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Carry
trade, meravigliose bolle
di sapone
01 Novembre 2009 19:53
NEW YORK - di Nouriel Roubini
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Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere
(azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a
correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento
e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività
dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono
risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è
fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di
stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e
stabili.
Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal
miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo
evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema
finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari
e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche
in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come
ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica
curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività
dovrebbero gradualmente crescere.
Ma se è vero che l'economia americana e mondiale è
timidamente ripartita, i prezzi degli asset sono saliti alle
stelle a partire da marzo con un rally consistente e
sincronizzato. Nel 2008 erano calati bruscamente, quando era
il dollaro a salire, ma da marzo in poi sono schizzati in
alto mentre il dollaro colava a picco. I prezzi delle
attività rischiose sono cresciuti troppo, troppo presto e
troppo in fretta rispetto ai fondamentali dell'economia.
E allora che cosa c'è dietro a questo eccezionale recupero?
Indubbiamente ha contribuito l'ondata di liquidità prodotta
da tassi di interesse prossimi allo zero e politiche
monetarie espansive. Ma
all'origine di questa bolla c'è
soprattutto la debolezza del dollaro, trainata dalla madre
di tutti i carry trade. Il dollaro è diventato la moneta più
utilizzata in queste operazioni speculative tra tassi e
valute, perché la Fed ha tenuto sotto controllo i tassi
d'interesse e si prevede che continuerà a farlo ancora per
molto tempo. Gli investitori che puntano sul ribasso del
dollaro per comprare, con effetto leva, attività a più alto
rendimento, non stanno semplicemente prendendo in prestito a
tasso di interesse zero rispetto al dollaro; stanno
prendendo in prestito a tassi fortemente negativi -
addirittura fino al 10% o 20% annualizzato - perché la
caduta del dollaro garantisce cospicue plusvalenze.
Riassumiamo: gli operatori prendono in prestito a tassi del
-20% per investire, con un forte effetto leva, su una massa
di attività rischiose in tutto il mondo che stanno
aumentando di prezzo, a causa di un surplus di liquidità e
di un massiccio ricorso al carry trade. Qualsiasi
investitore che si dedichi a questo gioco rischioso fa la
figura del genio (anche se sta semplicemente cavalcando una
colossale bolla finanziata da un costo del credito
fortemente negativo), perché i rendimenti da marzo in poi
sono stati nell'ordine del 50-70%.
La percezione da parte degli individui del valore a rischio
del proprio portafoglio investimenti dovrebbe invece
aumentare, per via della crescente correlazione dei rischi
fra categorie di asset differenti, tutte trainate dalla
politica monetaria comune e dalla pratica del carry trade.
Anzi, è diventata un'unica, grande operazione comune: si
vendono dollari per comprare qualunque asset a rischio a
livello mondiale.
Al tempo stesso, però, la "rischiosità" percepita delle
singole categorie di asset sta scemando, per via della minor
volatilità frutto della politica della Fed di comprare tutto
quello che le capita a tiro (si pensi alla sua proposta di
acquistare 1800 miliardi di dollari di titoli di Stato,
titoli garantiti da ipoteca - obbligazioni garantite da
imprese semipubbliche come la Fannie Mae - e agency debt).
Le singole categorie di asset quindi ora sono meno volatili
e si comportano nello stesso modo, e dunque la
diversificazione fra i mercati si è ridotta (e il Var è
tornato ad apparire basso).
Dunque, l'effetto combinato della politica Fed (tasso zero,
politiche espansive e acquisto su larga scala di strumenti
di debito a lungo termine) apparentemente sta creando a
livello mondiale- per ora - le condizioni per la madre di
tutti i carry trades e la madre di tutte le bolle mondiali
dei prezzi delle attività con effetto leva. Questa politica
non alimenta sono una bolla globale, alimenta anche una
nuova bolla negli Usa. Il denaro facile, le politiche di
espansione quantitativa, l'espansione del credito e i
consistenti afflussi di capitali negli Stati Uniti
attraverso l'accumulazione di riserve in valuta estera da
parte delle Banche centrali degli altri Paesi rende più
facile finanziare i deficit di bilancio Usa e alimenta la
bolla delle azioni e del credito Oltreoceano. Per
concludere, un dollaro debole è positivo per le azioni Usa,
perché può portare a una crescita più forte e può accrescere
i profitti in valuta estera delle grandi aziende
statunitensi all'estero, in termini di dollari.
La politica sconsiderata degli americani, che sta
alimentando questi carry trades, obbliga altri Paesi a
seguire le stesse politiche monetarie. Il Regno Unito,
l'Eurozona, il Giappone, la Svezia e altre economie avanzate
stavano già applicando politiche di tassi quasi a zero ed
espansione quantitativa, ma la debolezza del dollaro sta
aggravando ulteriormente questa politica monetaria espansiva
globale. Le Banche centrali in Asia e in America Latina sono
preoccupate per la debolezza del dollaro e stanno
intervenendo in modo aggressivo per impedire che le loro
valute si apprezzino eccessivamente. Questo mantiene i tassi
di interesse a breve a un livello inferiore a quello
auspicabile. Inoltre, le Banche centrali potrebbero essere
costrette ad abbassare i tassi con operazioni a mercato
aperto.
Alcune Banche centrali, preoccupate per i capitali vaganti
che spingono in alto le loro valute, come nel caso del
Brasile, stanno imponendo controlli sui flussi di capitale
in entrata. Nell'uno o nell'altro caso,
la bolla del carry
trade peggiorerà: se non ci sarà nessun intervento valutario
e le valute straniere si apprezzeranno, il costo negativo
del credito legato al carry trade crescerà ulteriormente. Se
gli interventi valutari o le operazioni a mercato aperto
terranno sotto controllo l'apprezzamento della valuta, le
politiche monetarie quantitative che ne conseguiranno a
livello nazionale alimenteranno una bolla dei prezzi delle
attività in queste economie.
E dunque la bolla globale, che
interessa tutte le categorie di asset, si gonfierà giorno
dopo giorno.
Ma un giorno questa bolla scoppierà, portando al crack
coordinato dei prezzi degli asset più grande di sempre: se i
fattori produrranno un'inversione di tendenza del dollaro,
con improvviso rafforzamento (come abbiamo visto per lo
yen), le operazioni di carry trade con effetto leva dovranno
essere chiuse in fretta e furia, con gli investitori che
coprono il loro scoperto in dollari. E si scatenerà un fuggi
fuggi, perché la chiusura generalizzata di posizioni lunghe
con effetto leva su asset di rischio finanziate dal dollaro
basso innescherà un tracollo coordinato di tutti quegli
asset (azioni, materie prime, asset dei mercati emergenti e
strumenti creditizi).
Perché dovrebbe andare a finire così?
Innanzitutto, perché il dollaro non può continuare a
scendere all'infinito, a un certo punto si stabilizzerà;
quando questo succederà, il costo del credito in dollari
diventerà improvvisamente zero, invece che fortemente al di
sotto dello zero come prima, e la rischiosità di
un'inversione dell'andamento del dollaro spingerà molti a
coprire il loro scoperto.
In secondo luogo, la Fed non potrà contenere la volatilità
in eterno (il suo piano d'acquisto da 1.800 miliardi di
dollari finirà la primavera prossima). In terzo luogo, se la
crescita americana sarà più alta del previsto nel terzo e
nel quarto trimestre, i mercati potrebbero cominciare ad
aspettarsi, in anticipo sui tempi, una stretta della
politica monetaria da parte della Fed. In quarto luogo, i
timori di una recessione "a W" o rischi geopolitici, come un
confronto militare fra gli Stati Uniti e Israele da una
parte e l'Iran dall'altra, potrebbero rendere la gente meno
incline al rischio. Come nel 2008, quando l'impennata
dell'avversione al rischio fu accompagnata da una forte
rivalutazione del dollaro perché gli investitori cercavano
la sicurezza dei titoli di Stato Usa, questa nuova
avversione al rischio innescherebbe un recupero del dollaro
in un momento in cui dovranno essere chiuse posizioni
"corte" cospicue.
Tutto ciò non è detto che succeda subito, perché il denaro a
buon mercato e l'eccesso di liquidità a livello globale
possono continuare a spingere in alto i prezzi delle
attività per un certo periodo. Ma più andranno avanti e più
si allargheranno questi carry trades, più crescerà la bolla
e maggiore sarà il botto che farà quando scoppierà. La Fed e
altri policymakers sembrano inconsapevoli della
bolla-monstre che stanno creando. Più tardi se ne
accorgeranno, più pesante sarà il tonfo che faranno i
mercati.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore |
Economia Usa, i
dubbi sulla ripresa
01/11/2009 -
Miaeconomia ______________________________________________
Col Pil Usa che nel terzo
trimestre e’ cresciuto del 3,5%, l’aumento maggiore degli
ultimi due anni, l’economia americana batte un colpo
positivo sulla via della ripresa. Il rialzo dopo quattro
trimestri consecutivi di contrazione di fatto chiude la
peggiore recessione dalla Grande Depressione. Ma c’e’ un ma,
perche’ nonostante il dato certamente positivo non e’ tutto
oro cio’ che luccica. Gli economisti avvertono che la
crescita del trimestre luglio-settembre e’ una ripresa
artificiale, drogata dagli stimoli fiscali a pioggia del
Governo Usa, che hanno funzionato, ma che popolano di dubbi
analisti ed economisti riguardo gli effetti che si avranno
quando la scia positiva dell’investimento pubblico si
esaurira’.
I consumi, che rappresentano il 70% del Pil Usa, hanno
ripreso a marciare ed e’ grazie a loro e al rialzo del 3,4%
nel trimestre, incremento piu’ forte degli ultimi due anni,
che il Pil ha potuto mettere a segno un progresso
addirittura superiore alle attese degli analisti che si
attendevano un balzo del 3,2%. Eppure non va sottovalutato
che il rialzo e’ legato al piano di incentivi, aspetto che
viene messo in evidenza dallo stesso Dipartimento del
Commercio Usa, con un atteggiamento che invita a moderare i
facili entusiasmi.
L’altro grande importante settore di crescita e’ stato
quello dell’immobiliare. Lo 0,5% della crescita del Pil del
terzo quarto e’ stato favorito dal boom delle costruzioni di
case nuove che hanno fatto registrare un balzo del 23%
rispetto al precedente trimestre, ma drogato dagli sgravi
per l’acquisto della prima casa e dai programmi della Fed.
Insomma dagli economisti arriva un consiglio alla prudenza.
L’economia americana non e’ guarita, anche se la febbre sta
calando e forse e’ passata. Ma adesso deve riprendere le
forze e l’attuale situazione deve fare i conti con la
disoccupazione che ormai sfiora la soglia del 10% e con una
emorragia di posti di lavoro che e’ destinata a continuare
ancora per almeno parte del 2010.
Inoltre il dollaro e’ sceso di nuovo ai minimi, sotto quota
1,50 sull’euro, spinto dai tassi bassi e dai deficit gemelli
che sono a livelli mai toccati e che richiederanno anni,
secondo il piano della Casa Bianca, per tornare in pareggio.
Sempre che nel frattempo non arrivino altre recessioni.
Senza contare che il petrolio e’ tornato a scalpitare; se da
80 dollari, attuali valori, dovesse salire a 100 dollari al
barile, rappresenterebbe un ulteriore ostacolo alla ripresa
economica.
Fonte
- Miaeconomia
Banche, lezione
europea per l’America
November 2nd, 2009 -
di Mario Seminerio ______________________________________________
Nel Regno Unito, il Cancelliere
dello Scacchiere, Alistair Darling, illustrerà questa
settimana i piani del governo britannico per il futuro del
sistema bancario nazionale. Tali piani prevedono
letteralmente di “fare a pezzi” le principali banche
beneficiarie del salvataggio pubblico, Royal Bank of
Scotland (posseduta dal governo al 70 per cento) e Lloyds
Bank (pubblica al 43 per cento), e di creare tre nuove
entità bancarie, che saranno vendute sul mercato.
L’operazione prevede la vendita di sportelli o di
controllate ed ha come obiettivo, per usare le parole di
Darling, “un processo di riforma e ricostruzione in modo da
avere un sistema bancario più sicuro e competitivo di quello
che abbiamo attualmente, con nuovi ingressi sul mercato”.
Dietro la manovra del governo Brown c’è la pressione
dell’Unione europea, e in particolare della commissaria alla
Concorrenza, Neelie Kroes, che da tempo esercita pressioni
sui governi che hanno salvato i propri gruppi bancari
durante la fase più acuta della crisi per cogliere
l’opportunità di spezzare condizioni di potenziale eccesso
di posizione dominante o comunque di dimensione critica
raggiunta da alcuni istituti bancari, ed ha già trovato un
primo esito nel breakup della olandese ING.
Tornando al Regno Unito, Darling si è affrettato a precisare
che le operazioni di scissione avverranno “al momento
opportuno”, ma la strada è ormai tracciata. Più interessante
sarà capire chi saranno gli acquirenti, in un contesto di
antitrust così cogente. Barclays, HSBC e probabilmente gli
spagnoli di Banco Santander, che già controllano Abbey,
Alliance & Leicester e sportelli di Bradford & Bingley, non
potranno partecipare alle dismissioni. Per ora esiste
l’interesse del retailer Tesco e del gruppo Virgin. Si
profila anche un’opportunità dagli occhi a mandorla?
Una piccola morale è tuttavia già possibile trarla:
immaginate Citigroup e Bank of America costrette dal loro
fedele servitore Tim Geithner a vendere propri sportelli e
controllate. Un film di fantascienza, vero? Registriamo
quindi con una certa soddisfazione l’iniziativa dell’Unione
Europea, i cui interventi in passato molte volte ci hanno
lasciati dubbiosi o apertamente contrari. Speriamo le stesse
considerazioni possano essere condivise anche da alcuni
detrattori “senza se e senza ma” della Ue. Per una volta,
brava Europa.
Fonte
-
Epistemes.org
Obama, un anno
dopo
November 3rd, 2009 -
di Andrea Gilli ______________________________________________
Un anno fa Barack Hussein Obama
veniva eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Ad un
anno di distanza, è possibile fare un bilancio della sua
presidenza. Poiché non mi occupo di sanità, economia, o
finanza, la mia analisi riguarderà prevalentemente l’ambito
della politica estera.
Alla vigilia delle elezioni dello scorso anno, Obama era
visto prevalentemente sotto due prospettive: da una parte, a
destra, lo si accusava di essere un liberal rammollito,
pronto a svendere l’America e incapace di difenderne gli
interessi nazionali. A sinistra, invece, lo si vedeva come
un vero democratico, a volte persino pacifista, e quindi al
suo nome si associavano concetti o valori quali
multilateralismo, diplomazia, dialogo. O Carter o Giovanni
Paolo II, per dirla in modo diverso.
Se qualcosa è certo, dopo 12 mesi, è che tutte e due le
letture erano sbagliate – come avevo anticipato.
Infatti, Obama ha continuato ad attaccare i santuari
talebani e di al-Qaeda in Pakistan, ha coniugato la sua
promessa di ritiro dall’Iraq con la realtà strategica in
campo, e sta andando ad approvare il bilancio della Difesa
più alto della storia dell’umanità (siamo oramai ad un
soffio dai 700 miliardi di dollari). In altri termini, non è
un liberal rammollito che vuole svendere l’America ma
dall’altra parte la sua presidenza è ben diversa da quella
di George W. Bush.
Come si può interpretare, dunque, la presidenza Obama? A mio
modo di vedere, per capire l’era Obama è innanzitutto
necessario capire l’era nella quale essa si colloca. Pochi
mesi prima delle presidenziali americani, il saggista Fareed
Zakaria pubblicava un libro dal titolo The post-American
World. La tesi di Zakaria è che staremmo osservando una
trasformazione epocale del sistema internazionale: la
crescita economica della Cina, dell’India, del Brasile,
dell’Indonesia, della Nigeria e del Sud Africa starebbero
de-occidentalizzando il mondo.
In altri termini, nel sistema internazionale che si sta
creando in questi anni, l’Occidente avrà progressivamente un
ruolo minore. Se guardiamo ai dati, la tesi di Zakaria è
semplicemente una fotografia della realtà. L’era Obama va
dunque compresa in questo contesto: non sorprende che il
neo-presidente abbia cercato dialogo, diplomazia e
distensione con la sua politica estera. Non potendo nulla
contro la dispersione del potere a livello internazionale e
contro la crescita delle potenze non-occidentali, per
difendere l’America e i suoi interessi non restava che una
strada obbligata: limitare al massimo conflitti e scontri,
così da ridurre le sue spese (dirette e indirette) e, allo
stesso tempo, favorire un clima di dialogo necessario per
plasmare il nuovo ordine internazionale.
Sotto questa prospettiva, la politica di Obama verso l’Iran
e verso la Russia, per esempio, non solo sono comprensibili
ma anche condivisibili. L’America sta affrontando una
drammatica crisi economica che arriva proprio in un momento
di transizione a suo svantaggio del sistema internazionale:
non si vede dunque quali alternative fossero a sua
disposizione.
Ovviamente, il fatto che la strategia di Obama sia coerente
con il contesto internazionale nel quale essa si colloca non
significa che tutte le sue azioni siano state efficaci o
tempestive. Proprio su Iran e Russia i dubbi non mancano:
quando lo scorso giugno assistemmo alle manifestazioni di
Teheran, la Casa Bianca fu presa in contropiede dagli
avvenimenti. Dall’altra parte, verso la Russia ci sono state
diverse esitazioni, il cui apice si è avuto a settembre
quando nel giro di dieci giorni lo scudo missilistico è
stato prima degradato e poi annullato. A mio parere,
quest’ultimo è l’aspetto più importante e da esso dipende il
futuro, e il successo, dei restanti anni dell’era Obama. La
politica verso l’Iran, la Russia, ma anche verso
l’Afghanistan, l’Iraq, la politica di Difesa (e lo stesso si
può dire sulla Finanza e sulla Sanità) ha spesso mancato di
unicità e coerenza. La sensazione è che in più occasioni,
l’America abbia parlato con più voci. E quando un Paese
parla con più voci, allora manca di leadership.
Ad un anno dalla sua elezione, e a poco più di dieci mesi
dalla sua salita al potere, Obama ha mostrato un buon fiuto
strategico, ma le sue azioni hanno poi anche mostrato
numerosi problemi a livello tattico. Se il nuovo Presidente
sarà in grado di rimediare a questi primi errori (magari
sostituendo anche alcuni individui della sua
amministrazione, a partire da Biden e Holbrooke), allora la
sua presidenza potrà portare a dei successi. Altrimenti, il
vero rischio è di fallimenti su più fronti. La mia opinione
è che per Obama non sarà facile risolvere questi problemi.
La forza della sua presidenza si fonda sulla sua capacità di
unire e queste scelte implicano la necessità di dividere. I
veri geni politici sono quelli che riescono ad unire anche
quando dividono. Vedremo se Obama riuscirà in questa
impresa. Fonte
-
Epistemes.org
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Grandi
banche tossiche, anzi atomiche
01 Novembre 2009 02:35
NEW YORK - di Andrea Mazzalai
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Dopo le esternazioni del governatore della banca centrale
inglese, King sulla necessità di smontare pezzo per pezzo le
centrali nucleari bancarie internazionali troppo grandi per
fallire, (separandone le attività tradizionali e commerciali
da quelle esclusivamente speculative o di investimento) e le
continue esternazioni del grande vecchio e saggio Volcker,
anche il governatore della banca centrale francese Noyer,
lancia l'allarme in due direzioni; una nei confronti del
sistema finanziario e un'altra, nei confronti della centrale
nucleare dei credit default swaps, vero e proprio centro di
instabilità finanziaria mondiale.
Se volete ascoltare un pezzo di storia andate su Charlierose,
"Paul Volcker on the fallout of the credit default swaps
market" 60 minuti di spettacolo sul mercato dei credit
default swap, con Paul Volcker!
Vi siete mai chiesti perchè il governatore della banca
centrale inglese, lancia un allarme di queste dimensioni,
sottolineando che nulla è cambiato e che....
