risorse finanziarie capaci di supportare un rally a Wall Street.
3) Il terzo motivo risiede nell'attuale tendenza tra le aziende protagoniste del mercato Usa (esclusi i titoli finanziari) ad attuare piani di riacquisto di azioni proprie: il che, com'è facile intuire, e' un'operazione che sostiene il prezzo dei titoli. Il numero di buybacks è oggi ai massimi degli ultimi 30 anni.
4) Quarto motivo: quando la Federal Reserve si accinge a por fine a un ciclo di taglio dei tassi di interesse, gli investitori sanno che e' il momento di comprare. Motivo: poco dopo l'economia riparte. Semplici verifiche statistiche ci confermano che i mercati finanziari seguono sempre lo stessa schema, la storia, insomma, si ripete. Alla fine di una fase monetaria espansiva e' sempre seguita una ripresa del mercato azionario. Di qui il rialzo gia' partito a marzo e aprile.
5) Lo studio del "ciclo delle elezioni presidenziali" ci informa che il miglior momento per un buy è tendenzialmente verso la fine di aprile o l’inizio di maggio di un anno in cui si sceglie il nuovo presidente Usa. I dati analizzati prendono in considerazione 108 anni di serie storiche dei prezzi a Wall Street. Si può dunque coscienziosamente asserire che la regola "Sell in may and go away", non trova alcun riscontro negli anni della corsa alla Casa Bianca.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

Borsa: COME STA CAMBIANDO IL SENTIMENT

15 Maggio 2008 13:35 SIENA - di MPS Capital Services
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Tassi di interesse: in area Euro i tassi di mercato sono saliti sulla scia dell’andamento positivo dei listini azionari. Sul fronte macro la produzione industriale di marzo per l’intera area ha registrato un rallentamento a causa del peggioramento del settore dei beni capitali e beni durevoli. In mattinata il Pil tedesco del primo trimestre è risultato molto al di sopra delle attese, registrando una crescita dell’1,5% t/t dal precedente 0,3%.
Secondo l’istituto di statistica il principale driver è stato rappresentato dagli investimenti, con un contributo positivo anche da parte della spesa per consumi. Gli operatori resteranno in attesa dei dati sul Pil europeo e di quelli Usa.
Negli Usa tassi di mercato in sensibile rialzo sulla parte biennale, dopo la chiusura positiva del mercato azionario in seguito principalmente all’infusione di ottimismo arrivata dalla pubblicazione della trimestrale di Freddie Mac, la seconda agenzia sui mutui Usa, che ha riportato una perdita trimestrale inferiore alle attese mettendo a segno un recupero giornaliero di oltre il 9%. Allo stesso tempo Freddie Mac ha anche annunciato un aumento di capitale da 5,5Mld$. La notizia ha innescato l’attesa che il miglioramento dei conti di Freddie Mac possa tradursi in un supporto più forte al mercato immobiliare.
Occorre comunque evidenziare come i dati di Freddie Mac siano stati possibili grazie anche all’adozione di criteri contabili che hanno consentito l’iscrizione al c.d. livello 3 (il livello cioè degli asset valutati secondo un modello interno) pari a circa 157Mld$ da 32Mld$ del trimestre precedente. Nel frattempo un sondaggio effettuato da Bloomberg ha evidenziato come il 44% della fascia dei consumatori Usa più ricca (quella con redditi da 100.000$ in su) abbia dichiarato come il momento attuale sia propizio per l’acquisto di titoli azionari, indicando come settore di preferenza quello energetico.
Tali indicazioni potrebbero trovare eco anche nell’atteggiamento da parte dei gestori nel periodo di maggior ottimismo indotto dai rimborsi fiscali in corso. Nel frattempo i dati sull’inflazione di aprile sono risultati migliori delle attese grazie al calo della componente energetica e ad un andamento favorevole del comparto affitti. Nel breve la resistenza si colloca sul decennale a 3,95%.
Valute: Dollaro in deprezzamento verso Euro dopo il favorevole dato sul Pil tedesco del primo trimestre che ha riproposto l’ipotesi di tassi fermi della Bce per diversi mesi. Ieri in un discorso dell’ex capo della Fed Volcker davanti alla commissione congiunta del congresso, è stata sottolineata l’importanza di evitare che la svalutazione del biglietto verde vada fuori controllo. Nel breve il trading range indicato nei giorni scorsi (1,5370-1,5540) dovrebbe ancora essere valido con la resistenza di breve che potrebbe spingersi fino a 1,56. Ieri il rialzo delle borse ha favorito il deprezzamento dello Yen sia vs Dollaro sia vs Euro. Verso Dollaro il cross continua a mantenersi al di sotto dell’area di resistenza 105,50-70. Verso Euro il cross si colloca poco al di sotto dell’area di resistenza 162,90163,10.
Materie Prime: in calo il prezzo del greggio dopo che le scorte Usa di distillati nella scorsa settimana sono salite oltre le attese (1,34Mln barili vs 1Mln previsti). Inoltre la domanda implicita di carburante è calata del 2,7% a/a. Nel frattempo l’Iran ieri ha dichiarato che l’Opec si troverà costretta a ridurre la produzione di greggio di minore qualità a causa della debole domanda. Negativi i metalli industriali guidati dal piombo (-2,4%). Deboli anche i metalli preziosi. Tra gli agricoli in calo il grano (-3,1%) ai minimi da 6 mesi sulla speculazione che gli importatori rinvieranno gli acquisti al prossimo mese, attendendo l’inizio del raccolto negli Usa. Male anche il riso (-2,8%).
 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

 

 

Wall Street sorpassa l'Europa

21/05/2008 09.37 - di Sara Silano

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Cresce l’ottimismo su Wall Street e diminuisce sulle Borse europee. I gestori, interpellati da Morningstar nel sondaggio di maggio sulle previsioni per i prossimi sei mesi, tracciano due scenari opposti per gli Stati Uniti e il Vecchio continente, che sono il frutto delle differenti politiche monetarie delle Banche centrali, dei trend valutari e dello stato dell’economia.


