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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Macro USA/credito/valutario - Opinioni

Carry trade, meravigliose bolle di sapone

Crisi credito - Opinioni

Grandi banche tossiche, anzi atomiche

Politica estera e storia

A Berlino 20 anni dopo la Festa della libertà

Crisi credito e Macro USA - Opinioni

Morti viventi a confronto

Macro USA e mondo - Opinioni

La ripresa e le sue droghe

Politica estera - visita Obama in Cina

Usa-Cina: Prove Di G2 tra Obama e Hu Jintao (Il Punto)

Crisi credito - Opinioni

BCE: nutrire il cicgo nero, oppure?

Valute USD - Opinioni

Il dilemma del dollaro

Crisi credito - Emirati Arabi/Dubai - Cronologia e prime news

Il rischio paese di Dubai sale ancora, Cds alle stelle

Crisi credito - Emirati Arabi/Dubai - Opinioni

Dubai: lasciamoli fallire, se lo meritano

   
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+++   ANSA   +++   01 Novembre 2009 00:52 NEW YORK  -  USA: FALLISCONO ALTRE 9 BANCHE, TOTALE 2009 SALE A 115  +++   02 novembre 2009 08:02 NEW YORK - Fmi: la disoccupazione salirà per tutto il 2010   +++   Fallisce Cit group, è la quinta maggior bancarotta di sempre   +++   07 Novembre 2009 23:10 NEW YORK - DISOCCUPATI IN AMERICA: LA CIFRA VERA E' 17.5%   +++   17 novembre 2009 17:35 NEW YORK - Buffett scommette sulla ripresa dei mercati   +++   26 novembre 2009 12:04 DUBAI - Crisi: Annuncio Shock Dal Golfo, Dubai World Sospende Pagamento Debiti   +++   ANSA   +++
 
  Domenica 01 Novembre 2009   Mercoledì 04 Novembre 2009   Giovedì 05 Novembre 2009  
       
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  Carry trade, meravigliose bolle di sapone

01 Novembre 2009 19:53 NEW YORK - di Nouriel Roubini

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Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere (azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e stabili.

Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività dovrebbero gradualmente crescere.

Ma se è vero che l'economia americana e mondiale è timidamente ripartita, i prezzi degli asset sono saliti alle stelle a partire da marzo con un rally consistente e sincronizzato. Nel 2008 erano calati bruscamente, quando era il dollaro a salire, ma da marzo in poi sono schizzati in alto mentre il dollaro colava a picco. I prezzi delle attività rischiose sono cresciuti troppo, troppo presto e troppo in fretta rispetto ai fondamentali dell'economia.

E allora che cosa c'è dietro a questo eccezionale recupero? Indubbiamente ha contribuito l'ondata di liquidità prodotta da tassi di interesse prossimi allo zero e politiche monetarie espansive. Ma all'origine di questa bolla c'è soprattutto la debolezza del dollaro, trainata dalla madre di tutti i carry trade. Il dollaro è diventato la moneta più utilizzata in queste operazioni speculative tra tassi e valute, perché la Fed ha tenuto sotto controllo i tassi d'interesse e si prevede che continuerà a farlo ancora per molto tempo. Gli investitori che puntano sul ribasso del dollaro per comprare, con effetto leva, attività a più alto rendimento, non stanno semplicemente prendendo in prestito a tasso di interesse zero rispetto al dollaro; stanno prendendo in prestito a tassi fortemente negativi - addirittura fino al 10% o 20% annualizzato - perché la caduta del dollaro garantisce cospicue plusvalenze.

Riassumiamo: gli operatori prendono in prestito a tassi del -20% per investire, con un forte effetto leva, su una massa di attività rischiose in tutto il mondo che stanno aumentando di prezzo, a causa di un surplus di liquidità e di un massiccio ricorso al carry trade. Qualsiasi investitore che si dedichi a questo gioco rischioso fa la figura del genio (anche se sta semplicemente cavalcando una colossale bolla finanziata da un costo del credito fortemente negativo), perché i rendimenti da marzo in poi sono stati nell'ordine del 50-70%.

La percezione da parte degli individui del valore a rischio del proprio portafoglio investimenti dovrebbe invece aumentare, per via della crescente correlazione dei rischi fra categorie di asset differenti, tutte trainate dalla politica monetaria comune e dalla pratica del carry trade. Anzi, è diventata un'unica, grande operazione comune: si vendono dollari per comprare qualunque asset a rischio a livello mondiale.

Al tempo stesso, però, la "rischiosità" percepita delle singole categorie di asset sta scemando, per via della minor volatilità frutto della politica della Fed di comprare tutto quello che le capita a tiro (si pensi alla sua proposta di acquistare 1800 miliardi di dollari di titoli di Stato, titoli garantiti da ipoteca - obbligazioni garantite da imprese semipubbliche come la Fannie Mae - e agency debt). Le singole categorie di asset quindi ora sono meno volatili e si comportano nello stesso modo, e dunque la diversificazione fra i mercati si è ridotta (e il Var è tornato ad apparire basso).

Dunque, l'effetto combinato della politica Fed (tasso zero, politiche espansive e acquisto su larga scala di strumenti di debito a lungo termine) apparentemente sta creando a livello mondiale- per ora - le condizioni per la madre di tutti i carry trades e la madre di tutte le bolle mondiali dei prezzi delle attività con effetto leva. Questa politica non alimenta sono una bolla globale, alimenta anche una nuova bolla negli Usa. Il denaro facile, le politiche di espansione quantitativa, l'espansione del credito e i consistenti afflussi di capitali negli Stati Uniti attraverso l'accumulazione di riserve in valuta estera da parte delle Banche centrali degli altri Paesi rende più facile finanziare i deficit di bilancio Usa e alimenta la bolla delle azioni e del credito Oltreoceano. Per concludere, un dollaro debole è positivo per le azioni Usa, perché può portare a una crescita più forte e può accrescere i profitti in valuta estera delle grandi aziende statunitensi all'estero, in termini di dollari.

La politica sconsiderata degli americani, che sta alimentando questi carry trades, obbliga altri Paesi a seguire le stesse politiche monetarie. Il Regno Unito, l'Eurozona, il Giappone, la Svezia e altre economie avanzate stavano già applicando politiche di tassi quasi a zero ed espansione quantitativa, ma la debolezza del dollaro sta aggravando ulteriormente questa politica monetaria espansiva globale. Le Banche centrali in Asia e in America Latina sono preoccupate per la debolezza del dollaro e stanno intervenendo in modo aggressivo per impedire che le loro valute si apprezzino eccessivamente. Questo mantiene i tassi di interesse a breve a un livello inferiore a quello auspicabile. Inoltre, le Banche centrali potrebbero essere costrette ad abbassare i tassi con operazioni a mercato aperto.

Alcune Banche centrali, preoccupate per i capitali vaganti che spingono in alto le loro valute, come nel caso del Brasile, stanno imponendo controlli sui flussi di capitale in entrata. Nell'uno o nell'altro caso, la bolla del carry trade peggiorerà: se non ci sarà nessun intervento valutario e le valute straniere si apprezzeranno, il costo negativo del credito legato al carry trade crescerà ulteriormente. Se gli interventi valutari o le operazioni a mercato aperto terranno sotto controllo l'apprezzamento della valuta, le politiche monetarie quantitative che ne conseguiranno a livello nazionale alimenteranno una bolla dei prezzi delle attività in queste economie. E dunque la bolla globale, che interessa tutte le categorie di asset, si gonfierà giorno dopo giorno.

Ma un giorno questa bolla scoppierà, portando al crack coordinato dei prezzi degli asset più grande di sempre: se i fattori produrranno un'inversione di tendenza del dollaro, con improvviso rafforzamento (come abbiamo visto per lo yen), le operazioni di carry trade con effetto leva dovranno essere chiuse in fretta e furia, con gli investitori che coprono il loro scoperto in dollari. E si scatenerà un fuggi fuggi, perché la chiusura generalizzata di posizioni lunghe con effetto leva su asset di rischio finanziate dal dollaro basso innescherà un tracollo coordinato di tutti quegli asset (azioni, materie prime, asset dei mercati emergenti e strumenti creditizi). Perché dovrebbe andare a finire così? Innanzitutto, perché il dollaro non può continuare a scendere all'infinito, a un certo punto si stabilizzerà; quando questo succederà, il costo del credito in dollari diventerà improvvisamente zero, invece che fortemente al di sotto dello zero come prima, e la rischiosità di un'inversione dell'andamento del dollaro spingerà molti a coprire il loro scoperto.

In secondo luogo, la Fed non potrà contenere la volatilità in eterno (il suo piano d'acquisto da 1.800 miliardi di dollari finirà la primavera prossima). In terzo luogo, se la crescita americana sarà più alta del previsto nel terzo e nel quarto trimestre, i mercati potrebbero cominciare ad aspettarsi, in anticipo sui tempi, una stretta della politica monetaria da parte della Fed. In quarto luogo, i timori di una recessione "a W" o rischi geopolitici, come un confronto militare fra gli Stati Uniti e Israele da una parte e l'Iran dall'altra, potrebbero rendere la gente meno incline al rischio. Come nel 2008, quando l'impennata dell'avversione al rischio fu accompagnata da una forte rivalutazione del dollaro perché gli investitori cercavano la sicurezza dei titoli di Stato Usa, questa nuova avversione al rischio innescherebbe un recupero del dollaro in un momento in cui dovranno essere chiuse posizioni "corte" cospicue.

Tutto ciò non è detto che succeda subito, perché il denaro a buon mercato e l'eccesso di liquidità a livello globale possono continuare a spingere in alto i prezzi delle attività per un certo periodo. Ma più andranno avanti e più si allargheranno questi carry trades, più crescerà la bolla e maggiore sarà il botto che farà quando scoppierà. La Fed e altri policymakers sembrano inconsapevoli della bolla-monstre che stanno creando. Più tardi se ne accorgeranno, più pesante sarà il tonfo che faranno i mercati.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Economia Usa, i dubbi sulla ripresa

01/11/2009 - Miaeconomia
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Col Pil Usa che nel terzo trimestre e’ cresciuto del 3,5%, l’aumento maggiore degli ultimi due anni, l’economia americana batte un colpo positivo sulla via della ripresa. Il rialzo dopo quattro trimestri consecutivi di contrazione di fatto chiude la peggiore recessione dalla Grande Depressione. Ma c’e’ un ma, perche’ nonostante il dato certamente positivo non e’ tutto oro cio’ che luccica. Gli economisti avvertono che la crescita del trimestre luglio-settembre e’ una ripresa artificiale, drogata dagli stimoli fiscali a pioggia del Governo Usa, che hanno funzionato, ma che popolano di dubbi analisti ed economisti riguardo gli effetti che si avranno quando la scia positiva dell’investimento pubblico si esaurira’.
I consumi, che rappresentano il 70% del Pil Usa, hanno ripreso a marciare ed e’ grazie a loro e al rialzo del 3,4% nel trimestre, incremento piu’ forte degli ultimi due anni, che il Pil ha potuto mettere a segno un progresso addirittura superiore alle attese degli analisti che si attendevano un balzo del 3,2%. Eppure non va sottovalutato che il rialzo e’ legato al piano di incentivi, aspetto che viene messo in evidenza dallo stesso Dipartimento del Commercio Usa, con un atteggiamento che invita a moderare i facili entusiasmi.
L’altro grande importante settore di crescita e’ stato quello dell’immobiliare. Lo 0,5% della crescita del Pil del terzo quarto e’ stato favorito dal boom delle costruzioni di case nuove che hanno fatto registrare un balzo del 23% rispetto al precedente trimestre, ma drogato dagli sgravi per l’acquisto della prima casa e dai programmi della Fed.

Insomma dagli economisti arriva un consiglio alla prudenza. L’economia americana non e’ guarita, anche se la febbre sta calando e forse e’ passata. Ma adesso deve riprendere le forze e l’attuale situazione deve fare i conti con la disoccupazione che ormai sfiora la soglia del 10% e con una emorragia di posti di lavoro che e’ destinata a continuare ancora per almeno parte del 2010.
Inoltre il dollaro e’ sceso di nuovo ai minimi, sotto quota 1,50 sull’euro, spinto dai tassi bassi e dai deficit gemelli che sono a livelli mai toccati e che richiederanno anni, secondo il piano della Casa Bianca, per tornare in pareggio. Sempre che nel frattempo non arrivino altre recessioni. Senza contare che il petrolio e’ tornato a scalpitare; se da 80 dollari, attuali valori, dovesse salire a 100 dollari al barile, rappresenterebbe un ulteriore ostacolo alla ripresa economica.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

Banche, lezione europea per l’America

November 2nd, 2009 - di Mario Seminerio
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Nel Regno Unito, il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, illustrerà questa settimana i piani del governo britannico per il futuro del sistema bancario nazionale. Tali piani prevedono letteralmente di “fare a pezzi” le principali banche beneficiarie del salvataggio pubblico, Royal Bank of Scotland (posseduta dal governo al 70 per cento) e Lloyds Bank (pubblica al 43 per cento), e di creare tre nuove entità bancarie, che saranno vendute sul mercato. L’operazione prevede la vendita di sportelli o di controllate ed ha come obiettivo, per usare le parole di Darling, “un processo di riforma e ricostruzione in modo da avere un sistema bancario più sicuro e competitivo di quello che abbiamo attualmente, con nuovi ingressi sul mercato”.
Dietro la manovra del governo Brown c’è la pressione dell’Unione europea, e in particolare della commissaria alla Concorrenza, Neelie Kroes, che da tempo esercita pressioni sui governi che hanno salvato i propri gruppi bancari durante la fase più acuta della crisi per cogliere l’opportunità di spezzare condizioni di potenziale eccesso di posizione dominante o comunque di dimensione critica raggiunta da alcuni istituti bancari, ed ha già trovato un primo esito nel breakup della olandese ING.
Tornando al Regno Unito, Darling si è affrettato a precisare che le operazioni di scissione avverranno “al momento opportuno”, ma la strada è ormai tracciata. Più interessante sarà capire chi saranno gli acquirenti, in un contesto di antitrust così cogente. Barclays, HSBC e probabilmente gli spagnoli di Banco Santander, che già controllano Abbey, Alliance & Leicester e sportelli di Bradford & Bingley, non potranno partecipare alle dismissioni. Per ora esiste l’interesse del retailer Tesco e del gruppo Virgin. Si profila anche un’opportunità dagli occhi a mandorla?
Una piccola morale è tuttavia già possibile trarla: immaginate Citigroup e Bank of America costrette dal loro fedele servitore Tim Geithner a vendere propri sportelli e controllate. Un film di fantascienza, vero? Registriamo quindi con una certa soddisfazione l’iniziativa dell’Unione Europea, i cui interventi in passato molte volte ci hanno lasciati dubbiosi o apertamente contrari. Speriamo le stesse considerazioni possano essere condivise anche da alcuni detrattori “senza se e senza ma” della Ue. Per una volta, brava Europa.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

Obama, un anno dopo

November 3rd, 2009 - di Andrea Gilli
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Un anno fa Barack Hussein Obama veniva eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Ad un anno di distanza, è possibile fare un bilancio della sua presidenza. Poiché non mi occupo di sanità, economia, o finanza, la mia analisi riguarderà prevalentemente l’ambito della politica estera.
Alla vigilia delle elezioni dello scorso anno, Obama era visto prevalentemente sotto due prospettive: da una parte, a destra, lo si accusava di essere un liberal rammollito, pronto a svendere l’America e incapace di difenderne gli interessi nazionali. A sinistra, invece, lo si vedeva come un vero democratico, a volte persino pacifista, e quindi al suo nome si associavano concetti o valori quali multilateralismo, diplomazia, dialogo. O Carter o Giovanni Paolo II, per dirla in modo diverso.
Se qualcosa è certo, dopo 12 mesi, è che tutte e due le letture erano sbagliate – come avevo anticipato.
Infatti, Obama ha continuato ad attaccare i santuari talebani e di al-Qaeda in Pakistan, ha coniugato la sua promessa di ritiro dall’Iraq con la realtà strategica in campo, e sta andando ad approvare il bilancio della Difesa più alto della storia dell’umanità (siamo oramai ad un soffio dai 700 miliardi di dollari). In altri termini, non è un liberal rammollito che vuole svendere l’America ma dall’altra parte la sua presidenza è ben diversa da quella di George W. Bush.
Come si può interpretare, dunque, la presidenza Obama? A mio modo di vedere, per capire l’era Obama è innanzitutto necessario capire l’era nella quale essa si colloca. Pochi mesi prima delle presidenziali americani, il saggista Fareed Zakaria pubblicava un libro dal titolo The post-American World. La tesi di Zakaria è che staremmo osservando una trasformazione epocale del sistema internazionale: la crescita economica della Cina, dell’India, del Brasile, dell’Indonesia, della Nigeria e del Sud Africa starebbero de-occidentalizzando il mondo.
In altri termini, nel sistema internazionale che si sta creando in questi anni, l’Occidente avrà progressivamente un ruolo minore. Se guardiamo ai dati, la tesi di Zakaria è semplicemente una fotografia della realtà. L’era Obama va dunque compresa in questo contesto: non sorprende che il neo-presidente abbia cercato dialogo, diplomazia e distensione con la sua politica estera. Non potendo nulla contro la dispersione del potere a livello internazionale e contro la crescita delle potenze non-occidentali, per difendere l’America e i suoi interessi non restava che una strada obbligata: limitare al massimo conflitti e scontri, così da ridurre le sue spese (dirette e indirette) e, allo stesso tempo, favorire un clima di dialogo necessario per plasmare il nuovo ordine internazionale.
Sotto questa prospettiva, la politica di Obama verso l’Iran e verso la Russia, per esempio, non solo sono comprensibili ma anche condivisibili. L’America sta affrontando una drammatica crisi economica che arriva proprio in un momento di transizione a suo svantaggio del sistema internazionale: non si vede dunque quali alternative fossero a sua disposizione.
Ovviamente, il fatto che la strategia di Obama sia coerente con il contesto internazionale nel quale essa si colloca non significa che tutte le sue azioni siano state efficaci o tempestive. Proprio su Iran e Russia i dubbi non mancano: quando lo scorso giugno assistemmo alle manifestazioni di Teheran, la Casa Bianca fu presa in contropiede dagli avvenimenti. Dall’altra parte, verso la Russia ci sono state diverse esitazioni, il cui apice si è avuto a settembre quando nel giro di dieci giorni lo scudo missilistico è stato prima degradato e poi annullato. A mio parere, quest’ultimo è l’aspetto più importante e da esso dipende il futuro, e il successo, dei restanti anni dell’era Obama. La politica verso l’Iran, la Russia, ma anche verso l’Afghanistan, l’Iraq, la politica di Difesa (e lo stesso si può dire sulla Finanza e sulla Sanità) ha spesso mancato di unicità e coerenza. La sensazione è che in più occasioni, l’America abbia parlato con più voci. E quando un Paese parla con più voci, allora manca di leadership.
Ad un anno dalla sua elezione, e a poco più di dieci mesi dalla sua salita al potere, Obama ha mostrato un buon fiuto strategico, ma le sue azioni hanno poi anche mostrato numerosi problemi a livello tattico. Se il nuovo Presidente sarà in grado di rimediare a questi primi errori (magari sostituendo anche alcuni individui della sua amministrazione, a partire da Biden e Holbrooke), allora la sua presidenza potrà portare a dei successi. Altrimenti, il vero rischio è di fallimenti su più fronti. La mia opinione è che per Obama non sarà facile risolvere questi problemi. La forza della sua presidenza si fonda sulla sua capacità di unire e queste scelte implicano la necessità di dividere. I veri geni politici sono quelli che riescono ad unire anche quando dividono. Vedremo se Obama riuscirà in questa impresa.