Questa è "un'illusione",
ha detto King. Secondo il
governatore le banche evidentemente non hanno imparato la
lezione e non hanno attuato le riforme necessarie,
nonostante un livello di sostegno pubblico al settore "da
togliere il respiro", una cifra vicina ai mille miliardi di
sterline. Le riforme proposte finora possono solo curare i
sintomi del problema, ma per andare alle cause serve un
intervento più deciso. La possibilità di sostegno pubblico
andrebbe riservata alle "parti buone" delle banche che sono
utili alla società, cioè al retail banking. «Incoraggiare le
banche ad assumersi rischi che risultano in ricchi dividendi
e bonus quando le cose vanno bene e in perdite per i
contribuenti quando vanno male distorce l'allocazione delle
risorse e la gestione del rischio, - ha detto King. - E'
l'azzardo morale (moral hazard) più grande della storia».
(IlSole24Ore).
Stiamo parlando di mille miliardi di sterline già iniettati
nel sistema, stiamo parlando del governatore di una banca
che ha sommerso la propria nazione di liquidità, banca che
ha praticamente azzerato i tassi e che ha dato vita alla più
imponente operazione di "quantitative easing", espansione
quantitativa della moneta, fornendo liquidità direttamente
al sistema finanziario in cambio di titoli o comprando
direttamente sul mercato tutto ciò che il mercato rifiutava.
Sembra di essere tornati ai tempi non sospetti di questa
crisi, quando alcune istituzioni, sussurravano l'uragano in
arrivo e tutti guardavano ai cieli tersi infiniti.
Al di la delle frasi di circostanza del G20 sulla
denuclearizzazione dei sistema di derivati non
regolamentati, "over the counter" entro il 2012, Noyer ha
messo in guardia da due fattori determinanti per il rischio
sistemico derivato.
Già verso la fine di agosto, il primo campanello di allarme
è stato suonato dalla banca centrale europea....
The European Central Bank on Friday highlighted the dangers
to the stability of the financial system of credit
derivatives, the products used to protect investors against
bond defaults. It warned that counter-party risk remained a
big concern among Europe’s banks as credit default swaps
contracts, which pay out when a company defaults on its
bonds, were increasingly concentrated in the hands of a few
large institutions. The top 10 counter-parties of the
leading European banks, often other banks, accounted for 60
per cent of CDS exposure, the ECB said. (FinancialTimes).
.....in relazione alla superconcentrazione di composti
"chimici" in mano ad un piccolo numero di istituzioni
finanziarie, con due terzi dei CDS, maneggiati da soli 10
controparti europee. In tutto il mondo, solo cinque grandi
banche rappresentano da sole circa la metà del mercato
mondiale, di cui due con sede in Europa e con JPMorgan
detentrice di circa un terzo dell'intero potenziale nucleare
americano.
Noyer ci dice che gli hedge fund, maneggiano solo il 10% di
queste armi di distruzione di massa e che il livello della
concentrazione è un fattore di alta vulnerabilità e rischio
per la liquidità nei mercati.
Se a qualcuno sembrano esagerati termini come armi di
distruzione di massa o centrali nucleari, consiglio di
chiedersi per quale motivo, sono ormai in molti tra le
principali istituzioni mondiali a cercare di calmierare un
mercato totalmente fuori da qualsiasi radar politico o
monetario. Non stiamo parlando di normali coperture o swaps
su cambi o tassi, ma di vere e proprie assicurazioni spesso
fondate sul nulla.
Noyer ha anche sottolineato in questi giorni che il sistema
finanziario mondiale sta tornando a muoversi sul filo del
rasoio, utilizzando molte delle strategie che hanno portato
alla crisi, mentre la maggior parte degli effetti negativi
sui bilanci deve ancora venire.
La natura interconessa di questi strumenti, ci dice che non
solo il principali attori di questo mercato continuano a
scambiarsi queste armi nucleari, ma ...
In fact, not only do leading CDS players trade primarily
among themselves, but they also increasingly exchange
guarantees against their own default: six out of the 10 most
traded contracts on non-sovereign entities are in fact
guarantees on the very same CDS dealers. (Financial Times)
Nella sostanza il rischio passa di mano velocemente e in
maniera limitata sempre tra le stesse entità, quasi che
qualcuno avesse acceso un candelotto di dinamite e
continuasse a passarlo di mano in mano, velocemente, prima
di una esplosione.
Il 2012 come data ultima per mettere mano a questo mercato,
francamente è un'assurdità, al di la delle pressione delle
lobbies finanziarie, inutile guardare cosa farà il dollaro,
come ho detto più volte, il dollaro si muoverà di
conseguenza al termometro dei credit default swaps!
Basta una piccola fuga radioattiva e la prossima onda della
crisi finanziaria, resterà per sempre scolpita nelle pieghe
della Storia.
 |
Fonte -
Icebergfinanza |
TASSI USA: LA
FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
04 Novembre 2009 20:19 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Come ampiamente atteso dal
mercato, la Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata
la forchetta sui fed funds. Accelera l'economia ma i tassi
rimarranno "eccezionalmente bassi" ancora per diverso tempo.
Ridotto l'acquisto di debito.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse
ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. I tassi sono
fermi all’attuale livello dal 16 dicembre dello scorso anno.
Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha
accompagnato la decisione; da evidenziare solo la riduzione
del programma di acquisto di debito (Agency Debt) da $200
miliardi a $175 mld.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi a
settembre suggeriscono che l’attivita’ economica ha
continuato ad espandersi. Le condizioni all’interno dei
mercati finanziari sono rimaste pressocche’ invariate
dall’ultimo incontro. L’attivita’ nel comparto immobiliare
e’ cresciuta nei recenti mesi. La spesa delle famiglie
sembra in espansione ma resta limitata dalla continua
perdita di posti di lavoro, dalla debole crescita dei
salari, dalla ridotta ricchezza e dal limitato accesso al
credito. Le aziende stanno continuando a ridurre
investimenti e personale sebbene ad un tasso inferiore; ma
continuano a registrare progressi verso un migliore
allineamento tra scorte e vendite. Sebbene l’attivita’
economica restera’ probabilmente debole ancora per diverso
tempo, il Comitato anticipa che le azioni mirate alla
stabilizzazione dei mercati e degli istituti finanziari, gli
stimoli fiscali e monetari e le forze di mercato
supporteranno un rafforzamento della crescita economica ed
un graduale ritorno a maggiori livelli di utilizzazione
delle risorse in un contesto di stabilita’ dei prezzi.
Con il significativo rallentamento dell’utilizzazione delle
risorse che continuera’ a limitare le pressioni sui costi,
in un contesto inflativo di lungo termine stabile, il
Comitato si aspetta che l’inflazione restera’ contenuta per
diverso tempo.
In tali circostanze, la Federal Reserve continuera' ad
impiegare un ampia varieta' di strumenti per promuovere il
recupero economico e preservare la stabilita’ dei prezzi. Il
Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range
0.00%-0.25% e continua ad anticipare che le condizioni
economiche, inclusi i bassi tassi di utilizzazione delle
risorse, i contenuti trend inflativi, e le aspettative di
un’inflaizone stabile, probabilmente contribuiranno a
mantenere i tassi a livelli eccezionalmente bassi per un
lungo periodo. Per fornire supporto alle attivita’ di
prestito mutui ed al mercato immobiliare e per migliorare le
condizioni generali all’interno dei mercati del credito
privati, la Federal Reserve acquistera’ $1.25 mila miliardi
in asset MBS (Mortgage-Backed Securities) e circa $175
miliardi in debito (Agency Debt). L’ammontare di questi
ultimi acquisti, sebbene in qualche modo inferiore a quanto
annunciato in precedenza (fino ad un massimo di $200 mld),
e’ in linea con il recente piano di acquisti e riflette la
limitata disponibilita’ del particolare tipo di security.
Per promuovere una piu’ semplice transizione sui mercati, il
Comitato rallentera’ gradualmente l’attivita’ di acquisto di
Agency Debt ed MBS ed anticipa che tali transazioni saranno
eseguite entro la fine del primo trimestre 2010. Il Comitato
continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare generale
degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook
economico e delle condizioni dei mercati finanziari. La
Federal Reserve sta monitorando la dimensione e la
composizione del proprio stato patrimoniale ed apportera’
delle modifiche ai programmi di credito e liquidita’ cosi’
come garantito.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley,
Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald
L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K.
Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
Information received since the Federal Open Market Committee
met in September suggests that economic activity has
continued to pick up. Conditions in financial markets were
roughly unchanged, on balance, over the intermeeting period.
Activity in the housing sector has increased over recent
months. Household spending appears to be expanding but
remains constrained by ongoing job losses, sluggish income
growth, lower housing wealth, and tight credit. Businesses
are still cutting back on fixed investment and staffing,
though at a slower pace; they continue to make progress in
bringing inventory stocks into better alignment with sales.
Although economic activity is likely to remain weak for a
time, the Committee anticipates that policy actions to
stabilize financial markets and institutions, fiscal and
monetary stimulus, and market forces will support a
strengthening of economic growth and a gradual return to
higher levels of resource utilization in a context of price
stability.
With substantial resource slack likely to continue to dampen
cost pressures and with longer-term inflation expectations
stable, the Committee expects that inflation will remain
subdued for some time.
In these circumstances, the Federal Reserve will continue to
employ a wide range of tools to promote economic recovery
and to preserve price stability. The Committee will maintain
the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4
percent and continues to anticipate that economic conditions,
including low rates of resource utilization, subdued
inflation trends, and stable inflation expectations, are
likely to warrant exceptionally low levels of the federal
funds rate for an extended period. To provide support to
mortgage lending and housing markets and to improve overall
conditions in private credit markets, the Federal Reserve
will purchase a total of $1.25 trillion of agency
mortgage-backed securities and about $175 billion of agency
debt. The amount of agency debt purchases, while somewhat
less than the previously announced maximum of $200 billion,
is consistent with the recent path of purchases and reflects
the limited availability of agency debt. In order to promote
a smooth transition in markets, the Committee will gradually
slow the pace of its purchases of both agency debt and
agency mortgage-backed securities and anticipates that these
transactions will be executed by the end of the first
quarter of 2010. The Committee will continue to evaluate the
timing and overall amounts of its purchases of securities in
light of the evolving economic outlook and conditions in
financial markets. The Federal Reserve is monitoring the
size and composition of its balance sheet and will make
adjustments to its credit and liquidity programs as
warranted.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman;
Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey
M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M.
Warsh; and Janet L. Yellen.
Fonte
- WallStreetItalia
Fed: Meno
monetizzazione del debito, segnale negativo per l’azionario
Wednesday, 4 November, 2009 at
21:37 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Secondo le minute del Federal Open Market Committe della
Fed,la banca centrale ha ridotto e ridurrà ancora gli
acquisti di debito delle GSE. Si tratta dello strumento
principe con il quale la Fed ha iniettato liquidità nel
sistema e sostenuto l’erogazione di mutui negli USA. Se
questo è l’inizio della fine del denaro facile per tutti, il
mercato azionario non la prenderà bene: buona parte del
rally di questi mesi non è derivato da un miglioramento dei
fondamentali economici, ma dall’impiego della liquidità
fornita gratuitamente dalle banche centrali e dalla
disperata necessità da parte dei risparmiatori di prendersi
rischi sempre maggiori pur di avere rendimenti accettabili,
dopo che la politica dei tassi a zero ha depresso i tassi
d’interesse a breve termine in tutte le maggiori economie.
Fonte
-
Macromonitor
Usa, disoccupazione
record Mai così alta dal 1983
06 NOVEMBRE 2009 18,00 MILANO -
di Vittorio Carlini ______________________________________________
Il tasso di disoccupazione è
salito al 10,2 per cento. In ottobre sono andati persi
190.00 posti di lavoro. Un dato peggiore delle attese
Sale ancora il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti. Il
dato, pubblicato dal dipartimento del Lavoro, indica che la
percentuale è arrivata al 10,2%, il valore più alto dal
1983. In ottobre i posti di lavoro andati perduti sono stati
190.000, bel al di sopra delle attese che indicavano una
riduzione di 175.000 unità. Il rapporto sull'occupazione ha
mostrato che i posti perduti sono diffusi in tutti i
settori. Quello manifatturiero ne ha eliminati 61.000, il
massimo in quattro mesi, mentre quello delle
costruzioni 62.000. Si sono registrati invece aumenti nel
comparto dell'istruzione e in quello della sanità, che hanno
aggiunto complessivamente 45.000 posti di lavoro. La
settimana lavorativa è rimasta invariata ad una media di 33
ore settimanali, una delusione perché i datori di lavoro
solitamente aumentano le ore prima di assumere nuovo
personale. Dall'inizio della recessione negli Stati Uniti
sono stati persi oltre 7,4 milioni di posti di lavoro e,
secondo le previsioni degli economisti, il tasso di
disoccupazione resterà alto anche il prossimo anno,
nonostante la crescita prevista dell'economia americana.
Nell'ultimo trimestre, va ricordato, il Pil a stelle e
strisce è tornato positivo, segnando una crescita del 3,5
per cento
«Le aziende - dice Thomas L. di Galoma, capo dell'Us trading
di Guggenheim Partners - sono restie ad assumere di nuovo».
Come dire, insomma, che dopo il crollo dell'economia
dell'ultimo anno i primi timidi segnali di recupero sul
fronte della domanda non si riflettono immediamente sul
mercato del lavoro. Anzi. «Ci vorrà molto tempo - è uno dei
leit motive - per recuperare un'occupazione sugli stessi
livelli del pre-crisi». Il che, peraltro, pone dei problemi
sul fronte della domanda stessa: è banale ricordare che un
'economia come quella americana, fortemente sbilanciata sul
lato dei consumi, ha bisogno di ritrovare un livello di
occupazione più adeguato. Altrimenti, il rischio è il
fallimento del "passaggio di testimone" dalla politica in
deficit spending di Washington, con i miliardari piani
d'intervento a favore della congiuntura, alla spesa di Mr. e
Mrs. Smith, necessaria per rimettere in sesto l'economia.
Peraltro, proprio la Federal reserve americana mercoledì
scorso, nel motivare la scelta di mantenere i tassi
d'interesse tra 0 e 0,25%, aveva rimarcato i problemi nel
mercato del lavoro. Ben Bernanke si è detto fiducioso sulla
continuazione della fase di recupero dell'economia ma ha
anche espresso preoccupazione per le probabili difficoltà in
questa direzione. «La spesa delle famiglie sembra in
espansione - è stato il commento della Fed -. Tuttavia
rimane condizionata dalle perdite di posti di lavoro, da una
faticosa crescita del reddito, da un minore valore delle
case e dal restringimento del credito».
Sul fronte dei titoli di stato, dopo la pubblicazione dei
dati sull'occupazione il Treasury a 10 anni è subito
schizzato verso l'alto. Gli investitori, che negli ultimi
tempi avevano iniziato a considerare un possibile rialzo dei
tassi d'interesse da parte della Fed, si sono connviti che i
rischi da inflazione rimangono bassi (vista la ridotta
propensione al consumo di Main Street, causata dall'aumento
della disoccupazione) e, quindi, che le quotazioni dei
titoli potranno rimanere ancora stabili verso l'alto.
Ovviamente, sull'incremento della domanda di notes del
tesoro Usa il loro rendimento è sceso.
Rispetto, infine, al cambio con euro dollaro, la notizia che
indica una certa difficoltà nella ripresa da parte
dell'economia reale americana ha dato spinta alla quotazione
della moneta unica europa: l'euro è risalito fino a quota
1,4905 dollari.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
Stati Uniti, se
questa è una ripresa
Friday, 6 November, 2009 at 20:19 -
by phastidio ______________________________________________
Il tasso di disoccupazione
balzato al 10,2 per cento, il peggior dato da 26 anni. Altri
190.000 posti persi in un mese. Il tasso di disoccupazione
cosiddetto U-6, che conta i lavoratori part-time che
vogliono lavorare a tempo pieno ed i lavoratori che hanno
perso il lavoro e hanno smesso di cercarlo, cresciuto al
17,5 per cento. Sono i dati di sintesi estrema del report
sul mercato del lavoro americano in ottobre. Dati non buoni.
Tra gli elementi non negativi, la revisione al rialzo degli
impieghi creati in agosto e settembre (per 91.000 unità),
che portano la media trimestrale a meno 178.000 posti al
mese, un grande miglioramento rispetto allo stesso periodo
dello scorso anno, se possiamo accontentarci della derivata
seconda di un mercato del lavoro che a 22 mesi dall’entrata
in recessione riesce ancora a perdere occupati. Per gli
ottimisti senza se e senza ma, la buona notizia è
rappresentata dalla creazione di occupazione temporanea (per
34.000 impieghi nel mese), che viene vista come un
indicatore anticipatore delle tendenze del mercato del
lavoro. In crescita dello 0,3 per cento i guadagni orari
medi ma la settimana lavorativa media resta inchiodata al
livello più che depresso di 33 ore.
L’aspetto peggiore del dato di disoccupazione è che, a
fronte di una lieve ed ulteriore limatura del tasso di
partecipazione alla forza lavoro (al 65,1 per cento, peggior
risultato dalla metà degli anni Ottanta), il numero dei
disoccupati è effettivamente aumentato. Non si tratta, cioè,
di un aumento del tasso da ricondurre al reingresso di
lavoratori nella forza-lavoro, che di solito si verifica
nelle fasi di ripresa e che tende a spingere al rialzo la
disoccupazione.
Oggi Barack Obama ha firmato la legge che concede
l’estensione dei sussidi di disoccupazione per altre 14 o 20
settimane per quanti hanno esaurito il beneficio. Ciò
significa che, negli stati che hanno un tasso di
disoccupazione superiore all’8,5 per cento, un lavoratore
finirà con l’aver ricevuto fino a 99 settimane di sussidi.
Accadono cose incredibili, in America.
Fonte
- Macromonitor
DISOCCUPATI IN AMERICA:
LA CIFRA VERA E' 17,5%
07 Novembre 2009 23:10 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Non e' dunque il 10.2%. Record
negativo dalla Grande Depressione. E' allarme sociale. Vanno
conteggiate milioni di persone che hanno cercato lavoro
nell'ultimo anno senza trovarlo. E quelli che lavorano
part-time ma che vorrebbero lavorare a tempo pieno.
Il rapporto sulla disoccupazione negli Stati Uniti reso noto
venerdi', che a ottobre ha portato al 10.2% il tasso dei
senza lavoro, e cio' al massimo dal 1983, cioe' degli ultimi
26 anni (piu' di un quarto di secolo, praticamente due
generazioni) va letto in modo piu' approfondito rispetto a
quello che fanno i giornali.
A causa dei migliaia di licenziamenti ogni giorni da 22 mesi
consecutivi, i numeri rilasciati dal Labor Department hanno
raggiunto il massimo di 26 anni, ma se le statistiche
andassero piu' indietro, si toccherebbe certamente il record
negativo dalla Grande Depressione. Infatti piu' di un
lavoratore ogni sei - il 17.5 per cento — e' stato
disoccupato o sotto-occupato in Ottobre. Il precedente
record era 17.1%, nel dicembre 1982, in piena recessione.
Questa percentuale - assai drammatica dal punto vista
sociale rispetto al gia' allarmante 10.2% - include coloro
che sono ufficialmente disoccupati, che hanno cercato lavoro
nelle ultime 4 settimane. Inoltre comprende i lavoratori
"scoraggiati", che hanno cercato lavoro nell'ultimo anno
senza trovarlo, come milioni di persone che lavorano
part-time e che vorrebbero, se potessero, lavorare a tempo
pieno.
Fonte
- WallStreetItalia
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A
Berlino 20 anni dopola Festa
della libertà
09 Novembre 2009 19:51
MILANO -
Il Sole 24 Ore
________________________________________
Angela Merkel ha percorso i 138 metri del ponte di
Boesebruecke assieme all'ex presidente dell'Unione
sovietica, Mikhail Gorbaciov e all'ex presidente della
Polonia Lech Walesa. È durata solo una decina di minuti, ma
la breve passeggiata simbolica sul ponte che 20 anni fa
segnò l'inizio della caduta del Muro di Berlino, è stata
sufficiente a ricordare un momento entrato nella memoria
storica del mondo.
È stato uno dei momenti più commoventi e simbolici di questa
giornata di celebrazioni. Sotto una leggera pioggia,
nascosta da un tappeto di ombrelli, la Merkel è stata
seguita dalle telecamere di decine di emittenti tv arrivate
da tutto il mondo.