Europa, peggiora il quadro macro

Da alcuni mesi, i gestori mostrano preoccupazione per la situazione economica europea. Nell’ultimo sondaggio è quasi unanime il consenso sul rallentamento in atto (il team di Ing Investment Management stima una crescita intorno all’1,6% per l’intero 2008 contro il 2,6% del 2007). La debolezza della congiuntura internazionale, l’euro forte, il rialzo dei prezzi delle materie prime e le pressioni salariali riducono i margini delle aziende e potrebbero portare a una revisione al ribasso degli utili. Secondo alcuni fund manager, inoltre, i titoli delle Borse europee sono piuttosto cari rispetto ai concorrenti quotati su altre piazze finanziarie in conseguenza del rally degli anni scorsi. Per queste ragioni, la percentuale di ottimisti è scesa dal 34,8% di aprile al 30%, mentre è rimasto sostanzialmente invariato il numero di pessimisti (30%).

Wall Street fa il pieno di consensi

A maggio, la percentuale di ottimisti sulla Borsa americana è balzata al 55% dal 43,5% di aprile. Dall’inizio dell’anno, quando solo un terzo dei gestori stimava un incremento delle quotazioni oltreoceano, il consenso è gradualmente cresciuto, nonostante le preoccupazioni legate allo stato dell’economia, alla crisi creditizia e immobiliare, che influisce negativamente sui consumi (gli americani si sentono più poveri e meno propensi agli acquisti). Altri fattori negativi sono i contrastanti dati sull’occupazione e l’aumento dei prezzi dell’energia. I fund manager sono, però, convinti che la recessione non durerà a lungo e che il mix di politiche monetarie e fiscali aggressive possa far ripartire la locomotiva statunitense. Inoltre, è vero che molte stime di utili sono state riviste al ribasso, ma la debolezza del dollaro supporta i profitti delle aziende esportatrici.

Poche note positive nel Sol Levante

Da gennaio, l’indice Nikkei ha perso oltre il 7%, penalizzato da un’economia che non trova la forza per riprendersi e subisce gli effetti negativi della persistente deflazione. Il Giappone, inoltre, non può contare su una politica fiscale favorevole e subisce le conseguenze della crisi dei consumi in America, uno dei principali mercati di sbocco per l’export nipponico. Questo scenario contrasta con le previsioni in miglioramento relative al mercato azionario: metà dei gestori stima, infatti, un rialzo delle quotazioni nei prossimi sei mesi (erano il 35% ad aprile), contro il 15% di pessimisti. I fund manager mettono l’accento sulla forte sottovalutazione dei titoli; ammoniscono, però, di avere pazienza perché nel breve il Paese difficilmente riserverà sorprese positive.

L’inflazione paralizza la Bce

La Banca centrale europea (Bce) non smette di ribadire la preoccupazione per il caro-vita ed è convinta che il tasso rimarrà sopra il 2% per diversi mesi. Per questa ragione, anche nella riunione dell’8 maggio ha lasciato il saggio di riferimento invariato al 4%. Si allontanano le probabilità di un taglio, mentre si affacciano quelle di una stretta. Quest’ultima ipotesi comincia ad essere caldeggiata da alcuni economisti e analisti come unica soluzione possibile se l’inflazione rimarrà ai livelli attuali o aumenterà. Sulle prossime mosse della Bce, comunque, non c’è unanimità tra i gestori e non manca chi è convinto dell’inevitabilità di un taglio come conseguenza del rallentamento dell’economia. Per queste ragioni, il 42% degli intervistati stima una stabilità dei prezzi delle obbligazioni nei prossimi sei mesi, mentre il 38% prevede un incremento. In ogni caso la preferenza è accordata alla parte breve della curva, meno esposta alle variazioni dell’inflazione.

Fed verso la fine dei tagli

Negli Stati Uniti, i gestori non escludono un ulteriore taglio dei tassi, ma vedono la fine della fase di politica monetaria espansiva, anche perché l’inflazione è in crescita. In generale, i fund manager vedono poco valore sul mercato obbligazionario americano. Secondo Teresa Gioffreda, strategist di Bnp Paribas asset management sgr, “sulla parte breve della curva, i tassi potrebbero continuare a salire, mentre su quella lunga le valutazioni dei Treasuries decennali sono un po’ meno tirate che in precedenza, ma rimangano care”. Nel complesso, il 57% dei gestori prevede una diminuzione dei prezzi nei prossimi sei mesi, contro il 28% che stima un aumento.

Euro davvero a fine corsa?

La percentuale di gestori che stima un apprezzamento del dollaro sulla divisa europea è balzata dal 57 al 75% tra aprile e maggio. Solo il 5% prevede un proseguimento del rally dell’euro. Il biglietto verde ha beneficiato delle dichiarazioni dei ministri delle finanze del G7 che hanno espresso il disappunto per la sua svalutazione. Nelle ultime settimane, la moneta americana ha tentato più volte di guadagnare terreno, ma ci vorrà ancora un po’ di tempo perché si creino le condizioni favorevoli a un perdurante recupero.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 7 e il 15 maggio, 21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’75% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Anima Sgr, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bnp Paribas Am, Clariden Leu, East Capital, Eurizon Capital, Fideuram asset management, Henderson Global Investors, Ing Im, Investitori, JC&Associati, Julius Baer, MC Gestioni, Mps Am,, Pioneer Im, Sella gestioni, Soprarno Sgr, Vontobel.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

  giovedì 01 maggio 2008   Giovedì 08 maggio 2008   Domenica 11 maggio 2008  
       
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Urge una ricetta anticrisi

08/05/2008 18.24 - di Sara Silano

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Giù sempre più giù. Non si arresta l’emorragia dai fondi. Ad aprile sono usciti 8,4 miliardi di euro che fanno lievitare i deflussi da inizio anno oltre i 45 miliardi. Nessuna categoria è stata risparmiata, neppure i monetari, che, al contrario, nei mesi scorsi, erano stati l’unica nota positiva nei bilanci delle società di gestione. Ma i più bastonati sono stati ancora una volta gli obbligazionari, il cui patrimonio nell’ultimo anno si è ridotto di quasi il 18%. Questi strumenti rimangono, comunque, quelli che detengono la fetta più ampia dei risparmi investiti in fondi dagli italiani.

Nonostante sia necessario aspettare la nuova mappa che Assogestioni presenterà la prossima settimana per avere un quadro complessivo, comprendente i risultati definitivi dei fondi esteri, è evidente lo stato di crisi di un’industria che sta cambiando, ma fatica a risollevarsi. E’ difficile vedere in questa fase di trasformazione, un vento innovativo che possa cambiarne radicalmente le sorti, soprattutto per i prodotti domiciliati in Italia.

