|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
In
tempi di crisi
affidatevi al Guru
02/05/2008 11.07 -
di Marco Caprotti
________________________________________
“La ragione più stupida per comprare
un titolo è che il suo prezzo stia salendo”. Se la frase vi lascia
perplessi, sappiate che è stata pronunciata da Warren Buffett,
l’uomo che ha trasformato la Berkshire Hathaway da azienda tessile
sull’orlo del fallimento in una holding da 200 miliardi di dollari
le cui azioni negli ultimi 12 mesi, in piena crisi dei subprime e
con l’America in recessione, hanno guadagnato il 22%, stracciando
per l’ennesima volta l’S&P500. La società guidata dal guru di Omaha
(come viene soprannominato dagli investitori), secondo gli analisti
oggi ha disposizione 40 miliardi di dollari da utilizzare per fare
acquisizioni.
Buffet ha mandato a memoria la lezione di Fred Schwed che, negli
anni 40 nella sua bibbia degli investitori Where are the Customers’
Yachts? scriveva: “Quando il mercato azionario è in fase di boom,
prendi tutti i tuoi titoli, vendili e acquista obbligazioni. Senza
dubbio le azioni saliranno ancora. Non farci caso: aspetta il crollo
che prima o poi arriverà. Quando questo crollo diventerà una
catastrofe, vendi i bond e compra equity. Senza dubbio le azioni
andranno ancora più a fondo. Anche questa volta non farci caso.
Aspetta il prossimo boom. Continua con questa strategia per tutta la
vita e avrai il piacere di morire ricco”.
Secondo Schwed, la storia dei mercati finanziari mostra che questa
strategia, se fosse stata applicata, avrebbe sempre funzionato
splendidamente. Il problema, aggiunge, sono le difficoltà
psicologiche: bisogna comprare obbligazioni quando non sono popolari
e acquistare azioni quando tutte le detestano. La domanda, a questo
punto, è spontanea: se è così facile perché non lo fanno tutti? La
risposta la dà Buffet che, in questo weekend, terrà l’assemblea
degli azionisti di Berkshire Hathaway (un appuntamento seguito dai
gestori di fondi di tutto il mondo per cercare di avere consigli dal
Guru): è questione di carattere e di saper imparare dal passato.
Il primo suggerimento di Buffett è quello di isolarsi da tutte le
informazioni che bombardano gli investitori. “Non fanno altro che
aumentare la paura di perdere quello per cui si è lavorato
duramente”, spiega Justin Fuller, strategist di Morningstar. “Invece
che andare a giocare a golf o in vacanza, un investitore che in
altre circostanze sarebbe paziente si mette a fare trading. Nella
maggior parte dei casi con la strategia sbagliata”. Il rischio è
ancora più alto oggi in cui le previsioni arrivano oltre che dai
giornali specializzati, anche dalla televisione, dalla radio e da
Internet. Una massa di informazioni, spesso contraddittorie, che
confondono l’investitore medio. “Meglio spegnere tutto e ripassare
più tardi”, dice Buffett.
Il secondo consiglio del Guru è di tornare ai fondamentali
dell’economia. Investire significa, di fatto, seguire il principio
della domanda e dell’offerta. Leggendo Schwed con questi occhiali si
vede che consiglia di acquistare quegli asset per i quali c’è una
grande offerta (grazie alla scarsità di domanda) e di vendere quelli
per i quali c’è una maggiore richiesta (o una domanda maggiore). “Un
investitore, normalmente per capire il rapporto fra domanda e
offerta utilizza il multiplo del rapporto fra prezzo e utili”,
spiega Fuller. “Ma è importante ricordare che si tratta di un
indicatore degli squilibri esistenti sul mercato fra la domanda e
l’offerta”.
Il terzo suggerimento di Buffett è quello di tenere a mente che il
tempo è sempre dalla parte dell’investitore privato (per inciso, lui
ha 77 anni). Anche in questo caso il fondamento è la teoria di Schwed, secondo cui l’investimento è un gioco a risultato zero. La
ricchezza viene trasferita di periodo in periodo, spinta dai momenti
di equilibrio fra domanda e offerta. In questi movimenti il tempo
diventa un fattore cruciale. “E’ vero che i grandi gestori hanno
informazioni migliori e maggiori fondi a loro disposizione rispetto
ai piccoli investitori e possono sfruttare le inefficienze del
mercato” dice Fuller. “Ma i primi devono fare i conti con le attese
e le esigenze, anche di breve termine, dei loro clienti. Il privato,
invece, non deve giustificarsi che con se stesso. Se ci pensate, è
un vantaggio non da poco”.
 |
Fonte
-
MorningStar.it |
Finanziari al bivio:
fiammata o vera ripresa?
05/05/2008 15.39 - di
Sara Silano ______________________________________________
Il mercato avrà anche
paura dei subprime, ma chi investe nel comparto finanziario
sembra non preoccuparsene più di tanto. L’indice Msci del
settore nell’ultimo mese (fino al 5 maggio) ha guadagnato
quasi il 4,4%. Nonostante la tempesta scatenata dai mutui
americani di scarsa qualità e la recessione Usa che rischia
di far rallentare tutto il mondo, quindi, gli operatori sono
tornati ad acquistare titoli di banche e assicurazioni.
“Una parte del merito va alla Federal Reserve che ha
lavorato sodo, attraverso presiti agli istituti finanziari e
tagli dei tassi per riallacciare i rapporti fra le società e
gli investitori”, spiega Bill Bergman, analista di
Morningstar. “Non dimentichiamoci però che la Fed è una
delle responsabili principali della situazione che sta
cercando di risolvere”. Il punto, secondo l’esperto, è che
non bisogna fidarsi troppo delle mosse della banca centrale
americana. “Le iniezioni di liquidità e gli allentamenti
della politica monetaria, da soli non bastano a giustificare
una ripresa sostenibile del comparto finanziario”, continua
Bergman. “Soprattutto in un momento in cui gli Usa fanno i
conti con la recessione e la crisi del mattone, in Europa
c’è uno scenario di inflazione crescente e l’Asia è
preoccupata per quello che sta succedendo nelle altre due
macroregioni”. Tutti elementi che fanno sentire i loro
effetti soprattutto sui bilanci di banche e assicurazioni.
Secondo gli analisti interpellati da Bloomberg Fannie Mae e
Freddie Mac (i più grandi gruppi americani di erogazione
mutui) chiuderanno in perdita il terzo trimestre
consecutivo. Le due società (controllate dal governo degli
Stati Uniti) possiedono o garantiscono il 40% degli oltre
12mila miliardi di prestiti per l’acquisto della casa
erogati negli Usa. C’è anche chi ha approfittato della crisi
per fare un po’ di ristrutturazioni. Il colosso svizzero Ubs
sta per mandare una lettera di licenziamento ad almeno 3mila
impiegati. L’istituto elvetico per far fronte alla crisi dei
subprime, ha dovuto svalutare (e quindi segnare come
perdite) 12 miliardi di franchi svizzeri (7,4 miliardi di
euro): un record per una banca europea.
Chi sta comprando titoli finanziari adesso, quindi, rischia
di restare con il cerino in mano? “Tutto dipende
dall’orizzonte temporale dell’investitore”, risponde
Bergman. “Nel breve termine il comparto finanziario sarà
ancora debole. Soprattutto se dovessero venire fuori altre
cattive notizie sul fronte dei subprime. Chi ha obiettivi a
lunga scadenza – cinque o 10 anni – può invece già mettersi
a caccia di buoni affari, cercando di non farsi prendere dal
panico quando ci saranno picchi di volatilità”.
Fonte
-
MorningStar.it
|
Finanza,
il punto sui vari catastrofismi
05 Maggio 2008 00:53 MODENA -
di Giovanni Zibordi
________________________________________
In estrema sintesi penserei che tra
qualche mese inizierà una crisi molto, molto grossa, ma bisogna fare
una premessa perchè non c'è niente di più facile al mondo che fare
il catastrofista a buon mercato.
I profeti di sventura in genere hanno torto e bisogna stare molto
attenti a non farsi trascinare su questa strada del catastrofismo
che ignora come poi milioni di individui reagiscano alle difficoltà
e alle crisi in tanti modi "microeconomici" che non vengono notati
dai media e dagli esperti che si fissano sulla "macroeconomia". Io
non sono nato pessimista e catastrofista, mi danno istintivamente
fastidio quelli che oggi vanno di moda come Grillo o Blondet che
vengono citati qui sul forum per i quali al mondo non va mai bene
niente. Anzi in questo sito ho in pratica rotto con diverse persone
all'inizio proprio perchè ero l'ottimista filo-americano e fiducioso
nel mercato e nell'economia globale.
Quando ho cominciato intorno al 2001-2002 in un periodo di borse in
crisi, 11 Settembre, Enron, Argentina... sono rimasto spiazzato
dalla quantità di interventi catastrofisti sul Forum (ricordo per
chi c'era "michelino" "lu.luke" "noir" "usemlab" "rael" e altri che
poi sono scomparsi) e ho reagito, forse anche per la coloritura
politica che molti davano, sostenendo invece che non era la fine del
mondo quando lo S&P500 da 1.500 era sceso a 1.100, poi 1.000 poi 900
fino a 780 punti e anzi un occasione per comprare, che la politica
della FED di tagliare i tassi e di Bush di espansione fiscale
avrebbe funzionato, che il sistema non era marcio e alla frutta come
la maggioranza diceva e che sia l'economia che le borse si sarebbero
riprese.
Questo per buona parte del 2002 e inizio 2003, cioè nel 2002 il
forum era pieno di interventi che dicevano che c'era troppo debito,
che la bolla del debito era scoppiata ed era la fine.
Da metà 2003
invece come sappiamo è arrivata l'onda di rimbalzo che si è estesa
nel 2004, l'economia si è ripresa nel mondo, la paura del terrorismo
dopo la strage di Madrid e Londra e la stagione dei tagli di teste
in video si è ridotta, non si è più parlato di Bin Laden, si è
cominciato a parlare di Cina, di India, poi di Brasile, Est Europa,
del boom del materie prime, si è parlato di Boom Globale, gli
immobili sono diventati un settore bollente e fino al 2006 io sono
stato contento di aver avuto alla fine complessivamente ragione,
anzi sono rimasto stupito verso metà 2006 che le cose andassero così
bene.
A partire da fine 2006 mentre l'onda di rialzo arrivava in tutto il
mondo e la gente investiva in fondi Vietnam o Cina o India ho
cominciato a leggere molto sui derivati e sul boom immobiliare e del
credito e a scrivere che c'era qualcosa che non andava. A leggere
troppo ci si fa influenzare e si perde il polso del mercato che
continuava a salire per cui a fine 2006 e inizio 2007 ero negativo
mentre le borse salivano e l'entusiasmo diventava generale per
tutto: materie prime, emergenti, Cina, Brasile, small cap italiane,
DAX, fondi immobiliari.
Ho ignorato il fatto che il mercato saliva ai massimi e continuato a
insistere che c'erano troppe cose che non andavano sul lato Cina,
India, Deficit esteri, Boom immobiliare e del Credito,
Globalizzazione e Delocalizzazione, Ingegneria Finanziaria e
Derivati esotici e alla fine ho completamente rovesciato il mio modo
di pensare rispetto alla situazione, vedendo e anticipando una crisi
finanziaria globale stile anni '30 imminente nel mezzo di un boom
generale delle borse e di tutti gli asset.
Da luglio 2007 una crisi finanziaria e bancaria è però
improvvisamente scoppiata e dopo il crac delle borse di gennaio e
dopo i crac di diverse banche e alcune ondate di panico alla fine
anche i giornali ora ne parlano e cominci di nuovo a sentire scenari
catastrofisti come nel 2002.