La sera del 9 novembre del 1989, dopo l'annuncio della fine
«immediata» delle restrizioni ai viaggi tra le due germanie
dato da Guenter Schabowski - membro del Politburo - il ponte
venne attraversato dai primi cittadini dell'ex repubblica
federale tedesca (Rdt), che aprirono così la prima 'breccia'
nel Muro. Nelle ore successive e per tutta la notte,
migliaia di persone varcarono questo ex 'checkpoint', mentre
il muro crollava sotto i colpi della 'rivoluzione pacifica'.
Per la Merkel, questo è il «giorno più felice della storia
recente della Germania», come ha detto lei stessa durante il
fine settimana nel suo consueto videomessaggio via internet.
«Questo giorno ha cambiato la vita di molta gente - ha
proseguito - inclusa la mia vita».
Molta strada è stata fatta dal giorno della riunificazione
tedesca, il 3 ottobre del 1990, ma molta ne rimane da fare.
Oggi, intervistata dall'emittente pubblica Ard, la Merkel ha
tenuto infatti a sottolineare che la riunificazione non è
ancora stata completata e, quando si trovava già dall'altra
parte del ponte, ha ricordato le difficoltà di questo
processo, che è già costato 1.300 miliardi di euro.
I terreni espropriati dal regime comunista, ha commentato,
si potevano restituire facilmente ma è molto difficile
risarcire i cittadini dell'ex Rdt per «le occasioni mancate,
così come per la paura e le preoccupazioni» vissute in quel
periodo dalle famiglie dell'ex Rdt.
Due decadi dopo la caduta del Muro, la cancelliera ha
ricordato alla Ard che la disoccupazione nelle regioni
dell'ex Repubblica democratica tedesca è ancora oggi il
doppio rispetto a quella nell'ovest del Paese. Tuttavia,
secondo l'autorevole sondaggio Politbarometer dell'emittente
tv tedesca Zdf, l'86% dei tedeschi ritiene che la
riunificazione sia stata la decisione giusta.
Obama: 9 novembre giornata della libertà. "Vent'anni fa un
muro cadeva a Berlino e un Paese e un continente si
riunificavano". Con queste parole inizia la dichiarazione
rilasciata oggi dal presidente americano, Barack Obama, con
cui il 9 novembre 2009 viene proclamato "Giornata Mondiale
della Libertà". Nel ventennale della data che segnò la fine
della Guerra Fredda Obama ricorda le libertà conquistate dal
popolo tedesco e le barriere che ancora oggi dividono i
popoli. "La cortina di ferro che divideva l'Europa cadde
inaugurando una nuova era di libertà e cooperazione", scrive
il presidente americano che però non sarà oggi a Berlino per
le celebrazioni ufficiali.
"Le porte della democrazia si aprirono per milioni di
persone che avevano conosciuto solo la tirannia", si legge
nella dichiarazione dove la Casa Bianca sottolinea
l'apertura dei mercati economici che scaturì da quella dei
confini con l'est Europa. "Oggi", prosegue Obama, "le
barriere che mettono alla prova il mondo non sono muri di
cemento o di acciaio ma quelli fatti di paura, di
irresponsabilità e di indifferenza".
"Vent'anni dopo il mondo è più interconnesso di quanto lo
sia mai stato nella storia offrendo nuove opportunità per il
progresso comune". Il presidente ha voluto così consacrare
il 9 novembre come simbolo delle determinazione dei popoli a
ottenere la propria libertà e a lottare per la democrazia.
"Con l'autorità conferitami dalla Costituzione proclamo il 9
novembre del 2009, Giornata Mondiale della Libertà",
conclude il presidente invitando i cittadini americani a
festeggiare l'indipendenza della Germania dell'est come
affermazione della lotta per la libertà che
"contraddistingue gli Stati Uniti sin dalla loro nascita".
Gorbaciov: bisogna vedere i nuovi muri, le nuove linee di
divisione nel mondo e opporsi ad esse: è l'appello rivolto
oggi a Berlino dall'ex segretario generale del Partito
comunista dell'Urss e premio Nobel per la pace, Mikhail
Gorbaciov.
Un nuovo muro, secondo Gorbaciov, che ha ribadito di parlare
solo a titolo personale e in questo senso di rappresentare
solo se stesso, è stato innalzato per esempio
dall'allargamento della Nato a est.
L'accoglimento di ex Paesi del Patto di Varsavia nel Patto
Atlantico a suo avviso è avvenuto troppo presto. Ed è
avvenuto senza tenere conto di accordi raggiunti negli anni
'90 dello scorso secolo, per esempio a Parigi, ha detto
Gorbaciov.
Gli atti commemorativi del ventesimo aniversario sono
cominciati con una messa ecumenica nella chiesa di
Gethsemane, alla quale hanno assitito tra gli altri il
presidente Horst Kohler e il cancelliere Angela Merkel.
Situata nel quartiere berlinese orientale di Prenzlauer Berg,
la chiesa di Gethsemane fu teatro, nelle settimane
precedenti alla caduta del muro, delle riunioni della
dissidenza e dell'opposizione nella parte orientale della
capitale tedesca. Poco dopo la messa, il sindaco-governatore
di Berlino, Klaus Wowereit, ha visitato la cappella della
Riconciliazione, non lontano dall'antica postazione di
frontiera della Bernauer Strasse, dove sono state accese
decine di candele in memoria di quelli che persero la vita
nel tentativo di attraversare il Muro per scappare in
Occidente. E sul posto, è stato inaugurato un nuovo centro
di informazione che fornirà documentazione e video sulla
barriera che divise la città dopo la Seconda Guerra
Mondiale.
Anche Silvio Berlusconi è a Berlino: »Questa è una grande
data -ha detto il presidente del Consiglio- e tutto ciò che
è successo dopo, cioè la globalizzazione del mondo e
Internet, non sarebbe potuto accadere se la Germania fosse
stata ancora separata dal resto dell'Europa e dalla libertà
da un Muro«.
L'evento-cloun della giornata sarà l'abbattimento della
catena di pezzi giganti di domino, lunga un chilometro e
mezzo, creata sull'antico tracciato dell'antico Muro e che è
stato dipinto da artisti e studenti di tutto il mondo per
ricordare la fine della divisione di Berlino, della Germania
e dell'Europa. Sarà l'ex leader di Solidarnosc a far cadere
il primo dei mille pezzi di domino che hanno la stessa
altezza del muro originario. Contemporaneamente migliaia di
persone tenteranno di formare una catena umana lunga 33
chilometri sull'antica linea che divideva il settore
sovietico della città dai settori occidentali di Stati
Uniti, Gran Bretagna e Francia.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
Il Muro di Berlino,
la fine della Guerra Fredda, e la verità su Reagan
November 9th, 2009 -
di Mauro Gilli ______________________________________________
Oggi è il ventesimo anniversario
della caduta del Muro di Berlino, evento epocale che
anticipò di due anni il tanto più inaspettato crollo
dell’Unione Sovietica. Sicuri che sui giornali italiani
leggeremo fantastiche ricostruzioni relativamente al ruolo
giocato da Ronald Reagan, l’inquilino della Casa Bianca dal
1981 al 1988, illustriamo qui di seguito le contraddizioni
di quella che negli anni si è venuta rafforzando come una
delle più diffuse interpretazioni della fine della Guerra
Fredda.
Secondo questa interpretazione, la Guerra Fredda sarebbe
finita infatti proprio grazie a Reagan. Secondo la vulgata
l’ex attore di Hollywood, una volta arrivato alla Casa
Bianca, avrebbe capito che l’URSS era in declino, e che
stava fronteggiando grandi difficoltà economiche. Proprio
per questo motivo, Reagan avrebbe dunque deciso di lanciare
la corsa agli armamenti (le cosiddette “guerre stellari”,
tra cui rientrava la Strategic Defense Initiative, il piano
di difesa antimissilistico), per portare l’URSS in
bancarotta. Costringendo Mosca ad aumentare l’allocazione di
risorse al settore militare, Reagan avrebbe dunque sferrato
il colpo definitivo alla già fiacca economia sovietica, che
sarebbe poi crollata alcuni anni dopo.
Ci sono numerosi problemi con questa interpretazione.
Problemi ai quali i sostenitori di questa tesi non solo non
sanno rispondere, ma dei quali non si sono neanche mai resi
conto. Innanzitutto, come faceva Reagan a sapere che l’URSS
fosse in declino? I dati a disposizione della CIA e delle
altre agenzie di intelligence sull’economia sovietica e sul
potere dell’URSS, come gli stessi analisti avrebbero
scoperto con grande sorpresa negli anni ‘90 erano
straordinariamente esagerati rispetto a quella che era la
realtà dei fatti (si veda anche questo articolo su Time
magazine). Secondo alcuni resoconti, il Pil dell’URSS
durante la Guerra Fredda era infatti solo una frazione di
quanto veniva stimato a Langley. Dunque, da dove derivava
l’intuizione di Reagan? Questo non ci è dato sapere, la
vulgata vuole infatti che Reagan avesse capito, period.
Anche assumendo che Reagan fosse a conoscenza dei problemi
dell’economia sovietica, come faceva Reagan a conoscere la
portata di questi problemi? Per capirsi, l’economia
americana è attualmente in crisi, ma non verrebbe tramortita
da un’eventuale corsa agli armamenti ispirata da Mosca o da
Pechino. Come faceva Reagan ad essere sicuro del contrario,
per quanto riguarda l’URSS? Questo non si sa. Certamente, le
affermazioni pubbliche dello stesso presidente non danno
credibilità alla tesi secondo cui “Reagan aveva capito”.
Se l’URSS era in declino, come mai Reagan giustificò il
lancio della Strategic Defense Initiative proprio sulla base
della temibile minaccia rappresentata dall’”Impero del
Male”? Evidentemente, se l’URSS era un tale pericolo per la
sicurezza nazionale americana, non poteva allo stesso tempo
anche essere prossima al tracollo. Delle due l’una: o Reagan
mentiva ai cittadini americani sapendo di mentire; oppure,
più ragionevolmente, era sinceramente convinto che l’URSS
fosse una minaccia, e quindi non era assolutamente a
conoscenza dei problemi dell’URSS (versione confermata dai
resoconti storici).
A suffragio di questa tesi possono essere prese in
considerazione le politiche implementate dallo stesso
Reagan. Se l’URSS era in declino e prossima al crollo
definitivo, e il presidente americano ne era consapevole,
per quale motivo, ad un certo punto, nella metà degli anni
‘80, in modo del tutto improvviso decise di promuovere la
cooperazione con Mosca, e più precisamente di lanciare una
nuova era di Détente attraverso gli accordi sul disarmo
nucleare (quelli stessi accordi promossi da Kissinger negli
anni ‘70)? Se Reagan era convinto dell’avvicinarsi del
crollo dell’URSS, perché fermare la corsa agli armamenti e
promuovere addirittura il disarmo, proprio quando il
risultato era ormai raggiunto? Perché non premere
l’acceleratore fino in fondo, per finire la corsa in volata?
Perché dare a Mosca la possibilità di prendere il respiro
proprio quando il risultato stava per essere raggiunto? (a
proposito, si guardi questo video sulla reazione
dell’estrema destra americana all’”appeasement” cercato da
Reagan).
Queste sono le domande alle quali i giornali italiani non
daranno risposta. Oggi leggeremo analisi emotivamente
coinvolte, che vogliono un Reagan con informazioni più
precise di quelle della CIA. Un Reagan che aveva capito
tutto. La verità, ovviamente, è un’altra. Reagan giocò un
ruolo centrale nella Guerra Fredda. E sarebbe sbagliato
ignorare questo fatto. E’ però altrettanto sbagliato
attribuire a Reagan meriti che vanno ben al di là di quanto
potesse fare. E’ bene ricordarselo: il Muro di Berlino
crollò perché il sistema comunista era più inefficiente di
quello capitalista. Con o senza Reagan, questo risultato
sarebbe stato ottenuto ugualmente.
La fine della Guerra
e la fine di ciò che è seguito
November 9th, 2009 -
di Andrea Gilli ______________________________________________
Sulla fine della Guerra fredda è
già stato detto quasi tutto, specie a livello accademico
tanto in storia, che in sociologia, che soprattutto in
scienza politica ed economia. A vent’anni da quella
ricorrenza conviene guardare brevemente le
macro-implicazioni di quell’evento che ha radicalmente
cambiato la faccia della politica mondiale.
Innanzitutto, la fine della Guerra fredda fu elevata
inizialmente ad evento paradigmatico in grado di dimostrare
la forza delle idee nella storia umana. La fine della
dottrina Breznev, e poi della confidenza nei principi
sovietici, avrebbero infatti aperto la strada al crollo del
Muro di Berlino e poi alla fine dell’URSS. A vent’anni di
distanza, se una cosa è chiara è che le idee giocarono un
ruolo davvero minimo. La presa dell’URSS si allentò quando
la sua leadership fu messa alle strette dalle ristrettezze
economiche che l’inefficienza del sistema sovietico stava
provocando. Solidarnosc, il Papa, i democratici tedeschi,
gli intellettuali dell’accademia delle scienze di Mosca
ebbero tutti un ruolo. Ma poterono avere un ruolo perché il
sistema economico sovietico era in disgregazione. Non è un
caso che la loro influenza si sia sentita negli anni Ottanta
e non negli anni Cinquanta o Sessanta.
Se c’è una lezione generale da trarre da questo primo punto
è che tra tutte le teorie, il Realismo è quello che ebbe la
performance migliore, come dimostrano non solo gli studi di
Wohlforth (1993/94) e Brooks e Wohlforth (1999/00), ma
soprattutto la sagace previsione di Robert Gilpin, secondo
la quale la Guerra fredda sarebbe finita pacificamente
(1981: 234).
Questo dato è importante soprattutto se guardiamo al cosa è
venuto dopo la fine della Guerra fredda. Il
neoconservatorismo aveva previsto la fine della Storia (Fukuyama,
1991). Il liberalismo, sulla stessa lunghezza d’onda, aveva
previsto pace, democrazia e benessere (Omahe, Keohane e
tutto il filone della pace democratica). Il Realismo, più
modestamente, aveva previsto instabilità, guerre e crisi
internazionali.
Guardiamo dove siamo vent’anni dopo, e pare difficile
trovare conferma alle previsioni di Fukuyama e soci. Dire
dunque che la storia proceda in maniera lineare (come
sostiene il liberalismo) pare abbastanza avventato,
piuttosto, i suoi movimenti, e il sistematico ritorno di
fenomeni di guerra e violenza suggerisce la presenza di
andamenti ciclici.
Quale lezione trarre, dunque, dal crollo del Muro di
Berlino? Una, semplice, che i più grandi pensatori della
storia, da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes a Rousseau
hanno sempre evidenziato: l’arena internazionale è
contraddistinta da una competizione sfrenata tra diverse
autorità politiche. Questa competizione porta violenza ma
anche sviluppo, porta guerra ma anche pace. Nel caso del
crollo del Muro di Berlino, quella competizione ha portato
alla fine di uno dei regimi più oppressivi della storia
umana. Questa stessa competizione è però anche la causa del
terrorismo internazionale, delle diatribe con l’Iran, della
minaccia cinese o degli scontri con la Russia.
Più che celebrarne alcuni aspetti (liberalismo, economia di
mercato, democratizzazione) per nasconderne altri, forse
sarebbe meglio cercare di comprendere l’intero processo
nella sua interezza.
Fonte
- Epistemes.org
Pascal Lamy in Bocconi:
«Manca un progetto di governance globale»
09 Novembre 2009 19:16 MILANO –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
«La caduta del muro di Berlino è
stata un momento di svolta per la globalizzazione eppure
vent'anni dopo il mondo è in uno stato di forte difficoltà».
A dirlo è il direttore generale del Wto Pascal Lamy durante
il suo intervento dedicato a "Global governance: lessons
from Europe" e svolto, nel ventesimo anniversario
dell'evento, nell'ambito dell'inaugurazione dell'anno
accademico 2009-2010 dell'università Bocconi di Milano. «La
realtà - ha detto - è che la fine della Guerra Fredda ha
preso tutti di sorpresa. Un nuovo ordine mondiale stava
nascendo, eppure non ci fu discussione sulle strutture di
governance. Non ci fu - ha messo in rilievo - una conferenza
di Bretton Woods o di San Francisco dopo il 1989. Ma le
sfide globali - ha sottolineato - hanno bisogno di soluzioni
globali con la giusta governance che oggi, vent'anni dopo,
rimane ancora troppo deficitaria».
«L'Europa è uno dei più ambiziosi esperimenti di governance
sovranazionale - ha proseguito Lamy - Sul fronte della
leadership la Ue ha ottenuto buoni risultati, prima di tutto
nel creare il mercato interno e l'euro, ma è deficitaria sul
fronte della legittimazione. Stiamo assistendo ad un
crescente divario tra opinione pubblica e progetto europeo».
Le sfide globali hanno bisogno di soluzioni globali, e
questo può avvenire solo con la giusta governance globale,
che oggi dopo 20 anni rimane ancora troppo deficitaria. Lamy
ha affermato che «la crisi economica globale ha accelerato
il passaggio verso una nuova architettura di governance
globale, in quello che definisco "il triangolo della
coerenza". Un triangolo composto su un lato dal G20, che
fornisce leadership politica, su un altro dalle
organizzazioni internazionali, che forniscono competenze e
politiche, e sull'ultimo dalle Nazioni Unite, che forniscono
un forum a cui rendere conto. Nel lungo termine il G20 e le
agenzie internazionali dovrebbero riportare al "Parlamento"
dell'Onu, che dovrebbe contare sul sostegno del Consiglio
economico e sociale. Una struttura di questo tipo avrebbe
bisogno di una base centrale di valori e principi, proprio
come ha suggerito Angela Merkel con la creazione di un
"Charter for sustainable economic activity", uno sforzo per
definire un nuovo contratto economico globale». Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Morti
viventi a confronto
Monday, 9 November,
2009 at 14:20 -
by John Christian Falkenberg
________________________________________
La crisi giapponese degli anni’90 è stata caratterizzata
dalla presenza delle zombie corporations; negli USA,
assistiamo al fenomeno degli “zombie households”, ossia
delle famiglie ridotte a zombie da un malinteso “supporto
pubblico” .
Le zombie corporations erano le aziende insolventi tenute a
galla da prestiti di favore del sistema bancario,
generosamente sussidiato tramite tassi a zero. Il supporto
ad aziende decotte ha ritardato la ristrutturazione del
sistema, continuato ad affondare in aziende senza speranza
risorse scarse come credito e lavoratori abili, che
sarebbero stati meglio impiegati dalle aziende sane; le
aziende profittevoli ed i settori all’avanguardia sono stati
invece costretti invece a subire la concorrenza degli
zombie, di fatto sussidiati dl governo tramite le banche,
oltre che a subire l’onta di pagare tasse impiegate per
favorire i propri stessi concorrenti. L’Italia ha subito una
dinamica analoga negli anni’70 , quando ingenti risorse
pubbliche vennero investite nel salvataggio di aziende
decotte e nella creazione di un impero economico parastatale
mantenuto a spese delle aziende sane e delle tasche del
contribuente.
Il rifiuto di accettare la realtà economica e la necessità
di lasciar fallire chi ha sbagliato, ripulendo il sistema,
rischia di gettare le famiglie USA in un circolo vizioso
analogo a quello del settore aziendale giapponese.
Annaly
Capital Management evidenzia come i dati che evidenziano lo
stress finanziario delle famiglie americane siano fuori da
ogni norma storica. I livelli d’indebitamento sono stati
eccessivi e il mercato del lavoro e quello immobiliare sono
cambiati in maniera drastica; l’eccesso di debito, non può
che essere eliminato tramite una politica che accetti un
elevato grado di ristrutturazione del debito, anche tramite
bancarotte personali delle famiglie che hanno
imprudentemente impiegato le proprie abitazioni come
“bancomat” per troppo tempo.