 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

 

  Grandi banche tossiche, anzi atomiche

01 Novembre 2009 02:35 NEW YORK - di Andrea Mazzalai

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Dopo le esternazioni del governatore della banca centrale inglese, King sulla necessità di smontare pezzo per pezzo le centrali nucleari bancarie internazionali troppo grandi per fallire, (separandone le attività tradizionali e commerciali da quelle esclusivamente speculative o di investimento) e le continue esternazioni del grande vecchio e saggio Volcker, anche il governatore della banca centrale francese Noyer, lancia l'allarme in due direzioni; una nei confronti del sistema finanziario e un'altra, nei confronti della centrale nucleare dei credit default swaps, vero e proprio centro di instabilità finanziaria mondiale.

Se volete ascoltare un pezzo di storia andate su Charlierose, "Paul Volcker on the fallout of the credit default swaps market" 60 minuti di spettacolo sul mercato dei credit default swap, con Paul Volcker!

Vi siete mai chiesti perchè il governatore della banca centrale inglese, lancia un allarme di queste dimensioni, sottolineando che nulla è cambiato e che....
Questa è "un'illusione", ha detto King. Secondo il governatore le banche evidentemente non hanno imparato la lezione e non hanno attuato le riforme necessarie, nonostante un livello di sostegno pubblico al settore "da togliere il respiro", una cifra vicina ai mille miliardi di sterline. Le riforme proposte finora possono solo curare i sintomi del problema, ma per andare alle cause serve un intervento più deciso. La possibilità di sostegno pubblico andrebbe riservata alle "parti buone" delle banche che sono utili alla società, cioè al retail banking. «Incoraggiare le banche ad assumersi rischi che risultano in ricchi dividendi e bonus quando le cose vanno bene e in perdite per i contribuenti quando vanno male distorce l'allocazione delle risorse e la gestione del rischio, - ha detto King. - E' l'azzardo morale (moral hazard) più grande della storia». (IlSole24Ore).

Stiamo parlando di mille miliardi di sterline già iniettati nel sistema, stiamo parlando del governatore di una banca che ha sommerso la propria nazione di liquidità, banca che ha praticamente azzerato i tassi e che ha dato vita alla più imponente operazione di "quantitative easing", espansione quantitativa della moneta, fornendo liquidità direttamente al sistema finanziario in cambio di titoli o comprando direttamente sul mercato tutto ciò che il mercato rifiutava.

Sembra di essere tornati ai tempi non sospetti di questa crisi, quando alcune istituzioni, sussurravano l'uragano in arrivo e tutti guardavano ai cieli tersi infiniti.
Al di la delle frasi di circostanza del G20 sulla denuclearizzazione dei sistema di derivati non regolamentati, "over the counter" entro il 2012, Noyer ha messo in guardia da due fattori determinanti per il rischio sistemico derivato.

Già verso la fine di agosto, il primo campanello di allarme è stato suonato dalla banca centrale europea....
The European Central Bank on Friday highlighted the dangers to the stability of the financial system of credit derivatives, the products used to protect investors against bond defaults. It warned that counter-party risk remained a big concern among Europe’s banks as credit default swaps contracts, which pay out when a company defaults on its bonds, were increasingly concentrated in the hands of a few large institutions. The top 10 counter-parties of the leading European banks, often other banks, accounted for 60 per cent of CDS exposure, the ECB said. (FinancialTimes).

.....in relazione alla superconcentrazione di composti "chimici" in mano ad un piccolo numero di istituzioni finanziarie, con due terzi dei CDS, maneggiati da soli 10 controparti europee. In tutto il mondo, solo cinque grandi banche rappresentano da sole circa la metà del mercato mondiale, di cui due con sede in Europa e con JPMorgan detentrice di circa un terzo dell'intero potenziale nucleare americano.

Noyer ci dice che gli hedge fund, maneggiano solo il 10% di queste armi di distruzione di massa e che il livello della concentrazione è un fattore di alta vulnerabilità e rischio per la liquidità nei mercati.

Se a qualcuno sembrano esagerati termini come armi di distruzione di massa o centrali nucleari, consiglio di chiedersi per quale motivo, sono ormai in molti tra le principali istituzioni mondiali a cercare di calmierare un mercato totalmente fuori da qualsiasi radar politico o monetario. Non stiamo parlando di normali coperture o swaps su cambi o tassi, ma di vere e proprie assicurazioni spesso fondate sul nulla.

Noyer ha anche sottolineato in questi giorni che il sistema finanziario mondiale sta tornando a muoversi sul filo del rasoio, utilizzando molte delle strategie che hanno portato alla crisi, mentre la maggior parte degli effetti negativi sui bilanci deve ancora venire.

La natura interconessa di questi strumenti, ci dice che non solo il principali attori di questo mercato continuano a scambiarsi queste armi nucleari, ma ...
In fact, not only do leading CDS players trade primarily among themselves, but they also increasingly exchange guarantees against their own default: six out of the 10 most traded contracts on non-sovereign entities are in fact guarantees on the very same CDS dealers. (Financial Times)

Nella sostanza il rischio passa di mano velocemente e in maniera limitata sempre tra le stesse entità, quasi che qualcuno avesse acceso un candelotto di dinamite e continuasse a passarlo di mano in mano, velocemente, prima di una esplosione.

Il 2012 come data ultima per mettere mano a questo mercato, francamente è un'assurdità, al di la delle pressione delle lobbies finanziarie, inutile guardare cosa farà il dollaro, come ho detto più volte, il dollaro si muoverà di conseguenza al termometro dei credit default swaps!

Basta una piccola fuga radioattiva e la prossima onda della crisi finanziaria, resterà per sempre scolpita nelle pieghe della Storia.
 

Fonte - Icebergfinanza

 

 

 

 

 

TASSI USA: LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%

04 Novembre 2009 20:19 NEW YORK - WSI
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Come ampiamente atteso dal mercato, la Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata la forchetta sui fed funds. Accelera l'economia ma i tassi rimarranno "eccezionalmente bassi" ancora per diverso tempo. Ridotto l'acquisto di debito.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. I tassi sono fermi all’attuale livello dal 16 dicembre dello scorso anno. Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha accompagnato la decisione; da evidenziare solo la riduzione del programma di acquisto di debito (Agency Debt) da $200 miliardi a $175 mld.

Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:

Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi a settembre suggeriscono che l’attivita’ economica ha continuato ad espandersi. Le condizioni all’interno dei mercati finanziari sono rimaste pressocche’ invariate dall’ultimo incontro. L’attivita’ nel comparto immobiliare e’ cresciuta nei recenti mesi. La spesa delle famiglie sembra in espansione ma resta limitata dalla continua perdita di posti di lavoro, dalla debole crescita dei salari, dalla ridotta ricchezza e dal limitato accesso al credito. Le aziende stanno continuando a ridurre investimenti e personale sebbene ad un tasso inferiore; ma continuano a registrare progressi verso un migliore allineamento tra scorte e vendite. Sebbene l’attivita’ economica restera’ probabilmente debole ancora per diverso tempo, il Comitato anticipa che le azioni mirate alla stabilizzazione dei mercati e degli istituti finanziari, gli stimoli fiscali e monetari e le forze di mercato supporteranno un rafforzamento della crescita economica ed un graduale ritorno a maggiori livelli di utilizzazione delle risorse in un contesto di stabilita’ dei prezzi.

Con il significativo rallentamento dell’utilizzazione delle risorse che continuera’ a limitare le pressioni sui costi, in un contesto inflativo di lungo termine stabile, il Comitato si aspetta che l’inflazione restera’ contenuta per diverso tempo.

In tali circostanze, la Federal Reserve continuera' ad impiegare un ampia varieta' di strumenti per promuovere il recupero economico e preservare la stabilita’ dei prezzi. Il Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% e continua ad anticipare che le condizioni economiche, inclusi i bassi tassi di utilizzazione delle risorse, i contenuti trend inflativi, e le aspettative di un’inflaizone stabile, probabilmente contribuiranno a mantenere i tassi a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Per fornire supporto alle attivita’ di prestito mutui ed al mercato immobiliare e per migliorare le condizioni generali all’interno dei mercati del credito privati, la Federal Reserve acquistera’ $1.25 mila miliardi in asset MBS (Mortgage-Backed Securities) e circa $175 miliardi in debito (Agency Debt). L’ammontare di questi ultimi acquisti, sebbene in qualche modo inferiore a quanto annunciato in precedenza (fino ad un massimo di $200 mld), e’ in linea con il recente piano di acquisti e riflette la limitata disponibilita’ del particolare tipo di security. Per promuovere una piu’ semplice transizione sui mercati, il Comitato rallentera’ gradualmente l’attivita’ di acquisto di Agency Debt ed MBS ed anticipa che tali transazioni saranno eseguite entro la fine del primo trimestre 2010. Il Comitato continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle condizioni dei mercati finanziari. La Federal Reserve sta monitorando la dimensione e la composizione del proprio stato patrimoniale ed apportera’ delle modifiche ai programmi di credito e liquidita’ cosi’ come garantito.

A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.

Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di confermare il tasso interbancario in un range di 0.0%-0.25%:

Information received since the Federal Open Market Committee met in September suggests that economic activity has continued to pick up. Conditions in financial markets were roughly unchanged, on balance, over the intermeeting period. Activity in the housing sector has increased over recent months. Household spending appears to be expanding but remains constrained by ongoing job losses, sluggish income growth, lower housing wealth, and tight credit. Businesses are still cutting back on fixed investment and staffing, though at a slower pace; they continue to make progress in bringing inventory stocks into better alignment with sales. Although economic activity is likely to remain weak for a time, the Committee anticipates that policy actions to stabilize financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus, and market forces will support a strengthening of economic growth and a gradual return to higher levels of resource utilization in a context of price stability.

With substantial resource slack likely to continue to dampen cost pressures and with longer-term inflation expectations stable, the Committee expects that inflation will remain subdued for some time.

In these circumstances, the Federal Reserve will continue to employ a wide range of tools to promote economic recovery and to preserve price stability. The Committee will maintain the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and continues to anticipate that economic conditions, including low rates of resource utilization, subdued inflation trends, and stable inflation expectations, are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for an extended period. To provide support to mortgage lending and housing markets and to improve overall conditions in private credit markets, the Federal Reserve will purchase a total of $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and about $175 billion of agency debt. The amount of agency debt purchases, while somewhat less than the previously announced maximum of $200 billion, is consistent with the recent path of purchases and reflects the limited availability of agency debt. In order to promote a smooth transition in markets, the Committee will gradually slow the pace of its purchases of both agency debt and agency mortgage-backed securities and anticipates that these transactions will be executed by the end of the first quarter of 2010. The Committee will continue to evaluate the timing and overall amounts of its purchases of securities in light of the evolving economic outlook and conditions in financial markets. The Federal Reserve is monitoring the size and composition of its balance sheet and will make adjustments to its credit and liquidity programs as warranted.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Fed: Meno monetizzazione del debito, segnale negativo per l’azionario

Wednesday, 4 November, 2009 at 21:37 - by John Christian Falkenberg
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Secondo le minute del Federal Open Market Committe della Fed,la banca centrale ha ridotto e ridurrà ancora gli acquisti di debito delle GSE. Si tratta dello strumento principe con il quale la Fed ha iniettato liquidità nel sistema e sostenuto l’erogazione di mutui negli USA. Se questo è l’inizio della fine del denaro facile per tutti, il mercato azionario non la prenderà bene: buona parte del rally di questi mesi non è derivato da un miglioramento dei fondamentali economici, ma dall’impiego della liquidità fornita gratuitamente dalle banche centrali e dalla disperata necessità da parte dei risparmiatori di prendersi rischi sempre maggiori pur di avere rendimenti accettabili, dopo che la politica dei tassi a zero ha depresso i tassi d’interesse a breve termine in tutte le maggiori economie.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Usa, disoccupazione record Mai così alta dal 1983

06 NOVEMBRE 2009 18,00 MILANO - di Vittorio Carlini
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Il tasso di disoccupazione è salito al 10,2 per cento. In ottobre sono andati persi 190.00 posti di lavoro. Un dato peggiore delle attese

Sale ancora il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti. Il dato, pubblicato dal dipartimento del Lavoro, indica che la percentuale è arrivata al 10,2%, il valore più alto dal 1983. In ottobre i posti di lavoro andati perduti sono stati 190.000, bel al di sopra delle attese che indicavano una riduzione di 175.000 unità. Il rapporto sull'occupazione ha mostrato che i posti perduti sono diffusi in tutti i settori. Quello manifatturiero ne ha eliminati 61.000, il massimo in quattro mesi, mentre quello delle
costruzioni 62.000. Si sono registrati invece aumenti nel comparto dell'istruzione e in quello della sanità, che hanno aggiunto complessivamente 45.000 posti di lavoro. La settimana lavorativa è rimasta invariata ad una media di 33 ore settimanali, una delusione perché i datori di lavoro solitamente aumentano le ore prima di assumere nuovo personale. Dall'inizio della recessione negli Stati Uniti sono stati persi oltre 7,4 milioni di posti di lavoro e, secondo le previsioni degli economisti, il tasso di disoccupazione resterà alto anche il prossimo anno, nonostante la crescita prevista dell'economia americana. Nell'ultimo trimestre, va ricordato, il Pil a stelle e strisce è tornato positivo, segnando una crescita del 3,5 per cento

«Le aziende - dice Thomas L. di Galoma, capo dell'Us trading di Guggenheim Partners - sono restie ad assumere di nuovo». Come dire, insomma, che dopo il crollo dell'economia dell'ultimo anno i primi timidi segnali di recupero sul fronte della domanda non si riflettono immediamente sul mercato del lavoro. Anzi. «Ci vorrà molto tempo - è uno dei leit motive - per recuperare un'occupazione sugli stessi livelli del pre-crisi». Il che, peraltro, pone dei problemi sul fronte della domanda stessa: è banale ricordare che un 'economia come quella americana, fortemente sbilanciata sul lato dei consumi, ha bisogno di ritrovare un livello di occupazione più adeguato. Altrimenti, il rischio è il fallimento del "passaggio di testimone" dalla politica in deficit spending di Washington, con i miliardari piani d'intervento a favore della congiuntura, alla spesa di Mr. e Mrs. Smith, necessaria per rimettere in sesto l'economia.

Peraltro, proprio la Federal reserve americana mercoledì scorso, nel motivare la scelta di mantenere i tassi d'interesse tra 0 e 0,25%, aveva rimarcato i problemi nel mercato del lavoro. Ben Bernanke si è detto fiducioso sulla continuazione della fase di recupero dell'economia ma ha anche espresso preoccupazione per le probabili difficoltà in questa direzione. «La spesa delle famiglie sembra in espansione - è stato il commento della Fed -. Tuttavia rimane condizionata dalle perdite di posti di lavoro, da una faticosa crescita del reddito, da un minore valore delle case e dal restringimento del credito».

Sul fronte dei titoli di stato, dopo la pubblicazione dei dati sull'occupazione il Treasury a 10 anni è subito schizzato verso l'alto. Gli investitori, che negli ultimi tempi avevano iniziato a considerare un possibile rialzo dei tassi d'interesse da parte della Fed, si sono connviti che i rischi da inflazione rimangono bassi (vista la ridotta propensione al consumo di Main Street, causata dall'aumento della disoccupazione) e, quindi, che le quotazioni dei titoli potranno rimanere ancora stabili verso l'alto. Ovviamente, sull'incremento della domanda di notes del tesoro Usa il loro rendimento è sceso.

Rispetto, infine, al cambio con euro dollaro, la notizia che indica una certa difficoltà nella ripresa da parte dell'economia reale americana ha dato spinta alla quotazione della moneta unica europa: l'euro è risalito fino a quota 1,4905 dollari.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Stati Uniti, se questa è una ripresa

Friday, 6 November, 2009 at 20:19 - by phastidio
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Il tasso di disoccupazione balzato al 10,2 per cento, il peggior dato da 26 anni. Altri 190.000 posti persi in un mese. Il tasso di disoccupazione cosiddetto U-6, che conta i lavoratori part-time che vogliono lavorare a tempo pieno ed i lavoratori che hanno perso il lavoro e hanno smesso di cercarlo, cresciuto al 17,5 per cento. Sono i dati di sintesi estrema del report sul mercato del lavoro americano in ottobre. Dati non buoni.
Tra gli elementi non negativi, la revisione al rialzo degli impieghi creati in agosto e settembre (per 91.000 unità), che portano la media trimestrale a meno 178.000 posti al mese, un grande miglioramento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, se possiamo accontentarci della derivata seconda di un mercato del lavoro che a 22 mesi dall’entrata in recessione riesce ancora a perdere occupati. Per gli ottimisti senza se e senza ma, la buona notizia è rappresentata dalla creazione di occupazione temporanea (per 34.000 impieghi nel mese), che viene vista come un indicatore anticipatore delle tendenze del mercato del lavoro. In crescita dello 0,3 per cento i guadagni orari medi ma la settimana lavorativa media resta inchiodata al livello più che depresso di 33 ore.
L’aspetto peggiore del dato di disoccupazione è che, a fronte di una lieve ed ulteriore limatura del tasso di partecipazione alla forza lavoro (al 65,1 per cento, peggior risultato dalla metà degli anni Ottanta), il numero dei disoccupati è effettivamente aumentato. Non si tratta, cioè, di un aumento del tasso da ricondurre al reingresso di lavoratori nella forza-lavoro, che di solito si verifica nelle fasi di ripresa e che tende a spingere al rialzo la disoccupazione.
Oggi Barack Obama ha firmato la legge che concede l’estensione dei sussidi di disoccupazione per altre 14 o 20 settimane per quanti hanno esaurito il beneficio. Ciò significa che, negli stati che hanno un tasso di disoccupazione superiore all’8,5 per cento, un lavoratore finirà con l’aver ricevuto fino a 99 settimane di sussidi. Accadono cose incredibili, in America.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

DISOCCUPATI IN AMERICA: LA CIFRA VERA E' 17,5%

07 Novembre 2009 23:10 NEW YORK - WSI
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Non e' dunque il 10.2%. Record negativo dalla Grande Depressione. E' allarme sociale. Vanno conteggiate milioni di persone che hanno cercato lavoro nell'ultimo anno senza trovarlo. E quelli che lavorano part-time ma che vorrebbero lavorare a tempo pieno.
Il rapporto sulla disoccupazione negli Stati Uniti reso noto venerdi', che a ottobre ha portato al 10.2% il tasso dei senza lavoro, e cio' al massimo dal 1983, cioe' degli ultimi 26 anni (piu' di un quarto di secolo, praticamente due generazioni) va letto in modo piu' approfondito rispetto a quello che fanno i giornali.

A causa dei migliaia di licenziamenti ogni giorni da 22 mesi consecutivi, i numeri rilasciati dal Labor Department hanno raggiunto il massimo di 26 anni, ma se le statistiche andassero piu' indietro, si toccherebbe certamente il record negativo dalla Grande Depressione. Infatti piu' di un lavoratore ogni sei - il 17.5 per cento — e' stato disoccupato o sotto-occupato in Ottobre. Il precedente record era 17.1%, nel dicembre 1982, in piena recessione.