Da febbraio però ho spiegato che le azioni delle banche centrali
possono guadagnare alcuni mesi di tempo e mi sembra che ci sia ora
una PAUSA in questa crisi, che questo "intermezzo" possa durare fino
ad agosto e che si possa sfruttare tatticamente per fare qualche
soldo comprando azioni.
Ma continuo a scrivere un mucchio di post di tipo
"economico-filosofico" che magari non sembrano molto utili
praticamente per avvertire che a differenza del 2001-2003 ad esempio
questa volta siamo nei guai, questa volta si è rotto qualcosa
veramente a tutti i livelli (vedi qua per una rassegna), che le
famiglie italiane di lavoratori dipendenti in particolare vanno
verso il soffocamento finanziario e questo non è solo un fatto
sociale ma l'ingrediente cruciale su cui si regge tutta la piramide
economica.
Volendo sintetizzare al massimo, a mio avviso da settembre-ottobre
2008, al massimo massimo da gennaio 2009 quando la nuova
amministrazione americana entrerà in funzione, inizierà una crisi
finanziaria globale che si scaricherà in particolare sugli Stati
Uniti e su paesi occidentali deboli come l'Italia e che può dare
conseguenze simili agli anni '30.
 |
Fonte
-
Cobraf.com |
TRE BUONI MOTIVI PER ESSERE ANCORA TORO
06 Maggio 2008 15:19
NEW YORK - di Bernie Schaeffer* ______________________________________________
Gli indicatori che
monitoriamo suggeriscono che il rialzo in atto dal doppio
minimo di gennaio-marzo ha ancora le gambe per proseguire.
Ci sono essere dei sobbalzi lungo il cammino, ma ogni
ripiegamento è da vedersi come opportunità di acquisto. In
particolare ci sono tre indicatori che confortano
nell'essere bullish: l'ISE Sentiment Index, il CBOE Market
Volatility Index (VIX), una serie di livelli tecnici.
Il 10 marzo commentavo il livello raggiunto dalla media a 10
giorni dell'ISEE Call/Put ratio: 117 punti, vale a dire 117
opzioni call comprate rispetto a 100 opzioni put; ad agosto,
l'indicatore raggiunse il medesimo livello, prima di un
rally del 10% dello S&P, e anche il 18 gennaio l'ISEE è
sceso a 118 prima di un rimbalzo del mercato fino agli inizi
di febbraio. Quando ho evidenziato questo indicatore, lo S&P
valeva 1273 punti, il che vuol dire che la borsa è
rimbalzata dell'11% in due mesi. Al momento, la media a 10
giorni si colloca a 166 punti e punta verso l'alto:
l'attuale direzione è positiva per i rialzisti, con il
sentiment negativo che continua a dissiparsi.
Inoltre, può essere una buona idea individuare i precedenti
picchi per scorgere i livelli del mercato dove si è
concentrata una eccessiva euforia: limitatamente ai quattro
estremi più significativi dell'ultimo anno, i valori sono
149 (1° febbraio), 177 (11 dicembre), 223 (10 ottobre) e 231
(20 luglio).
Si può notare come i livelli del Call/Put ratio siano stati
tendenzialmente decrescenti in prossimità di ogni picco del
mercato; ma bisogna anche riconoscere che il quadro tecnico
dello S&P era notevolmente più debole a dicembre e a
febbraio: allora l'indice veniva da massimi decrescenti, e
affrontava la media mobile a 80 settimane, mentre oggi si
trova oltre questa soglia e sui livelli più alti degli
ultimi tre mesi e mezzo. Inoltre, l'indice si colloca al di
sopra della trendline che congiungeva i massimi discendenti
dal picco di ottobre. Per cui in queste condizioni occorre
un call/put ratio decisamente più elevato (forse oltre i 200
punti) per indurre a temere.
Per quanto invece concerne il CBOE Market Volatility Index,
il 7 aprile ho affermato "Incoraggia anche il fatto che il
CBOE Market Volatility Index (VIX) non solo ha chiuso sotto
i 25 punti e la media a 80 giorni, ma è sceso anche sotto la
media a 40 settimane. Dalla fine di aprile 2007, tutti i
ribassi del VIX tranne uno sono stati contenuti da questa
media mobile. L'unico caso di chiusura inferiore è stato a
metà dicembre, quando il VIX chiuse a 18.47. Con la tendenza
ascendente di lungo periodo in procinto di ribaltarsi, è una
buona notizia per i Tori, in quando i rialzi del VIX tendono
a coincidere con i ribassi del mercato".
Il VIX continua a puntare verso il basso, il che è un dato
favorevole per i Tori. Per il quinto venerdì consecutivo, ha
chiuso sotto la media a 40 settimane. Va ricordato che
questo sostegno ha contenuto i pullback della volatilità nel
2007. Trovo interessante che un panel di strategist si
aspetti che la volatilità cresca significativamente nei
prossimi mesi: questo sentiment può avere implicazioni
bullish, tenuto conto anche dell'umore dei media ben
espresso dalle copertine dei periodici degli ultimi mesi.
Fonte -
* Todd Salamone per
Schaefferresearch.com
|
HEDGE FUND: DA QUESTO MOMENTO, ATTENTI AGLI ORSI
08 Maggio 2008 00:14
NEW YORK - di
WSI ______________________________________________
Deutsche Bank ha fatto
sapere, mediante una sua ricera, che i gestori di hedge
funds stanno valutando la possibilita’ di incrementare la
loro esposizione verso i mercati emergenti, dai quali si
aspettano i maggiori rendimenti. Il sentiment generale
comunque e' che rimangono pessimisti nei confronti degli
scenari che si prospettano per il prosieguo dell’anno.
La banca tedesca ha asserito che l’80% degli intervistati si
sono dichiarati bearish per il 2008. Per converso il 40% e’
pronto a scommettere su una ripresa dell’economia nel 2009.
La maggior parte degli operatori prevede che le strategie
"macro", "distressed" e "equity volatility" saranno quelle
di maggiore successo per il 2008, e buona parte di essi
dichiara che incrementera’ la sua allocazione sui mercati
emergenti.
"La previsione che Medio Oriente e Africa saranno le regioni
top performer indica una chiara redistribuzione di capitale
verso i mercati emergenti", ha affermato Sean Capstick,
gestore del fondo Hedge Fund Capital Group. "La ricerca ha
messo in luce che il numero di investitori neofiti e’
crollato del 25%, rendendo dunque il 2008 molto piu’
difficile per i fondi start-up".
Un altro importante fattore e’ costituito dal fatto che per
la prima volta gli hedge fund tendono ad indicare con
maggiore insistenza i sistemi di risk management come
criterio di selezione associato alle peformance in termini
di rendimento. Nonostante le previsioni negative sul
settore, si prevede che i fondi, nel loro complesso,
riusciranno a raccoglier piu’ di $200 miliardi nel corso
dell'anno.
I livelli di liquidta’ nel sistema sono elevati, anche se
questa disponibilita’ di cassa sara’ eliminata (cioe’
investita) nei prossimi 12 mesi, suggerendo dunque una
potenziale riallocazione verso il comparto degli hedge fund.
E' interessante notare che il 70% dei fondi attualmente non
fa ricorso alla leva sul proprio portafoglio, il 30% ne fa
invece un uso attivo; il 6% di questi ultimi anche
utilizzando prodotti strutturati. Lo studio e’ stato
condotto a marzo su un campione di 1000 professionisti
facenti parte di oltre 500 hdege fund.
Fonte -
WallStreetItalia.com
|
|
Sabato
17
maggio 2008 |
|
Domenica
18
maggio 2008 |
|
Giovedì 22
maggio 2008 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
Borsa:
la cura FED non salverà il mondo
13 Maggio 2008 00:33 ROMA -
di Marcello De Cecco
________________________________________
E’ stato scritto su alcuni giornali
che l’intervento di Bernanke a salvataggio della Bear Stearns ha
ottenuto effetti positivi: da marzo i listini sono saliti del 10%
negli Usa e del 12 in Europa, i rendimenti delle obbligazioni si
sono dimezzati, il rischio di paesi come l’Italia si è
ridimensionato. Le azioni immobiliari sono cresciute del 21%.
Grosso risultato, non c’è che dire. A suo tempo criticai insieme a
commentatori molto più autorevoli di me le misure, perché
beneficavano gli azionisti di Bear Stearns in modo ingiustificato e
mettevano una pezza sui problemi strutturali che hanno causato la
crisi riverberatasi dagli Usa sul resto del mondo.
Gli stessi giornali rilevavano tuttavia che due fattori di criticità
rimangono dopo gli interventi di Bernanke: il prezzo del petrolio
che continua a salire imperturbabile, e il tasso Libor, che è
restato assai alto rispetto ai tassi a breve della Fed.
Cominciamo dal tasso Libor: è parecchio superiore ai tassi ai quali
la banca centrale americana effettua i suoi prestiti a breve, perché
gli utilizzatori del mercato sul quale il Libor si forma sono gli
intermediari tramite i quali sono passati in questi anni ruggenti
enormi quantità di mutui immobiliari, rivenduti da coloro che li
avevano concessi alla clientela subprime degli Stati Uniti, dopo
essere stati impacchettati in confezioni tali da ottenere buone o
addirittura ottime valutazioni di rischio dalle società di rating.
Il guaio è che dopo il crollo del mercato dei mutui subprime, gli
intermediari (che sono le prime cinque banche di investimento degli
Stati Uniti) non sono riusciti, come accadeva ai bei tempi di prima
dell’agosto 2007, a rivendere ad investitori finali i pacchetti
degli stessi mutui cartolarizzati dai loro emittenti, e se li sono
trovati a stazionare nei propri bilanci.
Le banche d’investimento (una delle quali, Bear Stearns, è stata
salvata col denaro pubblico prestato a JP Morgan dalla Fed) si sono
trovate con basi patrimoniali insufficienti a reggere il peso delle
enormi quantità di mutui subprime impacchettati e cartolarizzati che
gli investitori finali rifiutavano e hanno cominciato una corsa
affannosa, che dura tuttora, a rafforzarsi, prendendo a prestito sui
mercati a breve e in tal modo facendo lievitare e tenendo
costantemente al disopra dei tassi Fed il Libor in dollari.
Hanno anche agito sui costi, licenziando grandi quantità di
dipendenti (come fanno in tutte le fasi di congiuntura bassa) e
tagliando molto altro. Ma rifiutano di tagliare le remunerazioni dei
loro dirigenti principali, malgrado gli inviti pressanti a farlo che
da parecchie direzioni vengono. E cercano di non tagliare i
dividendi da distribuire agli azionisti per non deprimere
ulteriormente i corsi di borsa.
Hanno altresì, imitate da altre grandi banche che costituiscono la
loro clientela principale e partecipano così all’enorme mercato dei
mutui subprime, accettato iniezioni di capitale da parte dei
sovereign fund dei paesi che accumulano riserve in dollari.
Ci si
chiede perché questi broker dealer, sangue blu della finanza
mondiale, non scelgano di fruire di prestiti a breve della banca
centrale americana, che li concede a tasso inferiore al Libor.
Il motivo sta nella caduta di reputazione che ciò comporterebbe sui
mercati. E’ un segno palese di debolezza da evitare a tutti i costi,
perché di tali prestiti si avrebbe notizia immediatamente, con nome
e cognome di chi li ha richiesti: una manifestazione di debolezza da
evitare a ogni costo. Gli anni e anche i secoli passano, ma queste
tradizioni restano immutate. Era lo stesso quando le banche d’affari
di Londra erano al centro della finanza mondiale, a fine ottocento.