In questo momento, il debito
immobiliare sta inceppando anche uno dei grandi meccanismi
di aggiustamento della forza lavoro negli USA, ossia la
mobilità interna. Chi potrebbe trovare lavoro in un altro
stato spesso non può trasferirsi: la propria casa vale meno
dei debiti dovuti su di essa, mentre le case nello stato di
destinazione sono spesso troppo care, a causa degli
incentivi governativi che gonfiano sia la domanda che,
soprattutto, le aspettative dei proprietari attuali, con il
risultato di ridurre lo stock offerto.
 |
Fonte -
Macromonitor |
La
ripresa
e le sue
droghe
10 Novembre 2009 00:01
MILANO -
La Repubblica
________________________________________
Un po’ da tutte le parti (ma soprattutto dall’alto, dalle
autorità) si suonano le stesse trombe: la crisi è finita, è
arrivata la ripresa, evviva evviva. E i numeri che escono
dalle varie centrali statistiche sembrano confermare che
siamo entrati in una fase ormai positiva. Ora, è noto che
dentro le crisi l’ottimismo fa bene. E’ una buona medicina
perché impedisce alla crisi stessa di avvitarsi su se stessa
e di diventare quindi irrisolvibile. E’ comprensibile,
allora, che le autorità si affannino a dire che tutto va
bene e che al posto della Grande Crisi che doveva stenderci
tutti adesso ci sarebbe addirittura la ripresa.
Ma a questo proposito conviene fare almeno una precisazione.
Segnali di ripresa si notano (anche consistenti in qualche
caso), ma vorrei anche vedere che non ci fossero. Se mai sul
pianeta c’è stata un’economia drogata, piena di ogni sorta
di anfetamine, è proprio quella in cui siamo immersi in
questa stagione. Il denaro (per quel che conta, ma conta) è
stato messo in giro di enormi quantità e a costo
praticamente zero. Tutto quello che poteva essere finanziato
è stato finanziato, a partire dalle auto e dalle case. Tutte
le industrie (e le banche) nei guai che hanno potuto essere
salvate (con iniezioni di denaro pubblico), lo sono state
(soprattutto in America).
E adesso, si dice, è arrivata la ripresa, come conseguenza
di tanti sforzi. Tutto vero. Ma senza dimenticare mai che,
per il momento, ci stiamo muovendo dentro un’economia con la
cocaina che le esce fin dalle orecchie. C’è chi ha fatto
qualche conto, ad esempio, e sostiene che il 3,5 per cento
di ripresa del Pil americano (nel terzo trimestre
dell’anno), se viene depurato da tutti gli aiuti rovesciati
su quel sistema, si riduce semplicemente a zero. Il che è
sempre meglio del meno 6 per cento di inizio anno,
ovviamente. Ma sempre di economia drogata si tratta.
Tutto questo per rendere chiaro che non siamo affatto in un
regime di normalità. L’economia ha ripreso a muoversi, ma la
sua corsa non è quella "normale": è quella dovuta una massa
impressionante di anfetamine.
Meglio questo, si dirà, della crisi. Certo. Ma il fatto che
la ripresa di queste settimane sia dovuta all’uso di tanti
stimolanti, ci in duce a pensare che la ripresa stessa
(quella vera, quando verrà) non potrà essere veloce e
rapida. E questo perché le anfetamine in questione, alla
fine, altro non sono che denaro pubblico.
Quasi tutti i bilanci degli Stati sono stati sfondati nello
sforzo di stimolare l’economia. E allora è ovvio che, mano a
mano che si andrà davvero verso una ripresa autonoma, gli
stimoli dovranno essere ritirati. Il denaro dovrà tornare a
costare di più, i sussidi per le case e le automobili
dovranno cessare, e, in qualche caso particolarmente
disgraziato, si potranno vedere anche nuove imposte (per
sistemare un po’ i bilanci pubblici).
In sostanza, siamo dentro una fase di transizione in cui da
un lato l’economia sta prendendo velocità (perché le è stato
saggiamente impedito di crollare), ma alla quale verrà via
via tagliato il grosso del carburante in rapporto al suo
progressivo miglioramento.
Da una parte, insomma, si preme sull’acceleratore e
dall’altra si agisce sul freno. Tutto questo configura uno
scenario in cui la crescita sarà molto bassa e molto lenta
proprio perché l’opera¬zione di "disintossicazione" è
delicata, ma anche urgente. L’urgenza nasce dal fatto che,
dentro un’economia drogata, possono maturare in fretta altri
disastri, come quello rappresen¬tato dai carry traders, che
prendono il denaro offerto oggi a costo quasi zero per
lanciarsi poi nelle speculazioni più avventate che si
possono trovare sul mercato. Anche a rischio di provocare
qualche nuovo crac dopodomani. Tutti capiscono, in sostanza,
che vivere dentro un’economia drogata può essere molto
pericoloso. Ma oggi questo c’è. Per uscirne, bisognerà
ritirare la droga in fretta e accettare quindi una crescita
modesta per anni e anni.
 |
Fonte -
La Repubblica |
Fannie Mae: cosa
sono altri 16 miliardi, fra amici degli amici?
Tuesday, 10 November,
2009 at 9:38 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Fannie Mae e Freddie Mac
continuano a stupire. Il contribuente, soprattutto. Dopo
circa 100 miliardi di perdite nell’ultimo anno, Fannie Mae
ne perde altri diciannove questo trimestre e chiede
l’ennesima ricapitalizzazione al Tesoro, questa volta per 15
miliardi. Dobbiamo ammettere almeno l’onestà della nuova
dirigenza, che ha smesso di fingere che questi saranno gli
ultimi dollari del contribuente che verranno bruciati
sull’altare dell’allucinazione immobiliare.
La storia di Fannie Mae e Freddie Mac, definite GSE, è
tristemente nota: si tratta di aziende che in Italia
sarebbero state definite parastatali anche nei momenti
migliori, un ibrido pubblico-privato che sembrava prendere
il peggio di entrambi i mondi: due istituzioni il cui
azionariato era privato, , ma che godevano di uno status
nebuloso e di una garanzia “implicita”, mai formalizzata ma
spesso ribadita da parte del ministero del Tesoro e il cui
consiglio di amministrazione era però di fatto deciso dai
politici in Congresso. Il ruolo istituzionale dei due
colossi era di fatto quello di sfruttare la garanzia
implicita per finanziarsi a tassi fuori mercato ed impiegare
tale liquidità per acquistare mutui, acquistandoli dalle
banche che li erogavano; il risultato netto era un
gigantesco sussidio all’acquisto della prima casa, un
elemento che ha giocato un ruolo non secondario nella
nascita della bolla immobiliare americana: perché
preoccuparsi della qualità dei debitori, quando un ente
statale si prendeva carico dei mutui erogati? Lo schema
sembrava a costo zero: il debito delle due società non
rientrava nei conti del debito pubblico americano.
La crisi immobiliare ha dimostrato la fondatezza delle
numerose critiche a questo sistema. Quando i valori
immobiliari hanno cominciato a scendere, la due società sono
entrate in crisi ed il governo americano si è trovato
costretto ad onorare la propria garanzia e a renderla
implicita. Le due società hanno già bruciato 121 miliardi di
capitale, 51 dei quali erogati dal Tesoro soltanto
nell’ultimo anno. La spinta dell’amministraizone Obama per
attutire la crisi del mercato immobiliare ha portato ad una
ulteriore distorsione del sistema: le GSE erogano al momento
i tre quarti dei nuovi mutui, di nuovo a tassi inferiori a
quelli di mercato. Il risultato sono tassi di insolvenza in
salita e nuove perdite. Anche la venerabile FHA, la Federal
Housing Administration, è stata coinvolta in questo schema
ed ha accumulato, secondo alcune fonti, un passivo superiore
ai 50 miliardi di dollari.
Il resto del sistema bancario non è ovviamente in grado di
operare in maniera atuonoma e si limita spesso ad agire da
semplice cinghia di trasmissione: i tassi offerti sono
troppo bassi per poter essere remunerativi per un operatore
non finanziato dal governo. Non sapremmo come chiamare un
sistema di questo genere, ma “libero mercato” non è certo il
termine adatto per per un sistema del genere, nel quale
prezzzi e quantità del servizio offerto sono di fatto decisi
da agenzie parastatali, che lavorano in perdita e finanziano
il disavanzo con denaro del contribuente. A questo punto non
stupisce neppure più molto il fatto che l’amministrazione
Obama cerchi di risolvere una crisi da eccesso di debito,
generato da un’interferenza governativa, con ulteriore
debito ed una distorsione ancora più massiccia dello stesso
genere , continuando nel contempo a parlare di un
“capitalismo senza vincoli” introvabile nel settore.
Fonte
- Macromonitor
DISOCCUPAZIONE RECORD
E PIGNORAMENTI A RAFFICA
10 Novembre 2009 19:43 NEW YORK -
di Andrea Franceschi ______________________________________________
Sulla ripresa dell'economia americana e globale
pende la spada di Damocle della disoccupazione. E questo fa
dubitare che dietro il balzo del Pil Usa nel terzo
trimestre, ci sia una ripresa solida e duratura
dell'economia americana. Lo ha fatto capire chiaramente il
presidente della Fed di San Francisco Janet Yellen. «La
disoccupazione negli Usa - ricorda - ormai registra un tasso
a doppia cifra, e potrebbe restare alta per diverso tempo
incidendo sulla ripresa economica». E la crescita negli
Stati Uniti potrebbe subire un brutto colpo. Così accadde
all'uscita dalle recessioni del 1991 e del 2001. Così
potrebbe succedere ancora a dispetto della ripresa del ciclo
produttivo. «In entrambi i casi», nel '91 e nel 2001, «la
crescita della produzione fu meno robusta che in una
classica ripresa e, purtroppo, le cose sembra stiano per
andare allo stesso modo anche stavolta».
A ottobre scorso il tasso di disoccupazione è schizzato ai
massimi dal 1983, toccando il 10,2% con la perdita di oltre
190 mila posti, un livello che ha convinto il presidente
degli Stati Uniti Barack Obama a valutare «ulteriori passi»
a sostegno del mercato del lavoro. Perciò, secondo la Yellen,
la prospettiva, anche considerando la lentezza con cui si
realizza la ripresa economica, è che «la disoccupazione
potrebbe benissimo restare alta per diversi anni a venire».
Riguardo al mercato immobiliare, all'origine due anni fa
della crisi globale, la Yellen ha sottolineato come i
segnali di stabilizzazione degli ultimi mesi rappresentino
senza dubbio un elemento positivo. Ma il balzo della
disoccupazione, giunta in ottobre al 10,2%, potrebbe
tradursi in una nuova raffica di pignoramenti di abitazioni,
il che rimetterebbe sotto pressione i prezzi delle case
tornati a crescere negli ultimi due mesi come rilevato
dall'indice Case Shiller. E la Yellen ha definito
«preoccupante» in particolare l'outlook del mercato
immobiliare commerciale, quello a cui più sono esposte le
banche regionali.
Il potere di acquisto delle famiglie, drasticamente ridotto
a causa della distruzione di ricchezza dell'ultimo biennio e
messo sotto ulteriore pressione da redditi stagnanti.
Secondo la Yellen il cambiamento in atto delle attitudini di
spesa, testimoniato anche dal forte aumento del tasso di
risparmio, potrebbe non essere affatto transitorio ma
permanente. Un altro elemento di possibile debolezza per
l'economia continua a essere rappresentato secondo la Yellen
dalle banche che devono ancora fare i conti con una montagna
di asset sofferenti. «Potrebbe occorrere diverso tempo - ha
concluso - prima che le istituzioni finanziarie guariscano
al punto che si ristabiliscano i normali flussi di credito.
Il credit crunch non è ancora del tutto sparito».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
La crisi è finita
(solo per le banche d’affari)
November 11th, 2009 -
di Mario Seminerio ______________________________________________
A un anno dalla sua elezione alla
Casa Bianca, Barack Obama si trova ancora nel mezzo di una
delle più gravi crisi economiche e finanziarie degli ultimi
ottant’anni. Tra tre settimane la recessione, così come
datata dal National Bureau of Economics Research, entrerà
nel suo terzo anno. Non è ancora dato sapere se la ripresa
del Pil sarà sostenibile o verrà meno con la fine degli
stimoli. L’area di maggior sofferenza riguarda il mercato
del lavoro, come hanno confermato gli ultimi dati su
occupazione e disoccupazione in ottobre, pubblicati la
scorsa settimana. Tentiamo un bilancio del primo anno di
presidenza Obama relativamente alla politica economica.
Sul piano delle misure adottate, la critica ricorrente a
Obama riguarda l’esplosione di deficit e debito. Qui
possiamo azzardare che il presidente non ha tutte le colpe
che gli vengono attribuite. La profondità ed ampiezza della
crisi ha determinato un crollo verticale di entrate fiscali,
circostanza comune a tutti i paesi coinvolti. Al netto delle
misure di stimolo e della loro specifica efficacia,
l’ampiezza della voragine fiscale è direttamente legata al
grado di indebitamento del settore privato dell’economia (si
vedano, per una conferma, le condizioni dei conti pubblici
nel Regno Unito). Lo stimolo obamiano in senso stretto,
l’American Reconstruction and Reinvestment Act (ARRA), che
peraltro non ha ancora pienamente dispiegato i propri
effetti, pesa relativamente poco in questo quadro d’insieme.
Molto più incidono le necessarie misure di ammortizzazione
sociale, come le reiterate proroghe dei sussidi di
disoccupazione, vista la grave condizione del mercato del
lavoro, che a sua volta danneggia le entrate fiscali a causa
dello scarso sviluppo di reddito e consumi.
Ben diversa appare la situazione relativamente alla riforma
della regolazione delle istituzioni finanziarie. Qui
praticamente nulla è stato fatto. O meglio
l’amministrazione, con il pieno sostegno della Fed, ha
scelto di mantenere lo status quo e di fare uscire le banche
dalla crisi attraverso misure di supporto incondizionato,
gonfiandone margini d’interesse e utili da trading. La via
di uscita dalla crisi è stata una gigantesca operazione di
reflazione, che sta riproducendo le condizioni di bolla dei
mercati finanziari che sono all’origine della crisi, oltre
ad esacerbare quello stesso gigantismo che si vorrebbe
combattere. Esiste un’assoluta continuità tra il Tesoro
dell’ex boss di Goldman Sachs, Hank Paulson, e quello
dell’ex presidente della Fed di New York (che è espressione
diretta di Wall Street), Timothy Geithner. Da sempre, gli
uomini delle banche d’affari dispongono di un sistema di
porte scorrevoli che ne consente l’approdo a Washington, per
scrivere la legislazione in materia finanziaria o per
gestire i salvataggi.
Il dibattito sul too big to fail è ormai confinato agli
ambienti accademici. Ben diversamente sembrano andare le
cose nella vituperata Europa dove, anche per effetto delle
forti pressioni antitrust della commissione europea,
qualcosa si muove e banche che hanno beneficiato di massicci
aiuti pubblici (fino alla nazionalizzazione, come nel caso
britannico), verranno fatte a spezzatino e rimesse sul
mercato. Malgrado la retorica obamiana, in America finora
abbiamo visto continuità, non cambiamento, e forse non
poteva andare altrimenti, date le premesse. Il declino
dell’impero americano passa anche attraverso gli utili
monopolistici di Goldman Sachs, ma la cosa sembra ancora
sfuggire a molti.
Fonte
-
Liberal Quotidiano
I più potenti al Mondo:
vince Obama, Berlusconi primo europeo
12 Novembre 2009 19:39 MILANO –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti è
l'uomo più potente del pianeta, almeno stando alla celebre
classifica di Forbes. Barack Obama risulta infatti in cima
alla lista dei più potenti che viene stilata in base al
numero di persone sui cui hanno influenza diretta, al grado
di potere decisionale conferitogli dall'ordinamento e alle
risorse finanziarie di cui dispongono.
A sorpresa il primo tra i leader europei a comparire
nell'elenco più ambito al mondo è il presidente del
Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, posizionatosi al
dodicesimo posto, appena dietro papa Benedetto XVI. La
scalata in classifica di Berlusconi viene giustificata dalla
rivista con il «monopolio dei media» detenuto dal premier in
Italia, composto di televisioni, giornali e agenzie
pubblicitarie. «La sua vita privata colorita, le accuse di
corruzione e la scelta di alcuni ministri gli sono costate
la definizione di buffone d'Europa», scrive Forbes
ricordando come il presidente del Consiglio sia anche a capo
di una delle squadre di calcio più importanti al mondo, il
Milan. Berlusconi è l'unico italiano a comparire nella
lista.
Nell'indagine Obama supera di gran lunga il secondo in
lista, il presidente cinese Hu Jintao. Archiviata la guerra
fredda i russi cedono infatti il secondo gradino del podio
al leader cinese e Vladimir Putin, primo ministro di Mosca,
deve accontentarsi della terza posizione. È andata peggio al
presidente russo, Dimitri Medvedev, 43esimo, mentre Joaquin
Guzman, il signore della droga messicano, è addirittura al
41esimo posto, due gradini dietro al Dalai Lama.
Gli americani dominano nelle prime 20 posizioni dove Forbes
inserisce Ben Bernanke (quarto), i fondatori di Google
Sergey Brin e Larry Page (quinti), l'a.d. di Wall Mart,
Michael Duke (ottavo), Bill Gates (decimo), il presidente di
General Electric, Jeffrey Immelt (tredicesimo), il
finanziere Warren Buffett (quattordicesimo), il presidente
di BlackRock, Laurence Fink (sedicesimo), il segretario di
Stato Hillary Clinton (diciassettesima) e il sindaco di New
York, Michael Bloomberg (ventesimo).
Ad aumentare la soddisfazione di Obama si aggiunge anche il
posizionamento del presidente venezuelano Hugo Chavez, uno
dei più acerrimi nemici diplomatici di Washington, ultimo in
classifica al 67simo posto. Fonte
- Il Sole 24 Ore
Giappone,
quando la crescita preoccupa
14 November, 2009 at 17:37 -
by phastidio ______________________________________________
Il dato di Pil giapponese del
terzo trimestre presenta una curiosa combinazione: la
grandezza reale rimbalza in territorio positivo per la prima
volta dal quarto trimestre 2007, ma il Pil nominale continua
a contrarsi, per effetto della deflazione. Era già accaduto
in precedenza, ma mai prima d’ora il Pil reale era stato
così elevato in presenza di una grandezza nominale negativa.
Il problema, come per ogni ripresa che avvenga in termini
unicamente reali, è che il debito del paese (e il Giappone
ne ha moltissimo) resta espresso in termini nominali. Così,
il fatto che il Giappone abbia prodotto di più (il 4,8 per
cento trimestre su trimestre annualizzato), ma che il valore
complessivo della produzione sia diminuito in termini di Yen
(meno 0,3 per cento), rende problematico servire quel
debito.
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Giappone - Tasso
di crescita annualizzato/in quarter |
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Non sorprende quindi che il costo dell’assicurazione
creditizia sul debito sovrano giapponese, così come espressa
dai credit default swaps, sia cresciuta durante la
“ripresa”, raddoppiando negli ultimi tre mesi sino a toccare
un picco al livello di 76 punti-base, il 9 novembre (oggi è
a circa 67). Il rapporto tra debito e Pil è previsto in
ascesa al 227 per cento nel 2010, secondo le stime del Fondo
Monetario Internazionale, rendendo il paese particolarmente
vulnerabile ad ogni aumento dei tassi d’interesse. Lo stesso
invecchiamento della popolazione è motivo di preoccupazione,
perché destinato a produrre un cambiamento di stili di vita
dal risparmio, che finora andava in larga parte all’acquisto
dei titoli di stato (JGB), al consumo.
Questi timori sono destinati ad acuirsi nei prossimi
trimestri, quando verrà meno l’impatto dello stimolo
sull’economia.