Questa percentuale - assai drammatica dal punto vista sociale rispetto al gia' allarmante 10.2% - include coloro che sono ufficialmente disoccupati, che hanno cercato lavoro nelle ultime 4 settimane. Inoltre comprende i lavoratori "scoraggiati", che hanno cercato lavoro nell'ultimo anno senza trovarlo, come milioni di persone che lavorano part-time e che vorrebbero, se potessero, lavorare a tempo pieno.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

 

  Sabato 07 Novembre 2009   Domenica 08 Novembre 2009   Lunedì 09 Novembre 2009  
       
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  A Berlino 20 anni dopola Festa della libertà

09 Novembre 2009 19:51 MILANO - Il Sole 24 Ore

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Angela Merkel ha percorso i 138 metri del ponte di Boesebruecke assieme all'ex presidente dell'Unione sovietica, Mikhail Gorbaciov e all'ex presidente della Polonia Lech Walesa. È durata solo una decina di minuti, ma la breve passeggiata simbolica sul ponte che 20 anni fa segnò l'inizio della caduta del Muro di Berlino, è stata sufficiente a ricordare un momento entrato nella memoria storica del mondo.
È stato uno dei momenti più commoventi e simbolici di questa giornata di celebrazioni. Sotto una leggera pioggia, nascosta da un tappeto di ombrelli, la Merkel è stata seguita dalle telecamere di decine di emittenti tv arrivate da tutto il mondo.
La sera del 9 novembre del 1989, dopo l'annuncio della fine «immediata» delle restrizioni ai viaggi tra le due germanie dato da Guenter Schabowski - membro del Politburo - il ponte venne attraversato dai primi cittadini dell'ex repubblica federale tedesca (Rdt), che aprirono così la prima 'breccia' nel Muro. Nelle ore successive e per tutta la notte, migliaia di persone varcarono questo ex 'checkpoint', mentre il muro crollava sotto i colpi della 'rivoluzione pacifica'.
Per la Merkel, questo è il «giorno più felice della storia recente della Germania», come ha detto lei stessa durante il fine settimana nel suo consueto videomessaggio via internet.
«Questo giorno ha cambiato la vita di molta gente - ha proseguito - inclusa la mia vita».
Molta strada è stata fatta dal giorno della riunificazione tedesca, il 3 ottobre del 1990, ma molta ne rimane da fare.
Oggi, intervistata dall'emittente pubblica Ard, la Merkel ha tenuto infatti a sottolineare che la riunificazione non è ancora stata completata e, quando si trovava già dall'altra parte del ponte, ha ricordato le difficoltà di questo processo, che è già costato 1.300 miliardi di euro.
I terreni espropriati dal regime comunista, ha commentato, si potevano restituire facilmente ma è molto difficile risarcire i cittadini dell'ex Rdt per «le occasioni mancate, così come per la paura e le preoccupazioni» vissute in quel periodo dalle famiglie dell'ex Rdt.
Due decadi dopo la caduta del Muro, la cancelliera ha ricordato alla Ard che la disoccupazione nelle regioni dell'ex Repubblica democratica tedesca è ancora oggi il doppio rispetto a quella nell'ovest del Paese. Tuttavia, secondo l'autorevole sondaggio Politbarometer dell'emittente tv tedesca Zdf, l'86% dei tedeschi ritiene che la riunificazione sia stata la decisione giusta.
Obama: 9 novembre giornata della libertà. "Vent'anni fa un muro cadeva a Berlino e un Paese e un continente si riunificavano". Con queste parole inizia la dichiarazione rilasciata oggi dal presidente americano, Barack Obama, con cui il 9 novembre 2009 viene proclamato "Giornata Mondiale della Libertà". Nel ventennale della data che segnò la fine della Guerra Fredda Obama ricorda le libertà conquistate dal popolo tedesco e le barriere che ancora oggi dividono i popoli. "La cortina di ferro che divideva l'Europa cadde inaugurando una nuova era di libertà e cooperazione", scrive il presidente americano che però non sarà oggi a Berlino per le celebrazioni ufficiali.
"Le porte della democrazia si aprirono per milioni di persone che avevano conosciuto solo la tirannia", si legge nella dichiarazione dove la Casa Bianca sottolinea l'apertura dei mercati economici che scaturì da quella dei confini con l'est Europa. "Oggi", prosegue Obama, "le barriere che mettono alla prova il mondo non sono muri di cemento o di acciaio ma quelli fatti di paura, di irresponsabilità e di indifferenza".
"Vent'anni dopo il mondo è più interconnesso di quanto lo sia mai stato nella storia offrendo nuove opportunità per il progresso comune". Il presidente ha voluto così consacrare il 9 novembre come simbolo delle determinazione dei popoli a ottenere la propria libertà e a lottare per la democrazia. "Con l'autorità conferitami dalla Costituzione proclamo il 9 novembre del 2009, Giornata Mondiale della Libertà", conclude il presidente invitando i cittadini americani a festeggiare l'indipendenza della Germania dell'est come affermazione della lotta per la libertà che "contraddistingue gli Stati Uniti sin dalla loro nascita".
Gorbaciov: bisogna vedere i nuovi muri, le nuove linee di divisione nel mondo e opporsi ad esse: è l'appello rivolto oggi a Berlino dall'ex segretario generale del Partito comunista dell'Urss e premio Nobel per la pace, Mikhail Gorbaciov.
Un nuovo muro, secondo Gorbaciov, che ha ribadito di parlare solo a titolo personale e in questo senso di rappresentare solo se stesso, è stato innalzato per esempio dall'allargamento della Nato a est.
L'accoglimento di ex Paesi del Patto di Varsavia nel Patto Atlantico a suo avviso è avvenuto troppo presto. Ed è avvenuto senza tenere conto di accordi raggiunti negli anni '90 dello scorso secolo, per esempio a Parigi, ha detto Gorbaciov.
Gli atti commemorativi del ventesimo aniversario sono cominciati con una messa ecumenica nella chiesa di Gethsemane, alla quale hanno assitito tra gli altri il presidente Horst Kohler e il cancelliere Angela Merkel. Situata nel quartiere berlinese orientale di Prenzlauer Berg, la chiesa di Gethsemane fu teatro, nelle settimane precedenti alla caduta del muro, delle riunioni della dissidenza e dell'opposizione nella parte orientale della capitale tedesca. Poco dopo la messa, il sindaco-governatore di Berlino, Klaus Wowereit, ha visitato la cappella della Riconciliazione, non lontano dall'antica postazione di frontiera della Bernauer Strasse, dove sono state accese decine di candele in memoria di quelli che persero la vita nel tentativo di attraversare il Muro per scappare in Occidente. E sul posto, è stato inaugurato un nuovo centro di informazione che fornirà documentazione e video sulla barriera che divise la città dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Anche Silvio Berlusconi è a Berlino: »Questa è una grande data -ha detto il presidente del Consiglio- e tutto ciò che è successo dopo, cioè la globalizzazione del mondo e Internet, non sarebbe potuto accadere se la Germania fosse stata ancora separata dal resto dell'Europa e dalla libertà da un Muro«.
L'evento-cloun della giornata sarà l'abbattimento della catena di pezzi giganti di domino, lunga un chilometro e mezzo, creata sull'antico tracciato dell'antico Muro e che è stato dipinto da artisti e studenti di tutto il mondo per ricordare la fine della divisione di Berlino, della Germania e dell'Europa. Sarà l'ex leader di Solidarnosc a far cadere il primo dei mille pezzi di domino che hanno la stessa altezza del muro originario. Contemporaneamente migliaia di persone tenteranno di formare una catena umana lunga 33 chilometri sull'antica linea che divideva il settore sovietico della città dai settori occidentali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. 
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Il Muro di Berlino, la fine della Guerra Fredda, e la verità su Reagan

November 9th, 2009 - di Mauro Gilli
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Oggi è il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, evento epocale che anticipò di due anni il tanto più inaspettato crollo dell’Unione Sovietica. Sicuri che sui giornali italiani leggeremo fantastiche ricostruzioni relativamente al ruolo giocato da Ronald Reagan, l’inquilino della Casa Bianca dal 1981 al 1988, illustriamo qui di seguito le contraddizioni di quella che negli anni si è venuta rafforzando come una delle più diffuse interpretazioni della fine della Guerra Fredda.
Secondo questa interpretazione, la Guerra Fredda sarebbe finita infatti proprio grazie a Reagan. Secondo la vulgata l’ex attore di Hollywood, una volta arrivato alla Casa Bianca, avrebbe capito che l’URSS era in declino, e che stava fronteggiando grandi difficoltà economiche. Proprio per questo motivo, Reagan avrebbe dunque deciso di lanciare la corsa agli armamenti (le cosiddette “guerre stellari”, tra cui rientrava la Strategic Defense Initiative, il piano di difesa antimissilistico), per portare l’URSS in bancarotta. Costringendo Mosca ad aumentare l’allocazione di risorse al settore militare, Reagan avrebbe dunque sferrato il colpo definitivo alla già fiacca economia sovietica, che sarebbe poi crollata alcuni anni dopo.
Ci sono numerosi problemi con questa interpretazione. Problemi ai quali i sostenitori di questa tesi non solo non sanno rispondere, ma dei quali non si sono neanche mai resi conto. Innanzitutto, come faceva Reagan a sapere che l’URSS fosse in declino? I dati a disposizione della CIA e delle altre agenzie di intelligence sull’economia sovietica e sul potere dell’URSS, come gli stessi analisti avrebbero scoperto con grande sorpresa negli anni ‘90 erano straordinariamente esagerati rispetto a quella che era la realtà dei fatti (si veda anche questo articolo su Time magazine). Secondo alcuni resoconti, il Pil dell’URSS durante la Guerra Fredda era infatti solo una frazione di quanto veniva stimato a Langley. Dunque, da dove derivava l’intuizione di Reagan? Questo non ci è dato sapere, la vulgata vuole infatti che Reagan avesse capito, period.
Anche assumendo che Reagan fosse a conoscenza dei problemi dell’economia sovietica, come faceva Reagan a conoscere la portata di questi problemi? Per capirsi, l’economia americana è attualmente in crisi, ma non verrebbe tramortita da un’eventuale corsa agli armamenti ispirata da Mosca o da Pechino. Come faceva Reagan ad essere sicuro del contrario, per quanto riguarda l’URSS? Questo non si sa. Certamente, le affermazioni pubbliche dello stesso presidente non danno credibilità alla tesi secondo cui “Reagan aveva capito”.
Se l’URSS era in declino, come mai Reagan giustificò il lancio della Strategic Defense Initiative proprio sulla base della temibile minaccia rappresentata dall’”Impero del Male”? Evidentemente, se l’URSS era un tale pericolo per la sicurezza nazionale americana, non poteva allo stesso tempo anche essere prossima al tracollo. Delle due l’una: o Reagan mentiva ai cittadini americani sapendo di mentire; oppure, più ragionevolmente, era sinceramente convinto che l’URSS fosse una minaccia, e quindi non era assolutamente a conoscenza dei problemi dell’URSS (versione confermata dai resoconti storici).
A suffragio di questa tesi possono essere prese in considerazione le politiche implementate dallo stesso Reagan. Se l’URSS era in declino e prossima al crollo definitivo, e il presidente americano ne era consapevole, per quale motivo, ad un certo punto, nella metà degli anni ‘80, in modo del tutto improvviso decise di promuovere la cooperazione con Mosca, e più precisamente di lanciare una nuova era di Détente attraverso gli accordi sul disarmo nucleare (quelli stessi accordi promossi da Kissinger negli anni ‘70)? Se Reagan era convinto dell’avvicinarsi del crollo dell’URSS, perché fermare la corsa agli armamenti e promuovere addirittura il disarmo, proprio quando il risultato era ormai raggiunto? Perché non premere l’acceleratore fino in fondo, per finire la corsa in volata? Perché dare a Mosca la possibilità di prendere il respiro proprio quando il risultato stava per essere raggiunto? (a proposito, si guardi questo video sulla reazione dell’estrema destra americana all’”appeasement” cercato da Reagan).
Queste sono le domande alle quali i giornali italiani non daranno risposta. Oggi leggeremo analisi emotivamente coinvolte, che vogliono un Reagan con informazioni più precise di quelle della CIA. Un Reagan che aveva capito tutto. La verità, ovviamente, è un’altra. Reagan giocò un ruolo centrale nella Guerra Fredda. E sarebbe sbagliato ignorare questo fatto. E’ però altrettanto sbagliato attribuire a Reagan meriti che vanno ben al di là di quanto potesse fare. E’ bene ricordarselo: il Muro di Berlino crollò perché il sistema comunista era più inefficiente di quello capitalista. Con o senza Reagan, questo risultato sarebbe stato ottenuto ugualmente.

 

 

 

La fine della Guerra e la fine di ciò che è seguito

November 9th, 2009 - di Andrea Gilli
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Sulla fine della Guerra fredda è già stato detto quasi tutto, specie a livello accademico tanto in storia, che in sociologia, che soprattutto in scienza politica ed economia. A vent’anni da quella ricorrenza conviene guardare brevemente le macro-implicazioni di quell’evento che ha radicalmente cambiato la faccia della politica mondiale.
Innanzitutto, la fine della Guerra fredda fu elevata inizialmente ad evento paradigmatico in grado di dimostrare la forza delle idee nella storia umana. La fine della dottrina Breznev, e poi della confidenza nei principi sovietici, avrebbero infatti aperto la strada al crollo del Muro di Berlino e poi alla fine dell’URSS. A vent’anni di distanza, se una cosa è chiara è che le idee giocarono un ruolo davvero minimo. La presa dell’URSS si allentò quando la sua leadership fu messa alle strette dalle ristrettezze economiche che l’inefficienza del sistema sovietico stava provocando. Solidarnosc, il Papa, i democratici tedeschi, gli intellettuali dell’accademia delle scienze di Mosca ebbero tutti un ruolo. Ma poterono avere un ruolo perché il sistema economico sovietico era in disgregazione. Non è un caso che la loro influenza si sia sentita negli anni Ottanta e non negli anni Cinquanta o Sessanta.
Se c’è una lezione generale da trarre da questo primo punto è che tra tutte le teorie, il Realismo è quello che ebbe la performance migliore, come dimostrano non solo gli studi di Wohlforth (1993/94) e Brooks e Wohlforth (1999/00), ma soprattutto la sagace previsione di Robert Gilpin, secondo la quale la Guerra fredda sarebbe finita pacificamente (1981: 234).
Questo dato è importante soprattutto se guardiamo al cosa è venuto dopo la fine della Guerra fredda. Il neoconservatorismo aveva previsto la fine della Storia (Fukuyama, 1991). Il liberalismo, sulla stessa lunghezza d’onda, aveva previsto pace, democrazia e benessere (Omahe, Keohane e tutto il filone della pace democratica). Il Realismo, più modestamente, aveva previsto instabilità, guerre e crisi internazionali.
Guardiamo dove siamo vent’anni dopo, e pare difficile trovare conferma alle previsioni di Fukuyama e soci. Dire dunque che la storia proceda in maniera lineare (come sostiene il liberalismo) pare abbastanza avventato, piuttosto, i suoi movimenti, e il sistematico ritorno di fenomeni di guerra e violenza suggerisce la presenza di andamenti ciclici.
Quale lezione trarre, dunque, dal crollo del Muro di Berlino? Una, semplice, che i più grandi pensatori della storia, da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes a Rousseau hanno sempre evidenziato: l’arena internazionale è contraddistinta da una competizione sfrenata tra diverse autorità politiche. Questa competizione porta violenza ma anche sviluppo, porta guerra ma anche pace. Nel caso del crollo del Muro di Berlino, quella competizione ha portato alla fine di uno dei regimi più oppressivi della storia umana. Questa stessa competizione è però anche la causa del terrorismo internazionale, delle diatribe con l’Iran, della minaccia cinese o degli scontri con la Russia.
Più che celebrarne alcuni aspetti (liberalismo, economia di mercato, democratizzazione) per nasconderne altri, forse sarebbe meglio cercare di comprendere l’intero processo nella sua interezza.

 

Fonte - Epistemes.org

 

 

Pascal Lamy in Bocconi: «Manca un progetto di governance globale»

09 Novembre 2009 19:16 MILANO – Il Sole 24 Ore
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«La caduta del muro di Berlino è stata un momento di svolta per la globalizzazione eppure vent'anni dopo il mondo è in uno stato di forte difficoltà». A dirlo è il direttore generale del Wto Pascal Lamy durante il suo intervento dedicato a "Global governance: lessons from Europe" e svolto, nel ventesimo anniversario dell'evento, nell'ambito dell'inaugurazione dell'anno accademico 2009-2010 dell'università Bocconi di Milano. «La realtà - ha detto - è che la fine della Guerra Fredda ha preso tutti di sorpresa. Un nuovo ordine mondiale stava nascendo, eppure non ci fu discussione sulle strutture di governance. Non ci fu - ha messo in rilievo - una conferenza di Bretton Woods o di San Francisco dopo il 1989. Ma le sfide globali - ha sottolineato - hanno bisogno di soluzioni globali con la giusta governance che oggi, vent'anni dopo, rimane ancora troppo deficitaria».
«L'Europa è uno dei più ambiziosi esperimenti di governance sovranazionale - ha proseguito Lamy - Sul fronte della leadership la Ue ha ottenuto buoni risultati, prima di tutto nel creare il mercato interno e l'euro, ma è deficitaria sul fronte della legittimazione. Stiamo assistendo ad un crescente divario tra opinione pubblica e progetto europeo».
Le sfide globali hanno bisogno di soluzioni globali, e questo può avvenire solo con la giusta governance globale, che oggi dopo 20 anni rimane ancora troppo deficitaria. Lamy ha affermato che «la crisi economica globale ha accelerato il passaggio verso una nuova architettura di governance globale, in quello che definisco "il triangolo della coerenza". Un triangolo composto su un lato dal G20, che fornisce leadership politica, su un altro dalle organizzazioni internazionali, che forniscono competenze e politiche, e sull'ultimo dalle Nazioni Unite, che forniscono un forum a cui rendere conto. Nel lungo termine il G20 e le agenzie internazionali dovrebbero riportare al "Parlamento" dell'Onu, che dovrebbe contare sul sostegno del Consiglio economico e sociale. Una struttura di questo tipo avrebbe bisogno di una base centrale di valori e principi, proprio come ha suggerito Angela Merkel con la creazione di un "Charter for sustainable economic activity", uno sforzo per definire un nuovo contratto economico globale».

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Martedì 10 Novembre 2009   Giovedì 12 Novembre 2009   Sabato 14 Novembre 2009  
       
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  Morti viventi a confronto

Monday, 9 November, 2009 at 14:20 - by John Christian Falkenberg

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La crisi giapponese degli anni’90 è stata caratterizzata dalla presenza delle zombie corporations; negli USA, assistiamo al fenomeno degli “zombie households”, ossia delle famiglie ridotte a zombie da un malinteso “supporto pubblico” .
Le zombie corporations erano le aziende insolventi tenute a galla da prestiti di favore del sistema bancario, generosamente sussidiato tramite tassi a zero.
Il supporto ad aziende decotte ha ritardato la ristrutturazione del sistema, continuato ad affondare in aziende senza speranza risorse scarse come credito e lavoratori abili, che sarebbero stati meglio impiegati dalle aziende sane; le aziende profittevoli ed i settori all’avanguardia sono stati invece costretti invece a subire la concorrenza degli zombie, di fatto sussidiati dl governo tramite le banche, oltre che a subire l’onta di pagare tasse impiegate per favorire i propri stessi concorrenti. L’Italia ha subito una dinamica analoga negli anni’70 , quando ingenti risorse pubbliche vennero investite nel salvataggio di aziende decotte e nella creazione di un impero economico parastatale mantenuto a spese delle aziende sane e delle tasche del contribuente.

 

  Standard Deviations from the Mean (06/30/1982 through 09/30/09)  
     
... ...
     