Il fatto che il Libor resti ancorato a livelli di assoluta emergenza
indica appunto che all’epicentro del sistema finanziario mondiale la
situazione è ancora critica, malgrado gli interventi, del tutto
irrituali e ai limiti della legalità, della Fed.
La criticità dipende dal fatto che la situazione, sui mercati
immobiliari degli Stati Uniti, non ha raggiunto ancora un punto di
equilibrio. I valori delle case sono scesi, ma non abbastanza da
riportarsi ai livelli ai quali erano cinque anni fa, quando la bolla
immobiliare cominciò a gonfiarsi. E proprio da uno studio della Fed
si evince con chiarezza che nel passato e in un gran numero di
paesi, compresi gli Usa, tali prezzi sono invariabilmente tornati ai
valori di partenza. Questo per gli immobili Usa vuol dire diminuire
di prezzo di circa il 20%. Al momento la discesa è stata di circa il
3% a livello nazionale, e si calcola che ciò corrisponda ad una
perdita di valore di circa 450 miliardi di dollari. E’ facile
moltiplicare e vedere a quale somma catastroficamente elevata si
arrivi.
Questi sono i numeri che tolgono i sonni (ma non i soldi) ai capi
delle banche americane e del resto del mondo, in particolare quelle
che hanno fatto da broker alle cartolarizzazioni immobiliari e se ne
sono trovate a un tratto un numero strabiliante immobilizzato nei
loro bilanci, senza la possibilità di rivenderle per l’evaporazione
della liquidità dai mercati di tutte le asset backed securities.
Evidentemente non sono bastati finora a restaurare la situazione in
questo cruciale settore della finanza americana e mondiale né la
politica monetaria della Fed, che continua ad essere espansiva
malgrado le minacce sempre più forti dell’inflazione, né gli
interventi ad hoc della stessa Fed, fatti sfidando la legittimità
statutaria, né le iniezioni di capitale di arabi, cinesi e russi
nelle grandi banche americane ed europee, e nemmeno i tagli da parte
di queste, che già sono costati il posto di lavoro a circa centomila
dipendenti.
Tutto questo si verifica perché la dirigenza politica ed economica
degli Stati Uniti non vuole prendere il toro per le corna,
intervenendo con misure direttamente fiscali per risolvere la crisi
dei mutui subprime alla sua radice. Questo comporta il sostituirsi
dello stato o di qualche sua agenzia ai debitori o la fornitura ad
essi di garanzie statali sui mutui che hanno acceso e che non
riescono a pagare. Tra le soluzioni di mercato bisogna infatti
aggiungere la più classica, l’aumento degli interessi su tutti i
mutui a tasso variabile, che negli Usa sono la maggioranza.
E’ una soluzione deleteria perché non solo aumenta la probabilità di
insolvenza dei debitori, ma provoca la diminuzione del valore degli
immobili sui quali i mutui sono stati accesi. Si calcola che tra
pochi mesi gran parte dei debitori immobiliari americani avrà in
proprietà case che valgono meno del debito su di esse esistente. E
allora le cose cominceranno veramente a precipitare.
Le soluzioni cosiddette fiscali, che coinvolgono direttamente lo
stato e le sue risorse finanziarie, possono essere di molti tipi.
Luigi Spaventa consiglia da qualche tempo di ricorrere a una
versione, adattata al caso dei Brady Bonds, con i quali si uscì
dalla crisi dell’America Latina dei primi anni novanta. Qui basterà
dire che si tratta di una soluzione forse difficile da adeguare,
data la scala gigantesca del problema e il tipo di debitori, che
negli anni novanta erano i governi e gli stati dell’America Latina e
oggi sono privati con scarso merito di credito ed enormi banche di
investimento.
Ma è una soluzione rigorosa e onesta, che fronteggia direttamente il
problema dove esso si presenta. Esattamente come sarebbe una via di
uscita un diretto sussidio, di capitale e interesse, ai debitori
incapienti, fornito dalle casse federali.
Le autorità americane continuano invece (Bernanke lo ha fatto anche
qualche giorno fa) a chiedere riduzioni volontarie di interessi e
capitale ai debitori incapienti da parte delle banche che hanno ad
essi concesso mutui. E a credere che parte della soluzione possa
venire dalla politica monetaria espansiva o da altri interventi ad
hoc nei confronti di istituzioni finanziarie che possano trovarsi in
difficoltà.
Come meravigliarsi, dunque, se il prezzo del petrolio e quelli di
numerose altre materie prime e prodotti agricoli continuano nella
loro folle corsa? Ad alimentarla non ci sono solo motivi strutturali
che riguardano domanda e offerta di tali merci. Questi esistono e,
dopo che ci sono stati ripetuti ogni giorno dai media, dalle
autorità politiche ed economiche e dagli esperti, li conosciamo a
memoria ormai, e credo li conoscano anche i bambini delle
elementari.
Ma queste ragioni strutturali valgono per domanda e offerta dei
consumatori effettivi di tali merci, che possono e forse devono, in
queste circostanze, trasformarsi in incettatori delle medesime, se
pensano di doverle utilizzare anche in futuro nelle stesse quantità
o in quantità maggiori. Ma questa è una scommessa sul livello della
domanda futura, anche in condizioni di offerta strutturalmente
scarsa.
Petrolio e altre materie prime e prodotti alimentari, tuttavia, sono
da decenni trattati su mercati all’ingrosso estremamente ampi ed
organizzati, ai quali hanno libero accesso anche speculatori puri,
che tali merci non producono né consumano.
Questi mercati sono
divenuti da decenni anche mercati finanziari, frequentati da
scommettitori al rialzo o al ribasso. Sono persone e operatori
finanziari istituzionali.
Lord Keynes era uno di loro, negli anni venti e trenta, con alterne
fortune per il suo patrimonio e per quello del suo College. Oggi, a
guardare le reclame dei giornali e di internet, molti intermediari
finanziari offrono prodotti che permettono scommesse sulle merci
primarie ai piccoli risparmiatori, facendo intravedere mirabolanti
guadagni.
Si parla inoltre, negli ambienti appropriati, della presenza in
forze su tali mercati di hedge fund e di grandi speculatori
individuali, e forse anche dei molto poco trasparenti sovereign fund.
Tutti costoro continuano a scommettere al rialzo perché hanno capito
che le autorità americane non hanno intenzione di adottare soluzioni
dirette, dichiaratamente fiscali, per risolvere la crisi del mercato
immobiliare americano e di quello finanziario ad esso collegato.
Sanno, gli scommettitori, che si continuerà a usare la politica
monetaria per iniettare denaro nel sistema, stimolando ulteriormente
la crescita dei prezzi, (ma non quella dei prezzi delle case, per il
peso delle ragioni che abbiamo ricordato).
Sanno dunque che la bolla
del petrolio, delle materie prime e dei prodotti agricoli riceverà
ulteriore alimento dal prolungarsi della moneta facile negli Stati
Uniti e dal persistere del differenziale dei tassi di interesse tra
Stati Uniti e Europa, che spinge verso il basso il dollaro, la
moneta nella quale tutte le materie prime si negoziano.
 |
Fonte
- La
Repubblica |
Le avventure
del Crossover
Tuesday, 13 May, 2008 -
by Charles Dexter Ward ______________________________________________
Cosa sta accadendo nel
mondo del credito a due mesi di distanza dal salvataggio di
Bear Stearns?
Cerchiamo di capirlo osservando l’andamento dell’Itraxx
Crossover, l’indice sintetico che riflette l’andamento degli
spread di 40 derivati di credito “scritti” sul debito di
aziende non investment grade. Il Crossover è balzato agli
onori della cronaca per la prima volta nel luglio dello
scorso anno quando il mercato del credito ha anticipato
violentemente la correzione dei listini azionari mondiali e
l’indice ha raggiunto in un paio di settimane quota 500
punti base, di fatto raddoppiando i livelli precedenti, e
una improvvisa quanto indesiderata popolarità.
Da quel momento si sono accesi i riflettori della stampa e
degli investitori su questo indice il cui andamento sembrava
esser divenuto improvvisamente centrale per i destini del
mondo.
In realtà il movimento di luglio del Crossover nasce
“semplicemente” da una frettolosa corsa alla copertura delle
posizioni di credito strutturato detenute da Hedge Fund ed
Investment Bank, posizioni che fino a quel momento erano
state estremamente profittevoli e che ora, tutto ad un
tratto, erano divenute particolarmente pericolose. La bolla
inizia a sgonfiarsi, il nuovo paradigma del credito sembra
un po’ meno solido di quanto sperato e secondo i critici
tende sempre più ad assomigliare ad uno schema di Ponzi.
Di qui la corsa alla ricerca della copertura dei rischi: ma
il mercato del credito, si sa, non è necessariamente
liquido, e quindi tutta questa domanda di copertura si è
riversata sull’unico strumento “liquido” esistente sul
mercato: il crossover, appunto. Salvo poi scoprire in corsa
che si trattava semplicemente di una prima quanto grossolana
approssimazione, in quanto in gioco erano rischi di natura
qualitativa profondamente diversa: così quando a settembre
la Federal Reserve è intervenuta in maniera decisa sul
livello dei tassi di interesse, il conseguente rally sul
crossover (parallelo al rimbalzo dei mercati azionari) è
stato acuito dalla situazione di ipervenduto che era venuta
a crearsi su questo strumento e il rally si è tramutato in
un vero e proprio short squeeze che ha riportato ad ottobre
lo spread sul crossover sotto i 300 punti base
In questa fase è stato molto più coerente il movimento dei
cash bond, le obbligazioni “in carne ed ossa”, che hanno
fatto registrare dei movimenti molto meno accentuati che,
confrontati con l’elevatissima volatilità dei derivati di
credito ha dato vita ad interessanti opportunità di Basis
Trading, dove per base si fa riferimento al differenziale di
spread che esiste tra il derivato di credito e il bond di
uno stesso emittente.
Il violento allargamento degli spread, per quanto
“erroneamente” acuito nella sua intensità dalla scelta di
usare il crossover come strumento di copertura polivalente
ed onnicomprensivo, ha comunque segnato il punto di inizio
del più ampio trend di allargamento degli spread tutt’ora in
corso, risultato dell’inversione del ciclo del credito, fin
lì assolutamente positivo salvo una brevissima pausa ad
inizio marzo 2007, primo warning di quel che sarebbe
accaduto da li a poco.
Fonte -
Macromonitor
|
Orsi e tori in battaglia.
Ma si naviga a vista
13 Maggio 2008 00:44 MILANO -
di Vincenzo Sciarretta
________________________________________
Interrogate dieci analisti e
otterrete dieci prognosi diverse sulla direzione delle Borse
europee. Si va da chi prevede guadagni del 35% nei prossimi 8 mesi (Ian
Scott di Lehman Brothers), a chi teme flessioni nell’ordine del
5-10% con uno schianto dei profitti (Alain Bokobza di Société
Générale).
È il contrario di ciò che avveniva lo scorso gennaio, quando
l’opinione unanime degli esperti era polarizzata sull’ottimismo.
Basti ricordare che in un sondaggio di allora di Borsa & Finanza, 10
analisti su 11 scommettevano su una Borsa piatta o rialzista e
soltanto uno (Francesco Caruso di Gestione Lombarda) adombrava
l’eventualità di un ribasso. Stesso umore sull’altra sponda
dell’Atlantico. Lì, il settimanale Barron’s registrava la previsione
di 12 guru di chiara fama, secondo cui l’indice S&P500 sarebbe
salito abbondantemente, raggiungendo per fine 2008 obiettivi
collocati fra 1.525 e 1.750 punti (adesso è a quota 1.400 circa).
Non resta dunque che fotografare le opposte diagnosi e tentare
qualche considerazione.
FUOCHI D’ARTIFICIO.