Fonte
- Macromonitor.it
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Domenica
15
Novembre
2009 |
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Mercoledì
18
Novembre
2009 |
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Venerdì
20
Novembre
2009 |
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Obama: «una Cina
prospera è un vantaggio per tutti»
14 Novembre 2009 10:12 MILANO -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Gli Stati Uniti non vogliono contenere l'impetuoso sviluppo
cinese perché sono consapevoli che una Cina forte e prospera
è un vantaggio per tutti: con queste parole il presidente
americano, Barack Obama, ha affermato la volontà della sua
Amministrazione di perseguire «una cooperazione pragmatica»
con il gigante asiatico, in un discorso a Tokyo in cui si è
presentato come «il primo presidente americano del
Pacifico». A meno di 48 ore dal suo arrivo a Pechino per la
prima visita in Cina, dove ha anticipato che parlerà di
diritti umani «in uno spirito sereno» e «senza rancore»,
Obama ha promesso un maggiore impegno degli Usa in Asia, con
un'implicita critica all'era Bush. «So che gli Stati Uniti
negli ultimi anni non hanno mostrato molto impegno
nell'attività delle organizzazioni multilaterali asiatiche»,
ha ammesso, «una cosa deve essere chiara: quel periodo è
finito». «Quello che accade qui ha un effetto diretto sulle
nostre vite negli Usa», ha osservato Obama, «è in questa
regione che transita gran parte del nostro commercio e che
compriamo gran parte dei nostri beni, è qui dove possiamo
esportare gran parte dei nostri prodotti creando così più
posti di lavoro negli Stati Uniti». Nel suo intervento a
tutto campo davanti a 1.500 persone riunite nell'auditorium
musicale del Suntory Hall, il titolare della Casa Bianca ha
rassicurare il Giappone che la partnership con gli Usa è
«incrollabile» e non sarà «indebolita» dalla collaborazione
con Pechino. Poi ha esortato la Corea del Nord a riprendere
il dialogo a sei sul suo programma nucleare, avvertendo che
gli Usa «non sono intimiditi» dalle sue minacce, e ha
chiesto alla giunta militare birmana di liberare Aung San
Suu Kyi e gli altri prigionieri politici «senza condizioni»,
promettendo «rapporti migliori» se si muoverà nella giusta
«direzione». Sul fronte economico, il presidente Usa ha
ribadito la necessità di perseguire un modello «equilibrato
e sostenibile» che in futuro eviti disastri come la crisi da
cui il mondo sta faticosamente uscendo. Obama, che poi è
partito per Singapore per partecipare alla cena con gli
altri leader dei 21 Paesi dell'Apec, il foro di cooperazione
economica Asia-Pacifico.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
La Cina contro i tassi Fed:
«Alimentano la speculazione»
15 Novembre 2009 14:41 MILANO -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
La politica monetaria della Federal Reserve svaluta il
dollaro e rischia di provocare una nuova bolla finanziaria.
La critica è di Liu Mingkang, capo dell' organismo di
controllo delle banche cinesi. La banca centrale americana,
afferma Liu, segue una politica di tassi d' interesse
eccessivamente bassi. Ciò provocano un indebolimento del
dollaro che è in contrasto con gli sforzi per superare la
crisi finanziaria. La debolezza del dollaro, ha detto Liu
parlando in un convegno a Pechino, «sta spingendo gli
investimenti speculativi nelle Borse e nei mercati
immobiliari ponendo nuovi, gravi rischi alla ripresa globale
ed in particolare alla ripresa dei mercati emergenti».
Sono due le ragioni per cui l'indebolimento del biglietto
verde è malvisto dalla Cina. In primo luogo perché il tasso
di cambio sfavorevole danneggia le esportazioni. E poi
perché Pechino è il primo creditore degli Stati Uniti,
avendo acquistato nel corso degli anni enormi quantità di
titoli di Stato americani, che hanno subito una pesante
svalutazione. A Singapore, dove si è svolto ieri ed oggi il
vertice dei Paesi dell' Asia/Pacifico (Apec), Cina e Usa si
sono scontrati sui temi del cambio dello yuan e del
protezionismo. Nei suoi due discorsi al vertice, il
presidente cinese Hu Jintao ha criticato severamente il
protezionismo dei paesi sviluppati ma non ha fatto cenno
alla rivalutazione dello yuan, insistentemente chiesta dagli
Usa per contenere le importazioni dalla Cina.
Altro tema caldo è quello del clima. Su questo fronte si
registra il fallimento dell'intesa tra i leader dell'area
Asia-Pacifico riuniti a Singapore per il vertice Apec. È
infati stata raggiunta solo un'intesa «politica» in vista
del vertice che si aprirà tra 22 giorni a Copenaghen. Di
fatto non c'è stato alcun accordo sui numeri. Nessuna
traccia del dimezzamento delle emissioni di gas serra entro
il 2050 previsto (forse ottimisticamente) alla vigilia.
Barack Obama si è incontrato con il presidente cinese Hu
Jintao e con il premier danese Lars Loekke Rasmussen, ospite
del vertice di Copenaghen e in visita a sorpresa, ma solo
per realizzare che «è irrealistico aspettarsi che tra ora e
il vertice di Copenaghen, che avrà inizio tra tre settimane,
sia possibile negoziare un accordo completo che costituisca
un vicolo a livello internazionale».
«Cercheremo di arrivare - ha fatto sapere Rasmussen - a un
accordo politico vincolante che copra tutti i principali
elementi del negoziato». E avremo comunque, ha detto
ottimisticamente il premier danese «un risultato ambizioso».
Copenaghen quindi non sarà più il punto di arrivo
dell'accordo sul clima ma, molto probabilmente, solo una
tappa intermedia prima di un nuovo vertice che si svolgerà
quasi sicuramente a Città del Messico.
Determinante probabilmente per il compromesso al ribasso dei
leader è stata la «sintonia» tra Usa e Cina che, da parte
sua, ha sempre mantenuto una grande distanza dagli obiettivi
di Kyoto. che sarebbero dovuti essere aggiornati a
Copenaghen in vista della scadenza ufficiale dell'accordo
nel 2012. Pechino infatti ha sempre sostenuto che la
riduzione dei gas serra spetti soprattutto ai paesi
maggiormente industrializzati, responsabili in prima persona
del cambiamento climatico. D'altra parte, quella
statunitense, ha anche giocato la paura di Obama di non
riuscire a sormontare gli ostacoli all'intesa posti dal
Congresso Usa, stretto tra gli obiettivi ad ampio respiro
del Paese e tra gli interessi delle lobby industriali.
Delusione è stata espressa dal Wwf: «All'Apec - si legge in
una nota - si è parlato troppo di rinvii e di quello che non
sarà fatto a Copenaghen. Non sembra una strategia
intelligente per vincere la lotta al cambiamento climatico».
Fonte
- Il Sole 24 Ore
Yuan sottovalutato
contro il dollaro, ma Pechino pensa a spingere
l'export
16 Novembre 2009 17:35 MILANO -
di Alberto Annicchiarico ______________________________________________
Braccio di ferro senza strappi eccessivi, sottotraccia, tra
Stati Uniti e Cina sul fronte dei cambi alla viglia del
vertice a due di martedì tra il presidente degli Stati
Uniti, Barack Obama, e il numero uno cinese Hu Jintao.
Secondo un'analisi di Bank of America la moneta del Dragone
è sottovalutata del 9,9% contro il dollaro. Il fair value
dello yuan, sostengono gli esperti di BofA, è a quota 6,15
per dollaro, mentre attualmente la moneta di Pechino viaggia
a quota 6,83.
Insomma, dollaro paradossalmente più forte contro il conio
della potenza economica emergente, mentre anche oggi il
biglietto verde ha mostrato la ben nota debolezza nei
confronti delle valute occidentali. Chiusura poco sotto i
massimi per l'euro-dollaro, sostenuto dai più recenti dati
(tra gli altri Pil giapponese e vendite al dettaglio Usa
migliori delle stime) che hanno alimentato le attese circa
una ripresa economica che si prospetta comunque moderata.
Un quadro che ha spinto gli investitori verso valute più
speculative a scapito di quelle più difensive (come,
appunto, il biglietto verde). Nel finale degli scambi in
Europa l'euro ha quotato 1,4980 (1,4881 venerdì e 1,4965 Bce
oggi), dopo avere sfiorato poco prima quota 1,50.
La moneta europea ha quotato in rialzo anche rispetto allo
yen, 133,81 (133,38 venerdì scorso e 134,02 alla rilevazione
odierna della Bce), e alla sterlina, 0,8936 (rispettivamente
0,8926 e 0,8948), mentre ha ceduta qualche frazione di punto
nei confronti del franco svizzero, a 1,5088 (1,5092 e
1,5093).
A deprimere il dollaro (indicato anche a 89,32 yen, 1,0073
franchi svizzeri e 1,6758 per una sterlina) oltre alle
operazioni di carry trade, favorite dal fatto che i tassi di
interesse degli Stati Uniti sono destinati a rimanere bassi
ancora a lungo, hanno contribuito anche le vendite che il
mercato già sconta, legate alle attese di scarsi risultati
della visita in Cina del presidente americano Barack Obama.
Il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha detto
proprio oggi che la banca centrale degli Stati Uniti
continuerà a monitorare da vicino l'andamento del dollaro,
pur mantenendo i tassi di interesse ai minimi storici «per
un periodo prolungato». Il nostro impegno - ha spiegato
ancora Bernanke - e la forza di base dell'economia americana
(in ripresa, faranno in modo che il dollaro continui a
essere forte e una fonte di stabilità finanziaria globale».
Tornando al vertice Cina-Usa, a parte le cortesie di
prammatica e l'intesa sulla necessità di non decidere a
riguardo delle misure contro l'inquinamento globale, Pechino
difficilmente farà aperture sulle richieste di apprezzamento
dello yuan nei confronti delle altre divise mondiali. Il
portavoce del ministro del commercio cinese, Yao Jian, ha
espresso in particolare la forte irritazione di Pechino per
il pressing di parte americana. E il mercato ha già preso
atto delle resistenze manifestate dalla Cina nel summit
dell'Apec durante lo scorso week end.
«Occorre creare un ambiente macroeconomico stabile a favore
delle aziende, e questo si estende anche al mercato dei
cambi - ha detto Yao - per aiutare la crescita dell'economia
mondiale e consentire il rilancio delle esportazioni cinesi.
È invece pregiudizievole ai fini della ripresa mondiale e
semplicemente ingiusto continuare a chiedere agli altri di
apprezzare la propria moneta quando si permette al dollaro
di continuare a calare».
È anche interessante rilevare come nel corso degli ultimi
mesi il pressing esercitato in prima persona dal segretario
del tesoro Timothy Geithner - che fresco di nomina aveva
irritato Pechino con i suoi ripetuti attacchi - si sia
chiaramente attenuato. Segno che a Washington si è forse
deciso di non compromettere rapporti sempre più determinanti
per gli equilibri geopolitici ed economici di un futuro che
è ormai dopodomani.
Uno «yuan forte», tuttavia, dovrebbe essere parte del
pacchetto di riforme necessarie in Cina per aumentare il
potere d'acquisto delle famiglie cinesi, se il Dragone
intendesse davvero potenziare il mercato interno oltre che
puntare sulla crescita dell'export. Ad affermarlo, nel corso
di un suo intervento a Pechino, è stato il direttore
generale dell'Fmi, Dominique Strauss-Kahn che ha ribadito
come il biglietto verde «resterà la principale valuta a
livello internazionale ancora per qualche tempo» nonostante
«alcuni temano i rischi dei problemi economici e finanziari
e dei grandi squilibri fiscali degli Stati Uniti».
La sensazione è che Washington, gravata da un'economia in
seria impasse e legata a doppio filo a Pechino che è il
principale detentore del debito pubblico Usa, non sia più
nelle condizioni di dettare le proprie condizioni. Una
trattativa onorevole, davanti a un buon tè al gelsomino, è
senz'altro la via da preferire. Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Usa-Cina:
Prove Di G2
tra Obama e Hu Jintao (Il
Punto)
martedì, 17 novembre 2009 - 16:34
PECHINO - ASCA
________________________________________
(ASCA) - 17 nov - Prove generali per creare il G2. La
prima visita del presidente americano Barak Obama in Cina
assume un particolare significato nello scacchiere delle
relazioni internazionali. Dopo l'esplosione della crisi
finanziaria, in molti ipotizzano che la nuova strategia
dell'amministrazione americana sia di rivolgere con piu'
insistenza lo sguardo a Pechino piuttosto che verso gli
alleati storici, Europa in primo luogo. Proprio il vecchio
continente teme un asse privilegiato tra Washington e
Pechino sui temi di maggiori attualita' nell'agenda globale.
Alcuni dei piu' autorevoli opinionisti americani hanno
definito il viaggio di Obama ''una nuova era nelle relazioni
con la Cina''. Obama e Hu Jintao hanno parlato sulla
cooperazione tra i due paesi su una serie di questioni come
il clima, il commercio, ma anche Corea del Nord, Iran. Il
New York Times ha maliziosamente sottolineato che nella
conferenza stampa congiunta i due leader sono sembrati
preoccupati soprattutto di evidenziare le differenze
piuttosto che i punti di intesa. Obama parla di diritti
umani, di liberta' come valori universali e invita Pechino a
riprendere i colloqui con il Dalai Lama ma al tempo stesso
riconosce la sovranita' della Cina sul Tibet e Taiwan. Un
risultato di rilevante spessore e significato per le
autorita' cinesi.
Nel comunicato congiunto i due leader
indicano che ci saranno nuovi incontri bilaterali per
affrontare le priorita' sull'agenda che si chiamano clima,
contributo della Cina alla pace nel sud est asiatico e
naturalmente i temi piu' economici come il commercio e le
valute. Strategic and Economic Dialogue il nome del forum
bilaterale dove affrontare i nodi da sciogliere. Obama ha
sottolineato la convergenza dei due paesi sulla necessita'
che al vertice sul clima di Copenaghen il risultato non
dovra' essere una dichiarazione di impegno politico ma
soluzioni operative immediamente applicabili. Secondo alcuni
osservatori sul capitolo del clima USA e Cina non avrebbero
ancora posizioni molto vicine. D'altra parte Obama e'
arrivato a Pechino senza strumenti di pressione dal momento
che la legislazione sui cambiamenti climatici che era tra le
priorita' della Casa Bianca ristagna al Congresso. Sempre il
New York Times (NYSE: NYT - notizie) cita oggi il professore
cinese Shi Yinhong il quale afferma che prima della crisi
finanziaria ''gli USA erano i leader mondiali ma adesso gli
Stati Uniti potrebbero dipendere dalla Cina piu' di quanto
la Cina non dipenda da loro''. Hu Jintao cosi' ha detto di
aver sottolineato a Obama che e' ''normale che ci siano
differenze tra i due paesi. Cio' che e' importante e' il
rispetto reciproco e la volonta' di risolvere le difficolta'''.
Nella conferenza stampa nessun riferimento alla questione
del dollaro ma e' probabile che la questione valutaria sia
stata tra le priorita' degli incontri bilaterali.
Il mondo
chiede a Pechino un apprezzamento dello yuan per contribuire
a colmare gli squilibri su scala globale. Ma oggi e' la
debolezza del dollaro che rischia di provocare nuove difficolta' finanziarie, soprattutto nei paesi asiatici dove
molte valute sono ancorate al biglietto verde. Con tassi di
interesse americani ai minimi storici si assiste al fenomeno
del carry trade sul dollaro. Molti investitori si indebitano
in dollari per riversare liquidita' in paesi dove i ritorni
sono superiori. Il risultato e' una fiammata speculativa con
nuovi pericoli di squilibri. La borsa di Shanghai da inizio
anno ha messo a segno un +80%, a Hong Kong si riparla di
bolla immobiliare, l'Indonesia viene descritta come la nuova
Cina. ''E' un gioco pericoloso - scrive il Wall Street
Journal - che potrebbe portare a gravi errori nelle
decisioni politiche'', in particolare il riemergere nel
mondo di limitazioni alla libera circolazione di capitali.
Il Brasile gia' a ottobre ha imposto una serie di
limitazioni agli investitori esteri, seguito la settimana
scorsa da Taiwan che ha congelato temporaneamente la
liberta' di depositare denaro agli stranieri. Altri paesi
specialmente nel sud est asiatico sono tentati a introdurre
limitazioni. L'altro grave rischio politico e' che molti
paesi ritengano che la politica americana sia quella di
mantenere un dollaro debole per rivitalizzare le
esportazioni. Il peggio della crisi e' ormai alle spalle ma
l'economia mondiale, forse Cina esclusa, e' ancora
convalescente. L'ultima cosa di cui c'e' bisogno e' una
serie di svalutazioni competitive. E forse e' questa la
principale sfida che deve affrontare l'inquilino della Casa
Bianca.
 |
Fonte -
ASCA |
Il debito americano
alle stelle, Immobiliare allarme morosità
18 Novembre 2009 09:51 MILANO -
di Vittorio Carlini ______________________________________________
«Parole, parole, parole...», cantava Mina un po' di tempo
fa. Un refrain che ben potrebbe adattasi alle tante (troppe)
dichiarazioni in stile: «la crisi è finita» o «il peggio è
alle spalle». Certo, tutti lo sperano. Ma, al di là delle
parole (per l'appunto) ci sono ancora molti fatti che
dovrebbero indurre a maggiore prudenza.
Tra questi l'andamento del mercato immobiliare americano, in
particolare quello commerciale. In tal senso il Wall Stret
Journal, che non può certo dirsi un foglio "catastrofista",
riporta alcuni dati molto interessanti sui conti economici
di Fannie Mae e Freddie Mac, i due enti parastatali che sono
lo snodo del sistema secondario dei mutui immobiliari di
milioni e milioni di Mr e Mrs Smith. Ebbene, il "delinquency
rate" (il tasso di insolvenza), dei prestititi sulle
multiproprietà, di Fannie Mac alla fine di settembre è
salito allo 0,62%, contro lo 0,16% di un anno prima. Un
balzo che è conseguenza, anche e soprattutto, del
peggioramento del mercato commerciale immobiliare. Come
evidenzia, peraltro, un altro dato riferito a Freddie Mac:
nel momento di massimo splendore dell'housing commercial
market (nel 2007), il gruppo aveva garantito nuovi mutui per
180 miliardi di dollari legati a nuove costrusioni; la metà
di questi, adesso, sono in morosità.
I timori di Harvard e della Fed
La situazione non è certo positiva. Una eventuale difficoltà
delle due società parastatali nel sostenere i crediti per
l'acquisto delle case potrebbe portare ad uno stallo del
mercato stesso. «Senza la continua attività di Fannie Mae e
Freddie Mac - ha scritto di recente l'università di Harvard
- le compravendite immobiliari potrebbero fermarsi». La
prestigiosa università non è sola a esprimere
preoccupazione: proprio di recente il presidente della Fed
di San Francisco, Janet Yellen, ha sì sottolineato che «gli
indizi di stabilizzazione dell'immobiliare rappresentano
senza dubbio un elemento positivo». Tuttavia la
disoccupazione, in ottobre, è salita al 10,2%. Un trend
preoccupante perché l'incremento del numero delle persone
che non hanno uno stipendio può tradursi in una nuova ondata
di morosità con succesivi pignoramenti. Il che «rimetterebbe
sotto pressione i prezzi delle case tornati a crescere negli
ultimi due mesi come rilevato dall'indice Case Shiller».
Tanto che la Yellen ha definito «preoccupante» in
particolare l'outlook del mercato immobiliare commerciale,
quello a cui più sono esposte le banche regionali.
Il debito a stelle e strisce...alle stelle
Senza dimenticare, poi, che gli enti hanno ricevuto più di
110 miliardi di dollari dal governo di Washington per il
loro salvataggio. E pensare ad ulteriori iniezioni di denaro
è molto difficile. Proprio oggi, infatti, l'esecutivo ha
pubblicato l'ultimo dato sul debito pubblico. Secondo quanto
indicato dal dipartimento del Tesoro Usa, il debito ha
superato la soglia dei 12mila miliardi di dollari. Al 16
novembre 2009 ammonta a 12.031,30 miliardi contro 11.999,51
miliardi il giorno prima. La prima soglia simbolica dei
10mila miliardi era stata superata nel settembre 2008. Dal
primo novembre 2009 l'indebitamento è cresciuto di oltre 138
miliardi e si sta avvicinando rapidamente al tetto di 12.104
miliardi (circa l'80% del Pil Usa 2008) autorizzato dal
Congresso.
Un altro dato che indica come, a volte, la realtà è lontana
dalle «parole, parole, parole, soltanto parole....» Fonte
- Il
Sole 24 Ore
CINA: STA PER
SCOPPIARE L'ENNESIMA BOLLA
22 Novembre 2009 22:15 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Pechino verra' colpita dal calo
dei consumi, soprattutto negli Usa. Bill Gross: "Sta
crescendo ovunque il rischio sistemico di un'altra bolla
degli asset, ma la Fed non ha spazi di manovra". Intanto
Paribas consiglia beni rifugio come oro e alimentari.