 

http://pragcap.com/the-nation-of-zombie-households

 

 

Il rifiuto di accettare la realtà economica e la necessità di lasciar fallire chi ha sbagliato, ripulendo il sistema, rischia di gettare le famiglie USA in un circolo vizioso analogo a quello del settore aziendale giapponese. Annaly Capital Management evidenzia come i dati che evidenziano lo stress finanziario delle famiglie americane siano fuori da ogni norma storica. I livelli d’indebitamento sono stati eccessivi e il mercato del lavoro e quello immobiliare sono cambiati in maniera drastica; l’eccesso di debito, non può che essere eliminato tramite una politica che accetti un elevato grado di ristrutturazione del debito, anche tramite bancarotte personali delle famiglie che hanno imprudentemente impiegato le proprie abitazioni come “bancomat” per troppo tempo. In questo momento, il debito immobiliare sta inceppando anche uno dei grandi meccanismi di aggiustamento della forza lavoro negli USA, ossia la mobilità interna. Chi potrebbe trovare lavoro in un altro stato spesso non può trasferirsi: la propria casa vale meno dei debiti dovuti su di essa, mentre le case nello stato di destinazione sono spesso troppo care, a causa degli incentivi governativi che gonfiano sia la domanda che, soprattutto, le aspettative dei proprietari attuali, con il risultato di ridurre lo stock offerto.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

  La ripresa e le sue droghe

10 Novembre 2009 00:01 MILANO - La Repubblica

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Un po’ da tutte le parti (ma soprattutto dall’alto, dalle autorità) si suonano le stesse trombe: la crisi è finita, è arrivata la ripresa, evviva evviva. E i numeri che escono dalle varie centrali statistiche sembrano confermare che siamo entrati in una fase ormai positiva. Ora, è noto che dentro le crisi l’ottimismo fa bene. E’ una buona medicina perché impedisce alla crisi stessa di avvitarsi su se stessa e di diventare quindi irrisolvibile. E’ comprensibile, allora, che le autorità si affannino a dire che tutto va bene e che al posto della Grande Crisi che doveva stenderci tutti adesso ci sarebbe addirittura la ripresa.

Ma a questo proposito conviene fare almeno una precisazione. Segnali di ripresa si notano (anche consistenti in qualche caso), ma vorrei anche vedere che non ci fossero. Se mai sul pianeta c’è stata un’economia drogata, piena di ogni sorta di anfetamine, è proprio quella in cui siamo immersi in questa stagione. Il denaro (per quel che conta, ma conta) è stato messo in giro di enormi quantità e a costo praticamente zero. Tutto quello che poteva essere finanziato è stato finanziato, a partire dalle auto e dalle case. Tutte le industrie (e le banche) nei guai che hanno potuto essere salvate (con iniezioni di denaro pubblico), lo sono state (soprattutto in America).

E adesso, si dice, è arrivata la ripresa, come conseguenza di tanti sforzi. Tutto vero. Ma senza dimenticare mai che, per il momento, ci stiamo muovendo dentro un’economia con la cocaina che le esce fin dalle orecchie. C’è chi ha fatto qualche conto, ad esempio, e sostiene che il 3,5 per cento di ripresa del Pil americano (nel terzo trimestre dell’anno), se viene depurato da tutti gli aiuti rovesciati su quel sistema, si riduce semplicemente a zero. Il che è sempre meglio del meno 6 per cento di inizio anno, ovviamente. Ma sempre di economia drogata si tratta.

Tutto questo per rendere chiaro che non siamo affatto in un regime di normalità. L’economia ha ripreso a muoversi, ma la sua corsa non è quella "normale": è quella dovuta una massa impressionante di anfetamine.
Meglio questo, si dirà, della crisi. Certo. Ma il fatto che la ripresa di queste settimane sia dovuta all’uso di tanti stimolanti, ci in duce a pensare che la ripresa stessa (quella vera, quando verrà) non potrà essere veloce e rapida. E questo perché le anfetamine in questione, alla fine, altro non sono che denaro pubblico.

Quasi tutti i bilanci degli Stati sono stati sfondati nello sforzo di stimolare l’economia. E allora è ovvio che, mano a mano che si andrà davvero verso una ripresa autonoma, gli stimoli dovranno essere ritirati. Il denaro dovrà tornare a costare di più, i sussidi per le case e le automobili dovranno cessare, e, in qualche caso particolarmente disgraziato, si potranno vedere anche nuove imposte (per sistemare un po’ i bilanci pubblici).

In sostanza, siamo dentro una fase di transizione in cui da un lato l’economia sta prendendo velocità (perché le è stato saggiamente impedito di crollare), ma alla quale verrà via via tagliato il grosso del carburante in rapporto al suo progressivo miglioramento.

Da una parte, insomma, si preme sull’acceleratore e dall’altra si agisce sul freno. Tutto questo configura uno scenario in cui la crescita sarà molto bassa e molto lenta proprio perché l’opera¬zione di "disintossicazione" è delicata, ma anche urgente. L’urgenza nasce dal fatto che, dentro un’economia drogata, possono maturare in fretta altri disastri, come quello rappresen¬tato dai carry traders, che prendono il denaro offerto oggi a costo quasi zero per lanciarsi poi nelle speculazioni più avventate che si possono trovare sul mercato. Anche a rischio di provocare qualche nuovo crac dopodomani. Tutti capiscono, in sostanza, che vivere dentro un’economia drogata può essere molto pericoloso. Ma oggi questo c’è. Per uscirne, bisognerà ritirare la droga in fretta e accettare quindi una crescita modesta per anni e anni.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Fannie Mae: cosa sono altri 16 miliardi, fra amici degli amici?

Tuesday, 10 November, 2009 at 9:38 - by John Christian Falkenberg
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Fannie Mae e Freddie Mac continuano a stupire. Il contribuente, soprattutto. Dopo circa 100 miliardi di perdite nell’ultimo anno, Fannie Mae ne perde altri diciannove questo trimestre e chiede l’ennesima ricapitalizzazione al Tesoro, questa volta per 15 miliardi. Dobbiamo ammettere almeno l’onestà della nuova dirigenza, che ha smesso di fingere che questi saranno gli ultimi dollari del contribuente che verranno bruciati sull’altare dell’allucinazione immobiliare.
La storia di Fannie Mae e Freddie Mac, definite GSE, è tristemente nota: si tratta di aziende che in Italia sarebbero state definite parastatali anche nei momenti migliori, un ibrido pubblico-privato che sembrava prendere il peggio di entrambi i mondi: due istituzioni il cui azionariato era privato, , ma che godevano di uno status nebuloso e di una garanzia “implicita”, mai formalizzata ma spesso ribadita da parte del ministero del Tesoro e il cui consiglio di amministrazione era però di fatto deciso dai politici in Congresso. Il ruolo istituzionale dei due colossi era di fatto quello di sfruttare la garanzia implicita per finanziarsi a tassi fuori mercato ed impiegare tale liquidità per acquistare mutui, acquistandoli dalle banche che li erogavano; il risultato netto era un gigantesco sussidio all’acquisto della prima casa, un elemento che ha giocato un ruolo non secondario nella nascita della bolla immobiliare americana: perché preoccuparsi della qualità dei debitori, quando un ente statale si prendeva carico dei mutui erogati? Lo schema sembrava a costo zero: il debito delle due società non rientrava nei conti del debito pubblico americano.
La crisi immobiliare ha dimostrato la fondatezza delle numerose critiche a questo sistema. Quando i valori immobiliari hanno cominciato a scendere, la due società sono entrate in crisi ed il governo americano si è trovato costretto ad onorare la propria garanzia e a renderla implicita. Le due società hanno già bruciato 121 miliardi di capitale, 51 dei quali erogati dal Tesoro soltanto nell’ultimo anno. La spinta dell’amministraizone Obama per attutire la crisi del mercato immobiliare ha portato ad una ulteriore distorsione del sistema: le GSE erogano al momento i tre quarti dei nuovi mutui, di nuovo a tassi inferiori a quelli di mercato. Il risultato sono tassi di insolvenza in salita e nuove perdite. Anche la venerabile FHA, la Federal Housing Administration, è stata coinvolta in questo schema ed ha accumulato, secondo alcune fonti, un passivo superiore ai 50 miliardi di dollari.
Il resto del sistema bancario non è ovviamente in grado di operare in maniera atuonoma e si limita spesso ad agire da semplice cinghia di trasmissione: i tassi offerti sono troppo bassi per poter essere remunerativi per un operatore non finanziato dal governo. Non sapremmo come chiamare un sistema di questo genere, ma “libero mercato” non è certo il termine adatto per per un sistema del genere, nel quale prezzzi e quantità del servizio offerto sono di fatto decisi da agenzie parastatali, che lavorano in perdita e finanziano il disavanzo con denaro del contribuente. A questo punto non stupisce neppure più molto il fatto che l’amministrazione Obama cerchi di risolvere una crisi da eccesso di debito, generato da un’interferenza governativa, con ulteriore debito ed una distorsione ancora più massiccia dello stesso genere , continuando nel contempo a parlare di un “capitalismo senza vincoli” introvabile nel settore.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

DISOCCUPAZIONE RECORD E PIGNORAMENTI A RAFFICA

10 Novembre 2009 19:43 NEW YORK - di Andrea Franceschi
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Sulla ripresa dell'economia americana e globale pende la spada di Damocle della disoccupazione. E questo fa dubitare che dietro il balzo del Pil Usa nel terzo trimestre, ci sia una ripresa solida e duratura dell'economia americana. Lo ha fatto capire chiaramente il presidente della Fed di San Francisco Janet Yellen. «La disoccupazione negli Usa - ricorda - ormai registra un tasso a doppia cifra, e potrebbe restare alta per diverso tempo incidendo sulla ripresa economica». E la crescita negli Stati Uniti potrebbe subire un brutto colpo. Così accadde all'uscita dalle recessioni del 1991 e del 2001. Così potrebbe succedere ancora a dispetto della ripresa del ciclo produttivo. «In entrambi i casi», nel '91 e nel 2001, «la crescita della produzione fu meno robusta che in una classica ripresa e, purtroppo, le cose sembra stiano per andare allo stesso modo anche stavolta».

A ottobre scorso il tasso di disoccupazione è schizzato ai massimi dal 1983, toccando il 10,2% con la perdita di oltre 190 mila posti, un livello che ha convinto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a valutare «ulteriori passi» a sostegno del mercato del lavoro. Perciò, secondo la Yellen, la prospettiva, anche considerando la lentezza con cui si realizza la ripresa economica, è che «la disoccupazione potrebbe benissimo restare alta per diversi anni a venire».

Riguardo al mercato immobiliare, all'origine due anni fa della crisi globale, la Yellen ha sottolineato come i segnali di stabilizzazione degli ultimi mesi rappresentino senza dubbio un elemento positivo. Ma il balzo della disoccupazione, giunta in ottobre al 10,2%, potrebbe tradursi in una nuova raffica di pignoramenti di abitazioni, il che rimetterebbe sotto pressione i prezzi delle case tornati a crescere negli ultimi due mesi come rilevato dall'indice Case Shiller. E la Yellen ha definito «preoccupante» in particolare l'outlook del mercato immobiliare commerciale, quello a cui più sono esposte le banche regionali.

Il potere di acquisto delle famiglie, drasticamente ridotto a causa della distruzione di ricchezza dell'ultimo biennio e messo sotto ulteriore pressione da redditi stagnanti. Secondo la Yellen il cambiamento in atto delle attitudini di spesa, testimoniato anche dal forte aumento del tasso di risparmio, potrebbe non essere affatto transitorio ma permanente. Un altro elemento di possibile debolezza per l'economia continua a essere rappresentato secondo la Yellen dalle banche che devono ancora fare i conti con una montagna di asset sofferenti. «Potrebbe occorrere diverso tempo - ha concluso - prima che le istituzioni finanziarie guariscano al punto che si ristabiliscano i normali flussi di credito. Il credit crunch non è ancora del tutto sparito».

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

La crisi è finita (solo per le banche d’affari)

November 11th, 2009 - di Mario Seminerio
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A un anno dalla sua elezione alla Casa Bianca, Barack Obama si trova ancora nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche e finanziarie degli ultimi ottant’anni. Tra tre settimane la recessione, così come datata dal National Bureau of Economics Research, entrerà nel suo terzo anno. Non è ancora dato sapere se la ripresa del Pil sarà sostenibile o verrà meno con la fine degli stimoli. L’area di maggior sofferenza riguarda il mercato del lavoro, come hanno confermato gli ultimi dati su occupazione e disoccupazione in ottobre, pubblicati la scorsa settimana. Tentiamo un bilancio del primo anno di presidenza Obama relativamente alla politica economica.

Sul piano delle misure adottate, la critica ricorrente a Obama riguarda l’esplosione di deficit e debito. Qui possiamo azzardare che il presidente non ha tutte le colpe che gli vengono attribuite. La profondità ed ampiezza della crisi ha determinato un crollo verticale di entrate fiscali, circostanza comune a tutti i paesi coinvolti. Al netto delle misure di stimolo e della loro specifica efficacia, l’ampiezza della voragine fiscale è direttamente legata al grado di indebitamento del settore privato dell’economia (si vedano, per una conferma, le condizioni dei conti pubblici nel Regno Unito). Lo stimolo obamiano in senso stretto, l’American Reconstruction and Reinvestment Act (ARRA), che peraltro non ha ancora pienamente dispiegato i propri effetti, pesa relativamente poco in questo quadro d’insieme. Molto più incidono le necessarie misure di ammortizzazione sociale, come le reiterate proroghe dei sussidi di disoccupazione, vista la grave condizione del mercato del lavoro, che a sua volta danneggia le entrate fiscali a causa dello scarso sviluppo di reddito e consumi.

Ben diversa appare la situazione relativamente alla riforma della regolazione delle istituzioni finanziarie. Qui praticamente nulla è stato fatto. O meglio l’amministrazione, con il pieno sostegno della Fed, ha scelto di mantenere lo status quo e di fare uscire le banche dalla crisi attraverso misure di supporto incondizionato, gonfiandone margini d’interesse e utili da trading. La via di uscita dalla crisi è stata una gigantesca operazione di reflazione, che sta riproducendo le condizioni di bolla dei mercati finanziari che sono all’origine della crisi, oltre ad esacerbare quello stesso gigantismo che si vorrebbe combattere. Esiste un’assoluta continuità tra il Tesoro dell’ex boss di Goldman Sachs, Hank Paulson, e quello dell’ex presidente della Fed di New York (che è espressione diretta di Wall Street), Timothy Geithner. Da sempre, gli uomini delle banche d’affari dispongono di un sistema di porte scorrevoli che ne consente l’approdo a Washington, per scrivere la legislazione in materia finanziaria o per gestire i salvataggi.

Il dibattito sul too big to fail è ormai confinato agli ambienti accademici. Ben diversamente sembrano andare le cose nella vituperata Europa dove, anche per effetto delle forti pressioni antitrust della commissione europea, qualcosa si muove e banche che hanno beneficiato di massicci aiuti pubblici (fino alla nazionalizzazione, come nel caso britannico), verranno fatte a spezzatino e rimesse sul mercato. Malgrado la retorica obamiana, in America finora abbiamo visto continuità, non cambiamento, e forse non poteva andare altrimenti, date le premesse. Il declino dell’impero americano passa anche attraverso gli utili monopolistici di Goldman Sachs, ma la cosa sembra ancora sfuggire a molti.
 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

I più potenti al Mondo: vince Obama, Berlusconi primo europeo

12 Novembre 2009 19:39 MILANO – Il Sole 24 Ore
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Il presidente degli Stati Uniti è l'uomo più potente del pianeta, almeno stando alla celebre classifica di Forbes. Barack Obama risulta infatti in cima alla lista dei più potenti che viene stilata in base al numero di persone sui cui hanno influenza diretta, al grado di potere decisionale conferitogli dall'ordinamento e alle risorse finanziarie di cui dispongono.
A sorpresa il primo tra i leader europei a comparire nell'elenco più ambito al mondo è il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, posizionatosi al dodicesimo posto, appena dietro papa Benedetto XVI. La scalata in classifica di Berlusconi viene giustificata dalla rivista con il «monopolio dei media» detenuto dal premier in Italia, composto di televisioni, giornali e agenzie pubblicitarie. «La sua vita privata colorita, le accuse di corruzione e la scelta di alcuni ministri gli sono costate la definizione di buffone d'Europa», scrive Forbes ricordando come il presidente del Consiglio sia anche a capo di una delle squadre di calcio più importanti al mondo, il Milan. Berlusconi è l'unico italiano a comparire nella lista.
Nell'indagine Obama supera di gran lunga il secondo in lista, il presidente cinese Hu Jintao. Archiviata la guerra fredda i russi cedono infatti il secondo gradino del podio al leader cinese e Vladimir Putin, primo ministro di Mosca, deve accontentarsi della terza posizione. È andata peggio al presidente russo, Dimitri Medvedev, 43esimo, mentre Joaquin Guzman, il signore della droga messicano, è addirittura al 41esimo posto, due gradini dietro al Dalai Lama.
Gli americani dominano nelle prime 20 posizioni dove Forbes inserisce Ben Bernanke (quarto), i fondatori di Google Sergey Brin e Larry Page (quinti), l'a.d. di Wall Mart, Michael Duke (ottavo), Bill Gates (decimo), il presidente di General Electric, Jeffrey Immelt (tredicesimo), il finanziere Warren Buffett (quattordicesimo), il presidente di BlackRock, Laurence Fink (sedicesimo), il segretario di Stato Hillary Clinton (diciassettesima) e il sindaco di New York, Michael Bloomberg (ventesimo).
Ad aumentare la soddisfazione di Obama si aggiunge anche il posizionamento del presidente venezuelano Hugo Chavez, uno dei più acerrimi nemici diplomatici di Washington, ultimo in classifica al 67simo posto.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Giappone, quando la crescita preoccupa

14 November, 2009 at 17:37 - by phastidio
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Il dato di Pil giapponese del terzo trimestre presenta una curiosa combinazione: la grandezza reale rimbalza in territorio positivo per la prima volta dal quarto trimestre 2007, ma il Pil nominale continua a contrarsi, per effetto della deflazione. Era già accaduto in precedenza, ma mai prima d’ora il Pil reale era stato così elevato in presenza di una grandezza nominale negativa.
Il problema, come per ogni ripresa che avvenga in termini unicamente reali, è che il debito del paese (e il Giappone ne ha moltissimo) resta espresso in termini nominali. Così, il fatto che il Giappone abbia prodotto di più (il 4,8 per cento trimestre su trimestre annualizzato), ma che il valore complessivo della produzione sia diminuito in termini di Yen (meno 0,3 per cento), rende problematico servire quel debito.

 

  Giappone - Tasso di crescita annualizzato/in quarter  
     
... ...
     


Non sorprende quindi che il costo dell’assicurazione creditizia sul debito sovrano giapponese, così come espressa dai credit default swaps, sia cresciuta durante la “ripresa”, raddoppiando negli ultimi tre mesi sino a toccare un picco al livello di 76 punti-base, il 9 novembre (oggi è a circa 67). Il rapporto tra debito e Pil è previsto in ascesa al 227 per cento nel 2010, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, rendendo il paese particolarmente vulnerabile ad ogni aumento dei tassi d’interesse. Lo stesso invecchiamento della popolazione è motivo di preoccupazione, perché destinato a produrre un cambiamento di stili di vita dal risparmio, che finora andava in larga parte all’acquisto dei titoli di stato (JGB), al consumo.
Questi timori sono destinati ad acuirsi nei prossimi trimestri, quando verrà meno l’impatto dello stimolo sull’economia.
 