La razionalizzazione della gamma è frutto del consolidamento bancario, più che della volontà di eliminare i fondi meno efficienti. Così le nozze tra Unicredit e Capitalia, Intesa e Sanpaolo hanno più che dimezzato l’offerta. Lo stesso è successo in Ubi Pramerica per effetto dell’accorpamento con Capitalgest (Banca Lombarda) e altre operazioni potrebbero seguire a breve se si concretizzeranno le aggregazioni già nell’aria.

I fondi di diritto italiano sono scesi sotto quota mille, ritornando sui livelli del 2000, contro i 1.400 di cinque anni fa. Nel tempo è peggiorato anche il Rating complessivo. A fine 2004, il 6% dei comparti italiani aveva cinque stelle, percentuale che oggi si è dimezzata ed è inferiore a quella di Paesi vicini come la Spagna e la Francia. Questo non significa che l’eccellenza non esista; al contrario i vincitori dei Morningstar Funds Awards, che saranno premiati il 14 maggio al Palacongressi di Rimini, sono la prova più evidente. Faticano però ad emergere, in un sistema che spinge i comparti di nuova generazione a discapito dei fondi che nel tempo hanno dimostrato di creare valore. Con l’aggravante che gli ultimi arrivati sono sempre più simili ai prodotti strutturati, vanificando una delle caratteristiche che da sempre distingue questi strumenti: la semplicità.

Sembra mancare una volontà comune a tutti gli attori del mercato per uscire dalla crisi. Il tavolo di lavoro promosso dalla Banca d’Italia, che dovrebbe suggerire una ricetta per guarire l’industria non è riuscito nelle prime due riunioni a trovare un consenso sulle possibili soluzioni: si va dai suggerimenti della Consob di quotare i fondi a quelli di Assogestioni di prevedere benefici fiscali per i risparmiatori che investono in un’ottica di lungo periodo e di istituire fondi a basso costo con una certificazione di qualità in modo da abbattere gli oneri di distribuzione. Esiste, infine, il delicato nodo degli assetti proprietari delle sgr, molto caro al governatore Mario Draghi, il quale più volte a sollecitato una maggior indipendenza. Il prossimo incontro è atteso tra la fine di maggio e l’inizio di giugno e dovrebbe, nelle intenzioni di Bankitalia, dettare un piano d’azione. E’ auspicabile che il tutto non sia ridotto alla sola questione fiscale, che non può da sola spiegare il declino del settore.

 

Fonte - MorningStar.it


 

 

Crisi, crescita...  e tutto quel che c'é in mezzo

11 Maggio 2008 21:28 MILANO - di Giuseppe Turani

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La crescita italiana può essere, alla fine, più alta di quello che si ritiene oggi? In termini ancora più chiari: oggi un po´ tutti i centri internazionali (Fondo monetario in testa) attribuiscono al nostro paese una crescita 2008 che è grosso modo uguale a zero. Sarà proprio così o le cose possono andare meglio? In particolare, ha senso puntare con una certa decisione su una crescita di almeno l´1%?
Probabilmente sì. Ho visto che sono in aumento i ricercatori che ritengono non impossibile un simile risultato. E si possono elencare anche i motivi che rendono l´obiettivo dell´1% non fuori dalla nostra portata. Essi sono tre:
1) L´industria italiana non è più quella di cinque o sei anni fa. Si è riorganizzata, è diventata più competitiva e si sta battendo bene sui mercati stranieri. E´ da quella parte che verranno le sorprese più interessanti. Qualcosa abbiamo già visto in questi lunghi mesi di dollaro molto alto: mesi nei quali la nostra media industria non ha affatto alzato bandiera bianca, ma ha continuato a lavorare a ritmo molto intenso, esportando soprattutto verso l´Asia e i paesi dell´Est Europa.
2) Il nuovo governo è entrato in carica e, dopo tutte le promesse fatte in campagna elettorale, alla fine dovrà fare qualcosa per le pensioni e i redditi più bassi. Non è facile perché i soldi sono sempre pochi e la coperta è sempre troppo corta. Ma da parte del governo qualche aiuto alla congiuntura arriverà (va bene anche l´abolizione dell´Ici). Non si tratterà di interventi risolutivi, ma quando si è vicini alla crescita zero, tutto può servire.
3) La carta più grossa, comunque, è forse un´altra. Nei circuiti finanziari internazionali si comincia a dire che il dollaro basso dovrebbe avere i giorni contati. Per diverse ragioni. La prima delle quali è che sta creando un po´ troppi fastidi a tutti (e sta complicando i rapporti dell´America con il resto del mondo, Europa in testa). La seconda ragione è che la banca centrale americana ha finito di tagliare il costo del denaro (e quindi il rendimento) del dollaro mentre la banca centrale europea potrebbe cominciare a fare qualche taglio di prova in autunno. Questo dovrebbe portare il rapporto dollaro-euro verso quota 1,40 piuttosto che 1,50-1,60 come è stato negli ultimi tempi. E´ evidente che, se dovesse accadere una cosa del genere, per le nostre imprese verrebbe a crearsi un rilevante vantaggio. Si tornerebbe a esportare bene anche nell´area del dollaro.
L´insieme dei tre elementi appena elencati dovrebbe consentire all´Italia di raggiungere la crescita di almeno l´1%, sfuggendo alla maledizione della crescita zero. Tutto bene, allora? No.
Per la verità nei cieli dell´economia internazionale ci sono ancora molte nubi. E un paio di esse sono anche molto grandi e molto scure. La prima si chiama inflazione. L´aumento dei prezzi non accenna a fermarsi e questo potrebbe capovolgere lo scenario. Le maggiori banche centrali, cioè, potrebbero lasciare al suo destino la sorte della congiuntura e concentrarsi invece sulla lotta all´inflazione, considerandola primaria (cosa che l´Europa fa già, ma l´America no). In questo caso il costo del denaro potrebbe tornare a salire e la congiuntura internazionale potrebbe conoscere qualche altro periodo molto pesante e molto in frenata.
La seconda ragione per cui le cose potrebbero non andare come si vorrebbe (e cioè bene) dipende, ancora, dalla crisi del credito con la quale siamo alle prese da quasi un anno. Si è soliti sentire (anche da parte di autorità importanti) che ormai il peggio è passato e che tutto è andato a posto. Insomma, il mondo può respirare e riprendere la sua vita di sempre.
I mercati finanziari hanno creduto per un po´ a questa storia, ma adesso cominciano a dubitare. Sospettano, e con ragione, che non tutto sia proprio a posto. Se le grandi banche sono venute allo scoperto, e hanno pagato, adesso è il turno delle compagnie di assicurazioni. Poi toccherà agli hedge funds e infine chissà a chi altro. I mercati finanziari sono una rete molto lunga e molto estesa. E quindi è possibile che le conseguenze della crisi del credito vadano avanti ancora per molto tempo. C´è da sperare nel contrario, ma essere prudenti non fa male. Si dice, a questo proposito, che in difficoltà (per ora controllate) ci sarebbe anche qualche media istituzione finanziaria italiana.
In sostanza il quadro che oggi si presenta ai nostri occhi è il seguente. Puntare su una crescita dell´1% nel 2008 (a fronte di un´Europa che andrà sopra l´1,5%) non è insensato e non è fuori dalla nostra portata. Soprattutto se il governo darà una mano concreta, con qualche aiuto capace di mettere un po´ di soldi in tasca ai consumatori.
Solo che non tutto dipende da noi e dalla nostra volontà. Da una parte l´inflazione e dall´altra qualche "coda" della crisi subprime possono determinare una situazione di credito scarso. Ma questo obbligherebbe l´economia (non solo italiana) a girare a velocità ridotta per mancanza di carburante. E allora il nostro 1% diventerebbe irraggiungibile, lontanissimo.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