La crescita cinese verra' presto colpita dall'assenza di una
solida domanda al consumo da quei partner commerciali
fondamentali come gli Stati Uniti. Lo ha dichiarato oggi il
finanziere Bill Gross, gestore di Pacific Investment
Management, Pimco, il maggiore fondo obbligazionario del
mondo.
"Temo che i cinesi dovranno presto vedersela con una bolla",
ha confessato Gross in un'intervista concessa ieri a
Bloomberg Television. "Sta puntando forte su esportazioni
che pero' non trovano una richiesta sufficiente da parte dei
consumatori, questo e' il vero problema in Cina".
In tutte le economie mondiali, ha scritto Gross nel suo
investment outlook di dicembre, sta crescendo il "rischio
sistemico" di nuove bolle degli asset, con la Federal
Reserve che continua a mantenere i tassi di interesse su
minimi storici.
chief executive dell'autorita' monetaria di Hong Kong,
Norman Chan, hanno avvertito che nella regione potrebbero
presto gonfiarsi pericolose bolle.
"Con il tasso di disoccupazione salito su livelli a due
cifre, dove rimarra' probabilmente per i prossimi sei mesi
nonostante si prefiguri una creazione di posti di lavoro, la
Fed non ha spazio di manovra, non sapendo dove andare a
parare", ha detto sempre nel corso dell'intervista il
confondatore e CIO di Pimco.
Fonte
- WallStreetItalia
Riforma sanitaria,
Obama vince di misura
22 Novembre 2009 14:18
dal corrispondente Mario Platero ______________________________________________
NEW YORK – Harry Reid ce l'ha
fatta: in un voto storico, che si e' tenuto nella notte di
ieri a Washington, il capo della maggioranza democratica al
Senato e' riuscito a mettere insieme la maggioranza di 60
voti necessari vincere il voto procedurale che autorizza il
dibattito sulla riforma sanitaria.
Improvvisamente, dopo mesi di battaglie di corridoio, la
possibilita' di passare il pacchetto finale in tempi brevi,
forse gia' entro tre settimane si fa molto piu' concreta. I
repubblicani all'opposizione infatti hanno potuto contare su
soli 39 voti e il livello di 60 voti eslcude la possibilita'
di ostruzionismo. La vittoria e' importante per Barack Obama
che ha sostenuto il pacchetto di riforma sia alla Camera che
al Senato e che e' appena ritornato da un viaggio asiatico
difficile. Gia' ieri notte tuttavia, alcuni
democratici e un paio di indipendenti che hanno appoggiato la
mozione, segnalavano l'esigenza di apportare forti modifiche al
piano, in particolare all'ipotesi della "Public Option",
l'opzione pubblica che dovrebbe poter competere con offerte
private di assistenza medica. "Se non ci sara' un cambiamento
durante il dibattito che abbiamo appena approvato, votero'
contro" ha dichiarato Blanche Lincoln senatore democratico
dell'Arkansas che solo all'ultimo istante aveva sciolto la sua
riserva.
La Lincoln, come altri suoi compagni di partito, dovra'
affrontare una dura campagna elettorale in vista delle elezioni
di meta' mandato del prossimo novembre 2010. E i democratici
saranno sottoposti da qui ad allora a un pesantissimo fuoco di
spot televisivi antiriforma sanitaria.
La posta in gioco, approvare il pacchetto per la riforma al
Senato e poi riconciliarlo con quello della Camera, e' enorme.
Il pacchetto del Senato consente di estendere l'assicurazione
medica a 31 milioni di americani che oggi non sono coperti con
un bilancio di 848 miliardi di dollari in dieci anni. Consente
agli stati di avere una via d'uscita: non ratificare la publica
option per quello stato. E portera' riforme radicali nel
rapporto fra sottoscrittori ed erogatori di polizze assicurative
private. Il dibattito di ieri sulla
mozione e' stato epico, e' durato tutta a giornata per poi
andare al voto nella tarda nottata. Gia' poche ore prima la
leadership del Senato guidata appunto da Reid aveva annunciato
di aver avuto l'OK dell'ultimo Senatore democratico ancora
incerto, proprio Blanche Lincoln, dell'Arkansas. Con tutti e 58
i democratici al Senato a bordo, piu' due indipendenti che
avevano gia' aderito alla mozione sul dibattito, Reid ha potuto
annunciare di aver raggiunto la soglia di critica dei 60 voti.
Si tratta di capire ora quanti compangi di partito che si
confrontano con appuntamenti elettorali difficili per il
novembre del 2010 potranno essere liberati. Non solo, non si
vuole procrastinare il dibatitto o il voto perche' se arrivera'
a gennaio il pericolo di lasciare la bocca amara in molti
americani in un anno elettorale e' reale.
I repubblicani intanto continuano gli attacchi e; promettono un
battaglia durissima. Hanno prodotto spot televisivi in cui
attaccano i senatori democratici in maggiori difficolta'
guardando all'appuntamento elettorale del prossimo novembre 2010
criticandoli proprio per aver appoggiato il piano per la riforma
sanitaria. Si aggiunga che la conferenza dei Vescovi americani
si e' mobilitata con tutta la sua potenza per riaccendere le
polemiche sull'aborto che quasi deraglio' il passaggio alla
Camera. Ma Reid e' riuscito nella notte tra venerdi' e sabato a
convincere prima due dei tre senatori democratici incerti, Mary
Landrieu della Louisiana e Bob Nelson, del Nebraska, poi, ieri,
si e' unita la Lincoln. Come succede in questi casi, la partita
e' diventata monetaria: la Landrieu ha dato il suo OK dopo aver
ottenuto da Reid che nel pacchetto fossero appropriati 100
milioni di dollari per l'assistenza medica ai piu' poveri (medicaid)
in Luisiana. Il capo della maggioranza al Senato si e' cosi'
aggiudicato tutti e 58 i senatori democratici piu' gli altri due
voti indipendenti fra cui il Senatore Joe Lieberman ex candidato
alla vicepresidenza con Al Gore. Non vi sara' pero' l'adesione
di nessun repubblicano: Susan Collins, del Maine che sembrava
disponibile si e' tirata indietro dicendo che l'attuale formula
del pacchetto penalizza le piccole imprese. La strategia di Reid
e' semplice, dopo aver ottenuto l'OK dei democratici "deboli" li
liberera' per il voto finale che potrebbe richiedere una
maggioranza semplice. I senatori democratici potranno
rivendicare durante la campagna di aver votato si per un
semplice dibattito in nome della democrazia, ma di essersi poi
opposti al pacchetto di riforma. Ma i repubblicani
incalzano:"Nessun senatore che vota per a favore della mozione a
procedere potra' poi dire che non ha in qualche modo anche
abbracciato il pacchetto di riforma nella sua forma attuale", ha
detto il Senatore John Cornyn del Texas.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Sabato
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Mercoledì
25
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BCE:
nutrire il cicgo nero, oppure?
23 Novembre 2009 23:00
MILANO -
di Marco Saba
________________________________________
Intervenendo via satellite da Washington al convegno
milanese "I figli del cigno nero", organizzato
dall’Associazione Nazionale Risk Manager, il rappresentante
per l'Italia del Fondo Monetario Internazionale Arrigo Sadun
ha detto:
"Occorre affrontare i problemi strutturali che da tempo
pesano sull’economia italiana e questi due problemi
principali sono il basso tasso di produttività, che si
traduce in crescita modesta, e l’alto indebitamento
pubblico. Anziché nuovi interventi straordinari peraltro
difficili visto lo stato dei conti, occorre pensare da
subito a come affrontare questi problemi nodali" (1).
Che cos’è un Cigno nero? Secondo Nassim Nicholas Taleb (2) è
un evento isolato e inaspettato, che ha un impatto enorme, e
che solo a posteriori può essere spiegato e reso
prevedibile. Secondo Taleb, nella vita individuale e
privata, come in quella sociale e pubblica, noi agiamo come
se fossimo in grado di prevedere gli eventi, da quelli
sentimentali a quelli storici, a quelli naturali. Pensiamo
ad esempio alla professione che abbiamo scelto, all’incontro
con la nostra compagna o compagno, alla scelta di vivere
all’estero, ad un improvviso arricchimento o impoverimento:
quante di queste cose sono avvenute secondo i piani?
Ora questo ragionamento va bene per l'uomo della strada -
quando si parla di gravi crisi economiche - vale un po' meno
se si pensa che i principali avvenimenti "inaspettati"
dell'ultimo secolo seguono una logica abbastanza programmata
da quei filantropi che si occupano incessantemente di
disegnare il nostro destino da parco buoi (3). Il fatto che
lo facciano di nascosto - come la riunione a Jeckill Island
per pianificare la Federal Reserve del 22 novembre 1910 (4)
(5) - non toglie che una determinata macroprogrammazione non
è certo dovuta al caso. Quello che voglio dire è che questa
crisi è una somma di tanti comportamenti scorretti da parte
di entità finanziarie, i cui effetti negativi si cumulano
col tempo. La crisi appare evidente quando la gente se ne
accorge.
Così come in effetti i cigni neri non sono affatto degli
eventi così eccezionali, allo stesso modo le crisi
ricorrenti di un sistema fondato sulla rapina legalizzata
non sono affatto casuali. Se ad esempio con Basilea Due
aumenti il coefficiente di riserva frazionaria, è evidente -
agli addetti ai lavori - che ci sarà una contrazione nei
prestiti dovuta alla necessità di rientro degli istituti di
credito. E non serve a niente prestargli dei soldi - come
fanno le banche centrali - perché il buco aumenta sempre,
visto che sono MOLTO POCHI i soldi immessi nel circuito
SENZA debito ed interessi. Le banche cioè creano i soldi del
capitale prestato ma troppo pochi soldi per ripagare gli
interessi.
Per essere chiari: se a fine anno nell'aggregato dovrà
essere ripagata la massa monetaria creata come prestito più
il 20% di interessi, da dove arriva questo 20% ? Bene, può
arrivare solo da: (A) monete metalliche emesse dagli stati,
(B) monete false immesse in circolazione, (C) operazioni di
acquisto diretto (mercato aperto) da parte delle banche, (D)
monete complementari o locali immesse in circolazione senza
obbligo di riserva e convertibilità. Se - e solo se - la
somma dei punti A, B, C e D riesce a coprire gli interessi
richiesti, si può parlare di solvibilità tecnica del
sistema. Ma solo se questa liquidità arriva nelle tasche dei
debitori allora si potrà parlare di solvibilità in senso
pratico. E' evidente che i punti B e C rappresentano delle
emissioni illegali o quantomeno discutibili (6). Quanto al
punto A, occorre dire che in area Euro lo stato può emettere
monete metalliche solo in misura precedentemente stabilita
ed autorizzata dalla BCE (mantenendo una minima sovranità
monetaria di facciata, da parata, diciamo) (7), mentre il
punto D rappresenta un fenomeno monetariamente
insignificante e trascurabile allo stato attuale (8).
Il punto C è discutibile perché quando le banche spendono
pro se direttamente il denaro creato ad arte, si appropriano
di ricchezza reale della comunità senza contropartita (il
valore del denaro conferito essendo una derivata della
stupidità collettiva). Ma è anche il punto che potrebbe
essere direttamente gestito dalla Banca Centrale per il
benessere economico della collettività. Invece che nutrire
il cigno nero, prestando o conferendo nuova liquidità alle
banche, la Banca Centrale potrebbe effettuare operazioni di
mercato aperto a favore di una società-veicolo (una
controparte) che in cambio le fornisse la cartolarizzazione
dei diritti sovrani monetari della cittadinanza. In cambio
la società distribuirebbe il frutto di questi diritti alla
cittadinanza stessa, remunerando così la perdita di
sovranità. Allo stato attuale, se la banca centrale
ridistribuisse tuta la rendita monetaria effettiva, si
potrebbe garantire un reddito di cittadinanza mensile di
1.350 euro per ognuno dei 57 milioni di italiani (9), SENZA
toccare il debito pubblico - proprio come chiede il Sadun
del FMI - e SENZA necessità di nuove tasse. Volendo limitare
al massimo questa cifra a - diciamo - 10.000 euro una tantum
(meglio sarebbe annuali), l'iniezione di liquidità dal basso
- senza debito - farebbe certamente ripartire l'economia.
Il problema a questo punto è solo psicologico: come
convincere i banchieri centrali che qualcosa devono pur
restituirla, prima o poi? La moral suasion potrebbe essere
questa: o vi date una mossa o facciamo esplodere lo scandalo
della falsa contabilizzazione della rendita monetaria,
spacciata come perdita, nei vostri bilanci e vi processiamo
(10). Dopodiché la nazionalizzazione totale del sistema
bancario sarebbe davvero a un passo...
Noi non ci arrenderemo mai, loro neppure. Ma... gli
conviene?
Note:
1) Non confondete rimbalzo e ripresa - di Alessandra Mieli,
Opinione.it, 12 Novembre 2009
http://www.opinione.it/articolo.php?arg=3&art=87138
2) Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita
- di Taleb Nassim, Il Saggiatore, 2008
http://www.ibs.it/code/9788842814788/taleb-nassim-n-/cigno-nero-come.html
3) Per una trattazione esaustiva del "sistema dei
filantropi", vedere:
Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time' - by
Carroll Quigley, G.S.G. & Associates, 1975
http://www.amazon.com/Tragedy-Hope-History-World-Time/dp/094500110X
4) The Creature from Jekyll Island: A Second Look at the
Federal Reserve - G. Edward Griffin, Amer Media, 2002
http://www.amazon.com/Creature-Jekyll-Island-Federal-Reserve/dp/0912986395
5) Sarà un ennesimo caso casuale ma J.F.Kennedy - il
presidente USA dell'Ordine Esecutivo 11110, venne
assassinato, nel 1963, proprio il 22 novembre. (vedi il mio
"Bankenstein", ed. Nexus, 2006)
6) Anche se in passato matrici di banconote sono state
trovate impropriamente in ambienti legati ai servizi segreti
dei vari paesi...
7) L'emissione di moneta metallica non arriva all'1% del
valore nominale della massa monetaria più o meno circolante.
8) Le due monete "complementari" più diffuse in Europa, il
Regio tedesco ed il WIR svizzero, mantengono riserve al 100%
in moneta a corso legale (euro e franco svizzero),
rivelandosi così completamente inutili a risolvere il
problema sollevato dal presente articolo.
9) Ho calcolato in 1,3 milioni di euro a testa la quota
parte di rendita monetaria effettiva (debito pubblico x 50,
diviso 57 milioni). Calcolando 80 anni di vita media e
dividendo per i mesi, si ottiene 1.340 euro di reddito di
cittadinanza, dalla culla alla tomba.
10) Che tipo di processo ? Dipenderà dall'entità del
superamento della soglia di dolore economico che la società
si troverà a dover affrontare... Il tempo - in questo senso
- non gioca certo a favore. Nel migliore dei casi, una Star
Chamber.
http://en.wikipedia.org/wiki/Star_Chamber
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com |
USA: EMERGENZA
PER COSTI FUORI CONTROLLO
23 Novembre 2009 20:02 NEW YORK -
APCOM ______________________________________________
La recessione sta terminando ma
il problema del debito pubblico potrebbe presto trasformarsi
in un incubo per gli Stati Uniti. Con l'uscita dalla crisi,
gli interessi sono destinati ad aumentare. Si avvicina il
problema pensioni per i "baby boomers".
La recessione sta terminando ma il problema del debito
pubblico potrebbe presto trasformarsi in un incubo per gli
Stati Uniti. I termini con cui l'uscita dalla crisi e i
programmi di stimoli straordinari sono stati finanziati
negli ultimi due anni sembrano infatti troppo belli per
essere veri, e i bassissimi tassi d'interesse sul debito che
per ora gli Stati Uniti possono permettersi di pagare sono
destinati ad aumentare.
Problemi diversi cominciano ad accumularsi e il tempo si
assottiglia per il dipartimento del Tesoro. Non solo il
governo ha già previsto per i prossimi anni una montagna di
nuovo debito, ma nel giro di pochi mesi è in arrivo la
scadenza di un'enorme quantità di debito a breve. Con
l'uscita dalla recessione e la Fed orientata alla riduzione
dei programmi di sostegno straordinari - tra cui tassi sui
fed funds ai minimi storici - gli interessi sul debito
pubblico americano sono inevitabilmente destinati ad
aumentare. Per gli Stati Uniti, scrive il New York Times
sull'apertura di oggi, si profila uno shock di pagamenti.
Attualmente il debito pubblico americano supera i 12.000
miliardi di dollari e i costi per onorarlo, anche secondo le
previsioni più ottimiste, sono spaventosamente alti: dai 202
miliardi di quest'anno si arriverà ai 700 miliardi di
dollari annuali nel 2019. Le stime sono della Casa Bianca.
Un aumento di 500 miliardi di dollari è pari al budget
federale di quest'anno per istruzione, energia, sicurezza
nazionale e le guerre in Iraq e Afghanistan.
Se il massiccio aumento del debito negli ultimi due anni è
stato ritenuto con vasto consenso una misura necessaria per
arginare la crisi finanziaria e la recessione, non c'è più
dubbio che il problema del budget nel lungo periodo sia
diventato troppo grande per essere rinviato.
Un'altra ombra minacciosa si staglia all'orizzonte per il
governo. La generazione dei 'baby boomers', i cittadini nati
nel periodo di esplosione delle nascite del dopoguerra, si
sta avvicinando all'età pensionabile dei 65 anni, in cui di
diritto godranno di assistenza medica federale e altri
programmi pubblici. Secondo gli esperti i costi saranno un
incubo fiscale per il governo.
La Casa Bianca stima che Washington dovrà prendere in
prestito altri 3,5 miliardi di dollari nei prossimi tre
anni. Il Tesoro deve inoltre urgentemente rifinanziare
un'enorme parte del debito con scadenza a breve termine,
emesso durante la crisi finanziaria. Secondo le stime circa
il 36% del debito a breve, grosso modo 1.600 miliardi di
dollari, scadrà nei prossimi mesi.
Il Tesoro sta ora cercando di negoziare la sostituzione di
bond a uno e tre mesi con titoli decennali e trentennali,
una strategia che nel lungo periodo farà risparmiare ma nel
breve avrà l'effetto di far salire i costi, perché i tassi
di interesse sono più alti.
Finora la domanda di Treasury bond americani da parte di
investitori e governi esteri è rimasta abbastanza forte da
mantenere bassi i tassi di interesse che gli Stati Uniti
devono offrire per venderli. Quest'anno il governo ha
addirittura pagato meno interessi che nel 2008, pur avendo
aumentato il debito di 2.000 miliardi. Nonostante gli Stati
Uniti siano stati l'epicentro della crisi molti hanno visto
i buoni del Tesoro americani come l'investimento meno
rischioso in un periodo in cui i mercati erano in preda al
panico.
La Federal Reserve ha inoltre utilizzato tutti gli strumenti
del suo arsenale per contribuire a portare gli interessi al
minimo possibile. Ha tagliato i tassi sui fed funds per il
prestito interbancario overnight al minimo storico,
portandoli quasi a zero; ha acquistato oltre 1.500 miliardi
di Treasury e di obbligazioni con garanzia federale legati
ai mutui con l'obiettivo di ridurre i rendimenti di lungo
periodo.
Queste condizioni stanno ora cominciando a cambiare. Con il
ritorno della fiducia nei mercati e i segnali di ripresa gli
investitori internazionali stanno tornando a guardare ad
asset più rischiosi e remunerativi, mentre la Banca Centrale
americana sta ritirando alcuni programmi disegnati per
influire sui rendimenti di lungo periodo. Il mese scorso è
stato terminato il piano d'acquisto di 300 miliardi di
dollari di Treasury, ed entro marzo la Fed cesserà di
comprare dal Tesoro obbligazioni garantite da mutui. Infine,
ma questo non prima della seconda metà del 2010, anche i
tassi d'interesse benchmark sui fed funds, verranno rialzati
a livelli più normali.
Fonte
- APCOM
CHIMERICA: IL
MOSTRO A DUE TESTE STA PER MORIRE
24 Novembre 2009 00:01 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
L'era di collaborazione,
caratterizzata dai prezzi stracciati della Cina e dalle
spese sfrenate dell'America, volge al capolinea. Ma prima
Washington dovra' convincere Pechino a rinunciare ad un
modello che l'ha trasformata in potenza mondiale.