Fonte - Macromonitor.it

 

 

 

 

 

  Domenica 15 Novembre 2009   Mercoledì 18 Novembre 2009   Venerdì 20 Novembre 2009  
       
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Obama: «una Cina prospera è un vantaggio per tutti»

14 Novembre 2009 10:12 MILANO - Il Sole 24 Ore
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Gli Stati Uniti non vogliono contenere l'impetuoso sviluppo cinese perché sono consapevoli che una Cina forte e prospera è un vantaggio per tutti: con queste parole il presidente americano, Barack Obama, ha affermato la volontà della sua Amministrazione di perseguire «una cooperazione pragmatica» con il gigante asiatico, in un discorso a Tokyo in cui si è presentato come «il primo presidente americano del Pacifico». A meno di 48 ore dal suo arrivo a Pechino per la prima visita in Cina, dove ha anticipato che parlerà di diritti umani «in uno spirito sereno» e «senza rancore», Obama ha promesso un maggiore impegno degli Usa in Asia, con un'implicita critica all'era Bush. «So che gli Stati Uniti negli ultimi anni non hanno mostrato molto impegno nell'attività delle organizzazioni multilaterali asiatiche», ha ammesso, «una cosa deve essere chiara: quel periodo è finito». «Quello che accade qui ha un effetto diretto sulle nostre vite negli Usa», ha osservato Obama, «è in questa regione che transita gran parte del nostro commercio e che compriamo gran parte dei nostri beni, è qui dove possiamo esportare gran parte dei nostri prodotti creando così più posti di lavoro negli Stati Uniti». Nel suo intervento a tutto campo davanti a 1.500 persone riunite nell'auditorium musicale del Suntory Hall, il titolare della Casa Bianca ha rassicurare il Giappone che la partnership con gli Usa è «incrollabile» e non sarà «indebolita» dalla collaborazione con Pechino. Poi ha esortato la Corea del Nord a riprendere il dialogo a sei sul suo programma nucleare, avvertendo che gli Usa «non sono intimiditi» dalle sue minacce, e ha chiesto alla giunta militare birmana di liberare Aung San Suu Kyi e gli altri prigionieri politici «senza condizioni», promettendo «rapporti migliori» se si muoverà nella giusta «direzione». Sul fronte economico, il presidente Usa ha ribadito la necessità di perseguire un modello «equilibrato e sostenibile» che in futuro eviti disastri come la crisi da cui il mondo sta faticosamente uscendo. Obama, che poi è partito per Singapore per partecipare alla cena con gli altri leader dei 21 Paesi dell'Apec, il foro di cooperazione economica Asia-Pacifico.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

La Cina contro i tassi Fed: «Alimentano la speculazione»

15 Novembre 2009 14:41 MILANO - Il Sole 24 Ore
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La politica monetaria della Federal Reserve svaluta il dollaro e rischia di provocare una nuova bolla finanziaria. La critica è di Liu Mingkang, capo dell' organismo di controllo delle banche cinesi. La banca centrale americana, afferma Liu, segue una politica di tassi d' interesse eccessivamente bassi. Ciò provocano un indebolimento del dollaro che è in contrasto con gli sforzi per superare la crisi finanziaria. La debolezza del dollaro, ha detto Liu parlando in un convegno a Pechino, «sta spingendo gli investimenti speculativi nelle Borse e nei mercati immobiliari ponendo nuovi, gravi rischi alla ripresa globale ed in particolare alla ripresa dei mercati emergenti».

Sono due le ragioni per cui l'indebolimento del biglietto verde è malvisto dalla Cina. In primo luogo perché il tasso di cambio sfavorevole danneggia le esportazioni. E poi perché Pechino è il primo creditore degli Stati Uniti, avendo acquistato nel corso degli anni enormi quantità di titoli di Stato americani, che hanno subito una pesante svalutazione. A Singapore, dove si è svolto ieri ed oggi il vertice dei Paesi dell' Asia/Pacifico (Apec), Cina e Usa si sono scontrati sui temi del cambio dello yuan e del protezionismo. Nei suoi due discorsi al vertice, il presidente cinese Hu Jintao ha criticato severamente il protezionismo dei paesi sviluppati ma non ha fatto cenno alla rivalutazione dello yuan, insistentemente chiesta dagli Usa per contenere le importazioni dalla Cina.

Altro tema caldo è quello del clima. Su questo fronte si registra il fallimento dell'intesa tra i leader dell'area Asia-Pacifico riuniti a Singapore per il vertice Apec. È infati stata raggiunta solo un'intesa «politica» in vista del vertice che si aprirà tra 22 giorni a Copenaghen. Di fatto non c'è stato alcun accordo sui numeri. Nessuna traccia del dimezzamento delle emissioni di gas serra entro il 2050 previsto (forse ottimisticamente) alla vigilia.

Barack Obama si è incontrato con il presidente cinese Hu Jintao e con il premier danese Lars Loekke Rasmussen, ospite del vertice di Copenaghen e in visita a sorpresa, ma solo per realizzare che «è irrealistico aspettarsi che tra ora e il vertice di Copenaghen, che avrà inizio tra tre settimane, sia possibile negoziare un accordo completo che costituisca un vicolo a livello internazionale».

«Cercheremo di arrivare - ha fatto sapere Rasmussen - a un accordo politico vincolante che copra tutti i principali elementi del negoziato». E avremo comunque, ha detto ottimisticamente il premier danese «un risultato ambizioso». Copenaghen quindi non sarà più il punto di arrivo dell'accordo sul clima ma, molto probabilmente, solo una tappa intermedia prima di un nuovo vertice che si svolgerà quasi sicuramente a Città del Messico.

Determinante probabilmente per il compromesso al ribasso dei leader è stata la «sintonia» tra Usa e Cina che, da parte sua, ha sempre mantenuto una grande distanza dagli obiettivi di Kyoto. che sarebbero dovuti essere aggiornati a Copenaghen in vista della scadenza ufficiale dell'accordo nel 2012. Pechino infatti ha sempre sostenuto che la riduzione dei gas serra spetti soprattutto ai paesi maggiormente industrializzati, responsabili in prima persona del cambiamento climatico. D'altra parte, quella statunitense, ha anche giocato la paura di Obama di non riuscire a sormontare gli ostacoli all'intesa posti dal Congresso Usa, stretto tra gli obiettivi ad ampio respiro del Paese e tra gli interessi delle lobby industriali. Delusione è stata espressa dal Wwf: «All'Apec - si legge in una nota - si è parlato troppo di rinvii e di quello che non sarà fatto a Copenaghen. Non sembra una strategia intelligente per vincere la lotta al cambiamento climatico».
 

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Yuan sottovalutato contro il dollaro, ma Pechino pensa a spingere l'export

16 Novembre 2009 17:35 MILANO - di Alberto Annicchiarico
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Braccio di ferro senza strappi eccessivi, sottotraccia, tra Stati Uniti e Cina sul fronte dei cambi alla viglia del vertice a due di martedì tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il numero uno cinese Hu Jintao. Secondo un'analisi di Bank of America la moneta del Dragone è sottovalutata del 9,9% contro il dollaro. Il fair value dello yuan, sostengono gli esperti di BofA, è a quota 6,15 per dollaro, mentre attualmente la moneta di Pechino viaggia a quota 6,83.
Insomma, dollaro paradossalmente più forte contro il conio della potenza economica emergente, mentre anche oggi il biglietto verde ha mostrato la ben nota debolezza nei confronti delle valute occidentali. Chiusura poco sotto i massimi per l'euro-dollaro, sostenuto dai più recenti dati (tra gli altri Pil giapponese e vendite al dettaglio Usa migliori delle stime) che hanno alimentato le attese circa una ripresa economica che si prospetta comunque moderata.
Un quadro che ha spinto gli investitori verso valute più speculative a scapito di quelle più difensive (come, appunto, il biglietto verde). Nel finale degli scambi in Europa l'euro ha quotato 1,4980 (1,4881 venerdì e 1,4965 Bce oggi), dopo avere sfiorato poco prima quota 1,50.

La moneta europea ha quotato in rialzo anche rispetto allo yen, 133,81 (133,38 venerdì scorso e 134,02 alla rilevazione odierna della Bce), e alla sterlina, 0,8936 (rispettivamente 0,8926 e 0,8948), mentre ha ceduta qualche frazione di punto nei confronti del franco svizzero, a 1,5088 (1,5092 e 1,5093).
A deprimere il dollaro (indicato anche a 89,32 yen, 1,0073 franchi svizzeri e 1,6758 per una sterlina) oltre alle operazioni di carry trade, favorite dal fatto che i tassi di interesse degli Stati Uniti sono destinati a rimanere bassi ancora a lungo, hanno contribuito anche le vendite che il mercato già sconta, legate alle attese di scarsi risultati della visita in Cina del presidente americano Barack Obama.
Il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha detto proprio oggi che la banca centrale degli Stati Uniti continuerà a monitorare da vicino l'andamento del dollaro, pur mantenendo i tassi di interesse ai minimi storici «per un periodo prolungato». Il nostro impegno - ha spiegato ancora Bernanke - e la forza di base dell'economia americana (in ripresa, faranno in modo che il dollaro continui a essere forte e una fonte di stabilità finanziaria globale».

Tornando al vertice Cina-Usa, a parte le cortesie di prammatica e l'intesa sulla necessità di non decidere a riguardo delle misure contro l'inquinamento globale, Pechino difficilmente farà aperture sulle richieste di apprezzamento dello yuan nei confronti delle altre divise mondiali. Il portavoce del ministro del commercio cinese, Yao Jian, ha espresso in particolare la forte irritazione di Pechino per il pressing di parte americana. E il mercato ha già preso atto delle resistenze manifestate dalla Cina nel summit dell'Apec durante lo scorso week end.

«Occorre creare un ambiente macroeconomico stabile a favore delle aziende, e questo si estende anche al mercato dei cambi - ha detto Yao - per aiutare la crescita dell'economia mondiale e consentire il rilancio delle esportazioni cinesi. È invece pregiudizievole ai fini della ripresa mondiale e semplicemente ingiusto continuare a chiedere agli altri di apprezzare la propria moneta quando si permette al dollaro di continuare a calare».
È anche interessante rilevare come nel corso degli ultimi mesi il pressing esercitato in prima persona dal segretario del tesoro Timothy Geithner - che fresco di nomina aveva irritato Pechino con i suoi ripetuti attacchi - si sia chiaramente attenuato. Segno che a Washington si è forse deciso di non compromettere rapporti sempre più determinanti per gli equilibri geopolitici ed economici di un futuro che è ormai dopodomani.

Uno «yuan forte», tuttavia, dovrebbe essere parte del pacchetto di riforme necessarie in Cina per aumentare il potere d'acquisto delle famiglie cinesi, se il Dragone intendesse davvero potenziare il mercato interno oltre che puntare sulla crescita dell'export. Ad affermarlo, nel corso di un suo intervento a Pechino, è stato il direttore generale dell'Fmi, Dominique Strauss-Kahn che ha ribadito come il biglietto verde «resterà la principale valuta a livello internazionale ancora per qualche tempo» nonostante «alcuni temano i rischi dei problemi economici e finanziari e dei grandi squilibri fiscali degli Stati Uniti».
La sensazione è che Washington, gravata da un'economia in seria impasse e legata a doppio filo a Pechino che è il principale detentore del debito pubblico Usa, non sia più nelle condizioni di dettare le proprie condizioni. Una trattativa onorevole, davanti a un buon tè al gelsomino, è senz'altro la via da preferire.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Usa-Cina: Prove Di G2 tra Obama e Hu Jintao (Il Punto)

martedì, 17 novembre 2009 - 16:34 PECHINO - ASCA

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(ASCA) - 17 nov - Prove generali per creare il G2. La prima visita del presidente americano Barak Obama in Cina assume un particolare significato nello scacchiere delle relazioni internazionali. Dopo l'esplosione della crisi finanziaria, in molti ipotizzano che la nuova strategia dell'amministrazione americana sia di rivolgere con piu' insistenza lo sguardo a Pechino piuttosto che verso gli alleati storici, Europa in primo luogo. Proprio il vecchio continente teme un asse privilegiato tra Washington e Pechino sui temi di maggiori attualita' nell'agenda globale. Alcuni dei piu' autorevoli opinionisti americani hanno definito il viaggio di Obama ''una nuova era nelle relazioni con la Cina''. Obama e Hu Jintao hanno parlato sulla cooperazione tra i due paesi su una serie di questioni come il clima, il commercio, ma anche Corea del Nord, Iran. Il New York Times ha maliziosamente sottolineato che nella conferenza stampa congiunta i due leader sono sembrati preoccupati soprattutto di evidenziare le differenze piuttosto che i punti di intesa. Obama parla di diritti umani, di liberta' come valori universali e invita Pechino a riprendere i colloqui con il Dalai Lama ma al tempo stesso riconosce la sovranita' della Cina sul Tibet e Taiwan. Un risultato di rilevante spessore e significato per le autorita' cinesi.

Nel comunicato congiunto i due leader indicano che ci saranno nuovi incontri bilaterali per affrontare le priorita' sull'agenda che si chiamano clima, contributo della Cina alla pace nel sud est asiatico e naturalmente i temi piu' economici come il commercio e le valute. Strategic and Economic Dialogue il nome del forum bilaterale dove affrontare i nodi da sciogliere. Obama ha sottolineato la convergenza dei due paesi sulla necessita' che al vertice sul clima di Copenaghen il risultato non dovra' essere una dichiarazione di impegno politico ma soluzioni operative immediamente applicabili. Secondo alcuni osservatori sul capitolo del clima USA e Cina non avrebbero ancora posizioni molto vicine. D'altra parte Obama e' arrivato a Pechino senza strumenti di pressione dal momento che la legislazione sui cambiamenti climatici che era tra le priorita' della Casa Bianca ristagna al Congresso. Sempre il New York Times (NYSE: NYT - notizie) cita oggi il professore cinese Shi Yinhong il quale afferma che prima della crisi finanziaria ''gli USA erano i leader mondiali ma adesso gli Stati Uniti potrebbero dipendere dalla Cina piu' di quanto la Cina non dipenda da loro''. Hu Jintao cosi' ha detto di aver sottolineato a Obama che e' ''normale che ci siano differenze tra i due paesi. Cio' che e' importante e' il rispetto reciproco e la volonta' di risolvere le difficolta'''. Nella conferenza stampa nessun riferimento alla questione del dollaro ma e' probabile che la questione valutaria sia stata tra le priorita' degli incontri bilaterali.

Il mondo chiede a Pechino un apprezzamento dello yuan per contribuire a colmare gli squilibri su scala globale. Ma oggi e' la debolezza del dollaro che rischia di provocare nuove difficolta' finanziarie, soprattutto nei paesi asiatici dove molte valute sono ancorate al biglietto verde. Con tassi di interesse americani ai minimi storici si assiste al fenomeno del carry trade sul dollaro. Molti investitori si indebitano in dollari per riversare liquidita' in paesi dove i ritorni sono superiori. Il risultato e' una fiammata speculativa con nuovi pericoli di squilibri. La borsa di Shanghai da inizio anno ha messo a segno un +80%, a Hong Kong si riparla di bolla immobiliare, l'Indonesia viene descritta come la nuova Cina. ''E' un gioco pericoloso - scrive il Wall Street Journal - che potrebbe portare a gravi errori nelle decisioni politiche'', in particolare il riemergere nel mondo di limitazioni alla libera circolazione di capitali. Il Brasile gia' a ottobre ha imposto una serie di limitazioni agli investitori esteri, seguito la settimana scorsa da Taiwan che ha congelato temporaneamente la liberta' di depositare denaro agli stranieri. Altri paesi specialmente nel sud est asiatico sono tentati a introdurre limitazioni. L'altro grave rischio politico e' che molti paesi ritengano che la politica americana sia quella di mantenere un dollaro debole per rivitalizzare le esportazioni. Il peggio della crisi e' ormai alle spalle ma l'economia mondiale, forse Cina esclusa, e' ancora convalescente. L'ultima cosa di cui c'e' bisogno e' una serie di svalutazioni competitive. E forse e' questa la principale sfida che deve affrontare l'inquilino della Casa Bianca.
 

Fonte - ASCA

 

 

 

 

 

Il debito americano alle stelle, Immobiliare allarme morosità

18 Novembre 2009 09:51 MILANO - di Vittorio Carlini
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«Parole, parole, parole...», cantava Mina un po' di tempo fa. Un refrain che ben potrebbe adattasi alle tante (troppe) dichiarazioni in stile: «la crisi è finita» o «il peggio è alle spalle». Certo, tutti lo sperano. Ma, al di là delle parole (per l'appunto) ci sono ancora molti fatti che dovrebbero indurre a maggiore prudenza.
Tra questi l'andamento del mercato immobiliare americano, in particolare quello commerciale. In tal senso il Wall Stret Journal, che non può certo dirsi un foglio "catastrofista", riporta alcuni dati molto interessanti sui conti economici di Fannie Mae e Freddie Mac, i due enti parastatali che sono lo snodo del sistema secondario dei mutui immobiliari di milioni e milioni di Mr e Mrs Smith. Ebbene, il "delinquency rate" (il tasso di insolvenza), dei prestititi sulle multiproprietà, di Fannie Mac alla fine di settembre è salito allo 0,62%, contro lo 0,16% di un anno prima. Un balzo che è conseguenza, anche e soprattutto, del peggioramento del mercato commerciale immobiliare. Come evidenzia, peraltro, un altro dato riferito a Freddie Mac: nel momento di massimo splendore dell'housing commercial market (nel 2007), il gruppo aveva garantito nuovi mutui per 180 miliardi di dollari legati a nuove costrusioni; la metà di questi, adesso, sono in morosità.
I timori di Harvard e della Fed

La situazione non è certo positiva. Una eventuale difficoltà delle due società parastatali nel sostenere i crediti per l'acquisto delle case potrebbe portare ad uno stallo del mercato stesso. «Senza la continua attività di Fannie Mae e Freddie Mac - ha scritto di recente l'università di Harvard - le compravendite immobiliari potrebbero fermarsi». La prestigiosa università non è sola a esprimere preoccupazione: proprio di recente il presidente della Fed di San Francisco, Janet Yellen, ha sì sottolineato che «gli indizi di stabilizzazione dell'immobiliare rappresentano senza dubbio un elemento positivo». Tuttavia la disoccupazione, in ottobre, è salita al 10,2%. Un trend preoccupante perché l'incremento del numero delle persone che non hanno uno stipendio può tradursi in una nuova ondata di morosità con succesivi pignoramenti. Il che «rimetterebbe sotto pressione i prezzi delle case tornati a crescere negli ultimi due mesi come rilevato dall'indice Case Shiller». Tanto che la Yellen ha definito «preoccupante» in particolare l'outlook del mercato immobiliare commerciale, quello a cui più sono esposte le banche regionali.
Il debito a stelle e strisce...alle stelle

Senza dimenticare, poi, che gli enti hanno ricevuto più di 110 miliardi di dollari dal governo di Washington per il loro salvataggio. E pensare ad ulteriori iniezioni di denaro è molto difficile. Proprio oggi, infatti, l'esecutivo ha pubblicato l'ultimo dato sul debito pubblico. Secondo quanto indicato dal dipartimento del Tesoro Usa, il debito ha superato la soglia dei 12mila miliardi di dollari. Al 16 novembre 2009 ammonta a 12.031,30 miliardi contro 11.999,51 miliardi il giorno prima. La prima soglia simbolica dei 10mila miliardi era stata superata nel settembre 2008. Dal primo novembre 2009 l'indebitamento è cresciuto di oltre 138 miliardi e si sta avvicinando rapidamente al tetto di 12.104 miliardi (circa l'80% del Pil Usa 2008) autorizzato dal Congresso.
Un altro dato che indica come, a volte, la realtà è lontana dalle «parole, parole, parole, soltanto parole....»