Chi preannuncia nella seconda metà del 2008 i
fuochi d’artificio lega le proprie speranze alle valutazioni
depresse. «Valutazioni fra le più attraenti che la storia azionaria
abbia mai conosciuto», scrive la Lehman Brothers. Questo perché i
multipli sono bassi e i titoli del debito offrono rendimenti troppo
magri per costituire un’alternativa. Gli ottimisti enfatizzano la
grande disponibilità di liquidità che potrebbe sostenere il rialzo
dei corsi.
Dice Kevin Gardiner, stratega del colosso bancario Hsbc: «Se
guardiamo agli Stati Uniti, ci accorgiamo che ben 3.400 miliardi di
dollari riposano nel porto sicuro dei fondi monetari. È una somma
gigantesca. In termini di capitalizzazione, vale il 28% dell’S&P500,
cioè l’identica percentuale del 2003, poco prima che il mercato
azionario decollasse in una cavalcata durata cinque anni». Gardiner
nota pure come il rimbalzo di aprile sia stato accompagnato da una
diminuzione di questa montagna di liquidità soltanto nella misura
del 2 per cento. Di conseguenza, se il pendolo della fiducia
tornasse verso le Borse, il carburante per sostenere una gamba
rialzista certo non mancherebbe.
Andrea Huerkamp di Commerbank richiama l’attenzione sulla politica
della Federal Reserve, che spesso impronta il movimento all’insù o
all’ingiù dei listini occidentali. Afferma Huerkamp: «Quando la
curva dei tassi è così ripida come adesso (con i saggi a breve assai
inferiori a quelli di lungo termine, ndr), la marcia di Wall Street
tende a essere soddisfacente, con effetti positivi sull’altra sponda
dell’Atlantico».
UTILI IN DISCESA.
Gli Orsi guardano con apprensione alla tenuta dei
conti societari. «Rischiamo una grande delusione - commenta Ronan
Carr di Morgan Stanley - perché i margini di profitto sono a livelli
record e un ritorno verso le medie storiche si tradurrebbe nel
crollo degli utili, forse sino al 20 per cento». Parole identiche da
Alain Bokobza di Société Générale: «In base ai nostri calcoli, gli
utili dovrebbero scendere del 19% in due anni per riportare
l'azionario europeo in linea con il suo roe storico».
In parte, questa prospettiva è già scontata nelle quotazioni, sicché
i due esperti non anticipano una Caporetto degli indici continentali
ma la mancanza di spunti rialzisti e la possibilità di una discesa
nell’ordine del 5 per cento. Ulteriori fattori negativi vengono
ascritti alla corsa delle commodity (greggio in testa), e alla
malferma posizione di bilancio nella quale versano le banche
d’affari, che non consente loro di avventurarsi in campagne
d’investimento.
IL QUADRO TECNICO.
Come si vede, le opinioni degli ottimisti sono
solide, ma contraddette da opinioni egualmente circostanziate che
negano le promesse dei primi. Bruno Estier, ex presidente
dell’associazione internazionale degli analisti tecnici, suggerisce
allora di navigare a vista. «L’Eurostoxx 50 - spiega - ha costruito
una base fra 3.500 e 3.800 punti, per poi rompere il limite
superiore di questa banda. Se riesce a consolidare sopra 3.800 punti
ha buone chance di spingersi verso 4.080. Dopo occorrerà rivalutare
la situazione».
Dai ragionamenti degli esperti è infine lecito distillare qualche
imbeccata specifica. Per esempio, il 2008 sarà forse l’anno in cui
Wall Street si prenderà la rivincita sui listini europei. Da inizio
2003, l’indice Msci Europe è salito in dollari del 173%, mentre la
controparte Usa di un meno eclatante 75 per cento. Gli analisti
pensano che il divario tenderà ad assottigliarsi nel 2008, magari
per il rimbalzo del biglietto verde o magari per la migliore
performance di Wall Street. Spostando l’attenzione sui comparti, si
riscontra un buon apprezzamento per i settori petroliferi, delle
utility e delle risorse di base, complice la forza schiacciatutto
del barile.
 |
Fonte
- Borsa&Finanza |
|
Mercoledì 21
maggio 2008 |
|
Venerdì 23
maggio 2008 |
|
Giovedì 29
maggio 2008 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
Sell in May and go
away ? MANCO PER NIENTE
14 Maggio 2008 02:00
NEW YORK - di Louis Navellier ______________________________________________
Esistono cinque ordini
di ragioni che, secondo gli analisti, dovrebbero confutare
la regola del "Sell in may and go away" (a maggio, vendi e
vattene in vacanza). Almeno per quest’anno.
1) Innanzitutto, giacchè l’anno è iniziato nel peggiore dei
modi e trader e broker sull'azionario non hanno, fino ad
oggi, guadagnato un granche' (piuttosto, in molti hanno
perso soldi), non si capisce perche' debbano andarsene in
vacanza a maggio. Qualcosa ci dice anzi che dovranno
lavorare duro, quest'estate.
2) La seconda motivazione è relativa all’oceano di liquidità
in cui navigano i fondi di investimento. Le attività in
strumenti di gestione della liquidità sono cresciute a
dismisura, raggiungendo il livello insolitamente alto del
26.2% delle allocazioni totali. Naturalmente, si tratta di
una contingenza: gran parte di questa massa di cash in
parcheggio, potra' essere presto dirottata sul mercato
azionario. Insomma: ci sono ancora ingenti risorse
finanziarie capaci di supportare un rally a Wall Street.
3) Il terzo motivo risiede nell'attuale tendenza tra le
aziende protagoniste del mercato Usa (esclusi i titoli
finanziari) ad attuare piani di riacquisto di azioni
proprie: il che, com'è facile intuire, e' un'operazione che
sostiene il prezzo dei titoli. Il numero di buybacks è oggi
ai massimi degli ultimi 30 anni.
4) Quarto motivo: quando la Federal Reserve si accinge a por
fine a un ciclo di taglio dei tassi di interesse, gli
investitori sanno che e' il momento di comprare. Motivo:
poco dopo l'economia riparte. Semplici verifiche statistiche
ci confermano che i mercati finanziari seguono sempre lo
stessa schema, la storia, insomma, si ripete. Alla fine di
una fase monetaria espansiva e' sempre seguita una ripresa
del mercato azionario. Di qui il rialzo gia' partito a marzo
e aprile.
5) Lo studio del "ciclo delle elezioni presidenziali" ci
informa che il miglior momento per un buy è tendenzialmente
verso la fine di aprile o l’inizio di maggio di un anno in
cui si sceglie il nuovo presidente Usa. I dati analizzati
prendono in considerazione 108 anni di serie storiche dei
prezzi a Wall Street. Si può dunque coscienziosamente
asserire che la regola "Sell in may and go away", non trova
alcun riscontro negli anni della corsa alla Casa Bianca.
Fonte -
Macromonitor
|
Borsa: COME STA
CAMBIANDO IL SENTIMENT
15 Maggio 2008 13:35
SIENA - di MPS Capital Services ______________________________________________
Tassi di interesse: in
area Euro i tassi di mercato sono saliti sulla scia
dell’andamento positivo dei listini azionari. Sul fronte
macro la produzione industriale di marzo per l’intera area
ha registrato un rallentamento a causa del peggioramento del
settore dei beni capitali e beni durevoli. In mattinata il
Pil tedesco del primo trimestre è risultato molto al di
sopra delle attese, registrando una crescita dell’1,5% t/t
dal precedente 0,3%.
Secondo l’istituto di statistica il principale driver è
stato rappresentato dagli investimenti, con un contributo
positivo anche da parte della spesa per consumi. Gli
operatori resteranno in attesa dei dati sul Pil europeo e di
quelli Usa.
Negli Usa tassi di mercato in sensibile rialzo sulla parte
biennale, dopo la chiusura positiva del mercato azionario in
seguito principalmente all’infusione di ottimismo arrivata
dalla pubblicazione della trimestrale di Freddie Mac, la
seconda agenzia sui mutui Usa, che ha riportato una perdita
trimestrale inferiore alle attese mettendo a segno un
recupero giornaliero di oltre il 9%. Allo stesso tempo
Freddie Mac ha anche annunciato un aumento di capitale da
5,5Mld$. La notizia ha innescato l’attesa che il
miglioramento dei conti di Freddie Mac possa tradursi in un
supporto più forte al mercato immobiliare.
Occorre comunque evidenziare come i dati di Freddie Mac
siano stati possibili grazie anche all’adozione di criteri
contabili che hanno consentito l’iscrizione al c.d. livello
3 (il livello cioè degli asset valutati secondo un modello
interno) pari a circa 157Mld$ da 32Mld$ del trimestre
precedente. Nel frattempo un sondaggio effettuato da
Bloomberg ha evidenziato come il 44% della fascia dei
consumatori Usa più ricca (quella con redditi da 100.000$ in
su) abbia dichiarato come il momento attuale sia propizio
per l’acquisto di titoli azionari, indicando come settore di
preferenza quello energetico.
Tali indicazioni potrebbero trovare eco anche
nell’atteggiamento da parte dei gestori nel periodo di
maggior ottimismo indotto dai rimborsi fiscali in corso. Nel
frattempo i dati sull’inflazione di aprile sono risultati
migliori delle attese grazie al calo della componente
energetica e ad un andamento favorevole del comparto
affitti. Nel breve la resistenza si colloca sul decennale a
3,95%.
Valute: Dollaro in deprezzamento verso Euro dopo il
favorevole dato sul Pil tedesco del primo trimestre che ha
riproposto l’ipotesi di tassi fermi della Bce per diversi
mesi. Ieri in un discorso dell’ex capo della Fed Volcker
davanti alla commissione congiunta del congresso, è stata
sottolineata l’importanza di evitare che la svalutazione del
biglietto verde vada fuori controllo. Nel breve il trading
range indicato nei giorni scorsi (1,5370-1,5540) dovrebbe
ancora essere valido con la resistenza di breve che potrebbe
spingersi fino a 1,56. Ieri il rialzo delle borse ha
favorito il deprezzamento dello Yen sia vs Dollaro sia vs
Euro. Verso Dollaro il cross continua a mantenersi al di
sotto dell’area di resistenza 105,50-70. Verso Euro il cross
si colloca poco al di sotto dell’area di resistenza
162,90163,10.
Materie Prime: in calo il prezzo del greggio dopo che le
scorte Usa di distillati nella scorsa settimana sono salite
oltre le attese (1,34Mln barili vs 1Mln previsti). Inoltre
la domanda implicita di carburante è calata del 2,7% a/a.
Nel frattempo l’Iran ieri ha dichiarato che l’Opec si
troverà costretta a ridurre la produzione di greggio di
minore qualità a causa della debole domanda. Negativi i
metalli industriali guidati dal piombo (-2,4%). Deboli anche
i metalli preziosi. Tra gli agricoli in calo il grano
(-3,1%) ai minimi da 6 mesi sulla speculazione che gli
importatori rinvieranno gli acquisti al prossimo mese,
attendendo l’inizio del raccolto negli Usa. Male anche il
riso (-2,8%).
Fonte -
MPS Capital Services
|
Wall Street
sorpassa l'Europa
21/05/2008 09.37 -
di
Sara Silano
________________________________________
Cresce l’ottimismo su Wall Street e
diminuisce sulle Borse europee. I gestori, interpellati da
Morningstar nel sondaggio di maggio sulle previsioni per i prossimi
sei mesi, tracciano due scenari opposti per gli Stati Uniti e il
Vecchio continente, che sono il frutto delle differenti politiche
monetarie delle Banche centrali, dei trend valutari e dello stato
dell’economia.