Un articolo pubblicato ieri da Wall Street Italia,
intitolato CINA: STA PER SCOPPIARE L'ENNESIMA BOLLA e' stato
un tale successo di click che e' passato in poche ore al
terzo posto assoluto nella Top30 dei Piu' Letti, senza
contare decine di commenti a caldo dei lettori.
Evidentemente, il tema e' giudicato di cruciale importanza
per chi deve decidere come investire nel 2010.
Approfondiremo nei prossimi giorni. Intanto, pubblichiamo
subito un secondo articolo.
Il professore di storia dell' economia Niall Ferguson ha
invocato la morte di uno dei mostri che lui stesso ha
contribuito a creare. Forse "creare" e' un termine troppo
forte. Diciamo che si e' limitato a battezzarlo.
Stiamo parlando del mostro a due facce, rappresentate da
Cina e Stati Uniti. Una collaborazione che Ferguson ha
chiamato "Chimerica".
Ovviamente il neologismo "Chimerica" non e' altro che la
fusione del nome dei due stati, cosi' come vengono chiamati
in lingua inglese, con un chiaro riferimento alla Chimera,
l'animale ibrido dotato di testa e corpo di leone, una testa
di capra sul dorso e una coda di serpente.
In un articolo apparso sulla rivista The Australian, il
professore di Harvard ha detto che la Chimerica e' giunta al
capolinea, sottolineando che la collaborazione tra i due
Paesi, caratterizzata da prezzi bassi dalla Cina e spese
forsennate dall'America, e' destinata a finire e a non
tornare mai piu'.
Tenendo conto delle scoppio delle bolle immobiliari e del
progressivo allargamento del debito, i nuclei familiari
americani dovranno necessariamente aumentare i risparmi e
ridurre le spese, combattendo la loro dipendenza
dall'accesso a crediti facili e la loro tendenza a fare
ricorso a denaro a basso costo. Questo segnera' la fine
dell'era "chimericana".
Le autorita' cinesi hanno capito che non possono piu' fare
affidamento sui consumatori statunitensi altamente
indebitati come acquirenti di beni cinesi, cosi' come invece
e' avvenuto fino al 2007, prima dello scoppio della crisi.
Inoltre il governo di Pechino non apprezza l'eccessiva
esposizone alla valuta americana, tramite l'accumulo di
riserve in asset misurati in dollari pari a 2000 miliardi.
Sono lunghi sul dollaro come mai non lo e' stato nessuno
prima d'ora e questo li rende ovviamente particolarmente
nervosi.
Tuttavia resta molto forte la tentazione da parte di
entrambe le teste del mostro Chimerica a mantenere in atto
questa partnership cosi' sbilanciata. Nonostante i fiumi di
parole spese per sottolineare l'impellente necessita' di
ridurre gli squilibri globali, il maggiore di tutti
persiste.
Quest'anno il deficit della bilancia commericale americana
con la Cina tocchera' approssimativamente i $200 miliardi,
attestandosi sugli stessi livelli dell'anno scorso. Pechino
ha comprato $300 miliardi in valuta americana, nel tentativo
di tenere su livelli bassi lo yuan e di conseguenza i prezzi
delle esportazioni.
Nel corso della sua visita in Cina, il presidente Obama ha
dovuto resistere alla tentazione di rispondere alle proposte
di collaborazione tra le due maggiori economie mondiali con
la sua nota persuadente arte di comunicazione. Non e'
infatti il momento della retorica altisonante, bensi' della
diplomazia a bassa voce.
Ora come ora, la Chimerica favorisce piu' la Cina degli
Stati Uniti. Si potrebbe infatti anche definire l'accordo
del 10 a 10: i cinesi ottengono un 10% di crescita
economica, gli Stati Uniti il 10% di disoccupati.
Ma la partnership tra le due potenze mondali risulta ancora
piu' dannosa per il resto del pianeta e per quei Paesi che
sono tra i principali mercati degli Stati Uniti e i suoi
piu' stretti alleati. La domanda da farsi allora e': cosa
possono offire gli Stati Uniti per far si che i cinesi
abbandoni la strategia del dollaro-appiglio, che sinora ha
funzionato cosi' bene?
Washington dovra' convincere le autorita' di Pechino che
qualsiasi perdita di valore delle riserve di asset sara' un
prezzo molto contenuto da pagare se paragonato ai vantaggi
che ha ottenuto dalla Chimerica, il modello che ha
trasformato la Cina da un Paese del Terzo Mondo a una
superpotenza mondiale in meno di 15 anni.
Ad ogni modo le perdite saranno piu' che compensate
dall'impatto positivo che l'incremento del valore del
dollaro avra' sull'immensa quantita' di asset di cui la Cina
e' in possesso. Fonte
- WallStreetItalia.com
BERNANKE & C.
OTTIMISTI SULL'ECONOMIA AMERICANA (MA ATTENTI ALLA BOLLA)
24 Novembre 2009 21:14 NEW YORK -
ANSA ______________________________________________
Alert: i tassi a zero alimentano
la speculazione. Messaggio a due facce della Fed, che ha
rialzato la stima per la crescita dell'economia degli Stati
Uniti nel 2010, prevista ora fra il 2,5% e il 3,5% (era fra
2,1 e 3,3% Il comitato della Fed che decide
sui tassi ha rialzato la stima per la crescita dell'economia Usa
nel 2010, prevista fra il 2,5% e il 3,5%. Lo si legge nei
verbali della riunione d'inizio novembre del Fomc. La stima
precedente, fornita a giugno, era compresa fra 2,1 e 3,3%. Per
il 2009 la stima e' rivista ad un tasso compreso fra -0,4 e
-0,1% dalla precedente forchetta compresa fra -1,5% e -1%.
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Fino ad oggi lo avevano detto soltanto gli economisti, gli
addetti ai lavori o le autorità monetarie di paesi stranieri
come la Cina. Ora anche la Banca centrale americana lo ammette:
i tassi d'interesse a zero «possono alimentare la speculazione
nei mercati finanziari» e falsare le aspettative sull'andamento
dell'inflazione. Nel «minute» delle riunioni del Fomc, il
braccio di politica monetaria della Federal Reserve, tenutesi
gli scorsi 3-4 novembre, si fa esplicito riferimento a questo
rischio.
Questo non significa che la banca centrale americana intenda
rialzare il costo del denaro che - si legge nel documento -
rimarrà al livello attuale ancora a lungo. Almeno fintanto che
le aspettative di inflazione rimarranno stabili e la
disoccupazione continuerà ad aumentare. Ma con queste parole la
Banca centrale Usa ha fatto chiaramente capire che è consapevole
dei rischi.
La Fed, come la Bce, la Banca d'Inghilterra e le altre
principali banche centrali in tutto il mondo, per far fronte
alla stretta creditizia originatasi in conseguenza della crisi
finanziaria, hanno messo in atto una politica di progressiva
riduzione del costo del denaro. Una scelta obbligata quando i
mercati crollavano e nessuno sapeva più che pesci pigliare.
Ma dopo che la tempesta è passata e i mercati hanno ripreso a
crescere, in molti hanno iniziato ad approfittare di questa
situazione. Con i tassi d'interesse a zero - è la tesi
dell'economista Nouriel Roubini - gli investitori hanno preso in
prestito denaro dove i tassi sono bassi (come negli Usa) per
reinvestirli altrove. Sfruttando ad esempio il rally dei mercati
emergenti (come quello cinese) o delle commodity (come l'oro e
il petrolio). Questo, secondo l'economista, ha dato origine a
una bolla nei mercati e ha contemporaneamente avviato la
svalutazione del dollaro.
Fonte
- ANSA
FUOCO INCROCIATO
SULLA FED DI BERNANKE
25 Novembre 2009 13:40 MILANO -
di Alessandro Merli ______________________________________________
Quando si è insediato alla
presidenza della Federal Reserve, il 1° febbraio 2006,
sembrava che, per fare bene, Ben Bernanke non dovesse far
altro che seguire la lezione del suo predecessore, il
"maestro" Alan Greenspan. Anzi, qualcuno si preoccupava che
non fosse in grado di farlo abbastanza fedelmente.
La crisi ha spazzato via queste convinzioni. Bernanke ha
dovuto muoversi in territori mai esplorati prima dal central
banking e adottare molte iniziative non convenzionali.
Queste mosse non sono state però senza pesanti conseguenze.
Una delle principali è la dilatazione del bilancio della Fed
a causa dei salvataggi delle banche e degli acquisti di
titoli, molti dei quali tossici.
Questo porrà la Banca centrale americana, nei prossimi mesi,
di fronte a un acuto dilemma. Oggi latente, emergerà il
conflitto fra le ragioni delle politica monetaria, che a un
certo punto del 2010, probabilmente nel terzo o nel quarto
trimestre secondo i mercati finanziari, dovrà aumentare i
tassi d'interesse, e le esigenze del bilancio della stessa
Fed, gonfiato dagli interventi d'emergenza e che ora
sopporta gran parte del rischio di mercato che normalmente
dovrebbe essere in capo a banche e investitori.
La Fed ha nei giorni scorsi esposto le condizioni (bassa
attività economica, inflazione sotto trend, aspettative
inflazionistiche stabili) in base alle quali continuerà a
mantenere la politica monetaria attuale. Ha descritto
insomma il come, ma non il quando dell'uscita dalla
strategia di tassi bassi e liquidità abbondante. Una «roadmap»,
come la definisce Tony Crescenzi, del colosso
obbligazionario Pimco, che deve fare in modo di evitare
sorprese e reazioni improvvise dei mercati: rendere la exit
strategy un processo, non un evento.
Il percorso su cui si dovrà muovere Bernanke è molto
stretto. C'è fra l'altro sullo sfondo un clima politico
tutt'altro che favorevole alla Fed, sempre più identificata
con la disoccupazione in aumento e soprattutto con gli
impopolari salvataggi di Wall Street. E la settimana
prossima il presidente della Banca centrale deve presentarsi
in Senato per la conferma del secondo mandato, accordatogli
dal presidente Barack Obama. Dell'ostilità della politica
sono conferma i progetti dell'influente senatore democratico
Chris Dodd per ridimensionare i poteri della Fed, nonostante
il parere opposto dell'amministrazione, e l'attacco frontale
del populista republicano Ron Paul in Congresso, che
vorrebbe addirittura tenere sotto controllo le decisioni sui
tassi.
Per la Fed, il rischio di perdita d'indipendenza è reale,
anzi, secondo qualcuno è già nei fatti. Una ragione in più
per Bernanke, quando si tratterà di mettere in atto la
strategia d'uscita, per dimenticare un'altra lezione di
Greenspan che, nel famigerato episodio del 1994, sorprese i
mercati, creando una turbolenza di vasta portata. Nelle
condizioni attuali, la Fed finirebbe per esserne la prima
vittima.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
|
Il
dilemma del dollaro
November 25th, 2009 by
editor -
di Mario Seminerio
________________________________________
Come è possibile che il dollaro, espressione di una delle
economie più produttive del mondo, dal 1960 abbia perso
circa due terzi del proprio valore contro yen, franco
svizzero e marco tedesco/euro? Alla domanda tenta di
rispondere l’economista Paul De Grauwe, dell’Università di
Lovanio. Dagli anni Novanta, osserva De Grauwe, l’economia
statunitense ha goduto dei maggiori tassi di crescita della
produttività rispetto alla maggior parte dei paesi europei e
del Giappone, con un tasso d’inflazione approssimativamente
simile a quella di questi paesi. Logica vorrebbe, quindi,
che ci si dovrebbe attendere una rivalutazione ininterrrotta
del dollaro, che si è invece verificata solo durante gli
anni della presidenza Clinton, per dare una collocazione
temporale facilmente identificabile.
La spiegazione, per De Grauwe, è da ricondurre al ruolo del
dollaro come valuta di riserva internazionale. Le autorità
monetarie statunitensi perseguono una politica di bassa
inflazione e piena occupazione con essa compatibile. Il
controllo dell’inflazione non avviene con un targeting
esplicito, ma certamente ve ne è uno implicito,
rintracciabile nelle comunicazioni della Fed riguardo il
“corridoio di confort” dell’indice dei prezzi della spesa
per consumi personali, che attualmente deve restare entro il
2 per cento annuale. Questo target significa che la Federal
Reserve “promette” implicitamente di emettere dollari
necessari a comprare un paniere di merci e servizi americani
il cui valore è all’incirca costante, svalutandosi solo del
2 per cento l’anno. Poiché l’economia americana cresce alll’incirca
del tre per cento annuo in termini reali (o almeno, così
accadeva prima della crisi), ciò vuol dire che la Fed ogni
anno deve aumentare l’offerta di moneta per circa il 5 per
cento (2 per cento d’inflazione e 3 per cento di crescita
reale).
Questo impegno alla stabilità dei prezzi domestici tuttavia,
confligge col ruolo internazionale del dollaro. La domanda
mondiale di dollari cresce a tassi annuali di gran lunga
superiori al 5 per cento di crescita dell’offerta di moneta
necessaria per tenere i prezzi interni americani
approssimativamente stabili. Quindi le autorià monetarie
statunitensi devono perseguire una politica monetaria che
accomodi l’elevata domanda mondiale di dollari, ma senza
causare aumenti tali da mettere a rischio la stabilità dei
prezzi domestici, e questo è un dilemma. Scrive De Grauwe:
«Questo dilemma somiglia a quello che esisteva nel periodo
del gold standard, negli anni Sessanta. All’epoca gli Stati
Uniti garantivano che la convertibilità dei dollari in oro a
prezzo fisso. Poiché la domanda di dollari era cresciuta
rapidamente mentre lo stock di oro era all’incirca costante,
divenne sempre più evidente che se gli Stati Uniti avessero
dovuto accomodare l’elevata domanda mondiale di dollari, non
sarebbero stati capaci di mantenere la convertibilità del
dollaro in oro, visto che un numero sempre maggiore di
dollari “dava la caccia” ad uno stock fisso di oro. Il
dilemma fu analizzato da Triffin, che previde negli anni
Sessanta che gli Stati Uniti avrebbero dovuto abbandonare la
convertibilità del dollaro in oro»
La situazione si ripresenta oggi. E come ai vecchi tempi di
Bretton Woods, ci sono due modi per gli Stati Uniti per
uscire dal dilemma. Il primo consiste nell’abbandonare
l’impegno alla stabilità dei prezzi. Il secondo implica che
la Fed sceglie la stabilità interna dei prezzi e riduce
fortemente l’offerta di dollari (e di Treasuries) al resto
del mondo. Questo a sua volta causa una profonda recessione
mondiale.
Il mercato sembra scommettere, almeno sinora, che gli Stati
Uniti sceglieranno la prima via, abbandonando l’impegno alla
stabilità dei prezzi. E’ una scommessa ragionevole perché la
massiccia offerta di dollari è un privilegio attraente per
il paese la cui valuta dispone dello status di riserva
mondiale, il che implica la possibilità di disporre di
condizioni di finanziamento che nessuno al mondo possiede.
Non è un caso che molti economisti e storici dell’economia
vedano le svalutazioni “epocali” del dollaro (come quella
che pose fine al regime di convertibilità aurea, stabilito
nel 1944 a Bretton Woods), come una sorta di default
silenzioso e non dichiarato sul dollaro. Ma ciò vuole anche
dire che la debolezza del biglietto verde è destinata a
continuare, almeno fin quando esso avrà il ruolo,
internazionalmente accettato, di valuta di riserva.
Ecco perché alcuni paesi, tra quelli che hanno sinora
accumulato le maggiori riserve in dollari a seguito
dell’ancoraggio artificiale delle proprie economie alla
divisa statunitense, stanno cercando alternative al dilemma.
Ad esempio acquistando materie prime. Fintanto che questa
transizione, e lo squilibrio da essa generato, non si
concluderanno, dovremo convivere con le turbolenze.
 |
Fonte -
Epistemes.org |
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Giovedì
26
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27
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28
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PRIMA DEL DEFAULT
DELL'ITALIA, C'E' IL DUBAI
26 Novembre 2009 14:18 DUBAI -
REUTERS ______________________________________________
Mercati in "red alert" per il
pre-crack di Dubai World, holding del governo di Abu Dhabi:
ha congelato il pagamento degli interessi. Passivita' per
quasi $60 miliardi. La banca piu' esposta: HSBC ($17
miliardi). Le aziende italiane a rischio.
C'e' paura tra i mercati spaventati dai problemi debitori di
Dubai World, la societa' di investimenti controllata dal
governo di Abu Dhabi e che ha passivita' per 59 miliardi di
dollari, ha chiesto ai suoi creditori di congelare il
pagamento dei suoi debiti, in vista di un drastico processo
di ristrutturazione. Stamattina, i crediti default swaps a
cinque anni dell'Emirato del Golfo Persico, che esprimono il
costo per assicurare il debito sovrano, sono balzati secondo
i dati ufficiali di Cma Datavision a 469,5 punti base. Ma
secondo altri trader, in realta' sarebbero a 550 punti base.
Vale a dire, servirebbero circa 500 mila dollari l'anno per
assicurare 10 milioni del debito nazionale.
Alcune banche europee, secondo fonti di New York, corrono il
rischio di perdite potenziali di oltre $40 miliardi per l'esposzione
nei confronti della holding in bancarotta Dubai World. Dubai
World ha un indebitamento di quasi $60 miliardi, su un
totale per lo stato di Abu-Dhabi di circa $80 miliardi, dei
quali circa la meta' sono appunto in mano a banche europee,
con in testa HSBC con crediti a rischio per $17 miliardi -
vedi lista di banche e aziende nell'articolo: DUBAI
SULL'ORLO DEL CRACK. TUTTE LE SOCIETA' ITALIANE A RISCHIO
____________________________________________
Arriva dal mondo arabo il nuovo terremoto per le borse,
spaventate dai problemi debitori del Dubai legati al colosso
statale Dubai World e alla controllata Nakheel.
Questa mattina i credit default swaps a cinque anni dell'emirato
del Golfo Persico, che esprimono il costo per assicurare il
debito sovrano, sono balzati a 469,5 punti base secondo i dati
ufficiali di Cma Datavision, a 500-550 punti base secondo alcuni
trader. Servirebbero oggi circa 500.000 dollari l'anno per
assicurare 10 milioni del debito nazionale.
Dopo sei anni di frenetico boom delle costruzioni e
dell'attività economica, l'alto debito del Dubai aveva già
iniziato a preoccupare gli investitori. Ma ieri sera la notizia
che il governo ha chiesto una moratoria di sei mesi per ripagare
i prestiti della potente holding statale Dubai World e di
Nakheel, la controllata attiva nel settore immobiliare, ha
comunque colpito molto i mercati.
Il governo di Dubai ha intanto annunciato un piano di
ristrutturazione per far fronte all'emergenza.
Dubai World è un colosso statale attivo in quattro aree
strategiche di crescita: trasporto e logistica, settore
marittimo, sviluppo urbano, servizi finanziari e di
investimento. Al suo interno convivono molte società con
competenze nettamente differenziate. Tra di esse Dp World DPW.DI,
redditizia controllata attiva in campo portuale, non sarà
coinvolta nei piano di ristrutturazione, ha precisato il
governo.
"Per i nostri criteri si tratta di un default e rappresenta il
fallimento del governo di Dubai nel fornire supprto finanziario
a una società statale core", ha commentato ieri l'agenzia di
rating Standard & Poor's in una nota, abbassando il rating su
cinque società di Dubai a 'junk', mentre Moody's ne ha
declassate sei ad appena un livello sopra il 'junk'.
"E' scioccante perché negli ultimi mesi le notizie che sono
state diffuse avevano confortato gli investitori sulle
possibilità di Dubai di far fronte al debito", commenta Shakeel
Sarwar, operatore di Sico Investment Bank.
Fonte
-
REUTERS
|
Il
rischio paese di Dubai sale
ancora, Cds alle stelle
27 Novembre 2009 16:32
MILANO -
di Alberto Annicchiarico
________________________________________
L'allarme sulla possibile insolvenza di Dubai World, la
holding dell'emirato che ha chiesto mercoledì di congelare i
propri debiti per sei mesi (che ammontano in totale a 59
miliardi di dollari), si è stemperato sui mercati finanziari
europei, che ieri hanno vissuto una giornata di passione.