Un punto PER TREMONTI

16 Maggio 2008 13:11 MILANO - di Riccardo Barenghi
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Bisognava aspettare Giulio Tremonti per riuscire ad ascoltare qualcosa di sinistra, o quantomeno di buonsenso progressista da un ministro dell’Economia.
Eppure il centrosinistra ha governato questo Paese per sette anni, e di ministri intelligenti, capaci e anche progressisti ne ha avuti addirittura quattro (Ciampi, Amato, Visco e Padoa-Schioppa). Ma non è mai successo che uno di loro dicesse quel che Tremonti ha avuto il coraggio di dire ancor prima di essere entrato nel pieno delle sue funzioni. Ossia il coraggio di dire che i sacrifici stavolta toccano alle banche, ai petrolieri e ai supermanager che guadagnano cifre da capogiro.
Demagogia, facile populismo, parole al vento alle quali non seguiranno i fatti? Può darsi, magari il neo responsabile dei conti pubblici non riuscirà a fare quel che ha detto, probabilmente le lobby si muoveranno (si stanno già muovendo) con tutte le loro armate per impedire questo «esproprio proletario» ai loro danni. Ma intanto Tremonti l’ha detto, e non è un caso che nel suo mirino siano finiti due settori (banche e petrolieri) tra i più discussi del capitalismo. Quelli che fanno soldi con i soldi (degli altri) o con il bisogno primario di tutti gli italiani di muoversi, produrre e far muovere le merci. E insieme con loro, quei grandi gestori delle imprese che, pur non essendo affatto parassitari, guadagnano cifre poco sostenibili per l’opinione pubblica.
Ci voleva molto per i ministri dell’altro campo dire una cosa analoga, dodici anni fa (entrata nell’euro pagata a caro prezzo da tutti gli italiani), dieci anni fa quando si trattava di consolidare il rientro dal deficit, otto anni fa quando bisognava prepararsi alle elezioni del 2001 (perdute). O due anni fa quando le tasse sono invece state aumentate per tutti (tranne che per le banche e i petrolieri)? Purtroppo sì, ci voleva molto. Ci voleva uno sforzo titanico per vincere la paura della propria ombra.
Pensate a quale putiferio si sarebbe scatenato, alle reazioni violente di tutta l’opposizione (magari anche dello stesso Tremonti), quelle di molti opinion makers che su giornali e televisioni si sarebbero indignati contro il «dirigismo comunista che vuole tarpare le ali al capitalismo dinamico», che non ha il coraggio di tagliare la spesa pubblica, di licenziare i fannulloni, che vuole colpire i ricchi per ragioni ideologiche, e così facendo provoca recessione e deprime i consumi...
Ma oggi nessuno osa prendersela con Tremonti per queste stesse ragioni, certo non lo si può accusare di essere un bolscevico, al massimo un colbertista no global. E allora applausi e apprezzamenti, finalmente qualcuno che ha il coraggio di colpire chi non è mai stato colpito. Ce l’avessero avuto i suoi predecessori di centrosinistra questo stesso coraggio forse oggi, chissà, Berlusconi non avrebbe vinto le elezioni. Perché magari alcuni milioni di elettori che avevano votato per quella parte politica si sarebbero sentiti rappresentati dai loro eletti e forse, chissà, anche una parte di quelli del centrodestra, ché pure loro fanno mutui, pure loro pagano benzina e gasolio sempre più cari, pure molti di loro non amano chi si arricchisce senza sforzo.
Invece niente, poche parole, pochissimi fatti (la lotta all’evasione fiscale ne è forse l’unico esempio), nessuna suggestione ideale, programmatica, alla fine politica. Potevano quantomeno provarci e pure se non ci fossero riusciti sarebbe stato quantomeno apprezzato il tentativo. Macché, troppo attenti a non farsi sparare addosso, spasmodicamente sensibili a qualsiasi refolo provenisse da quei settori del capitalismo che li guardavano con sospetto, tragicamente tremebondi di fronte a ogni articolo di fondo uscisse sui giornali, troppo legati psicologicamente al loro passato per non avere paura che qualcuno glielo ributtasse addosso. Basti ripensare a cosa è accaduto dopo quell’infelice e goliardico manifesto di Rifondazione - «Anche i ricchi piangano» - dentro l’Unione: prese di distanza, critiche impietose, condanne morali: noi non vogliamo far piangere nessuno, per carità, ma far ridere tutti. Invece piansero tutti (tranne le banche e i petrolieri) e tra una lacrima e l’altra votarono per Berlusconi (e per Tremonti).
 