Europa, peggiora il quadro macro
Da alcuni mesi, i gestori mostrano preoccupazione per la situazione
economica europea. Nell’ultimo sondaggio è quasi unanime il consenso
sul rallentamento in atto (il team di Ing Investment Management
stima una crescita intorno all’1,6% per l’intero 2008 contro il 2,6%
del 2007). La debolezza della congiuntura internazionale, l’euro
forte, il rialzo dei prezzi delle materie prime e le pressioni
salariali riducono i margini delle aziende e potrebbero portare a
una revisione al ribasso degli utili. Secondo alcuni fund manager,
inoltre, i titoli delle Borse europee sono piuttosto cari rispetto
ai concorrenti quotati su altre piazze finanziarie in conseguenza
del rally degli anni scorsi. Per queste ragioni, la percentuale di
ottimisti è scesa dal 34,8% di aprile al 30%, mentre è rimasto
sostanzialmente invariato il numero di pessimisti (30%).
Wall Street fa il pieno di consensi
A maggio, la percentuale di ottimisti sulla Borsa americana è
balzata al 55% dal 43,5% di aprile. Dall’inizio dell’anno, quando
solo un terzo dei gestori stimava un incremento delle quotazioni
oltreoceano, il consenso è gradualmente cresciuto, nonostante le
preoccupazioni legate allo stato dell’economia, alla crisi
creditizia e immobiliare, che influisce negativamente sui consumi
(gli americani si sentono più poveri e meno propensi agli acquisti).
Altri fattori negativi sono i contrastanti dati sull’occupazione e
l’aumento dei prezzi dell’energia. I fund manager sono, però,
convinti che la recessione non durerà a lungo e che il mix di
politiche monetarie e fiscali aggressive possa far ripartire la
locomotiva statunitense. Inoltre, è vero che molte stime di utili
sono state riviste al ribasso, ma la debolezza del dollaro supporta
i profitti delle aziende esportatrici.
Poche note positive nel Sol Levante
Da gennaio, l’indice Nikkei ha perso oltre il 7%, penalizzato da
un’economia che non trova la forza per riprendersi e subisce gli
effetti negativi della persistente deflazione. Il Giappone, inoltre,
non può contare su una politica fiscale favorevole e subisce le
conseguenze della crisi dei consumi in America, uno dei principali
mercati di sbocco per l’export nipponico. Questo scenario contrasta
con le previsioni in miglioramento relative al mercato azionario:
metà dei gestori stima, infatti, un rialzo delle quotazioni nei
prossimi sei mesi (erano il 35% ad aprile), contro il 15% di
pessimisti. I fund manager mettono l’accento sulla forte
sottovalutazione dei titoli; ammoniscono, però, di avere pazienza
perché nel breve il Paese difficilmente riserverà sorprese positive.
L’inflazione paralizza la Bce
La Banca centrale europea (Bce) non smette di ribadire la
preoccupazione per il caro-vita ed è convinta che il tasso rimarrà
sopra il 2% per diversi mesi. Per questa ragione, anche nella
riunione dell’8 maggio ha lasciato il saggio di riferimento
invariato al 4%. Si allontanano le probabilità di un taglio, mentre
si affacciano quelle di una stretta. Quest’ultima ipotesi comincia
ad essere caldeggiata da alcuni economisti e analisti come unica
soluzione possibile se l’inflazione rimarrà ai livelli attuali o
aumenterà. Sulle prossime mosse della Bce, comunque, non c’è
unanimità tra i gestori e non manca chi è convinto
dell’inevitabilità di un taglio come conseguenza del rallentamento
dell’economia. Per queste ragioni, il 42% degli intervistati stima
una stabilità dei prezzi delle obbligazioni nei prossimi sei mesi,
mentre il 38% prevede un incremento. In ogni caso la preferenza è
accordata alla parte breve della curva, meno esposta alle variazioni
dell’inflazione.
Fed verso la fine dei tagli
Negli Stati Uniti, i gestori non escludono un ulteriore taglio dei
tassi, ma vedono la fine della fase di politica monetaria espansiva,
anche perché l’inflazione è in crescita. In generale, i fund manager
vedono poco valore sul mercato obbligazionario americano. Secondo
Teresa Gioffreda, strategist di Bnp Paribas asset management sgr,
“sulla parte breve della curva, i tassi potrebbero continuare a
salire, mentre su quella lunga le valutazioni dei Treasuries
decennali sono un po’ meno tirate che in precedenza, ma rimangano
care”. Nel complesso, il 57% dei gestori prevede una diminuzione dei
prezzi nei prossimi sei mesi, contro il 28% che stima un aumento.
Euro davvero a fine corsa?
La percentuale di gestori che stima un apprezzamento del dollaro
sulla divisa europea è balzata dal 57 al 75% tra aprile e maggio.
Solo il 5% prevede un proseguimento del rally dell’euro. Il
biglietto verde ha beneficiato delle dichiarazioni dei ministri
delle finanze del G7 che hanno espresso il disappunto per la sua
svalutazione. Nelle ultime settimane, la moneta americana ha tentato
più volte di guadagnare terreno, ma ci vorrà ancora un po’ di tempo
perché si creino le condizioni favorevoli a un perdurante recupero.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 7 e il 15 maggio, 21
delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul
territorio, che contano per circa l’75% degli asset gestiti in
Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Anima Sgr, Banca
Ifigest, Banca Profilo, Bnp Paribas Am, Clariden Leu, East Capital,
Eurizon Capital, Fideuram asset management, Henderson Global
Investors, Ing Im, Investitori, JC&Associati, Julius Baer, MC
Gestioni, Mps Am,, Pioneer Im, Sella gestioni, Soprarno Sgr,
Vontobel.
 |
Fonte
- MorningStar.it |
|
giovedì 01
maggio 2008 |
|
Giovedì 08
maggio 2008 |
|
Domenica 11
maggio 2008 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Urge una ricetta
anticrisi
08/05/2008
18.24 -
di
Sara Silano
________________________________________
Giù sempre più giù. Non si arresta l’emorragia dai
fondi. Ad aprile sono usciti 8,4 miliardi di euro che fanno
lievitare i deflussi da inizio anno oltre i 45 miliardi. Nessuna
categoria è stata risparmiata, neppure i monetari, che, al
contrario, nei mesi scorsi, erano stati l’unica nota positiva nei
bilanci delle società di gestione. Ma i più bastonati sono stati
ancora una volta gli obbligazionari, il cui patrimonio nell’ultimo
anno si è ridotto di quasi il 18%. Questi strumenti rimangono,
comunque, quelli che detengono la fetta più ampia dei risparmi
investiti in fondi dagli italiani.
Nonostante sia necessario aspettare la nuova mappa che Assogestioni
presenterà la prossima settimana per avere un quadro complessivo,
comprendente i risultati definitivi dei fondi esteri, è evidente lo
stato di crisi di un’industria che sta cambiando, ma fatica a
risollevarsi. E’ difficile vedere in questa fase di trasformazione,
un vento innovativo che possa cambiarne radicalmente le sorti,
soprattutto per i prodotti domiciliati in Italia.
La razionalizzazione della gamma è frutto del consolidamento
bancario, più che della volontà di eliminare i fondi meno
efficienti. Così le nozze tra Unicredit e Capitalia, Intesa e
Sanpaolo hanno più che dimezzato l’offerta. Lo stesso è successo in
Ubi Pramerica per effetto dell’accorpamento con Capitalgest (Banca
Lombarda) e altre operazioni potrebbero seguire a breve se si
concretizzeranno le aggregazioni già nell’aria.
I fondi di diritto italiano sono scesi sotto quota mille, ritornando
sui livelli del 2000, contro i 1.400 di cinque anni fa. Nel tempo è
peggiorato anche il Rating complessivo. A fine 2004, il 6% dei
comparti italiani aveva cinque stelle, percentuale che oggi si è
dimezzata ed è inferiore a quella di Paesi vicini come la Spagna e
la Francia. Questo non significa che l’eccellenza non esista; al
contrario i vincitori dei Morningstar Funds Awards, che saranno
premiati il 14 maggio al Palacongressi di Rimini, sono la prova più
evidente. Faticano però ad emergere, in un sistema che spinge i
comparti di nuova generazione a discapito dei fondi che nel tempo
hanno dimostrato di creare valore. Con l’aggravante che gli ultimi
arrivati sono sempre più simili ai prodotti strutturati, vanificando
una delle caratteristiche che da sempre distingue questi strumenti:
la semplicità.
Sembra mancare una volontà comune a tutti gli attori del mercato per
uscire dalla crisi. Il tavolo di lavoro promosso dalla Banca
d’Italia, che dovrebbe suggerire una ricetta per guarire l’industria
non è riuscito nelle prime due riunioni a trovare un consenso sulle
possibili soluzioni: si va dai suggerimenti della Consob di quotare
i fondi a quelli di Assogestioni di prevedere benefici fiscali per i
risparmiatori che investono in un’ottica di lungo periodo e di
istituire fondi a basso costo con una certificazione di qualità in
modo da abbattere gli oneri di distribuzione. Esiste, infine, il
delicato nodo degli assetti proprietari delle sgr, molto caro al
governatore Mario Draghi, il quale più volte a sollecitato una
maggior indipendenza. Il prossimo incontro è atteso tra la fine di
maggio e l’inizio di giugno e dovrebbe, nelle intenzioni di
Bankitalia, dettare un piano d’azione. E’ auspicabile che il tutto
non sia ridotto alla sola questione fiscale, che non può da sola
spiegare il declino del settore.
 |
Fonte
- MorningStar.it |
Crisi,
crescita...
e tutto quel che c'é in mezzo
11 Maggio 2008 21:28
MILANO -
di Giuseppe Turani
________________________________________
La crescita italiana può essere, alla fine, più alta di quello che
si ritiene oggi? In termini ancora più chiari: oggi un po´ tutti i
centri internazionali (Fondo monetario in testa) attribuiscono al
nostro paese una crescita 2008 che è grosso modo uguale a zero. Sarà
proprio così o le cose possono andare meglio? In particolare, ha
senso puntare con una certa decisione su una crescita di almeno
l´1%?
Probabilmente sì. Ho visto che sono in aumento i ricercatori che
ritengono non impossibile un simile risultato. E si possono elencare
anche i motivi che rendono l´obiettivo dell´1% non fuori dalla
nostra portata. Essi sono tre:
1) L´industria italiana non è più quella di cinque o sei anni fa. Si
è riorganizzata, è diventata più competitiva e si sta battendo bene
sui mercati stranieri. E´ da quella parte che verranno le sorprese
più interessanti. Qualcosa abbiamo già visto in questi lunghi mesi
di dollaro molto alto: mesi nei quali la nostra media industria non
ha affatto alzato bandiera bianca, ma ha continuato a lavorare a
ritmo molto intenso, esportando soprattutto verso l´Asia e i paesi
dell´Est Europa.
2) Il nuovo governo è entrato in carica e, dopo tutte le promesse
fatte in campagna elettorale, alla fine dovrà fare qualcosa per le
pensioni e i redditi più bassi. Non è facile perché i soldi sono
sempre pochi e la coperta è sempre troppo corta. Ma da parte del
governo qualche aiuto alla congiuntura arriverà (va bene anche
l´abolizione dell´Ici). Non si tratterà di interventi risolutivi, ma
quando si è vicini alla crescita zero, tutto può servire.