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

CINA: STA PER SCOPPIARE L'ENNESIMA BOLLA

22 Novembre 2009 22:15 NEW YORK - WSI
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Pechino verra' colpita dal calo dei consumi, soprattutto negli Usa. Bill Gross: "Sta crescendo ovunque il rischio sistemico di un'altra bolla degli asset, ma la Fed non ha spazi di manovra". Intanto Paribas consiglia beni rifugio come oro e alimentari.
La crescita cinese verra' presto colpita dall'assenza di una solida domanda al consumo da quei partner commerciali fondamentali come gli Stati Uniti. Lo ha dichiarato oggi il finanziere Bill Gross, gestore di Pacific Investment Management, Pimco, il maggiore fondo obbligazionario del mondo.

"Temo che i cinesi dovranno presto vedersela con una bolla", ha confessato Gross in un'intervista concessa ieri a Bloomberg Television. "Sta puntando forte su esportazioni che pero' non trovano una richiesta sufficiente da parte dei consumatori, questo e' il vero problema in Cina".

In tutte le economie mondiali, ha scritto Gross nel suo investment outlook di dicembre, sta crescendo il "rischio sistemico" di nuove bolle degli asset, con la Federal Reserve che continua a mantenere i tassi di interesse su minimi storici.
chief executive dell'autorita' monetaria di Hong Kong, Norman Chan, hanno avvertito che nella regione potrebbero presto gonfiarsi pericolose bolle.

"Con il tasso di disoccupazione salito su livelli a due cifre, dove rimarra' probabilmente per i prossimi sei mesi nonostante si prefiguri una creazione di posti di lavoro, la Fed non ha spazio di manovra, non sapendo dove andare a parare", ha detto sempre nel corso dell'intervista il confondatore e CIO di Pimco.


 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Riforma sanitaria, Obama vince di misura

22 Novembre 2009 14:18 dal corrispondente Mario Platero
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NEW YORK – Harry Reid ce l'ha fatta: in un voto storico, che si e' tenuto nella notte di ieri a Washington, il capo della maggioranza democratica al Senato e' riuscito a mettere insieme la maggioranza di 60 voti necessari vincere il voto procedurale che autorizza il dibattito sulla riforma sanitaria.
Improvvisamente, dopo mesi di battaglie di corridoio, la possibilita' di passare il pacchetto finale in tempi brevi, forse gia' entro tre settimane si fa molto piu' concreta. I repubblicani all'opposizione infatti hanno potuto contare su soli 39 voti e il livello di 60 voti eslcude la possibilita' di ostruzionismo. La vittoria e' importante per Barack Obama che ha sostenuto il pacchetto di riforma sia alla Camera che al Senato e che e' appena ritornato da un viaggio asiatico difficile.

Gia' ieri notte tuttavia, alcuni democratici e un paio di indipendenti che hanno appoggiato la mozione, segnalavano l'esigenza di apportare forti modifiche al piano, in particolare all'ipotesi della "Public Option", l'opzione pubblica che dovrebbe poter competere con offerte private di assistenza medica. "Se non ci sara' un cambiamento durante il dibattito che abbiamo appena approvato, votero' contro" ha dichiarato Blanche Lincoln senatore democratico dell'Arkansas che solo all'ultimo istante aveva sciolto la sua riserva.
La Lincoln, come altri suoi compagni di partito, dovra' affrontare una dura campagna elettorale in vista delle elezioni di meta' mandato del prossimo novembre 2010. E i democratici saranno sottoposti da qui ad allora a un pesantissimo fuoco di spot televisivi antiriforma sanitaria.
La posta in gioco, approvare il pacchetto per la riforma al Senato e poi riconciliarlo con quello della Camera, e' enorme. Il pacchetto del Senato consente di estendere l'assicurazione medica a 31 milioni di americani che oggi non sono coperti con un bilancio di 848 miliardi di dollari in dieci anni. Consente agli stati di avere una via d'uscita: non ratificare la publica option per quello stato. E portera' riforme radicali nel rapporto fra sottoscrittori ed erogatori di polizze assicurative private.

Il dibattito di ieri sulla mozione e' stato epico, e' durato tutta a giornata per poi andare al voto nella tarda nottata. Gia' poche ore prima la leadership del Senato guidata appunto da Reid aveva annunciato di aver avuto l'OK dell'ultimo Senatore democratico ancora incerto, proprio Blanche Lincoln, dell'Arkansas. Con tutti e 58 i democratici al Senato a bordo, piu' due indipendenti che avevano gia' aderito alla mozione sul dibattito, Reid ha potuto annunciare di aver raggiunto la soglia di critica dei 60 voti. Si tratta di capire ora quanti compangi di partito che si confrontano con appuntamenti elettorali difficili per il novembre del 2010 potranno essere liberati. Non solo, non si vuole procrastinare il dibatitto o il voto perche' se arrivera' a gennaio il pericolo di lasciare la bocca amara in molti americani in un anno elettorale e' reale.
I repubblicani intanto continuano gli attacchi e; promettono un battaglia durissima. Hanno prodotto spot televisivi in cui attaccano i senatori democratici in maggiori difficolta' guardando all'appuntamento elettorale del prossimo novembre 2010 criticandoli proprio per aver appoggiato il piano per la riforma sanitaria. Si aggiunga che la conferenza dei Vescovi americani si e' mobilitata con tutta la sua potenza per riaccendere le polemiche sull'aborto che quasi deraglio' il passaggio alla Camera. Ma Reid e' riuscito nella notte tra venerdi' e sabato a convincere prima due dei tre senatori democratici incerti, Mary Landrieu della Louisiana e Bob Nelson, del Nebraska, poi, ieri, si e' unita la Lincoln. Come succede in questi casi, la partita e' diventata monetaria: la Landrieu ha dato il suo OK dopo aver ottenuto da Reid che nel pacchetto fossero appropriati 100 milioni di dollari per l'assistenza medica ai piu' poveri (medicaid) in Luisiana. Il capo della maggioranza al Senato si e' cosi' aggiudicato tutti e 58 i senatori democratici piu' gli altri due voti indipendenti fra cui il Senatore Joe Lieberman ex candidato alla vicepresidenza con Al Gore. Non vi sara' pero' l'adesione di nessun repubblicano: Susan Collins, del Maine che sembrava disponibile si e' tirata indietro dicendo che l'attuale formula del pacchetto penalizza le piccole imprese. La strategia di Reid e' semplice, dopo aver ottenuto l'OK dei democratici "deboli" li liberera' per il voto finale che potrebbe richiedere una maggioranza semplice. I senatori democratici potranno rivendicare durante la campagna di aver votato si per un semplice dibattito in nome della democrazia, ma di essersi poi opposti al pacchetto di riforma. Ma i repubblicani incalzano:"Nessun senatore che vota per a favore della mozione a procedere potra' poi dire che non ha in qualche modo anche abbracciato il pacchetto di riforma nella sua forma attuale", ha detto il Senatore John Cornyn del Texas.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Sabato 21 Novembre 2009   Martedì 24 Novembre 2009   Mercoledì 25 Novembre 2009  
       
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  BCE: nutrire il cicgo nero, oppure?

23 Novembre 2009 23:00 MILANO - di Marco Saba

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Intervenendo via satellite da Washington al convegno milanese "I figli del cigno nero", organizzato dall’Associazione Nazionale Risk Manager, il rappresentante per l'Italia del Fondo Monetario Internazionale Arrigo Sadun ha detto:

"Occorre affrontare i problemi strutturali che da tempo pesano sull’economia italiana e questi due problemi principali sono il basso tasso di produttività, che si traduce in crescita modesta, e l’alto indebitamento pubblico. Anziché nuovi interventi straordinari peraltro difficili visto lo stato dei conti, occorre pensare da subito a come affrontare questi problemi nodali" (1).

Che cos’è un Cigno nero? Secondo Nassim Nicholas Taleb (2) è un evento isolato e inaspettato, che ha un impatto enorme, e che solo a posteriori può essere spiegato e reso prevedibile. Secondo Taleb, nella vita individuale e privata, come in quella sociale e pubblica, noi agiamo come se fossimo in grado di prevedere gli eventi, da quelli sentimentali a quelli storici, a quelli naturali. Pensiamo ad esempio alla professione che abbiamo scelto, all’incontro con la nostra compagna o compagno, alla scelta di vivere all’estero, ad un improvviso arricchimento o impoverimento: quante di queste cose sono avvenute secondo i piani?
Ora questo ragionamento va bene per l'uomo della strada - quando si parla di gravi crisi economiche - vale un po' meno se si pensa che i principali avvenimenti "inaspettati" dell'ultimo secolo seguono una logica abbastanza programmata da quei filantropi che si occupano incessantemente di disegnare il nostro destino da parco buoi (3). Il fatto che lo facciano di nascosto - come la riunione a Jeckill Island per pianificare la Federal Reserve del 22 novembre 1910 (4) (5) - non toglie che una determinata macroprogrammazione non è certo dovuta al caso. Quello che voglio dire è che questa crisi è una somma di tanti comportamenti scorretti da parte di entità finanziarie, i cui effetti negativi si cumulano col tempo. La crisi appare evidente quando la gente se ne accorge.

Così come in effetti i cigni neri non sono affatto degli eventi così eccezionali, allo stesso modo le crisi ricorrenti di un sistema fondato sulla rapina legalizzata non sono affatto casuali. Se ad esempio con Basilea Due aumenti il coefficiente di riserva frazionaria, è evidente - agli addetti ai lavori - che ci sarà una contrazione nei prestiti dovuta alla necessità di rientro degli istituti di credito. E non serve a niente prestargli dei soldi - come fanno le banche centrali - perché il buco aumenta sempre, visto che sono MOLTO POCHI i soldi immessi nel circuito SENZA debito ed interessi. Le banche cioè creano i soldi del capitale prestato ma troppo pochi soldi per ripagare gli interessi.

Per essere chiari: se a fine anno nell'aggregato dovrà essere ripagata la massa monetaria creata come prestito più il 20% di interessi, da dove arriva questo 20% ? Bene, può arrivare solo da: (A) monete metalliche emesse dagli stati, (B) monete false immesse in circolazione, (C) operazioni di acquisto diretto (mercato aperto) da parte delle banche, (D) monete complementari o locali immesse in circolazione senza obbligo di riserva e convertibilità. Se - e solo se - la somma dei punti A, B, C e D riesce a coprire gli interessi richiesti, si può parlare di solvibilità tecnica del sistema. Ma solo se questa liquidità arriva nelle tasche dei debitori allora si potrà parlare di solvibilità in senso pratico. E' evidente che i punti B e C rappresentano delle emissioni illegali o quantomeno discutibili (6). Quanto al punto A, occorre dire che in area Euro lo stato può emettere monete metalliche solo in misura precedentemente stabilita ed autorizzata dalla BCE (mantenendo una minima sovranità monetaria di facciata, da parata, diciamo) (7), mentre il punto D rappresenta un fenomeno monetariamente insignificante e trascurabile allo stato attuale (8).

Il punto C è discutibile perché quando le banche spendono pro se direttamente il denaro creato ad arte, si appropriano di ricchezza reale della comunità senza contropartita (il valore del denaro conferito essendo una derivata della stupidità collettiva). Ma è anche il punto che potrebbe essere direttamente gestito dalla Banca Centrale per il benessere economico della collettività. Invece che nutrire il cigno nero, prestando o conferendo nuova liquidità alle banche, la Banca Centrale potrebbe effettuare operazioni di mercato aperto a favore di una società-veicolo (una controparte) che in cambio le fornisse la cartolarizzazione dei diritti sovrani monetari della cittadinanza. In cambio la società distribuirebbe il frutto di questi diritti alla cittadinanza stessa, remunerando così la perdita di sovranità. Allo stato attuale, se la banca centrale ridistribuisse tuta la rendita monetaria effettiva, si potrebbe garantire un reddito di cittadinanza mensile di 1.350 euro per ognuno dei 57 milioni di italiani (9), SENZA toccare il debito pubblico - proprio come chiede il Sadun del FMI - e SENZA necessità di nuove tasse. Volendo limitare al massimo questa cifra a - diciamo - 10.000 euro una tantum (meglio sarebbe annuali), l'iniezione di liquidità dal basso - senza debito - farebbe certamente ripartire l'economia.

Il problema a questo punto è solo psicologico: come convincere i banchieri centrali che qualcosa devono pur restituirla, prima o poi? La moral suasion potrebbe essere questa: o vi date una mossa o facciamo esplodere lo scandalo della falsa contabilizzazione della rendita monetaria, spacciata come perdita, nei vostri bilanci e vi processiamo (10). Dopodiché la nazionalizzazione totale del sistema bancario sarebbe davvero a un passo...
Noi non ci arrenderemo mai, loro neppure. Ma... gli conviene?

Note:

1) Non confondete rimbalzo e ripresa - di Alessandra Mieli, Opinione.it, 12 Novembre 2009
http://www.opinione.it/articolo.php?arg=3&art=87138

2) Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita - di Taleb Nassim, Il Saggiatore, 2008
http://www.ibs.it/code/9788842814788/taleb-nassim-n-/cigno-nero-come.html

3) Per una trattazione esaustiva del "sistema dei filantropi", vedere:
Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time' - by Carroll Quigley, G.S.G. & Associates, 1975
http://www.amazon.com/Tragedy-Hope-History-World-Time/dp/094500110X

4) The Creature from Jekyll Island: A Second Look at the Federal Reserve - G. Edward Griffin, Amer Media, 2002
http://www.amazon.com/Creature-Jekyll-Island-Federal-Reserve/dp/0912986395

5) Sarà un ennesimo caso casuale ma J.F.Kennedy - il presidente USA dell'Ordine Esecutivo 11110, venne assassinato, nel 1963, proprio il 22 novembre. (vedi il mio "Bankenstein", ed. Nexus, 2006)

6) Anche se in passato matrici di banconote sono state trovate impropriamente in ambienti legati ai servizi segreti dei vari paesi...

7) L'emissione di moneta metallica non arriva all'1% del valore nominale della massa monetaria più o meno circolante.

8) Le due monete "complementari" più diffuse in Europa, il Regio tedesco ed il WIR svizzero, mantengono riserve al 100% in moneta a corso legale (euro e franco svizzero), rivelandosi così completamente inutili a risolvere il problema sollevato dal presente articolo.

9) Ho calcolato in 1,3 milioni di euro a testa la quota parte di rendita monetaria effettiva (debito pubblico x 50, diviso 57 milioni). Calcolando 80 anni di vita media e dividendo per i mesi, si ottiene 1.340 euro di reddito di cittadinanza, dalla culla alla tomba.

10) Che tipo di processo ? Dipenderà dall'entità del superamento della soglia di dolore economico che la società si troverà a dover affrontare... Il tempo - in questo senso - non gioca certo a favore. Nel migliore dei casi, una Star Chamber.
http://en.wikipedia.org/wiki/Star_Chamber

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

USA: EMERGENZA PER COSTI FUORI CONTROLLO

23 Novembre 2009 20:02 NEW YORK - APCOM
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La recessione sta terminando ma il problema del debito pubblico potrebbe presto trasformarsi in un incubo per gli Stati Uniti. Con l'uscita dalla crisi, gli interessi sono destinati ad aumentare. Si avvicina il problema pensioni per i "baby boomers".
La recessione sta terminando ma il problema del debito pubblico potrebbe presto trasformarsi in un incubo per gli Stati Uniti. I termini con cui l'uscita dalla crisi e i programmi di stimoli straordinari sono stati finanziati negli ultimi due anni sembrano infatti troppo belli per essere veri, e i bassissimi tassi d'interesse sul debito che per ora gli Stati Uniti possono permettersi di pagare sono destinati ad aumentare.

Problemi diversi cominciano ad accumularsi e il tempo si assottiglia per il dipartimento del Tesoro. Non solo il governo ha già previsto per i prossimi anni una montagna di nuovo debito, ma nel giro di pochi mesi è in arrivo la scadenza di un'enorme quantità di debito a breve. Con l'uscita dalla recessione e la Fed orientata alla riduzione dei programmi di sostegno straordinari - tra cui tassi sui fed funds ai minimi storici - gli interessi sul debito pubblico americano sono inevitabilmente destinati ad aumentare. Per gli Stati Uniti, scrive il New York Times sull'apertura di oggi, si profila uno shock di pagamenti.

Attualmente il debito pubblico americano supera i 12.000 miliardi di dollari e i costi per onorarlo, anche secondo le previsioni più ottimiste, sono spaventosamente alti: dai 202 miliardi di quest'anno si arriverà ai 700 miliardi di dollari annuali nel 2019. Le stime sono della Casa Bianca. Un aumento di 500 miliardi di dollari è pari al budget federale di quest'anno per istruzione, energia, sicurezza nazionale e le guerre in Iraq e Afghanistan.

Se il massiccio aumento del debito negli ultimi due anni è stato ritenuto con vasto consenso una misura necessaria per arginare la crisi finanziaria e la recessione, non c'è più dubbio che il problema del budget nel lungo periodo sia diventato troppo grande per essere rinviato.

Un'altra ombra minacciosa si staglia all'orizzonte per il governo. La generazione dei 'baby boomers', i cittadini nati nel periodo di esplosione delle nascite del dopoguerra, si sta avvicinando all'età pensionabile dei 65 anni, in cui di diritto godranno di assistenza medica federale e altri programmi pubblici. Secondo gli esperti i costi saranno un incubo fiscale per il governo.

La Casa Bianca stima che Washington dovrà prendere in prestito altri 3,5 miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Il Tesoro deve inoltre urgentemente rifinanziare un'enorme parte del debito con scadenza a breve termine, emesso durante la crisi finanziaria. Secondo le stime circa il 36% del debito a breve, grosso modo 1.600 miliardi di dollari, scadrà nei prossimi mesi.
Il Tesoro sta ora cercando di negoziare la sostituzione di bond a uno e tre mesi con titoli decennali e trentennali, una strategia che nel lungo periodo farà risparmiare ma nel breve avrà l'effetto di far salire i costi, perché i tassi di interesse sono più alti.

Finora la domanda di Treasury bond americani da parte di investitori e governi esteri è rimasta abbastanza forte da mantenere bassi i tassi di interesse che gli Stati Uniti devono offrire per venderli. Quest'anno il governo ha addirittura pagato meno interessi che nel 2008, pur avendo aumentato il debito di 2.000 miliardi. Nonostante gli Stati Uniti siano stati l'epicentro della crisi molti hanno visto i buoni del Tesoro americani come l'investimento meno rischioso in un periodo in cui i mercati erano in preda al panico.

La Federal Reserve ha inoltre utilizzato tutti gli strumenti del suo arsenale per contribuire a portare gli interessi al minimo possibile. Ha tagliato i tassi sui fed funds per il prestito interbancario overnight al minimo storico, portandoli quasi a zero; ha acquistato oltre 1.500 miliardi di Treasury e di obbligazioni con garanzia federale legati ai mutui con l'obiettivo di ridurre i rendimenti di lungo periodo.

Queste condizioni stanno ora cominciando a cambiare. Con il ritorno della fiducia nei mercati e i segnali di ripresa gli investitori internazionali stanno tornando a guardare ad asset più rischiosi e remunerativi, mentre la Banca Centrale americana sta ritirando alcuni programmi disegnati per influire sui rendimenti di lungo periodo. Il mese scorso è stato terminato il piano d'acquisto di 300 miliardi di dollari di Treasury, ed entro marzo la Fed cesserà di comprare dal Tesoro obbligazioni garantite da mutui. Infine, ma questo non prima della seconda metà del 2010, anche i tassi d'interesse benchmark sui fed funds, verranno rialzati a livelli più normali.
 