Fonte - La Stampa

 

 

MEZZA ITALIA NON PAGA

16 Maggio 2008 13:31 MILANO - di Vittorio Feltri
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Sapevate che un contribuente italiano su quattro non paga una lira, pardon, un euro di tasse? Noi no. Lo abbiamo appreso leggendo una inchiesta-shock su Panorama dedicata alle denunce dei redditi cui fu data pubblicità alcune ore, poi intervenne il garante della privacy e bloccò tutto. E addio trasparenza.
Il regime dell'omertà (figlia della mafia) tornò a dominare. Ma sono bastate quelle poche ore al settimanale diretto da Maurizio Belpietro per rendersi conto che il vero fenomeno degno di essere segnalato non riguarda chi versa il dovuto al fisco, o almeno qualcosa, bensì chi, per un motivo o un altro, fa risultare zero nell'ultima colonna del modulo.
Il totale dei poveri autentici o presunti è impressionante: nove milioni e rotti su quaranta milioni; appunto, uno su quattro. Molti risiedono nel Mezzogiorno. Panorama osserva che in effetti esistono parecchie persone con le tasche vuote. Giusto. Tuttavia aggiungerei che, per quanti indigenti e miserabili vi siano in giro, non si registrano da decenni decessi causa inedia. Quindi il reddito zero è improbabile. Ma calcoliamo pure, con generosità, che la metà dei portoghesi sia costituita da incapienti mantenuti chissà da chi. L'altro cinquanta per cento è un esercito di furbi o meglio malandrini. E non si comprende come riesca a farla franca.
Viene da ridere o da imprecare ripensando alle trionfalistiche dichiarazioni del fu presidente del Consiglio Prodi: questo governo - amava ripetere il premier prematuramente "scomparso" - ha il vanto di aver condotto un'aspra lotta all'evasione. Palla colossale. Non lo diciamo noi ma le cifre: nove milioni di fantasmi fiscali. Tra cui, oltre a qualche accattone, figurano fior di professionisti - avvocati, intermediari, affaristi eccetera - addirittura titolari di un paio di studi avviatissimi, gente meritevole non solo di essere inchiodata alla croce tributaria ma anche di essere presa a pedate nei glutei, e che invece mangia beve e fa il gesto dell'ombrello all'Agenzia delle entrate e a tutti noi condannati a rispettare ogni maledetta scadenza.
Il ministro Padoa-Schioppa, ricorderete, sosteneva giulivo: le tasse sono belle. Belle per chi non le paga, forse, e non si tratta di una esigua minoranza. Ciò che manda in bestia, ora, è il divieto di divulgazione dei dati. Che se protegge i redditi alti e medi da inverosimili assalti di malfattori, protegge anche e soprattutto i mariuoli stanati da Panorama. I cui nomi e cognomi rimangono segreti al pari di quelli dei cittadini onesti.
È paradossale che a giovarsi della riservatezza siano pure gli infedeli contro i quali, viceversa, bisognerebbe procedere con severità e decisione. Che sarebbe l'unico modo per ridurre la pressione fiscale complessiva e rilanciare così l'economia azzoppata.
 

Fonte - Libero

 

 

DOVE TAGLIERA' TREMONTI

16 Maggio 2008 14:04 ROMA - di Massimo Riva
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Quando esordisce affermando che non c'è alcun tesoretto nei conti pubblici, il neoministro Giulio Tremonti non fa altro che ripetere ciò che da mesi andava già dicendo il suo predecessore, Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, inascoltato dai più, ha cercato invano di far ragionare tutti coloro che assediavano le casse pubbliche sulla svolta negativa in atto nella congiuntura economica internazionale. In particolare, richiamando la banale equazione per cui una minore crescita del Pil 2008 (almeno cinque volte più debole rispetto al 2007) comporterà inevitabilmente una contrazione anche del gettito fiscale.
Vero è che le cifre sulle entrate tributarie del primo trimestre di quest'anno segnalano ancora un incremento significativo (6,8 miliardi) in confronto all'analogo periodo del 2007. Ma già il fatto che in marzo l'aumento degli incassi risulti dimezzato indica che la frenata è in corso e, con ogni probabilità, diventerà ancora più evidente nella seconda parte dell'anno, quando con i versamenti di giugno si sarà esaurito anche l'effetto dei pagamenti definitivi sui redditi maturati nel 2007. Sul fronte dell'Iva, l'imposta che meglio di altre misura la tonicità dell'andamento economico, le avvisaglie di flessione sono già visibili.
Quindi il fatto che Tremonti si allinei in materia a Padoa-Schioppa è di per sé rassicurante. Solo che così egli chiude forse un problema, ma ne apre di sicuro un altro. Nel primo caso, infatti, la negazione dell'esistenza di tesoretto cui attingere fa ritenere che egli non vorrà dare facile corso alle richieste dei tanti postulanti, siano essi i sindacati, le regioni, i comuni o anche i suoi colleghi di governo. Molto bene, soprattutto se ci riuscirà. Nel secondo caso, però, resta apertissima un'altra sostanziosa questione. Il governo Berlusconi intende assumere come sue prime decisioni - e lo stesso Tremonti lo ha confermato - l'abrogazione totale dell'Ici sulla prima casa e una detassazione almeno parziale dei redditi da lavoro straordinario e da premi di produzione.
Misure che implicano una riduzione del gettito non indifferente: in 2,5 miliardi è stimato solo il minor incasso sull'Ici, mentre per gli straordinari si ipotizza una cifra sul miliardo e mezzo.
Ecco il problema che si spalanca: come e dove, in assenza di tesoretti, l'ottimo Tremonti troverà i soldi per la copertura di questo minor gettito, per giunta in una fase di bassa crescita dell'economia? Certo non basterà spremere banche e petrolieri: buona regola vorrebbe che il necessario venisse ricavato da congrui tagli di spesa pubblica.
Tagli, che per essere efficaci, dovrebbero risultare quanto meno contestuali alla riduzione delle imposte. In modo da evitare che a fine anno il disavanzo, già oggi previsto attorno al 2,3-2,4 per cento, torni ad avvicinarsi pericolosamente a quella soglia del 3 per cento oltre la quale scatta la procedura d'infrazione da parte dell'Unione europea, già comminata al precedente governo Berlusconi e poi rientrata dopo la cura Padoa-Schioppa. Visto che proprio a quest'ultimo ha voluto allinearsi, ora c'è solo da sperare che Tremonti voglia farlo fino in fondo.
 