3) La carta più grossa, comunque, è forse un´altra. Nei circuiti
finanziari internazionali si comincia a dire che il dollaro basso
dovrebbe avere i giorni contati. Per diverse ragioni. La prima delle
quali è che sta creando un po´ troppi fastidi a tutti (e sta
complicando i rapporti dell´America con il resto del mondo, Europa
in testa). La seconda ragione è che la banca centrale americana ha
finito di tagliare il costo del denaro (e quindi il rendimento) del
dollaro mentre la banca centrale europea potrebbe cominciare a fare
qualche taglio di prova in autunno. Questo dovrebbe portare il
rapporto dollaro-euro verso quota 1,40 piuttosto che 1,50-1,60 come
è stato negli ultimi tempi. E´ evidente che, se dovesse accadere una
cosa del genere, per le nostre imprese verrebbe a crearsi un
rilevante vantaggio. Si tornerebbe a esportare bene anche nell´area
del dollaro.
L´insieme dei tre elementi appena elencati dovrebbe consentire
all´Italia di raggiungere la crescita di almeno l´1%, sfuggendo alla
maledizione della crescita zero. Tutto bene, allora? No.
Per la verità nei cieli dell´economia internazionale ci sono ancora
molte nubi. E un paio di esse sono anche molto grandi e molto scure.
La prima si chiama inflazione. L´aumento dei prezzi non accenna a
fermarsi e questo potrebbe capovolgere lo scenario. Le maggiori
banche centrali, cioè, potrebbero lasciare al suo destino la sorte
della congiuntura e concentrarsi invece sulla lotta all´inflazione,
considerandola primaria (cosa che l´Europa fa già, ma l´America no).
In questo caso il costo del denaro potrebbe tornare a salire e la
congiuntura internazionale potrebbe conoscere qualche altro periodo
molto pesante e molto in frenata.
La seconda ragione per cui le cose potrebbero non andare come si
vorrebbe (e cioè bene) dipende, ancora, dalla crisi del credito con
la quale siamo alle prese da quasi un anno. Si è soliti sentire
(anche da parte di autorità importanti) che ormai il peggio è
passato e che tutto è andato a posto. Insomma, il mondo può
respirare e riprendere la sua vita di sempre.
I mercati finanziari hanno creduto per un po´ a questa storia, ma
adesso cominciano a dubitare. Sospettano, e con ragione, che non
tutto sia proprio a posto. Se le grandi banche sono venute allo
scoperto, e hanno pagato, adesso è il turno delle compagnie di
assicurazioni. Poi toccherà agli hedge funds e infine chissà a chi
altro. I mercati finanziari sono una rete molto lunga e molto
estesa. E quindi è possibile che le conseguenze della crisi del
credito vadano avanti ancora per molto tempo. C´è da sperare nel
contrario, ma essere prudenti non fa male. Si dice, a questo
proposito, che in difficoltà (per ora controllate) ci sarebbe anche
qualche media istituzione finanziaria italiana.
In sostanza il quadro che oggi si presenta ai nostri occhi è il
seguente. Puntare su una crescita dell´1% nel 2008 (a fronte di
un´Europa che andrà sopra l´1,5%) non è insensato e non è fuori
dalla nostra portata. Soprattutto se il governo darà una mano
concreta, con qualche aiuto capace di mettere un po´ di soldi in
tasca ai consumatori.
Solo che non tutto dipende da noi e dalla nostra volontà. Da una
parte l´inflazione e dall´altra qualche "coda" della crisi subprime
possono determinare una situazione di credito scarso. Ma questo
obbligherebbe l´economia (non solo italiana) a girare a velocità
ridotta per mancanza di carburante. E allora il nostro 1%
diventerebbe irraggiungibile, lontanissimo.
 |
Fonte -
La Repubblica |
Un punto PER TREMONTI
16 Maggio 2008 13:11
MILANO - di Riccardo Barenghi ______________________________________________
Bisognava aspettare
Giulio Tremonti per riuscire ad ascoltare qualcosa di
sinistra, o quantomeno di buonsenso progressista da un
ministro dell’Economia.
Eppure il centrosinistra ha governato questo Paese per sette
anni, e di ministri intelligenti, capaci e anche
progressisti ne ha avuti addirittura quattro (Ciampi, Amato,
Visco e Padoa-Schioppa). Ma non è mai successo che uno di
loro dicesse quel che Tremonti ha avuto il coraggio di dire
ancor prima di essere entrato nel pieno delle sue funzioni.
Ossia il coraggio di dire che i sacrifici stavolta toccano
alle banche, ai petrolieri e ai supermanager che guadagnano
cifre da capogiro.
Demagogia, facile populismo, parole al vento alle quali non
seguiranno i fatti? Può darsi, magari il neo responsabile
dei conti pubblici non riuscirà a fare quel che ha detto,
probabilmente le lobby si muoveranno (si stanno già
muovendo) con tutte le loro armate per impedire questo
«esproprio proletario» ai loro danni. Ma intanto Tremonti
l’ha detto, e non è un caso che nel suo mirino siano finiti
due settori (banche e petrolieri) tra i più discussi del
capitalismo. Quelli che fanno soldi con i soldi (degli
altri) o con il bisogno primario di tutti gli italiani di
muoversi, produrre e far muovere le merci. E insieme con
loro, quei grandi gestori delle imprese che, pur non essendo
affatto parassitari, guadagnano cifre poco sostenibili per
l’opinione pubblica.
Ci voleva molto per i ministri dell’altro campo dire una
cosa analoga, dodici anni fa (entrata nell’euro pagata a
caro prezzo da tutti gli italiani), dieci anni fa quando si
trattava di consolidare il rientro dal deficit, otto anni fa
quando bisognava prepararsi alle elezioni del 2001
(perdute). O due anni fa quando le tasse sono invece state
aumentate per tutti (tranne che per le banche e i
petrolieri)? Purtroppo sì, ci voleva molto. Ci voleva uno
sforzo titanico per vincere la paura della propria ombra.
Pensate a quale putiferio si sarebbe scatenato, alle
reazioni violente di tutta l’opposizione (magari anche dello
stesso Tremonti), quelle di molti opinion makers che su
giornali e televisioni si sarebbero indignati contro il
«dirigismo comunista che vuole tarpare le ali al capitalismo
dinamico», che non ha il coraggio di tagliare la spesa
pubblica, di licenziare i fannulloni, che vuole colpire i
ricchi per ragioni ideologiche, e così facendo provoca
recessione e deprime i consumi...
Ma oggi nessuno osa prendersela con Tremonti per queste
stesse ragioni, certo non lo si può accusare di essere un
bolscevico, al massimo un colbertista no global. E allora
applausi e apprezzamenti, finalmente qualcuno che ha il
coraggio di colpire chi non è mai stato colpito. Ce
l’avessero avuto i suoi predecessori di centrosinistra
questo stesso coraggio forse oggi, chissà, Berlusconi non
avrebbe vinto le elezioni. Perché magari alcuni milioni di
elettori che avevano votato per quella parte politica si
sarebbero sentiti rappresentati dai loro eletti e forse,
chissà, anche una parte di quelli del centrodestra, ché pure
loro fanno mutui, pure loro pagano benzina e gasolio sempre
più cari, pure molti di loro non amano chi si arricchisce
senza sforzo.
Invece niente, poche parole, pochissimi fatti (la lotta
all’evasione fiscale ne è forse l’unico esempio), nessuna
suggestione ideale, programmatica, alla fine politica.
Potevano quantomeno provarci e pure se non ci fossero
riusciti sarebbe stato quantomeno apprezzato il tentativo.
Macché, troppo attenti a non farsi sparare addosso,
spasmodicamente sensibili a qualsiasi refolo provenisse da
quei settori del capitalismo che li guardavano con sospetto,
tragicamente tremebondi di fronte a ogni articolo di fondo
uscisse sui giornali, troppo legati psicologicamente al loro
passato per non avere paura che qualcuno glielo ributtasse
addosso. Basti ripensare a cosa è accaduto dopo
quell’infelice e goliardico manifesto di Rifondazione -
«Anche i ricchi piangano» - dentro l’Unione: prese di
distanza, critiche impietose, condanne morali: noi non
vogliamo far piangere nessuno, per carità, ma far ridere
tutti. Invece piansero tutti (tranne le banche e i
petrolieri) e tra una lacrima e l’altra votarono per
Berlusconi (e per Tremonti).
Fonte -
La Stampa
|
MEZZA ITALIA
NON PAGA
16 Maggio 2008 13:31
MILANO - di Vittorio Feltri ______________________________________________
Sapevate che un
contribuente italiano su quattro non paga una lira, pardon,
un euro di tasse? Noi no. Lo abbiamo appreso leggendo una
inchiesta-shock su Panorama dedicata alle denunce dei
redditi cui fu data pubblicità alcune ore, poi intervenne il
garante della privacy e bloccò tutto. E addio trasparenza.
Il regime dell'omertà (figlia della mafia) tornò a dominare.
Ma sono bastate quelle poche ore al settimanale diretto da
Maurizio Belpietro per rendersi conto che il vero fenomeno
degno di essere segnalato non riguarda chi versa il dovuto
al fisco, o almeno qualcosa, bensì chi, per un motivo o un
altro, fa risultare zero nell'ultima colonna del modulo.
Il totale dei poveri autentici o presunti è impressionante:
nove milioni e rotti su quaranta milioni; appunto, uno su
quattro. Molti risiedono nel Mezzogiorno. Panorama osserva
che in effetti esistono parecchie persone con le tasche
vuote. Giusto. Tuttavia aggiungerei che, per quanti
indigenti e miserabili vi siano in giro, non si registrano
da decenni decessi causa inedia. Quindi il reddito zero è
improbabile. Ma calcoliamo pure, con generosità, che la metà
dei portoghesi sia costituita da incapienti mantenuti chissà
da chi. L'altro cinquanta per cento è un esercito di furbi o
meglio malandrini. E non si comprende come riesca a farla
franca.
Viene da ridere o da imprecare ripensando alle
trionfalistiche dichiarazioni del fu presidente del
Consiglio Prodi: questo governo - amava ripetere il premier
prematuramente "scomparso" - ha il vanto di aver condotto
un'aspra lotta all'evasione. Palla colossale. Non lo diciamo
noi ma le cifre: nove milioni di fantasmi fiscali. Tra cui,
oltre a qualche accattone, figurano fior di professionisti -
avvocati, intermediari, affaristi eccetera - addirittura
titolari di un paio di studi avviatissimi, gente meritevole
non solo di essere inchiodata alla croce tributaria ma anche
di essere presa a pedate nei glutei, e che invece mangia
beve e fa il gesto dell'ombrello all'Agenzia delle entrate e
a tutti noi condannati a rispettare ogni maledetta scadenza.
Il ministro Padoa-Schioppa, ricorderete, sosteneva giulivo:
le tasse sono belle. Belle per chi non le paga, forse, e non
si tratta di una esigua minoranza. Ciò che manda in bestia,
ora, è il divieto di divulgazione dei dati. Che se protegge
i redditi alti e medi da inverosimili assalti di malfattori,
protegge anche e soprattutto i mariuoli stanati da Panorama.
I cui nomi e cognomi rimangono segreti al pari di quelli dei
cittadini onesti.
È paradossale che a giovarsi della riservatezza siano pure
gli infedeli contro i quali, viceversa, bisognerebbe
procedere con severità e decisione. Che sarebbe l'unico modo
per ridurre la pressione fiscale complessiva e rilanciare
così l'economia azzoppata.
Fonte -
Libero
|
DOVE TAGLIERA'
TREMONTI
16 Maggio 2008 14:04
ROMA - di Massimo Riva ______________________________________________
Quando esordisce
affermando che non c'è alcun tesoretto nei conti pubblici,
il neoministro Giulio Tremonti non fa altro che ripetere ciò
che da mesi andava già dicendo il suo predecessore, Tommaso
Padoa-Schioppa. Il quale, inascoltato dai più, ha cercato
invano di far ragionare tutti coloro che assediavano le
casse pubbliche sulla svolta negativa in atto nella
congiuntura economica internazionale. In particolare,
richiamando la banale equazione per cui una minore crescita
del Pil 2008 (almeno cinque volte più debole rispetto al
2007) comporterà inevitabilmente una contrazione anche del
gettito fiscale.