La tensione che ha caratterizzato la vigilia non ha
cambiato, però, i programmi degli sceicchi, che si
apprestano a dare il via al «più grande spettacolo
pirotecnico nella storia dell'umanità», come scrive il
quotidiano degli Emirati Arabi Uniti al Ittihad. L'occasione
è offerta dai festeggiamenti per il 38° anniversario
dell'indipendenza di Abu Dhabi, ma ai festeggiamenti
partecipa anche lo sceicco e primo ministro di Dubai,
Mohammed Bin Rashid Al Maktoum.
Decolla il costo per assicurare il debito
Eppure non ci sarebbe granché da festeggiare. Nonostante
l'esposizione delle banche nel mondo sia consistente
(intorno ai 40 miliardi di dollari) ma alla fine l'incidenza
sugli utili non sembri (almeno per quanto delineato da
alcuni studi) giustificare il panico di ieri, i credit
default swaps (Cds) a cinque anni di Dubai, cioè il costo
per assicurare il debito sovrano dell'emirato del Golfo,
sono ulteriormente schizzati oggi di 167 punti a 708,96
punti base (+31% rispetto a ieri). In pratica ci vorrebbero
708mila dollari (contro i 318mila di martedì) per
assicurarsi per cinque anni 10 milioni di dollari di debito
sovrano.
Dubai è ora al quarto posto nella classifica dei paesi a
rischio default con una probabilità del 38,8 per cento.
Precedono l'emirato Ucraina (57,6%), Venezuela (57,1%),
Argentina (46,3%). Oltre a quelli di Dubai i Cds che oggi
sono saliti di più in percentuale sono quelli di Hong Kong
(+19%, cioè 10 punti a 62,56 punti base), Abu Dhabi (+17,3%
o 27,87 punti a 188,29 pb), Australia (+15,9% o 5,5 punti a
40 pb), Corea (+15% a 15,36 punti a 117,46 pb), Slovacchia
(+14,1% a 10,54 punti a 84,84 pb), Malaysia (+13,2% o 13,81
punti a 117,8 pb) e Giappone (-12,2% o 8,77 punti a 80,32 pb).
L'evoluzione della crisi
Cosa succederà a questo punto? In attesa di una
comunicazione annunciata per l'inizio della prossima
settimana circolano varie ipotesi. Potrebbe, tra l'altro,
intervenire in auto il vicino emirato di Abu Dhabi, che a
differenza di Dubai fonda la propria ricchezza sul petrolio.
Secondo uno studio della banca elvetica Ubs all'origine
dell'annuncio shock di mercoled' potrebbe esserci stato
proprio un sostegno di Abu Dhabi meno generoso, oppure un
indebitamento più alto di quanto si pensasse o forse una
mossa premeditata per affrontare una volta per tutte i
problemi del mondo societario del Dubai. La richiesta-shock
di moratoria del debito di Dubai World avanzata
dall'Emirato, del resto, «non può essere stata presa alla
leggera, date le gravi implicazioni per la reputazione degli
Emirati» sui mercati finanziari, colti di sorpresa.
Vulnerabilità e problemi del Dubai, in realtà, non sono una
novità, sottolinea Ubs: niente petrolio, niente risparmi, un
debito stimato a 80-90 miliardi di dollari pari al 100% del
Pil e una grossa bolla immobiliare. Tuttavia negli ultimi
due mesi la situazione sembrava migliorata e recentemente lo
sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum aveva rassicurato gli
investitori sull'affidabilità dell'Emirato.
I tre possibili scenari
Data la "mancanza di trasparenza", si possono avanzare solo
scenari sui motivi dell'improvvisa ristrutturazione del
debito. Il primo ipotizza che l'Abu Dhabi intenda soccorrere
il Dubai solo dopo che l'Emirato avrà fatto ordine in casa
propria, il che solleverebbe preoccupazioni sullo stato
delle relazioni tra i due emirati. Il fondo sovrano dell'Abu
Dhabi ha asset per 500 miliardi di dollari e fare fronte
alla scadenza di 3,5 miliardi del 14 dicembre del debito
Nakheel non avrebbe dovuto essere un grosso sforzo, se ci
fosse stata la volontà politica di farlo.
In alternativa potrebbe essere una mossa premeditata da
parte di entrambi i Governi, che hanno voluto riportare
responsabilità e affidabilità nel settore societario
dell'emirato, evitando la scorciatoia dei salvataggi che non
avrebbe solo rinviato il problema del moral hazard. Oppure,
ultima ipotesi, i problemi finanziari del Dubai sono
peggiori di quanto si pensi e il debito dell'Emirato
considerando le passività off-balance, è superiore alle
cifre circolate finora, il che potrebbe implicare effettive
difficoltà a fare fronte alle scadenze.
Secondo gli analisti di Ubs, è probabile che si tratti di un
mix dei tre scenari, che oltre al grave danno che sta
causando ora potrebbe tuttavia avere positive implicazioni
nel medio termine. Permettendo alle forze di mercato di
svolgere il proprio ruolo, il Dubai potrebbe infatti
ripartire su basi più solide. Insomma "un danno adesso, ma
un guadagno futuro". Il punto interrogativo, tuttavia, é
d'obbligo.
Nella City le banche europee più inguaiate
Royal Bank of Scotland è il primo intermediario finanziario
di Dubai World, mentre Hsbc è l'istituto più esposto nei
confronti degli Emirati Arabi Uniti. È quanto afferma
JPMorgan in un rapporto, citato dall'agenzia Bloomberg, in
cui si precisa che Rbs dal gennaio 2007 ha gestito 2,28
miliardi di dollari di investimenti finanziari per conto di
Dubai World, e che Hsbc aveva un'esposizione di 17 miliardi
di dollari a fine 2008. Nel rapporto si indica inoltre che
le banche estere hanno 47,1 miliardi di dollari a rischio.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
La settimana,
27/11/2009
Friday, 27 November, 2009 at
11:13 -
by phastidio ______________________________________________
In una settimana caratterizzata
da rarefazione dell’attività, a causa del Thanksgiving negli
Stati Uniti, i mercati sono stati scossi, nella giornata di
giovedì, dalla possibilità di un default dell’emirato del
Dubai, dopo che un’agenzia governativa ha chiesto ai propri
creditori un rinvio di sei mesi dei termini di rimborso di
un’obbligazione. La turbolenza ha provocato una fuga verso
attivi meno rischiosi, causando tra le altre cose il
ripiegamento delle quotazioni dell’oro, la rivalutazione dei
titoli obbligazionari governativi e l’apprezzamento del
dollaro e dello yen.
Particolarmente colpito il settore creditizio, su timori per
la potenziale esposizione a Dubai, ma questo evento si
inserisce in un quadro di rinnovati timori sulla solidità
delle banche. Standard&Poor’s ha pubblicato il confronto tra
le dimensioni di capitale aggiustato per il rischio delle
principali banche mondiali, da cui emerge che il livello di
patrimonializzazione resta una debolezza per il rating delle
banche globali. Il rischio è quello di dover procedere a
nuovi aumenti di capitale, che deprimerebbero le quotazioni
azionarie.
Problema analogo, pur partendo da premesse differenti, si
registra in Cina, dove i prezzi sono stati depressi dalla
notizia che le cinque maggiori istituzioni creditizie
nazionali dovranno presentare alle autorità di vigilanza
dettagliati piani di ricapitalizzazione, dopo che la forte
espansione dei prestiti per alimentare lo stimolo ha causato
il depauperamento della base di capitale, attuale e futura,
in quest’ultimo caso per l’aumento dei crediti inesigibili
causato da criteri di prestito non particolarmente
selettivi. Secondo il direttore generale del
Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, circa
metà delle perdite bancarie causate dalla crisi finanziaria
globale devono ancora essere rivelate, ed i sistemi creditizi
restano sottocapitalizzati in molte economie avanzate. In
Germania la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità
finanziaria, ha segnalato che le banche tedesche rischiano altre
svalutazioni per 90 miliardi di euro, a causa delle perdite su
prestiti e cartolarizzazioni. Le svalutazioni legate ai prestiti
potrebbero raggiungere i 50-75 miliardi di euro, cui si
potrebbero aggiungere altri 10-15 miliardi di perdite legate
alle cartolarizzazioni, soprattutto ai Cdo (collateralized debt
obligations).
Negli Stati Uniti, prosegue il dibattito sulla exit strategy.
Per l’analista indipendente Meredith Whitney, la fine del
programma della Federal Reserve di riacquisto di titoli mortgage
backed securities, prevista per il prossimo 31 marzo, causerà un
rimbalzo dei tassi che finirà per colpire pesantemente il
settore dei mutui. Immediata la replica del presidente della Fed
di Saint Louis, James Bullard, che ha richiesto un prolungamento
del programma di riacquisto oltre la scadenza del 31 marzo,
condizionato alla disponibilità di informazioni sulla effettiva
uscita dalla crisi. Questa dialettica ha avuto
immediato impatto sul dollaro, che si è indebolito a seguito dei
commenti di Bullard, per poi rafforzarsi lievemente al momento
della pubblicazione delle minute della Fed relative al FOMC del
3 e 4 novembre, nelle quali il comitato segnala la necessità di
stretto monitoraggio ove la tendenza al deprezzamento del
dollaro dovesse intensificarsi o porre significative pressioni
al rialzo sull’inflazione.
Alcuni osservatori hanno inizialmente interpretato questo come
un tentativo di alleviare i timori cinesi sul deprezzamento del
dollaro, e quindi impedirne l’ulteriore deprezzamento. Analisi
successivamente sconfessata dal fatto che la Fed ha in realtà
espresso accettazione verso un “ordinato” deprezzamento del
dollaro, visto anche come effetto dell’accresciuto appetito per
il rischio. Le turbolenze valutarie sono accresciute dal fatto
che numerosi paesi emergenti hanno visto la propria divisa
apprezzarsi significativamente contro dollaro negli ultimi mesi,
e stanno prendendo contromisure per sostenere il proprio export.
E proprio con queste motivazioni, in settimana, la Russia ha
tagliato di mezzo punto il proprio tasso d’interesse di
riferimento, portandolo al 9 per cento. Tra gli altri eventi di rilievo
della settimana, si segnala il forte allargamento dei credit
default swap sulla Grecia. Moody’s, che ha in corso una
revisione del paese per un possibile declassamento del debito,
ha sollevato timori circa la capacità del paese di generare nei
prossimi dieci anni una crescita sufficiente a stabilizzare il
livello di debito sul Pil, oggi al 120,8 per cento: per il
prossimo anno, infatti, il Pil greco dovrebbe continuare a
flettere, nella misura dello 0,3 per cento. A peggiorare un
quadro già così delicato, si aggiunge la fragile condizione
delle banche greche nell’eurosistema. La banca centrale greca ha
chiesto agli istituti creditizi domestici di individuare fonti
di finanziamento alternativo, per essere pronte quando la Banca
centrale europea inizierà a drenare la liquidità fornita al
sistema. Quando la Bce ritirerà lo stimolo (mossa che al momento
non appare imminente, ma i mercati si tendono a scontare gli
scenari futuri), le banche greche saranno costrette a cercare
finanziamenti a prezzi di mercato, evidentemente ben più
onerosi. Da qui al contagio del rischio di credito sovrano il
passo è assai breve.
Fonte
- Macromonitor
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Dubai:
lasciamoli fallire, se lo meritano
27 Novembre 2009 06:22
NEW YORK -
di Luca Ciarrocca*
Luca Ciarrocca
e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.
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Stavamo a fatica uscendo dalla Grande Recessione
mondiale del 2008-2009 ed ecco che la sorpresa arriva
proprio dai veri ricchi, quegli arabi che i soldi dovrebbero
averli davvero, col greggio che si ritrovano sotto la sabbia
(anche se Dubai non ha petrolio). Ma come, se fanno crack
gli sceicchi, allora che succedera' a noi poveri mortali?
Otto anni fa l'Argentina fece un default da 95 miliardi di
dollari ma il mondo era diverso e meno pericoloso, si viveva
in un'era moderatamente avida, prima delle bolle comandate e
accettate. Il crack di Dubai e' in verita' una goccia di
indebitamento nell'oceano dei trilioni della finanza
mondiale. Quella monarchia ha un "buffo" complessivo di 80
miliardi di dollari, inferiore alla somma che noi cittadini
italiani collettivamente paghiamo ogni anno al Governo solo
in interessi (il debito pubblico dell'Italia nel 2009 e'
salito di 90 miliardi a 1.750 miliardi di euro).
Dubai pero' ci ha ricordato all'improvviso che sul mercato
ci sono tante altre situazioni esplosive nascoste mentre
l'establishment politico e le banche centrali ci ingannano
tutti i giorni cercando di far finta di nulla, minimizzando,
spargendo ottimismo e alimentando il sistema con le vecchie
droghe di sempre. Lehman Brothers, Bear Stearns o Dubai, in
effetti pari sono. Mica e' questione di nomi, di banche,
stati, mega-aziende decotte che falliranno anche in futuro.
Ce ne saranno molte altre di bancarotte nel 2010 e oltre,
perche' il capitalismo mondiale (che noi rispettiamo e di
cui viviamo, chiamandoci Wall Street Italia...) e' affetto
ormai da un virus pericoloso che muta di continuo e non si
capisce dove vada a parare.
Nonostante la crisi paurosa dell'anno scorso, con il mega
salvataggio globale che ha evitato il collasso sistemico un
minuto prima che avvenisse (il 10 ottobre 2008) il
capitalismo e' identico a prima, non e' stato riformato, le
banche sono le medesime, i poteri pure, gli attori hanno gli
stessi posti sul palcoscenico. Che stavolta sia la finanza
islamica a tracollare nella Penisola Arabica e' irrilevante,
se domani facesse crack lo Ior del Vaticano sarebbe lo
stesso.
Comunque diciamola tutta: noi di WSI siamo di fatto contenti
del default di Dubai World, la holding d'investimento
dell'Emirato (purche' non tocchi i nostri portafogli e non
abbia il temuto "effetto domino"). Cosa ce ne puo' importare
infatti, di un paese (una monarchia medievale, 87 chilometri
quadrati, popolazione inferiore a quella di Roma) che in un
raptus prolungato da manie di grandezza ha speso decine di
miliardi per costruire inutili isole finte a forma di palma,
campi da sci con neve fasulla in una bolla di vetro nel
deserto (dove gli sceicchi sciano in tunica), alberghi di
stralusso a 7 stelle, metropolitane senza passeggeri,
eccetera eccetera? Nulla, non ce ne importa proprio nulla.
Noi la pensiamo cosi: che se la cavino da soli ad uscire dal
loro guaio finanziario, questi arabi. E le banche che gli
hanno prestato impunemente soldi sulla base di business
model falsi e pretenziosi, s'arrangino e facciano semmai
crack anche esse. Insomma e' venuto il momento di
rivendicare la sana pratica del fallimento in larga scala
come avveniva un tempo e come oggi provano sulle loro spalle
solo le piccole imprese e gli individui. Ma dobbiamo davvero
buttare la ciambella a tutti i peggiori speculatori mondiali
mentre noi comuni cittadini sfacchiniamo per far quadrare i
conti? Ma che affoghino e crepino! Questo signor sceicco,
certamente educato ad Oxford e con MBA negli Stati Uniti,
Sheikh Mohammed Bin Rashid al-Maktoum, se ne faccia una
ragione e dica addio alla sua posizione nella parte alta
della classifica Forbes dei miliardari. Cartellino rosso,
espulso! Tutt'al piu', se proprio ci tiene, che si faccia
organizzare un bel salvataggio ad hoc dai vicini di duna, i
colleghi principi e sceicchi di Abu Dhabi, capitale
confinante degli Emirati Arabi Uniti.
(Tra parentesi: non ci interessa assolutamente nulla nemmeno
di questi bond Islamici conosciuti come "sukuks" e sui quali
non si dovrebbero pagare interessi perche' il pagamento
degli interessi e' vietato da Allah; tra l'altro perche' mai
fare default, tanto gli interessi non li pagano in ogni
caso? E dato che ci siamo, per quale motivo Dubai World e'
anche azionista di un casino' di Las Vegas come MGM Mirage?
Cronache da Dolce Vita in stile islamico: morigeratezza solo
di facciata).
E' altamente improbabile comunque che il caso Dubai metta a
repentaglio l'economia mondiale o le borse. Ci pensera' la
grande Wall Street (ieri chiusa per Thanksgiving e oggi
semi-aperta) a ristabilire le misure ridando le dovute
proporzioni al "buco". Per cui: lasciamoli pure fallire
senza preoccupazioni. Lasciamoli nelle peste con le loro
cattedrali nel deserto senz'anima ne' cultura. Che si
tengano le sedi lussuose in vetro-cemento per banche e
finanzierie come gusci vuoti. Lasciamoli crogiolare con gli
sfiniti marchi del lusso venduti in mall all'americana dai
pavimenti marmorei, specchi e ori ovunque. Lasciamoli con le
gru ferme e i cantieri bloccati. Gia', un bel patatrack da
$40, 59 o anche 80 miliardi di dollari. Sono comunque
bruscolini se pensate che sul valutario si scambiano ogni
giorno 4 trilioni di dollari alla velocita' di un blip sullo
schermo dei computer. Ogni giorno.
Non molti di voi saranno dispiaciuti perche' l'appartamento
comprato dagli speculatori all'Albergo della Vela o la villa
a Palm Jumeirah hanno perso il 50% del valore nei 2 anni
dall'acquisto. David Beckham, il presidente dell'Afghanistan
Hamid Karzai, oligarchi russi, indiani e iraniani, Naomi
Campbell e Bill Clinton, Brad Pitt e Denzel Washington, e
centinaia di altri arricchiti planetari: benvenuti, vi
presentiamo le dure repliche della storia e le
mini-implosioni del capitalismo.
Wall Street Italia fu tra i primi ad accorgersi della crisi
in Dubai esattamente un anno fa, l'articolo raccontava di
Mercedes e Bmw abbandonate all'aeroporto da bancarottieri in
fuga dall'Emirato. Folklore ormai noto a chi segue i mercati
finanziari con disincanto e senza indulgere al tifo da curva
sud (comunque non pubblichiamo i nomi degli italiani che
hanno investito in Dubai per non scatenare la caccia, tanto
lo fara' qualcun altro tra quelli che scoprono tutto 1
minuto dopo che il fatto e' accaduto, gente che sa il prezzo
di ogni cosa senza conoscere il valore di nulla).
Detto questo, a parte le simpatie o antipatie per l'Emirato
e i suoi confinanti, bisogna stare davvero con gli occhi ben
aperti, per chi investe istituzionalmente sui mercati: non
sono tempi per vedove ed orfani, questi. Attenti all'effetto
domino. Attenti a chi specula al ribasso. Attenti ai colpi
di coda delle mafie finanziarie perdenti e all'arroganza
miope di quelle vincenti. Attenti perche' la subdola
politica di chi guida i mercati finanziari globali (governi,
banche, banche centrali, multinazionali) facendo passare le
economie da una bolla ad un crack ad un'altra bolla ad un
altro crack, con l'1% della popolazione che si arricchisce
in tutti i cicli e il 99% che invece ci rimette le penne
senza capir nulla, quella politica, stradominante
nell'ultimo decennio, continuera'. Ad oltranza.
Dubai e' un inconveniente sgradevole, uno starnuto. Ma con i
tassi bassi oggi come lo erano alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, con il denaro che non vale la carta su cui
e' stampato, con i maggiori istituti di credito mondiali
indebitati per oltre 5 trilioni di dollari, in questo
scenario speculazioni colossali sono in corso sempre, tutti
i giorni, proprio adesso mentre leggete queste righe.
Pensate che alcuni grandi fondi americani d'investimento
offrono un rendimento effettivo sul capitale depositato
dello 0.01% annuo. Di questo passo ad un investitore
servirebbero 6.932 anni per raddoppiare la cifra iniziale.
La finanza e' ridotta a questo? Il peggio, se ne deduce,
deve ancora arrivare. Nuove bolle sono in vista. L'avidita'
di pochi avra' conseguenze imprevedibili per tutti finche'
qualcuno (che goda di credibilita', e saranno un paio...)
non chiedera' agli altri di sedersi attorno a un tavolo per
trovare una soluzione globale e condivisa. Non succedera'
tanto presto, voi che dite?
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Fonte -
WallStreetItalia.com |
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