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

  Vener16 maggio 2008   Mercoledì 21 maggio 2008   Sabato 31 maggio 2008  
       
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Stipendi d'oro e bilanci in rosso

19 Maggio 2008 16:46 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore

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Superliquidazioni e premi hanno gonfiato le retribuzioni dei top manager. I primi 100 hanno ricevuto nel complesso 403 milioni nel 2007. Uno stipendio medio di 4 milioni di euro. E Tremonti dice...
Drago Cerchiari è stato amministratore delegato della Sorin dal gennaio 2004 al 24 maggio dell'anno scorso. Per meno di cinque mesi di lavoro nel 2007 nella società di tecnologie medicali per cardiochirurgia, Cerchiari ha ricevuto 7,14 milioni di euro lordi.
Cerchiari è un outsider, al decimo posto nel «pay watch» 2007 dei dirigenti delle società quotate in Borsa, davanti alla coppia che guida la rimonta della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne. Una busta paga sorprendente. Anche perché la Sorin l'anno scorso ha presentato un bilancio consolidato in rosso per 82,9 milioni, su un valore della produzione di 813 milioni.
Oltre a «emolumenti per la carica» di 153mila euro e a «bonus» di 368mila, Cerchiari ha ricevuto «altri compensi» per 6,62 milioni. Questa voce – secondo il bilancio – «include indennità speciali di fine rapporto». Lo stipendio dell'ex a.d. Sorin è difficile da comprendere.
Come è difficile spiegare per quali ragioni Luigi Zunino, presidente e amministratore delegato di Risanamento, abbia meritato 4,79 milioni, il 15% in più dell'anno precedente, nonostante il gruppo immobiliare, di cui possiede il 73%, abbia aumentato le perdite da 9 a 91 milioni. I superstipendi dei manager in Europa, di cui queste due vicende sono solo un caso estremo, sono ormai nel mirino dei Governi, dopo l'affondo di Giulio Tremonti e dei ministri finanziari dell'Ue, nell'Ecofin il 14 maggio.

In campagna elettorale, il 26 marzo, Tremonti ha chiesto una stretta sulle stock option, gli incentivi in azioni che possono far guadagnare decine di milioni: il record è di Rosario Bifulco, ex Lottomatica, con 37,35 milioni di guadagno nel 2006. Nella classifica dei manager più pagati segue Corrado Passera di Banca Intesa, con plusvalenze per 35,7 milioni realizzate tra il 2005 e il 2006, tutte reinvestite in titoli della banca. L'a.d. della Fiat, Marchionne, dispone di 20 milioni di opzioni. Finora non le ha esercitate. Ai prezzi correnti, il manager italo-canadese avrebbe un guadagno virtuale di oltre 90 milioni.
«Sono diventate una cosa mostruosa, non c'è più un rapporto chiaro fra risultati conseguiti e stock option. Secondo me – ha detto Tremonti – non è giusto darle in questo modo, anche a gente che sta rovinando aziende, e in ogni caso non è giusto fargliele pagare, in termini fiscali, meno di quello che pagano i loro operai sul mercato. Ci vuole una "aliquota della malora", invece».
Nel tabellone, Il Sole 24 Ore ripropone i compensi al lordo delle tasse ricevuti nel 2007 dai primi cento manager di società quotate italiane. Rispetto alle tabelle pubblicate il 29 e 30 marzo 2008, il «pay watch» è aggiornato con i bilanci pubblicati nelle settimane successive. A parte Cerchiari, le altre novità di rilievo sono i 4,89 milioni a Ezio Paolo Reggia, ex amministratore delegato della compagnia di assicurazioni Cattolica. Poi c'è Adolfo Bizzocchi, direttore generale del Credito Emiliano, la banca controllata dalla famiglia Maramotti, 249 milioni di utile netto consolidato nel 2007: ha ricevuto 4,725 milioni lordi, quasi il quadruplo del 2006, è ventiduesimo. Guadagna più di Corrado Passera, il quale con 3,52 milioni è indietro di dieci posizioni.
Il manager con lo stipendio ordinario più alto è Alessandro Profumo, concorrente principe di Passera. L'amministratore delegato di Unicredit ha ricevuto un aumento del 39,7% a 9,427 milioni ed è settimo. Ha inoltre ricevuto 575mila azioni gratuite della banca, che all'epoca quotavano 6,812 euro: il pacchetto, che Profumo non ha però venduto, valeva 3,92 milioni. Comprendendo le azioni gratuite, i compensi di Profumo salirebbero a 13,35 milioni, quasi quanto i numeri uno della Deutsche Bank Josef Ackermann (13,98 milioni) o del Credit Suisse, Brady Dougan (13,59 milioni in euro).
Gli uomini d'oro del 2007 restano i manager che hanno incassato superliquidazioni o premi speciali. In testa il giovane banchiere Matteo Arpe, ora 44enne, che ha incassato 37,4 milioni lordi grazie alla superbuonuscita all'addio da Capitalia. Lo segue l'ex presidente Cesare Geronzi, con 24 milioni. Terzo l'ex a.d. di Telecom Italia Riccardo Ruggiero, con 17,277 milioni. Poi l'ex Telecom Carlo Buora (11,94 milioni), il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, con 11,56 milioni, quindi Gabriele Galateri di Genola, con 11 milioni ricevuti all'uscita di Mediobanca.

Superliquidazioni e premi hanno gonfiato le retribuzioni dei top manager. I primi 100 hanno ricevuto nel complesso 403 milioni, il 17% in più dei primi cento del 2006 (344 milioni). L'incremento è circa otto volte il tasso d'inflazione, mentre l'indice Mibtel di Borsa è diminuito del 7,8 per cento. In teoria, si potrebbe dire che i primi cento manager hanno uno stipendio medio di 4 milioni, contro i 3,4 milioni del 2006. In realtà, il grosso del guadagno, un quarto del totale, è per i primi cinque, con 102 milioni contro i 61,6 milioni del 2006. Dal sesto al decimo nel 2007 c'è un guadagno di 42,8 milioni, contro i 35 milioni del 2006. I primi cinquanta del 2007 hanno ricevuto 305 milioni, il 23,3% in più del 2006 (247,4 milioni). Il secondo blocco di cinquanta manager è stabile a 98 milioni.
Ci sono 71 dirigenti con almeno due milioni lordi di compensi, come nel 2006. Sono 25 quelli con oltre quattro milioni (21 nel 2006). A metà classifica il patron dell'Inter, Massimo Moratti (2,62 milioni, quasi tutti dalla Saras). Ultimo tra i cento è Pietro Giuliani, a.d. di Azimut Holding, con 1,49 milioni.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore


 

 

 