Vero è che le cifre sulle entrate tributarie del primo
trimestre di quest'anno segnalano ancora un incremento
significativo (6,8 miliardi) in confronto all'analogo
periodo del 2007. Ma già il fatto che in marzo l'aumento
degli incassi risulti dimezzato indica che la frenata è in
corso e, con ogni probabilità, diventerà ancora più evidente
nella seconda parte dell'anno, quando con i versamenti di
giugno si sarà esaurito anche l'effetto dei pagamenti
definitivi sui redditi maturati nel 2007. Sul fronte
dell'Iva, l'imposta che meglio di altre misura la tonicità
dell'andamento economico, le avvisaglie di flessione sono
già visibili.
Quindi il fatto che Tremonti si allinei in materia a
Padoa-Schioppa è di per sé rassicurante. Solo che così egli
chiude forse un problema, ma ne apre di sicuro un altro. Nel
primo caso, infatti, la negazione dell'esistenza di
tesoretto cui attingere fa ritenere che egli non vorrà dare
facile corso alle richieste dei tanti postulanti, siano essi
i sindacati, le regioni, i comuni o anche i suoi colleghi di
governo. Molto bene, soprattutto se ci riuscirà. Nel secondo
caso, però, resta apertissima un'altra sostanziosa
questione. Il governo Berlusconi intende assumere come sue
prime decisioni - e lo stesso Tremonti lo ha confermato -
l'abrogazione totale dell'Ici sulla prima casa e una
detassazione almeno parziale dei redditi da lavoro
straordinario e da premi di produzione.
Misure che implicano una riduzione del gettito non
indifferente: in 2,5 miliardi è stimato solo il minor
incasso sull'Ici, mentre per gli straordinari si ipotizza
una cifra sul miliardo e mezzo.
Ecco il problema che si spalanca: come e dove, in assenza di
tesoretti, l'ottimo Tremonti troverà i soldi per la
copertura di questo minor gettito, per giunta in una fase di
bassa crescita dell'economia? Certo non basterà spremere
banche e petrolieri: buona regola vorrebbe che il necessario
venisse ricavato da congrui tagli di spesa pubblica.
Tagli, che per essere efficaci, dovrebbero risultare quanto
meno contestuali alla riduzione delle imposte. In modo da
evitare che a fine anno il disavanzo, già oggi previsto
attorno al 2,3-2,4 per cento, torni ad avvicinarsi
pericolosamente a quella soglia del 3 per cento oltre la
quale scatta la procedura d'infrazione da parte dell'Unione
europea, già comminata al precedente governo Berlusconi e
poi rientrata dopo la cura Padoa-Schioppa. Visto che proprio
a quest'ultimo ha voluto allinearsi, ora c'è solo da sperare
che Tremonti voglia farlo fino in fondo.
Fonte -
L'espresso
|
|
Venerdì 16
maggio 2008 |
|
Mercoledì 21
maggio 2008 |
|
Sabato 31
maggio 2008 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Stipendi d'oro
e bilanci in rosso
19 Maggio 2008 16:46 NEW YORK -
di
Il Sole 24 Ore
________________________________________
Superliquidazioni e premi hanno gonfiato le
retribuzioni dei top manager. I primi 100 hanno ricevuto nel
complesso 403 milioni nel 2007. Uno stipendio medio di 4 milioni di
euro. E Tremonti dice...
Drago Cerchiari è stato amministratore delegato della Sorin dal
gennaio 2004 al 24 maggio dell'anno scorso. Per meno di cinque mesi
di lavoro nel 2007 nella società di tecnologie medicali per
cardiochirurgia, Cerchiari ha ricevuto 7,14 milioni di euro lordi.
Cerchiari è un outsider, al decimo posto nel «pay watch» 2007 dei
dirigenti delle società quotate in Borsa, davanti alla coppia che
guida la rimonta della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo e Sergio
Marchionne. Una busta paga sorprendente. Anche perché la Sorin
l'anno scorso ha presentato un bilancio consolidato in rosso per
82,9 milioni, su un valore della produzione di 813 milioni.
Oltre a «emolumenti per la carica» di 153mila euro e a «bonus» di
368mila, Cerchiari ha ricevuto «altri compensi» per 6,62 milioni.
Questa voce – secondo il bilancio – «include indennità speciali di
fine rapporto». Lo stipendio dell'ex a.d. Sorin è difficile da
comprendere.
Come è difficile spiegare per quali ragioni Luigi Zunino, presidente
e amministratore delegato di Risanamento, abbia meritato 4,79
milioni, il 15% in più dell'anno precedente, nonostante il gruppo
immobiliare, di cui possiede il 73%, abbia aumentato le perdite da 9
a 91 milioni. I superstipendi dei manager in Europa, di cui queste
due vicende sono solo un caso estremo, sono ormai nel mirino dei
Governi, dopo l'affondo di Giulio Tremonti e dei ministri finanziari
dell'Ue, nell'Ecofin il 14 maggio.
In campagna elettorale, il 26 marzo, Tremonti ha chiesto una stretta
sulle stock option, gli incentivi in azioni che possono far
guadagnare decine di milioni: il record è di Rosario Bifulco, ex
Lottomatica, con 37,35 milioni di guadagno nel 2006. Nella
classifica dei manager più pagati segue Corrado Passera di Banca
Intesa, con plusvalenze per 35,7 milioni realizzate tra il 2005 e il
2006, tutte reinvestite in titoli della banca. L'a.d. della Fiat,
Marchionne, dispone di 20 milioni di opzioni. Finora non le ha
esercitate. Ai prezzi correnti, il manager italo-canadese avrebbe un
guadagno virtuale di oltre 90 milioni.
«Sono diventate una cosa mostruosa, non c'è più un rapporto chiaro
fra risultati conseguiti e stock option. Secondo me – ha detto
Tremonti – non è giusto darle in questo modo, anche a gente che sta
rovinando aziende, e in ogni caso non è giusto fargliele pagare, in
termini fiscali, meno di quello che pagano i loro operai sul
mercato. Ci vuole una "aliquota della malora", invece».
Nel tabellone, Il Sole 24 Ore ripropone i compensi al lordo delle
tasse ricevuti nel 2007 dai primi cento manager di società quotate
italiane. Rispetto alle tabelle pubblicate il 29 e 30 marzo 2008, il
«pay watch» è aggiornato con i bilanci pubblicati nelle settimane
successive. A parte Cerchiari, le altre novità di rilievo sono i
4,89 milioni a Ezio Paolo Reggia, ex amministratore delegato della
compagnia di assicurazioni Cattolica. Poi c'è Adolfo Bizzocchi,
direttore generale del Credito Emiliano, la banca controllata dalla
famiglia Maramotti, 249 milioni di utile netto consolidato nel 2007:
ha ricevuto 4,725 milioni lordi, quasi il quadruplo del 2006, è
ventiduesimo. Guadagna più di Corrado Passera, il quale con 3,52
milioni è indietro di dieci posizioni.
Il manager con lo stipendio ordinario più alto è Alessandro Profumo,
concorrente principe di Passera. L'amministratore delegato di
Unicredit ha ricevuto un aumento del 39,7% a 9,427 milioni ed è
settimo. Ha inoltre ricevuto 575mila azioni gratuite della banca,
che all'epoca quotavano 6,812 euro: il pacchetto, che Profumo non ha
però venduto, valeva 3,92 milioni. Comprendendo le azioni gratuite,
i compensi di Profumo salirebbero a 13,35 milioni, quasi quanto i
numeri uno della Deutsche Bank Josef Ackermann (13,98 milioni) o del
Credit Suisse, Brady Dougan (13,59 milioni in euro).
Gli uomini d'oro del 2007 restano i manager che hanno incassato
superliquidazioni o premi speciali. In testa il giovane banchiere
Matteo Arpe, ora 44enne, che ha incassato 37,4 milioni lordi grazie
alla superbuonuscita all'addio da Capitalia. Lo segue l'ex
presidente Cesare Geronzi, con 24 milioni. Terzo l'ex a.d. di
Telecom Italia Riccardo Ruggiero, con 17,277 milioni. Poi l'ex
Telecom Carlo Buora (11,94 milioni), il presidente del consiglio di
sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, con 11,56 milioni,
quindi Gabriele Galateri di Genola, con 11 milioni ricevuti
all'uscita di Mediobanca.
Superliquidazioni e premi hanno gonfiato le retribuzioni dei top
manager. I primi 100 hanno ricevuto nel complesso 403 milioni, il
17% in più dei primi cento del 2006 (344 milioni). L'incremento è
circa otto volte il tasso d'inflazione, mentre l'indice Mibtel di
Borsa è diminuito del 7,8 per cento. In teoria, si potrebbe dire che
i primi cento manager hanno uno stipendio medio di 4 milioni, contro
i 3,4 milioni del 2006. In realtà, il grosso del guadagno, un quarto
del totale, è per i primi cinque, con 102 milioni contro i 61,6
milioni del 2006. Dal sesto al decimo nel 2007 c'è un guadagno di
42,8 milioni, contro i 35 milioni del 2006. I primi cinquanta del
2007 hanno ricevuto 305 milioni, il 23,3% in più del 2006 (247,4
milioni). Il secondo blocco di cinquanta manager è stabile a 98
milioni.
Ci sono 71 dirigenti con almeno due milioni lordi di compensi, come
nel 2006. Sono 25 quelli con oltre quattro milioni (21 nel 2006). A
metà classifica il patron dell'Inter, Massimo Moratti (2,62 milioni,
quasi tutti dalla Saras). Ultimo tra i cento è Pietro Giuliani, a.d.
di Azimut Holding, con 1,49 milioni.
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore |
Allarme
Italia: redditi crollano
-13%
28 Maggio 2008 11:25
ROMA - di Corriere della Sera ______________________________________________
In sei anni il reddito
per abitante degli italiani crolla del 13% rispetto alla
media europea: se nel 2000 era del 4% più alto della media
dell’Unione, nel 2006 è crollato a oltre 8 punti sotto la
media. Lo afferma l’Istat nel Rapporto 2007 presentato
questa mattina alla Camera.
Tra il 1995 e il 2006 le retribuzioni orarie reali aumentano
in totale solo del 4,7%, un incremento decisamente inferiore
a quello registrato in altri paesi europei. Se infatti per
un ristretto numero di paesi (oltre all’Italia anche Spagna,
Paesi Bassi e Germania) le retribuzioni aumentano in misura
molto contenuta, in altri, in particolar modo in Francia e
Svezia, la crescita è di cinque o sei volte più consistente.
L’origine degli scarsi aumenti dei redditi degli italiani,
spiega l’Istat, è da ricercare nella crisi della
produttività dell’economia, che ha frenato la crescita pro
capite in Italia mentre gli altri paesi hanno continuato a
crescere. Tra il 1995 e il 2006, infatti, la produttività
italiana è aumentata di appena il 4,7% (una crescita
esattamente uguale a quella delle retribuzioni), incremento
di poco superiore a quello registrato in Spagna (4,3%),
mentre la media dell’Unione europea segna una crescita del
18%.
FAMIGLIE IN CRISI - 14,6% delle famiglie italiane arriva
«con molta difficoltà alla fine del mese», il 28,4% non
riesce a far fronte a una spesa imprevista di circa 600 euro
e il 66,1% dichiara di non riuscire a mettere da parte
risparmi. È quanto emerge dal rapporto annuale dell'Istat
che, in base ai dati 2006 (gli ultimi disponibili),
sottolinea come la percentuale di famiglie che trova
difficile sbarcare il lunario ogni mese sia aumentata anche
al Nord (10,7% contro il 9,9% dell'anno prima), area dove i
redditi sono in media più alti che nelle altre zone del
Paese.