Fonte - APCOM

 

 

CHIMERICA: IL MOSTRO A DUE TESTE STA PER MORIRE

24 Novembre 2009 00:01 NEW YORK - WSI
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L'era di collaborazione, caratterizzata dai prezzi stracciati della Cina e dalle spese sfrenate dell'America, volge al capolinea. Ma prima Washington dovra' convincere Pechino a rinunciare ad un modello che l'ha trasformata in potenza mondiale.
Un articolo pubblicato ieri da Wall Street Italia, intitolato CINA: STA PER SCOPPIARE L'ENNESIMA BOLLA e' stato un tale successo di click che e' passato in poche ore al terzo posto assoluto nella Top30 dei Piu' Letti, senza contare decine di commenti a caldo dei lettori. Evidentemente, il tema e' giudicato di cruciale importanza per chi deve decidere come investire nel 2010. Approfondiremo nei prossimi giorni. Intanto, pubblichiamo subito un secondo articolo.

Il professore di storia dell' economia Niall Ferguson ha invocato la morte di uno dei mostri che lui stesso ha contribuito a creare. Forse "creare" e' un termine troppo forte. Diciamo che si e' limitato a battezzarlo.

Stiamo parlando del mostro a due facce, rappresentate da Cina e Stati Uniti. Una collaborazione che Ferguson ha chiamato "Chimerica".

Ovviamente il neologismo "Chimerica" non e' altro che la fusione del nome dei due stati, cosi' come vengono chiamati in lingua inglese, con un chiaro riferimento alla Chimera, l'animale ibrido dotato di testa e corpo di leone, una testa di capra sul dorso e una coda di serpente.

In un articolo apparso sulla rivista The Australian, il professore di Harvard ha detto che la Chimerica e' giunta al capolinea, sottolineando che la collaborazione tra i due Paesi, caratterizzata da prezzi bassi dalla Cina e spese forsennate dall'America, e' destinata a finire e a non tornare mai piu'.

Tenendo conto delle scoppio delle bolle immobiliari e del progressivo allargamento del debito, i nuclei familiari americani dovranno necessariamente aumentare i risparmi e ridurre le spese, combattendo la loro dipendenza dall'accesso a crediti facili e la loro tendenza a fare ricorso a denaro a basso costo. Questo segnera' la fine dell'era "chimericana".
Le autorita' cinesi hanno capito che non possono piu' fare affidamento sui consumatori statunitensi altamente indebitati come acquirenti di beni cinesi, cosi' come invece e' avvenuto fino al 2007, prima dello scoppio della crisi.

Inoltre il governo di Pechino non apprezza l'eccessiva esposizone alla valuta americana, tramite l'accumulo di riserve in asset misurati in dollari pari a 2000 miliardi. Sono lunghi sul dollaro come mai non lo e' stato nessuno prima d'ora e questo li rende ovviamente particolarmente nervosi.

Tuttavia resta molto forte la tentazione da parte di entrambe le teste del mostro Chimerica a mantenere in atto questa partnership cosi' sbilanciata. Nonostante i fiumi di parole spese per sottolineare l'impellente necessita' di ridurre gli squilibri globali, il maggiore di tutti persiste.

Quest'anno il deficit della bilancia commericale americana con la Cina tocchera' approssimativamente i $200 miliardi, attestandosi sugli stessi livelli dell'anno scorso. Pechino ha comprato $300 miliardi in valuta americana, nel tentativo di tenere su livelli bassi lo yuan e di conseguenza i prezzi delle esportazioni.

Nel corso della sua visita in Cina, il presidente Obama ha dovuto resistere alla tentazione di rispondere alle proposte di collaborazione tra le due maggiori economie mondiali con la sua nota persuadente arte di comunicazione. Non e' infatti il momento della retorica altisonante, bensi' della diplomazia a bassa voce.

Ora come ora, la Chimerica favorisce piu' la Cina degli Stati Uniti. Si potrebbe infatti anche definire l'accordo del 10 a 10: i cinesi ottengono un 10% di crescita economica, gli Stati Uniti il 10% di disoccupati.

Ma la partnership tra le due potenze mondali risulta ancora piu' dannosa per il resto del pianeta e per quei Paesi che sono tra i principali mercati degli Stati Uniti e i suoi piu' stretti alleati. La domanda da farsi allora e': cosa possono offire gli Stati Uniti per far si che i cinesi abbandoni la strategia del dollaro-appiglio, che sinora ha funzionato cosi' bene?

Washington dovra' convincere le autorita' di Pechino che qualsiasi perdita di valore delle riserve di asset sara' un prezzo molto contenuto da pagare se paragonato ai vantaggi che ha ottenuto dalla Chimerica, il modello che ha trasformato la Cina da un Paese del Terzo Mondo a una superpotenza mondiale in meno di 15 anni.

Ad ogni modo le perdite saranno piu' che compensate dall'impatto positivo che l'incremento del valore del dollaro avra' sull'immensa quantita' di asset di cui la Cina e' in possesso.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

BERNANKE & C. OTTIMISTI SULL'ECONOMIA AMERICANA (MA ATTENTI ALLA BOLLA)

24 Novembre 2009 21:14 NEW YORK - ANSA
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Alert: i tassi a zero alimentano la speculazione. Messaggio a due facce della Fed, che ha rialzato la stima per la crescita dell'economia degli Stati Uniti nel 2010, prevista ora fra il 2,5% e il 3,5% (era fra 2,1 e 3,3%

Il comitato della Fed che decide sui tassi ha rialzato la stima per la crescita dell'economia Usa nel 2010, prevista fra il 2,5% e il 3,5%. Lo si legge nei verbali della riunione d'inizio novembre del Fomc. La stima precedente, fornita a giugno, era compresa fra 2,1 e 3,3%. Per il 2009 la stima e' rivista ad un tasso compreso fra -0,4 e -0,1% dalla precedente forchetta compresa fra -1,5% e -1%.
Non correre il rischio di perdere il rialzo di Wall Street. Guadagna con INSIDER. Se non sei abbonato, fallo subito: costa meno di un caffe’, solo 0.77 euro al giorno, provalo ora!

Fino ad oggi lo avevano detto soltanto gli economisti, gli addetti ai lavori o le autorità monetarie di paesi stranieri come la Cina. Ora anche la Banca centrale americana lo ammette: i tassi d'interesse a zero «possono alimentare la speculazione nei mercati finanziari» e falsare le aspettative sull'andamento dell'inflazione. Nel «minute» delle riunioni del Fomc, il braccio di politica monetaria della Federal Reserve, tenutesi gli scorsi 3-4 novembre, si fa esplicito riferimento a questo rischio.

Questo non significa che la banca centrale americana intenda rialzare il costo del denaro che - si legge nel documento - rimarrà al livello attuale ancora a lungo. Almeno fintanto che le aspettative di inflazione rimarranno stabili e la disoccupazione continuerà ad aumentare. Ma con queste parole la Banca centrale Usa ha fatto chiaramente capire che è consapevole dei rischi.

La Fed, come la Bce, la Banca d'Inghilterra e le altre principali banche centrali in tutto il mondo, per far fronte alla stretta creditizia originatasi in conseguenza della crisi finanziaria, hanno messo in atto una politica di progressiva riduzione del costo del denaro. Una scelta obbligata quando i mercati crollavano e nessuno sapeva più che pesci pigliare.

Ma dopo che la tempesta è passata e i mercati hanno ripreso a crescere, in molti hanno iniziato ad approfittare di questa situazione. Con i tassi d'interesse a zero - è la tesi dell'economista Nouriel Roubini - gli investitori hanno preso in prestito denaro dove i tassi sono bassi (come negli Usa) per reinvestirli altrove. Sfruttando ad esempio il rally dei mercati emergenti (come quello cinese) o delle commodity (come l'oro e il petrolio). Questo, secondo l'economista, ha dato origine a una bolla nei mercati e ha contemporaneamente avviato la svalutazione del dollaro.

 

Fonte - ANSA

 

 

FUOCO INCROCIATO SULLA FED DI BERNANKE

25 Novembre 2009 13:40 MILANO - di Alessandro Merli
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Quando si è insediato alla presidenza della Federal Reserve, il 1° febbraio 2006, sembrava che, per fare bene, Ben Bernanke non dovesse far altro che seguire la lezione del suo predecessore, il "maestro" Alan Greenspan. Anzi, qualcuno si preoccupava che non fosse in grado di farlo abbastanza fedelmente.

La crisi ha spazzato via queste convinzioni. Bernanke ha dovuto muoversi in territori mai esplorati prima dal central banking e adottare molte iniziative non convenzionali. Queste mosse non sono state però senza pesanti conseguenze. Una delle principali è la dilatazione del bilancio della Fed a causa dei salvataggi delle banche e degli acquisti di titoli, molti dei quali tossici.

Questo porrà la Banca centrale americana, nei prossimi mesi, di fronte a un acuto dilemma. Oggi latente, emergerà il conflitto fra le ragioni delle politica monetaria, che a un certo punto del 2010, probabilmente nel terzo o nel quarto trimestre secondo i mercati finanziari, dovrà aumentare i tassi d'interesse, e le esigenze del bilancio della stessa Fed, gonfiato dagli interventi d'emergenza e che ora sopporta gran parte del rischio di mercato che normalmente dovrebbe essere in capo a banche e investitori.

La Fed ha nei giorni scorsi esposto le condizioni (bassa attività economica, inflazione sotto trend, aspettative inflazionistiche stabili) in base alle quali continuerà a mantenere la politica monetaria attuale. Ha descritto insomma il come, ma non il quando dell'uscita dalla strategia di tassi bassi e liquidità abbondante. Una «roadmap», come la definisce Tony Crescenzi, del colosso obbligazionario Pimco, che deve fare in modo di evitare sorprese e reazioni improvvise dei mercati: rendere la exit strategy un processo, non un evento.

Il percorso su cui si dovrà muovere Bernanke è molto stretto. C'è fra l'altro sullo sfondo un clima politico tutt'altro che favorevole alla Fed, sempre più identificata con la disoccupazione in aumento e soprattutto con gli impopolari salvataggi di Wall Street. E la settimana prossima il presidente della Banca centrale deve presentarsi in Senato per la conferma del secondo mandato, accordatogli dal presidente Barack Obama. Dell'ostilità della politica sono conferma i progetti dell'influente senatore democratico Chris Dodd per ridimensionare i poteri della Fed, nonostante il parere opposto dell'amministrazione, e l'attacco frontale del populista republicano Ron Paul in Congresso, che vorrebbe addirittura tenere sotto controllo le decisioni sui tassi.

Per la Fed, il rischio di perdita d'indipendenza è reale, anzi, secondo qualcuno è già nei fatti. Una ragione in più per Bernanke, quando si tratterà di mettere in atto la strategia d'uscita, per dimenticare un'altra lezione di Greenspan che, nel famigerato episodio del 1994, sorprese i mercati, creando una turbolenza di vasta portata. Nelle condizioni attuali, la Fed finirebbe per esserne la prima vittima.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Il dilemma del dollaro

November 25th, 2009 by editor - di Mario Seminerio

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Come è possibile che il dollaro, espressione di una delle economie più produttive del mondo, dal 1960 abbia perso circa due terzi del proprio valore contro yen, franco svizzero e marco tedesco/euro? Alla domanda tenta di rispondere l’economista Paul De Grauwe, dell’Università di Lovanio. Dagli anni Novanta, osserva De Grauwe, l’economia statunitense ha goduto dei maggiori tassi di crescita della produttività rispetto alla maggior parte dei paesi europei e del Giappone, con un tasso d’inflazione approssimativamente simile a quella di questi paesi. Logica vorrebbe, quindi, che ci si dovrebbe attendere una rivalutazione ininterrrotta del dollaro, che si è invece verificata solo durante gli anni della presidenza Clinton, per dare una collocazione temporale facilmente identificabile.

La spiegazione, per De Grauwe, è da ricondurre al ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale. Le autorità monetarie statunitensi perseguono una politica di bassa inflazione e piena occupazione con essa compatibile. Il controllo dell’inflazione non avviene con un targeting esplicito, ma certamente ve ne è uno implicito, rintracciabile nelle comunicazioni della Fed riguardo il “corridoio di confort” dell’indice dei prezzi della spesa per consumi personali, che attualmente deve restare entro il 2 per cento annuale. Questo target significa che la Federal Reserve “promette” implicitamente di emettere dollari necessari a comprare un paniere di merci e servizi americani il cui valore è all’incirca costante, svalutandosi solo del 2 per cento l’anno. Poiché l’economia americana cresce alll’incirca del tre per cento annuo in termini reali (o almeno, così accadeva prima della crisi), ciò vuol dire che la Fed ogni anno deve aumentare l’offerta di moneta per circa il 5 per cento (2 per cento d’inflazione e 3 per cento di crescita reale).

Questo impegno alla stabilità dei prezzi domestici tuttavia, confligge col ruolo internazionale del dollaro. La domanda mondiale di dollari cresce a tassi annuali di gran lunga superiori al 5 per cento di crescita dell’offerta di moneta necessaria per tenere i prezzi interni americani approssimativamente stabili. Quindi le autorià monetarie statunitensi devono perseguire una politica monetaria che accomodi l’elevata domanda mondiale di dollari, ma senza causare aumenti tali da mettere a rischio la stabilità dei prezzi domestici, e questo è un dilemma. Scrive De Grauwe:
«Questo dilemma somiglia a quello che esisteva nel periodo del gold standard, negli anni Sessanta. All’epoca gli Stati Uniti garantivano che la convertibilità dei dollari in oro a prezzo fisso. Poiché la domanda di dollari era cresciuta rapidamente mentre lo stock di oro era all’incirca costante, divenne sempre più evidente che se gli Stati Uniti avessero dovuto accomodare l’elevata domanda mondiale di dollari, non sarebbero stati capaci di mantenere la convertibilità del dollaro in oro, visto che un numero sempre maggiore di dollari “dava la caccia” ad uno stock fisso di oro. Il dilemma fu analizzato da Triffin, che previde negli anni Sessanta che gli Stati Uniti avrebbero dovuto abbandonare la convertibilità del dollaro in oro»

La situazione si ripresenta oggi. E come ai vecchi tempi di Bretton Woods, ci sono due modi per gli Stati Uniti per uscire dal dilemma. Il primo consiste nell’abbandonare l’impegno alla stabilità dei prezzi. Il secondo implica che la Fed sceglie la stabilità interna dei prezzi e riduce fortemente l’offerta di dollari (e di Treasuries) al resto del mondo. Questo a sua volta causa una profonda recessione mondiale.
Il mercato sembra scommettere, almeno sinora, che gli Stati Uniti sceglieranno la prima via, abbandonando l’impegno alla stabilità dei prezzi. E’ una scommessa ragionevole perché la massiccia offerta di dollari è un privilegio attraente per il paese la cui valuta dispone dello status di riserva mondiale, il che implica la possibilità di disporre di condizioni di finanziamento che nessuno al mondo possiede. Non è un caso che molti economisti e storici dell’economia vedano le svalutazioni “epocali” del dollaro (come quella che pose fine al regime di convertibilità aurea, stabilito nel 1944 a Bretton Woods), come una sorta di default silenzioso e non dichiarato sul dollaro. Ma ciò vuole anche dire che la debolezza del biglietto verde è destinata a continuare, almeno fin quando esso avrà il ruolo, internazionalmente accettato, di valuta di riserva.
Ecco perché alcuni paesi, tra quelli che hanno sinora accumulato le maggiori riserve in dollari a seguito dell’ancoraggio artificiale delle proprie economie alla divisa statunitense, stanno cercando alternative al dilemma. Ad esempio acquistando materie prime. Fintanto che questa transizione, e lo squilibrio da essa generato, non si concluderanno, dovremo convivere con le turbolenze. 
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

  Giovedì 26 Novembre 2009   Venerdì 27 Novembre 2009   Sabato 28 Novembre 2009  
       
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PRIMA DEL DEFAULT DELL'ITALIA, C'E' IL DUBAI

26 Novembre 2009 14:18 DUBAI - REUTERS
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Mercati in "red alert" per il pre-crack di Dubai World, holding del governo di Abu Dhabi: ha congelato il pagamento degli interessi. Passivita' per quasi $60 miliardi. La banca piu' esposta: HSBC ($17 miliardi). Le aziende italiane a rischio.
C'e' paura tra i mercati spaventati dai problemi debitori di Dubai World, la societa' di investimenti controllata dal governo di Abu Dhabi e che ha passivita' per 59 miliardi di dollari, ha chiesto ai suoi creditori di congelare il pagamento dei suoi debiti, in vista di un drastico processo di ristrutturazione. Stamattina, i crediti default swaps a cinque anni dell'Emirato del Golfo Persico, che esprimono il costo per assicurare il debito sovrano, sono balzati secondo i dati ufficiali di Cma Datavision a 469,5 punti base. Ma secondo altri trader, in realta' sarebbero a 550 punti base. Vale a dire, servirebbero circa 500 mila dollari l'anno per assicurare 10 milioni del debito nazionale.

Alcune banche europee, secondo fonti di New York, corrono il rischio di perdite potenziali di oltre $40 miliardi per l'esposzione nei confronti della holding in bancarotta Dubai World. Dubai World ha un indebitamento di quasi $60 miliardi, su un totale per lo stato di Abu-Dhabi di circa $80 miliardi, dei quali circa la meta' sono appunto in mano a banche europee, con in testa HSBC con crediti a rischio per $17 miliardi - vedi lista di banche e aziende nell'articolo: DUBAI SULL'ORLO DEL CRACK. TUTTE LE SOCIETA' ITALIANE A RISCHIO


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Arriva dal mondo arabo il nuovo terremoto per le borse, spaventate dai problemi debitori del Dubai legati al colosso statale Dubai World e alla controllata Nakheel.

Questa mattina i credit default swaps a cinque anni dell'emirato del Golfo Persico, che esprimono il costo per assicurare il debito sovrano, sono balzati a 469,5 punti base secondo i dati ufficiali di Cma Datavision, a 500-550 punti base secondo alcuni trader. Servirebbero oggi circa 500.000 dollari l'anno per assicurare 10 milioni del debito nazionale.

Dopo sei anni di frenetico boom delle costruzioni e dell'attività economica, l'alto debito del Dubai aveva già iniziato a preoccupare gli investitori. Ma ieri sera la notizia che il governo ha chiesto una moratoria di sei mesi per ripagare i prestiti della potente holding statale Dubai World e di Nakheel, la controllata attiva nel settore immobiliare, ha comunque colpito molto i mercati.

Il governo di Dubai ha intanto annunciato un piano di ristrutturazione per far fronte all'emergenza.

Dubai World è un colosso statale attivo in quattro aree strategiche di crescita: trasporto e logistica, settore marittimo, sviluppo urbano, servizi finanziari e di investimento. Al suo interno convivono molte società con competenze nettamente differenziate. Tra di esse Dp World DPW.DI, redditizia controllata attiva in campo portuale, non sarà coinvolta nei piano di ristrutturazione, ha precisato il governo.

"Per i nostri criteri si tratta di un default e rappresenta il fallimento del governo di Dubai nel fornire supprto finanziario a una società statale core", ha commentato ieri l'agenzia di rating Standard & Poor's in una nota, abbassando il rating su cinque società di Dubai a 'junk', mentre Moody's ne ha declassate sei ad appena un livello sopra il 'junk'.

"E' scioccante perché negli ultimi mesi le notizie che sono state diffuse avevano confortato gli investitori sulle possibilità di Dubai di far fronte al debito", commenta Shakeel Sarwar, operatore di Sico Investment Bank.