Allarme Italia: redditi crollano -13%

28 Maggio 2008 11:25 ROMA - di Corriere della Sera
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In sei anni il reddito per abitante degli italiani crolla del 13% rispetto alla media europea: se nel 2000 era del 4% più alto della media dell’Unione, nel 2006 è crollato a oltre 8 punti sotto la media. Lo afferma l’Istat nel Rapporto 2007 presentato questa mattina alla Camera.
Tra il 1995 e il 2006 le retribuzioni orarie reali aumentano in totale solo del 4,7%, un incremento decisamente inferiore a quello registrato in altri paesi europei. Se infatti per un ristretto numero di paesi (oltre all’Italia anche Spagna, Paesi Bassi e Germania) le retribuzioni aumentano in misura molto contenuta, in altri, in particolar modo in Francia e Svezia, la crescita è di cinque o sei volte più consistente.
L’origine degli scarsi aumenti dei redditi degli italiani, spiega l’Istat, è da ricercare nella crisi della produttività dell’economia, che ha frenato la crescita pro capite in Italia mentre gli altri paesi hanno continuato a crescere. Tra il 1995 e il 2006, infatti, la produttività italiana è aumentata di appena il 4,7% (una crescita esattamente uguale a quella delle retribuzioni), incremento di poco superiore a quello registrato in Spagna (4,3%), mentre la media dell’Unione europea segna una crescita del 18%.
FAMIGLIE IN CRISI - 14,6% delle famiglie italiane arriva «con molta difficoltà alla fine del mese», il 28,4% non riesce a far fronte a una spesa imprevista di circa 600 euro e il 66,1% dichiara di non riuscire a mettere da parte risparmi. È quanto emerge dal rapporto annuale dell'Istat che, in base ai dati 2006 (gli ultimi disponibili), sottolinea come la percentuale di famiglie che trova difficile sbarcare il lunario ogni mese sia aumentata anche al Nord (10,7% contro il 9,9% dell'anno prima), area dove i redditi sono in media più alti che nelle altre zone del Paese.
Nel rapporto sono evidenziati anche altri segnali di «disagio» e «deprivazione»: il 6,2% ritiene di non potersi permettere un'alimentazione adeguata, il 10,4% un sufficiente riscaldamento per l'abitazione e il 38,7% una settimana di vacanza all'anno. Inoltre il 61,1% delle famiglie che pagano un mutuo considera pesante il relativo carico finanziario e la metà degli affittuari giudica onerose le spese per l'affitto. Sul lato dei redditi, il rapporto evidenzia peraltro che il reddito netto delle famiglie italiane era nel 2005 pari in media a 2.300 euro al mese. Tuttavia la metà dei nuclei familiari ha guadaganto tre anni fa meno di 1.900 euro al mese.
«INTERVENTI ENERGICI» - Per rilanciare l’economia italiana sono necessari «interventi energici» su consumi e investimenti, ma per il futuro c’è «prudente ottimismo». Lo ha affermato il presidente dell’Istat, Luigi Biggeri, presentando il Rapporto annuale 2007 alla Camera.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

Italia, Draghi: economia debole, serve impegno di tutti

28 Maggio 2008 11:25 ROMA - di Luca Trogni

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L'Italia deve tornare a crescere e in modo duraturo. Per questo occorre un'azione di tutte le forze di cui dispone il paese. Al governo, di cui si apprezza l'intenzione di presentare entro giugno un piano triennale sulla finanza pubblica, si chiede di agire sulla spesa primaria e di creare un quadro di riferimento - dall'efficienza della pubblica amministrazione alla qualità della scuola, dai tempi della giustizia all'adeguamento delle infrastrutture - che aiuti a sciogliere, dopo più di 10 anni, il nodo della produttività. E' questo l'invito che giunge dalle terze considerazini finali presentate stamane all'assemblea di Bankitalia dal governatore, Mario Draghi. Il punto di partenza tratteggiato da Bankitalia è problematico. La fase di debolezza ciclica dell'economia italiana, spiega il governatore, si protrarrà almeno per tutto l'anno in corso. La spesa della famiglie è frenata dalla scarsa progressione del reddito disponibile e dal rialzo dei prezzi che negli ultimi mesi ha colpito soprattutto quelle a reddito più basso. Ma nello stesso tempo il governo non può rinunciare ai suoi obiettivi di finanza pubblica, in primis la continuazione del percorso di riduzione del rapporto debito/pil e il pareggio di bilancio nel 2011. OK A PIANO TRIENNALE ENTRO GIUGNO In questo quadro complesso Draghi spinge il governo a prendere misure su base pluriennale, plaudendo all'intenzione "di definire in tempi brevi l'insieme degli interventi da attuare nel prossimo triennio" perchè "può rendere più organica l'azione di bilancio e facilitare il raggiungimento del pareggio nel 2011".

Il governatore, che non si esprime sull'abolizione dell'Ici, approva anche esplicitamente la scelta di detassare gli straordinari e il recente accordo tra governo e Abi sulla rinegoziazione dei mutui a tasso variabile. "L'alleggerimento del prelievo sulle parti delle retribuzioni più connesse con la produttività può avere su questa riflessi positivi consentendo un migliore utilizzo degli impianti e incentivando la contrattazione salariale a premiare gli aumenti di efficienza" scrive. In materia di sostegno a una domanda interna molto modesta l'appoggio di Bankitalia è "alla definizione di un percorso pluriennale di riduzione di alcune importanti aliquote d'imposta" che "migliorerebbe le aspettative di famiglie e imprese" con la concentrazione degli sgravi fiscali "laddove possono dare maggiore sostegno alla crescita, riducendo le distorsioni dell'attività economica". Tenendo conto che, per conseguire il target del pareggio di bilancio al 2011 confermato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti, occorre, di fronte a un calo della pressione fiscale dal 43,3 al 40%, ridurre la spesa primaria corrente dell'1% annuo. Sulla maggiore voce di spesa, quella previdenziale, Bankitalia ritiene necessario nel medio-lungo termine un nuovo aumento dell'età media di pensionamento, accompagnato da un convinto sviluppo della previdenza complementare.

Gli spazi per contenere le uscite nell'ambito della pubblica ammimistrazione non mancano, ricorda il governatore, a ridosso della presentazione del piano per la PA del governo che prevede di liberare risorse per 40 miliardi di euro in 3/5 anni. "Possono concorrervi iniziative per razionalizzare la presenza delle amministrazioni statali sul territorio, responsabilizzare i dirigenti e introdurre sistemi di valutazione volti a premiare i dipendenti piùù meritevoli" afferma Bankitalia. Draghi chiede poi, ancora una volta, "di portare la scuola e l'università all'altezza di un Paese avanzato; di adeguare le infrastrutture; di assicurare nei fatti la certezza e l'efficacia del diritto, semplificando il quadro legislativo e facendo funzionare la macchina della giustizia; di garantire ovunque legalità e sicurezza". L'Italia, spiega il governatore nelle ultime righe del suo intervento, "ha una storia a testimoniare che non c'è niente di ineluttabile nella crisi di crescita che da anni lo paralizza". Ma a patto di non infrangersi "nell'urto con gli interessi costituiti che negli ultimi anni hanno scritto il nostro impoverimento".