Nel rapporto sono evidenziati anche altri segnali di
«disagio» e «deprivazione»: il 6,2% ritiene di non potersi
permettere un'alimentazione adeguata, il 10,4% un
sufficiente riscaldamento per l'abitazione e il 38,7% una
settimana di vacanza all'anno. Inoltre il 61,1% delle
famiglie che pagano un mutuo considera pesante il relativo
carico finanziario e la metà degli affittuari giudica
onerose le spese per l'affitto. Sul lato dei redditi, il
rapporto evidenzia peraltro che il reddito netto delle
famiglie italiane era nel 2005 pari in media a 2.300 euro al
mese. Tuttavia la metà dei nuclei familiari ha guadaganto
tre anni fa meno di 1.900 euro al mese.
«INTERVENTI ENERGICI» - Per rilanciare l’economia italiana
sono necessari «interventi energici» su consumi e
investimenti, ma per il futuro c’è «prudente ottimismo». Lo
ha affermato il presidente dell’Istat, Luigi Biggeri,
presentando il Rapporto annuale 2007 alla Camera.
Fonte -
Corriere della Sera
|
Italia,
Draghi:
economia debole, serve impegno di tutti
28 Maggio 2008 11:25 ROMA -
di Luca Trogni
________________________________________
L'Italia deve tornare a crescere e in modo duraturo.
Per questo occorre un'azione di tutte le forze di cui dispone il
paese. Al governo, di cui si apprezza l'intenzione di presentare
entro giugno un piano triennale sulla finanza pubblica, si chiede di
agire sulla spesa primaria e di creare un quadro di riferimento -
dall'efficienza della pubblica amministrazione alla qualità della
scuola, dai tempi della giustizia all'adeguamento delle
infrastrutture - che aiuti a sciogliere, dopo più di 10 anni, il
nodo della produttività. E' questo l'invito che giunge dalle terze
considerazini finali presentate stamane all'assemblea di Bankitalia
dal governatore, Mario Draghi. Il punto di partenza tratteggiato da
Bankitalia è problematico. La fase di debolezza ciclica
dell'economia italiana, spiega il governatore, si protrarrà almeno
per tutto l'anno in corso. La spesa della famiglie è frenata dalla
scarsa progressione del reddito disponibile e dal rialzo dei prezzi
che negli ultimi mesi ha colpito soprattutto quelle a reddito più
basso. Ma nello stesso tempo il governo non può rinunciare ai suoi
obiettivi di finanza pubblica, in primis la continuazione del
percorso di riduzione del rapporto debito/pil e il pareggio di
bilancio nel 2011. OK A PIANO TRIENNALE ENTRO GIUGNO In questo
quadro complesso Draghi spinge il governo a prendere misure su base
pluriennale, plaudendo all'intenzione "di definire in tempi brevi
l'insieme degli interventi da attuare nel prossimo triennio" perchè
"può rendere più organica l'azione di bilancio e facilitare il
raggiungimento del pareggio nel 2011".
Il governatore, che non si esprime sull'abolizione
dell'Ici, approva anche esplicitamente la scelta di detassare gli
straordinari e il recente accordo tra governo e Abi sulla
rinegoziazione dei mutui a tasso variabile. "L'alleggerimento del
prelievo sulle parti delle retribuzioni più connesse con la
produttività può avere su questa riflessi positivi consentendo un
migliore utilizzo degli impianti e incentivando la contrattazione
salariale a premiare gli aumenti di efficienza" scrive. In materia
di sostegno a una domanda interna molto modesta l'appoggio di
Bankitalia è "alla definizione di un percorso pluriennale di
riduzione di alcune importanti aliquote d'imposta" che
"migliorerebbe le aspettative di famiglie e imprese" con la
concentrazione degli sgravi fiscali "laddove possono dare maggiore
sostegno alla crescita, riducendo le distorsioni dell'attività
economica". Tenendo conto che, per conseguire il target del pareggio
di bilancio al 2011 confermato dal ministro dell'Economia Giulio
Tremonti, occorre, di fronte a un calo della pressione fiscale dal
43,3 al 40%, ridurre la spesa primaria corrente dell'1% annuo. Sulla
maggiore voce di spesa, quella previdenziale, Bankitalia ritiene
necessario nel medio-lungo termine un nuovo aumento dell'età media
di pensionamento, accompagnato da un convinto sviluppo della
previdenza complementare.
Gli spazi per contenere le uscite nell'ambito della
pubblica ammimistrazione non mancano, ricorda il governatore, a
ridosso della presentazione del piano per la PA del governo che
prevede di liberare risorse per 40 miliardi di euro in 3/5 anni.
"Possono concorrervi iniziative per razionalizzare la presenza delle
amministrazioni statali sul territorio, responsabilizzare i
dirigenti e introdurre sistemi di valutazione volti a premiare i
dipendenti piùù meritevoli" afferma Bankitalia. Draghi chiede poi,
ancora una volta, "di portare la scuola e l'università all'altezza
di un Paese avanzato; di adeguare le infrastrutture; di assicurare
nei fatti la certezza e l'efficacia del diritto, semplificando il
quadro legislativo e facendo funzionare la macchina della giustizia;
di garantire ovunque legalità e sicurezza". L'Italia, spiega il
governatore nelle ultime righe del suo intervento, "ha una storia a
testimoniare che non c'è niente di ineluttabile nella crisi di
crescita che da anni lo paralizza". Ma a patto di non infrangersi
"nell'urto con gli interessi costituiti che negli ultimi anni hanno
scritto il nostro impoverimento".
 |
Fonte
- Reuters |
LA
FRUSTA DI DRAGHI, I
DOVERI DI TREMONTI
31 Maggio 2008 11:31
ROMA - di Massimo Giannini ______________________________________________
"FORTE preoccupazione".
Oggi toccherà a Mario Draghi, governatore della Banca
d'Italia, lanciare l'allarme sull'inflazione che è tornata a
"minacciare il mondo", come avverte l'Economist. "Una
miscela esplosiva", la chiama oggi Guglielmo Epifani. "Una
malattia mortale", la definiva nell'82 Milton Friedman.
Hanno ragione tutti. Ma in questo coro inquieto manca solo
una voce: quella del governo.
Questa inflazione è diversa da tutte le altre che in questi
decenni ci eravamo abituati a conoscere. Il fenomeno è così
esteso, e così perverso, che non si presta a facili
demagogie né a banali semplificazioni. Il carovita è una
"calamità morale", secondo la felice definizione di Geofrey
Howe, già cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà
britannica.
Oggi è soprattutto una "calamità mondiale". Il tasso medio
d'inflazione, nel pianeta, è aumentato del 5,5 per cento, il
livello più alto degli ultimi dieci anni, sospinto dal boom
dei prezzi del petrolio e delle materie prime. È un flagello
ovunque, non solo negli Stati Uniti e in Europa, che ne
importano ormai a piene mani dalle altre aree del globo.
In Paesi come Cina, India, Indonesia e Arabia Saudita i
prezzi sono cresciuti tra l'8 e il 10 per cento nell'ultimo
anno. In Russia del 14 per cento, in Argentina del 23 per
cento, in Venezuela addirittura del 29 per cento.
Nell'Egitto povero scoppiano le rivolte della farina, nella
Cina emergente dilaga la protesta del riso, nella Francia
ricca esplode la battaglia del carburante. Si salvi chi può.
Ma nessuno si senta escluso da questa nuova minaccia che
globalizza tutto, la ricchezza e la miseria, l'abbondanza e
la carestia, i profitti e le perdite.
L'intera Europa patisce la morsa del carovita. Lo ha già
detto il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, lo
ripeterà oggi il governatore di Bankitalia Draghi nelle sue
"Considerazioni finali". In Eurolandia, di fronte a un
obiettivo di inflazione fissato al 2 per cento per il 2008,
ci troviamo a fare i conti con un tasso medio del 3,6 per
cento. Con picchi che superano il 5 per cento, come in
Spagna.
Eppure l'Italia, con il suo 3,6 per cento di maggio
perfettamente in linea con la media Ue, soffre più di tutti
gli altri partner. Da dodici anni il nostro Paese non
registrava un aumento dei prezzi così alto. Nessuno
ricordava un'impennata così incontrollabile dei prezzi del
pane e della pasta. Nessuno ricordava un'escalation così
inarrestabile delle tariffe, delle bollette
dell'elettricità, dell'acqua, del gas. E in pochi, forse,
ricordavano una rincorsa tanto folle tra il costo della
benzina e quello del diesel.
Questa acuta "sofferenza italiana" non cade dal cielo. Sta
nel micidiale combinato disposto dei prezzi effettivi in
aumento esponenziale e dei salari reali in caduta libera. Se
metà delle famiglie italiane vive con 1.900 euro al mese, e
se un litro di latte schizza a oltre 1,60 euro
(moltiplicandosi per 4 nel passaggio dalla stalla al
negozio) o un litro di gasolio sfonda quota 1,50 euro
(aumentando del 21,1 per cento in un anno al lordo delle
imposte) c'è poco da discutere di ripresa dell'economia e di
rilancio della domanda interna.
C'è solo da temere che la crisi della "quarta settimana",
prima o poi, si accorci alla terza. Che la flessione dei
consumi, prima o poi, precipiti il Paese in una dolorosa
stagflazione. Che l'erosione dei redditi, prima o poi,
allarghi oltre misura il perimetro sociale e il disagio
esistenziale dei "penultimi".
È la "miscela esplosiva" di cui parla il leader della Cgil.
È il motivo della "forte preoccupazione" che il governatore
esprimerà oggi a Palazzo Koch. Ma tutto questo chiama in
causa il governo. Mai come oggi, di fronte allo spettro
dell'inflazione, il centrodestra al potere farebbe bene ad
ascoltare le prediche di Draghi, che ancora una volta
corrono il rischio di apparire einaudianamente "inutili".
La leva della politica monetaria, che con la gestione dei
tassi d'interesse può orientare le aspettative dei mercati,
non è più nelle mani della Banca d'Italia ma della Bce. E la
Banca centrale europea, a dispetto dei troppi attacchi
politici che si è meritata in questi anni, ha fatto e sta
facendo fino in fondo il suo dovere. Ci dev'essere un motivo
se l'Eurotower è additata a modello perfino per la mitica
Federal Reserve, come riconoscono gli osservatori più
critici (dal Financial Times al Wall Street Journal) e i
politici più onesti (dal commissario Ue Almunia al ministro
dell'economia francese).
Vigilanza sui mercati, nella filiera che va dal produttore
al consumatore. Interventi fiscali su prezzi di beni
specifici e tariffe non più amministrate. Iniezioni massicce
di liberalizzazione nei settori protetti. C'è un'area
vastissima di misure possibili, che il governo può e deve
fare. Senza cadere nelle tentazioni dirigistiche. Ma senza
tollerare le speculazioni mercatistiche.
Giulio Tremonti ama ripetere un leitmotiv: "L'economia la fa
l'economia, non la fanno i governi". Ha ragione solo in
parte. Il ministro del Tesoro sa meglio di chiunque altro
che, per sconfiggere la paura e ridare la speranza a un
popolo sfibrato e impoverito, non basta cancellare un pezzo
di Ici o detassare una modesta quota dello straordinario.
Serve una politica, consapevole dei suoi doveri e capace di
riaffermare i suoi primati. Lo ha scritto lui stesso, nel
suo ultimo, fortunato bestseller. E noi lo prendiamo in
parola. Non si può usare il colbertismo sull'Alitalia, e il
determinismo sull'inflazione.
Fonte -
La Repubblica
|
|