 

Fonte - REUTERS

 

 

 

 

 

 

  Il rischio paese di Dubai sale ancora, Cds alle stelle

27 Novembre 2009 16:32 MILANO - di Alberto Annicchiarico

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L'allarme sulla possibile insolvenza di Dubai World, la holding dell'emirato che ha chiesto mercoledì di congelare i propri debiti per sei mesi (che ammontano in totale a 59 miliardi di dollari), si è stemperato sui mercati finanziari europei, che ieri hanno vissuto una giornata di passione.
La tensione che ha caratterizzato la vigilia non ha cambiato, però, i programmi degli sceicchi, che si apprestano a dare il via al «più grande spettacolo pirotecnico nella storia dell'umanità», come scrive il quotidiano degli Emirati Arabi Uniti al Ittihad. L'occasione è offerta dai festeggiamenti per il 38° anniversario dell'indipendenza di Abu Dhabi, ma ai festeggiamenti partecipa anche lo sceicco e primo ministro di Dubai, Mohammed Bin Rashid Al Maktoum.

Decolla il costo per assicurare il debito
Eppure non ci sarebbe granché da festeggiare. Nonostante l'esposizione delle banche nel mondo sia consistente (intorno ai 40 miliardi di dollari) ma alla fine l'incidenza sugli utili non sembri (almeno per quanto delineato da alcuni studi) giustificare il panico di ieri, i credit default swaps (Cds) a cinque anni di Dubai, cioè il costo per assicurare il debito sovrano dell'emirato del Golfo, sono ulteriormente schizzati oggi di 167 punti a 708,96 punti base (+31% rispetto a ieri). In pratica ci vorrebbero 708mila dollari (contro i 318mila di martedì) per assicurarsi per cinque anni 10 milioni di dollari di debito sovrano.
Dubai è ora al quarto posto nella classifica dei paesi a rischio default con una probabilità del 38,8 per cento. Precedono l'emirato Ucraina (57,6%), Venezuela (57,1%), Argentina (46,3%). Oltre a quelli di Dubai i Cds che oggi sono saliti di più in percentuale sono quelli di Hong Kong (+19%, cioè 10 punti a 62,56 punti base), Abu Dhabi (+17,3% o 27,87 punti a 188,29 pb), Australia (+15,9% o 5,5 punti a 40 pb), Corea (+15% a 15,36 punti a 117,46 pb), Slovacchia (+14,1% a 10,54 punti a 84,84 pb), Malaysia (+13,2% o 13,81 punti a 117,8 pb) e Giappone (-12,2% o 8,77 punti a 80,32 pb).

L'evoluzione della crisi
Cosa succederà a questo punto? In attesa di una comunicazione annunciata per l'inizio della prossima settimana circolano varie ipotesi. Potrebbe, tra l'altro, intervenire in auto il vicino emirato di Abu Dhabi, che a differenza di Dubai fonda la propria ricchezza sul petrolio. Secondo uno studio della banca elvetica Ubs all'origine dell'annuncio shock di mercoled' potrebbe esserci stato proprio un sostegno di Abu Dhabi meno generoso, oppure un indebitamento più alto di quanto si pensasse o forse una mossa premeditata per affrontare una volta per tutte i problemi del mondo societario del Dubai. La richiesta-shock di moratoria del debito di Dubai World avanzata dall'Emirato, del resto, «non può essere stata presa alla leggera, date le gravi implicazioni per la reputazione degli Emirati» sui mercati finanziari, colti di sorpresa.
Vulnerabilità e problemi del Dubai, in realtà, non sono una novità, sottolinea Ubs: niente petrolio, niente risparmi, un debito stimato a 80-90 miliardi di dollari pari al 100% del Pil e una grossa bolla immobiliare. Tuttavia negli ultimi due mesi la situazione sembrava migliorata e recentemente lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum aveva rassicurato gli investitori sull'affidabilità dell'Emirato.

I tre possibili scenari
Data la "mancanza di trasparenza", si possono avanzare solo scenari sui motivi dell'improvvisa ristrutturazione del debito. Il primo ipotizza che l'Abu Dhabi intenda soccorrere il Dubai solo dopo che l'Emirato avrà fatto ordine in casa propria, il che solleverebbe preoccupazioni sullo stato delle relazioni tra i due emirati. Il fondo sovrano dell'Abu Dhabi ha asset per 500 miliardi di dollari e fare fronte alla scadenza di 3,5 miliardi del 14 dicembre del debito Nakheel non avrebbe dovuto essere un grosso sforzo, se ci fosse stata la volontà politica di farlo.
In alternativa potrebbe essere una mossa premeditata da parte di entrambi i Governi, che hanno voluto riportare responsabilità e affidabilità nel settore societario dell'emirato, evitando la scorciatoia dei salvataggi che non avrebbe solo rinviato il problema del moral hazard. Oppure, ultima ipotesi, i problemi finanziari del Dubai sono peggiori di quanto si pensi e il debito dell'Emirato considerando le passività off-balance, è superiore alle cifre circolate finora, il che potrebbe implicare effettive difficoltà a fare fronte alle scadenze.

Secondo gli analisti di Ubs, è probabile che si tratti di un mix dei tre scenari, che oltre al grave danno che sta causando ora potrebbe tuttavia avere positive implicazioni nel medio termine. Permettendo alle forze di mercato di svolgere il proprio ruolo, il Dubai potrebbe infatti ripartire su basi più solide. Insomma "un danno adesso, ma un guadagno futuro". Il punto interrogativo, tuttavia, é d'obbligo.
Nella City le banche europee più inguaiate
Royal Bank of Scotland è il primo intermediario finanziario di Dubai World, mentre Hsbc è l'istituto più esposto nei confronti degli Emirati Arabi Uniti. È quanto afferma JPMorgan in un rapporto, citato dall'agenzia Bloomberg, in cui si precisa che Rbs dal gennaio 2007 ha gestito 2,28 miliardi di dollari di investimenti finanziari per conto di Dubai World, e che Hsbc aveva un'esposizione di 17 miliardi di dollari a fine 2008. Nel rapporto si indica inoltre che le banche estere hanno 47,1 miliardi di dollari a rischio.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

La settimana, 27/11/2009

Friday, 27 November, 2009 at 11:13 - by phastidio
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In una settimana caratterizzata da rarefazione dell’attività, a causa del Thanksgiving negli Stati Uniti, i mercati sono stati scossi, nella giornata di giovedì, dalla possibilità di un default dell’emirato del Dubai, dopo che un’agenzia governativa ha chiesto ai propri creditori un rinvio di sei mesi dei termini di rimborso di un’obbligazione. La turbolenza ha provocato una fuga verso attivi meno rischiosi, causando tra le altre cose il ripiegamento delle quotazioni dell’oro, la rivalutazione dei titoli obbligazionari governativi e l’apprezzamento del dollaro e dello yen.
Particolarmente colpito il settore creditizio, su timori per la potenziale esposizione a Dubai, ma questo evento si inserisce in un quadro di rinnovati timori sulla solidità delle banche. Standard&Poor’s ha pubblicato il confronto tra le dimensioni di capitale aggiustato per il rischio delle principali banche mondiali, da cui emerge che il livello di patrimonializzazione resta una debolezza per il rating delle banche globali. Il rischio è quello di dover procedere a nuovi aumenti di capitale, che deprimerebbero le quotazioni azionarie.
Problema analogo, pur partendo da premesse differenti, si registra in Cina, dove i prezzi sono stati depressi dalla notizia che le cinque maggiori istituzioni creditizie nazionali dovranno presentare alle autorità di vigilanza dettagliati piani di ricapitalizzazione, dopo che la forte espansione dei prestiti per alimentare lo stimolo ha causato il depauperamento della base di capitale, attuale e futura, in quest’ultimo caso per l’aumento dei crediti inesigibili causato da criteri di prestito non particolarmente selettivi.

Secondo il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, circa metà delle perdite bancarie causate dalla crisi finanziaria globale devono ancora essere rivelate, ed i sistemi creditizi restano sottocapitalizzati in molte economie avanzate. In Germania la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, ha segnalato che le banche tedesche rischiano altre svalutazioni per 90 miliardi di euro, a causa delle perdite su prestiti e cartolarizzazioni. Le svalutazioni legate ai prestiti potrebbero raggiungere i 50-75 miliardi di euro, cui si potrebbero aggiungere altri 10-15 miliardi di perdite legate alle cartolarizzazioni, soprattutto ai Cdo (collateralized debt obligations).
Negli Stati Uniti, prosegue il dibattito sulla exit strategy. Per l’analista indipendente Meredith Whitney, la fine del programma della Federal Reserve di riacquisto di titoli mortgage backed securities, prevista per il prossimo 31 marzo, causerà un rimbalzo dei tassi che finirà per colpire pesantemente il settore dei mutui. Immediata la replica del presidente della Fed di Saint Louis, James Bullard, che ha richiesto un prolungamento del programma di riacquisto oltre la scadenza del 31 marzo, condizionato alla disponibilità di informazioni sulla effettiva uscita dalla crisi.

Questa dialettica ha avuto immediato impatto sul dollaro, che si è indebolito a seguito dei commenti di Bullard, per poi rafforzarsi lievemente al momento della pubblicazione delle minute della Fed relative al FOMC del 3 e 4 novembre, nelle quali il comitato segnala la necessità di stretto monitoraggio ove la tendenza al deprezzamento del dollaro dovesse intensificarsi o porre significative pressioni al rialzo sull’inflazione.
Alcuni osservatori hanno inizialmente interpretato questo come un tentativo di alleviare i timori cinesi sul deprezzamento del dollaro, e quindi impedirne l’ulteriore deprezzamento. Analisi successivamente sconfessata dal fatto che la Fed ha in realtà espresso accettazione verso un “ordinato” deprezzamento del dollaro, visto anche come effetto dell’accresciuto appetito per il rischio. Le turbolenze valutarie sono accresciute dal fatto che numerosi paesi emergenti hanno visto la propria divisa apprezzarsi significativamente contro dollaro negli ultimi mesi, e stanno prendendo contromisure per sostenere il proprio export. E proprio con queste motivazioni, in settimana, la Russia ha tagliato di mezzo punto il proprio tasso d’interesse di riferimento, portandolo al 9 per cento.

Tra gli altri eventi di rilievo della settimana, si segnala il forte allargamento dei credit default swap sulla Grecia. Moody’s, che ha in corso una revisione del paese per un possibile declassamento del debito, ha sollevato timori circa la capacità del paese di generare nei prossimi dieci anni una crescita sufficiente a stabilizzare il livello di debito sul Pil, oggi al 120,8 per cento: per il prossimo anno, infatti, il Pil greco dovrebbe continuare a flettere, nella misura dello 0,3 per cento. A peggiorare un quadro già così delicato, si aggiunge la fragile condizione delle banche greche nell’eurosistema. La banca centrale greca ha chiesto agli istituti creditizi domestici di individuare fonti di finanziamento alternativo, per essere pronte quando la Banca centrale europea inizierà a drenare la liquidità fornita al sistema. Quando la Bce ritirerà lo stimolo (mossa che al momento non appare imminente, ma i mercati si tendono a scontare gli scenari futuri), le banche greche saranno costrette a cercare finanziamenti a prezzi di mercato, evidentemente ben più onerosi. Da qui al contagio del rischio di credito sovrano il passo è assai breve.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Dubai: lasciamoli fallire, se lo meritano

27 Novembre 2009 06:22 NEW YORK - di Luca Ciarrocca*

Luca Ciarrocca e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.

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Stavamo a fatica uscendo dalla Grande Recessione mondiale del 2008-2009 ed ecco che la sorpresa arriva proprio dai veri ricchi, quegli arabi che i soldi dovrebbero averli davvero, col greggio che si ritrovano sotto la sabbia (anche se Dubai non ha petrolio). Ma come, se fanno crack gli sceicchi, allora che succedera' a noi poveri mortali?

Otto anni fa l'Argentina fece un default da 95 miliardi di dollari ma il mondo era diverso e meno pericoloso, si viveva in un'era moderatamente avida, prima delle bolle comandate e accettate. Il crack di Dubai e' in verita' una goccia di indebitamento nell'oceano dei trilioni della finanza mondiale. Quella monarchia ha un "buffo" complessivo di 80 miliardi di dollari, inferiore alla somma che noi cittadini italiani collettivamente paghiamo ogni anno al Governo solo in interessi (il debito pubblico dell'Italia nel 2009 e' salito di 90 miliardi a 1.750 miliardi di euro).

Dubai pero' ci ha ricordato all'improvviso che sul mercato ci sono tante altre situazioni esplosive nascoste mentre l'establishment politico e le banche centrali ci ingannano tutti i giorni cercando di far finta di nulla, minimizzando, spargendo ottimismo e alimentando il sistema con le vecchie droghe di sempre. Lehman Brothers, Bear Stearns o Dubai, in effetti pari sono. Mica e' questione di nomi, di banche, stati, mega-aziende decotte che falliranno anche in futuro. Ce ne saranno molte altre di bancarotte nel 2010 e oltre, perche' il capitalismo mondiale (che noi rispettiamo e di cui viviamo, chiamandoci Wall Street Italia...) e' affetto ormai da un virus pericoloso che muta di continuo e non si capisce dove vada a parare.

Nonostante la crisi paurosa dell'anno scorso, con il mega salvataggio globale che ha evitato il collasso sistemico un minuto prima che avvenisse (il 10 ottobre 2008) il capitalismo e' identico a prima, non e' stato riformato, le banche sono le medesime, i poteri pure, gli attori hanno gli stessi posti sul palcoscenico. Che stavolta sia la finanza islamica a tracollare nella Penisola Arabica e' irrilevante, se domani facesse crack lo Ior del Vaticano sarebbe lo stesso.

Comunque diciamola tutta: noi di WSI siamo di fatto contenti del default di Dubai World, la holding d'investimento dell'Emirato (purche' non tocchi i nostri portafogli e non abbia il temuto "effetto domino"). Cosa ce ne puo' importare infatti, di un paese (una monarchia medievale, 87 chilometri quadrati, popolazione inferiore a quella di Roma) che in un raptus prolungato da manie di grandezza ha speso decine di miliardi per costruire inutili isole finte a forma di palma, campi da sci con neve fasulla in una bolla di vetro nel deserto (dove gli sceicchi sciano in tunica), alberghi di stralusso a 7 stelle, metropolitane senza passeggeri, eccetera eccetera? Nulla, non ce ne importa proprio nulla.

Noi la pensiamo cosi: che se la cavino da soli ad uscire dal loro guaio finanziario, questi arabi. E le banche che gli hanno prestato impunemente soldi sulla base di business model falsi e pretenziosi, s'arrangino e facciano semmai crack anche esse. Insomma e' venuto il momento di rivendicare la sana pratica del fallimento in larga scala come avveniva un tempo e come oggi provano sulle loro spalle solo le piccole imprese e gli individui. Ma dobbiamo davvero buttare la ciambella a tutti i peggiori speculatori mondiali mentre noi comuni cittadini sfacchiniamo per far quadrare i conti? Ma che affoghino e crepino! Questo signor sceicco, certamente educato ad Oxford e con MBA negli Stati Uniti, Sheikh Mohammed Bin Rashid al-Maktoum, se ne faccia una ragione e dica addio alla sua posizione nella parte alta della classifica Forbes dei miliardari. Cartellino rosso, espulso! Tutt'al piu', se proprio ci tiene, che si faccia organizzare un bel salvataggio ad hoc dai vicini di duna, i colleghi principi e sceicchi di Abu Dhabi, capitale confinante degli Emirati Arabi Uniti.

(Tra parentesi: non ci interessa assolutamente nulla nemmeno di questi bond Islamici conosciuti come "sukuks" e sui quali non si dovrebbero pagare interessi perche' il pagamento degli interessi e' vietato da Allah; tra l'altro perche' mai fare default, tanto gli interessi non li pagano in ogni caso? E dato che ci siamo, per quale motivo Dubai World e' anche azionista di un casino' di Las Vegas come MGM Mirage? Cronache da Dolce Vita in stile islamico: morigeratezza solo di facciata).

E' altamente improbabile comunque che il caso Dubai metta a repentaglio l'economia mondiale o le borse. Ci pensera' la grande Wall Street (ieri chiusa per Thanksgiving e oggi semi-aperta) a ristabilire le misure ridando le dovute proporzioni al "buco". Per cui: lasciamoli pure fallire senza preoccupazioni. Lasciamoli nelle peste con le loro cattedrali nel deserto senz'anima ne' cultura. Che si tengano le sedi lussuose in vetro-cemento per banche e finanzierie come gusci vuoti. Lasciamoli crogiolare con gli sfiniti marchi del lusso venduti in mall all'americana dai pavimenti marmorei, specchi e ori ovunque. Lasciamoli con le gru ferme e i cantieri bloccati. Gia', un bel patatrack da $40, 59 o anche 80 miliardi di dollari. Sono comunque bruscolini se pensate che sul valutario si scambiano ogni giorno 4 trilioni di dollari alla velocita' di un blip sullo schermo dei computer. Ogni giorno.

Non molti di voi saranno dispiaciuti perche' l'appartamento comprato dagli speculatori all'Albergo della Vela o la villa a Palm Jumeirah hanno perso il 50% del valore nei 2 anni dall'acquisto. David Beckham, il presidente dell'Afghanistan Hamid Karzai, oligarchi russi, indiani e iraniani, Naomi Campbell e Bill Clinton, Brad Pitt e Denzel Washington, e centinaia di altri arricchiti planetari: benvenuti, vi presentiamo le dure repliche della storia e le mini-implosioni del capitalismo.

Wall Street Italia fu tra i primi ad accorgersi della crisi in Dubai esattamente un anno fa, l'articolo raccontava di Mercedes e Bmw abbandonate all'aeroporto da bancarottieri in fuga dall'Emirato. Folklore ormai noto a chi segue i mercati finanziari con disincanto e senza indulgere al tifo da curva sud (comunque non pubblichiamo i nomi degli italiani che hanno investito in Dubai per non scatenare la caccia, tanto lo fara' qualcun altro tra quelli che scoprono tutto 1 minuto dopo che il fatto e' accaduto, gente che sa il prezzo di ogni cosa senza conoscere il valore di nulla).

Detto questo, a parte le simpatie o antipatie per l'Emirato e i suoi confinanti, bisogna stare davvero con gli occhi ben aperti, per chi investe istituzionalmente sui mercati: non sono tempi per vedove ed orfani, questi. Attenti all'effetto domino. Attenti a chi specula al ribasso. Attenti ai colpi di coda delle mafie finanziarie perdenti e all'arroganza miope di quelle vincenti. Attenti perche' la subdola politica di chi guida i mercati finanziari globali (governi, banche, banche centrali, multinazionali) facendo passare le economie da una bolla ad un crack ad un'altra bolla ad un altro crack, con l'1% della popolazione che si arricchisce in tutti i cicli e il 99% che invece ci rimette le penne senza capir nulla, quella politica, stradominante nell'ultimo decennio, continuera'. Ad oltranza.

Dubai e' un inconveniente sgradevole, uno starnuto. Ma con i tassi bassi oggi come lo erano alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il denaro che non vale la carta su cui e' stampato, con i maggiori istituti di credito mondiali indebitati per oltre 5 trilioni di dollari, in questo scenario speculazioni colossali sono in corso sempre, tutti i giorni, proprio adesso mentre leggete queste righe. Pensate che alcuni grandi fondi americani d'investimento offrono un rendimento effettivo sul capitale depositato dello 0.01% annuo. Di questo passo ad un investitore servirebbero 6.932 anni per raddoppiare la cifra iniziale. La finanza e' ridotta a questo? Il peggio, se ne deduce, deve ancora arrivare. Nuove bolle sono in vista. L'avidita' di pochi avra' conseguenze imprevedibili per tutti finche' qualcuno (che goda di credibilita', e saranno un paio...) non chiedera' agli altri di sedersi attorno a un tavolo per trovare una soluzione globale e condivisa. Non succedera' tanto presto, voi che dite?  
 

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 
 

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