 

Fonte - Reuters

 
 

 

 

LA FRUSTA DI DRAGHI, I DOVERI DI TREMONTI

31 Maggio 2008 11:31 ROMA - di Massimo Giannini
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"FORTE preoccupazione". Oggi toccherà a Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, lanciare l'allarme sull'inflazione che è tornata a "minacciare il mondo", come avverte l'Economist. "Una miscela esplosiva", la chiama oggi Guglielmo Epifani. "Una malattia mortale", la definiva nell'82 Milton Friedman. Hanno ragione tutti. Ma in questo coro inquieto manca solo una voce: quella del governo.
Questa inflazione è diversa da tutte le altre che in questi decenni ci eravamo abituati a conoscere. Il fenomeno è così esteso, e così perverso, che non si presta a facili demagogie né a banali semplificazioni. Il carovita è una "calamità morale", secondo la felice definizione di Geofrey Howe, già cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà britannica.
Oggi è soprattutto una "calamità mondiale". Il tasso medio d'inflazione, nel pianeta, è aumentato del 5,5 per cento, il livello più alto degli ultimi dieci anni, sospinto dal boom dei prezzi del petrolio e delle materie prime. È un flagello ovunque, non solo negli Stati Uniti e in Europa, che ne importano ormai a piene mani dalle altre aree del globo.
In Paesi come Cina, India, Indonesia e Arabia Saudita i prezzi sono cresciuti tra l'8 e il 10 per cento nell'ultimo anno. In Russia del 14 per cento, in Argentina del 23 per cento, in Venezuela addirittura del 29 per cento. Nell'Egitto povero scoppiano le rivolte della farina, nella Cina emergente dilaga la protesta del riso, nella Francia ricca esplode la battaglia del carburante. Si salvi chi può. Ma nessuno si senta escluso da questa nuova minaccia che globalizza tutto, la ricchezza e la miseria, l'abbondanza e la carestia, i profitti e le perdite.
L'intera Europa patisce la morsa del carovita. Lo ha già detto il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, lo ripeterà oggi il governatore di Bankitalia Draghi nelle sue "Considerazioni finali". In Eurolandia, di fronte a un obiettivo di inflazione fissato al 2 per cento per il 2008, ci troviamo a fare i conti con un tasso medio del 3,6 per cento. Con picchi che superano il 5 per cento, come in Spagna.
Eppure l'Italia, con il suo 3,6 per cento di maggio perfettamente in linea con la media Ue, soffre più di tutti gli altri partner. Da dodici anni il nostro Paese non registrava un aumento dei prezzi così alto. Nessuno ricordava un'impennata così incontrollabile dei prezzi del pane e della pasta. Nessuno ricordava un'escalation così inarrestabile delle tariffe, delle bollette dell'elettricità, dell'acqua, del gas. E in pochi, forse, ricordavano una rincorsa tanto folle tra il costo della benzina e quello del diesel.
Questa acuta "sofferenza italiana" non cade dal cielo. Sta nel micidiale combinato disposto dei prezzi effettivi in aumento esponenziale e dei salari reali in caduta libera. Se metà delle famiglie italiane vive con 1.900 euro al mese, e se un litro di latte schizza a oltre 1,60 euro (moltiplicandosi per 4 nel passaggio dalla stalla al negozio) o un litro di gasolio sfonda quota 1,50 euro (aumentando del 21,1 per cento in un anno al lordo delle imposte) c'è poco da discutere di ripresa dell'economia e di rilancio della domanda interna.
C'è solo da temere che la crisi della "quarta settimana", prima o poi, si accorci alla terza. Che la flessione dei consumi, prima o poi, precipiti il Paese in una dolorosa stagflazione. Che l'erosione dei redditi, prima o poi, allarghi oltre misura il perimetro sociale e il disagio esistenziale dei "penultimi".
È la "miscela esplosiva" di cui parla il leader della Cgil. È il motivo della "forte preoccupazione" che il governatore esprimerà oggi a Palazzo Koch. Ma tutto questo chiama in causa il governo. Mai come oggi, di fronte allo spettro dell'inflazione, il centrodestra al potere farebbe bene ad ascoltare le prediche di Draghi, che ancora una volta corrono il rischio di apparire einaudianamente "inutili".
La leva della politica monetaria, che con la gestione dei tassi d'interesse può orientare le aspettative dei mercati, non è più nelle mani della Banca d'Italia ma della Bce. E la Banca centrale europea, a dispetto dei troppi attacchi politici che si è meritata in questi anni, ha fatto e sta facendo fino in fondo il suo dovere. Ci dev'essere un motivo se l'Eurotower è additata a modello perfino per la mitica Federal Reserve, come riconoscono gli osservatori più critici (dal Financial Times al Wall Street Journal) e i politici più onesti (dal commissario Ue Almunia al ministro dell'economia francese).
Vigilanza sui mercati, nella filiera che va dal produttore al consumatore. Interventi fiscali su prezzi di beni specifici e tariffe non più amministrate. Iniezioni massicce di liberalizzazione nei settori protetti. C'è un'area vastissima di misure possibili, che il governo può e deve fare. Senza cadere nelle tentazioni dirigistiche. Ma senza tollerare le speculazioni mercatistiche.
Giulio Tremonti ama ripetere un leitmotiv: "L'economia la fa l'economia, non la fanno i governi". Ha ragione solo in parte. Il ministro del Tesoro sa meglio di chiunque altro che, per sconfiggere la paura e ridare la speranza a un popolo sfibrato e impoverito, non basta cancellare un pezzo di Ici o detassare una modesta quota dello straordinario. Serve una politica, consapevole dei suoi doveri e capace di riaffermare i suoi primati. Lo ha scritto lui stesso, nel suo ultimo, fortunato bestseller. E noi lo prendiamo in parola. Non si può usare il colbertismo sull'Alitalia, e il determinismo sull'inflazione.
 

Fonte - La Repubblica