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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Macro USA - Opinioni

Economia: apocalittici e ottimisti

Mercati valutari/U$D - Opinioni

Il futuro del dollaro

Crisi creditizia - Processo normativo

Geithner: le banche fanno lobby Devono accettare nuove regole

Crisi creditizia e riflessi macro - Strategie di uscita

Prove tecniche di exit strategy

Geo politica - USA & Mondo

Il declino Usa e i menestrelli anti Obama

Mercati valutari/U$D - Opinioni

Il dollaro rimarrà debole. E' la liquidità a «volerlo»

Mercati valutari/U$D - Opinioni

Attenzione alla premiata stamperia di moneta

Crisi creditizia e riflessi macro - Strategie di uscita

Fare cassa e speculare

Crisi creditizia - Processo normativo

Hernando de Soto Polar: «Il diritto salverà l'economia»

Crisi creditizia e mercati valutari - Opinioni

La difficile guerra di Ben Bernanke sui due fronti di finanza e valute

   
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+++   ANSA   +++   Gio. 08 Ott. 2009 - Ws: TORNA A SALIRE, OK UTILI E LAVORO INDICI AI MASSIMI 2009   +++   Mer. 14 Ott. 2009 - Ws: IL DOW JONES RICONQUISTA LA VETTA DEI 10.000 PUNTI   +++   Lun. 26 Ott. 2009 - Ws: RITRACCIA PIEGATA DAL DOLLARO   +++   Ven. 30 Ott. 2009 - Ws: ONDATA DI VENDITE, OTTOBRE ROSSO   +++   ANSA   +++
 
  Giovedì 01 Ottobre 2009   Venerdì 02 Ottobre 2009   Sabato 03 Ottobre 2009  
       
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  Economia: apocalittici e ottimisti

29 Settembre 2009 01:18 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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La settimana scorsa avevamo scritto che aspettavamo al varco i denunciatori di bolle. Pensavamo che sarebbero entrati in agitazione con l’SP 500 a 1200, quindi fra qualche mese. Ecco invece farsi avanti Crispin Odey, un importante gestore di fondi hedge, che con l’S&P 500 a 1060 ci informa che già adesso stiamo entrando in una bolla. Odey è uno che spara sempre cannonate, un gioioso apocalittico che non conosce il basso profilo. L’anno scorso ha fatto un sacco di soldi. Fa il matto ma non è un matto. E’ tesoriere del partito conservatore britannico, il massimo dell’Establishment.

Le varie denominazioni apocalittiche hanno abbandonato l’idea della replica integrale della Grande Depressione e cioè di altri due tre anni di caduta verticale. Da giugno luglio, più o meno, si sono assestate sul tema del double dip, la ricaduta. Ma anche da questa linea hanno dovuto arretrare. Il double dip, prima altamente probabile, è oggi visto da Krugman e Roubini come una possibilità da non escludere.

Per dirla tutta, il double dip è, per chi lavora nel campo minato del forecasting, una previsione facile facile, di quelle che consentono di avere sempre ragione. Come ha detto Adam Posen, qualche forma di double dip ci sarà di sicuro. Ora cresciamo a una velocità in accelerazione. Prima o poi la crescita rallenterà e voilà, diremo tutti quanti, vi avevamo avvertito.

I double dip sono però oggetti ambigui. Un conto è dire che da una velocità annualizzata del 4 per cento passeremo al 2 per cento verso la fine del 2010. Un altro conto è ipotizzare una nuova recessione, magari più leggera di quella tremenda da cui siamo usciti in giugno ma sempre recessione. Per tutto il 2003 e 2004 Stephen Roach (allora capo economista di Morgan Stanley) tuonò ogni giorno, con la sua prosa incalzante e brillante, contro la ripresa a suo dire effimera dell’economia e dei mercati. Centinaia e centinaia di pezzi scritti benissimo, non ce ne perdemmo uno, in cui le argomentazioni di scuola austriaca portavano invariabilmente a conclusioni che oscillavano tra il grigio scurissimo e il nero più cupo e desolato. Dopo la lettura si rimaneva spesso a fissare il vuoto. Ci voleva qualche minuto per riprendersi.

Per tutto il 2003 e 2004 molti gestori in tutto il mondo si persero la prima metà dell’imponente bull market (che portò l’S&P 500 da 800 a 1550) perché temevano il double dip. Gli italiani ci aggiunsero anche il 2005, per via di Parmalat, Cirio e Argentina.

Non ci si dica che la Grande Recessione del 2008-2009 ha dato pienamente ragione ai doubledippers. L’ha data in parte e cinque anni dopo. A oggi, dopo tutto quello che è successo, il Pil mondiale è del 15 per cento più alto che nel 2003. Perfino l’azionario, a sfracello avvenuto, è oggi del 10 per cento più alto rispetto ai tempi dei primi severi ammonimenti sul double dip.
Le scuole austroapocalittiche, negli ultimi mesi, hanno messo le mani avanti sulla ripresa. Hanno detto che, dovesse l’economia inopinatamente riprendersi (poco e per breve tempo, naturalmente), il prezzo da pagare sarebbe l’iperinflazione.

Il ragionamento era (é) questo. Le banche sono piene di liquidità presso la banca centrale (frutto degli scriteriati acquisti di titoli con creazione di moneta da parte della Fed). Ai primi segni di ripresa le banche si precipiteranno a ritirarla per prestarla in giro. A quel punto l’inflazione, ora nascosta, esploderà.

Due obiezioni. La prima è che c’è in giro talmente tanta capacità inutilizzata (uomini disoccupati, macchinari fermi, case sfitte e palazzi per uffici vuoti) che prima di creare inflazione passeranno degli anni. La seconda è che se si ipotizza (come fanno loro, ma anche molti altri) una ripresa debole, senza occupati, senza investimenti e con pochi consumi non si vede a chi le banche riusciranno a prestare i soldi che ritireranno dalla Fed.

Ecco allora che le scuole apocalittiche abbandonano la tesi dell’iperinflazione (e dei conseguenti crollo dei bond e zimbabwizzazione globale) e passano con scioltezza all’idea dell’asset inflation. Le banche insomma ritireranno pochi soldi per finanziare la crescita ma ne ritireranno tanti per alimentare orribili speculazioni su materie prime e azioni. E già le vediamo all’opera.

Vedremo. Per adesso proviamo a vedere rapidamente se è così vero che le azioni siano già care. Guardiamo separatamente margini, valutazioni e sentiment. I margini, ovvero quanti dollari di profitto si riescono a portare a casa ogni 100 di vendite. Ricordiamo che dopo la crisi precedente, dopo Internet, si giurò tutti quanti che i margini record degli ultimi anni Novanta non si sarebbero rivisti mai più. Due anni dopo si rividero e poi continuarono a crescere.

In questa crisi, se escludiamo le banche, il punto minimo dei margini è stato più alto del punto più alto di tutti gli anni Ottanta e Novanta. Ora i margini sono già in rapida ripresa. Tagliando i costi con ferocia mai vista le imprese hanno alzato la leva operativa. Basterà cioè un modesto aumento delle vendite per generare un ampio recupero dei margini.

Il sentiment. Si sostiene da più parti che i mercati sono pericolosi perché tutti sono positivi. In realtà non si vedono segnali di posizioni sbilanciate. Chi compra rivende presto, si congratula con se stesso e si ritrova scarico come prima, senza sapere bene che cosa fare con i soldi. Dopo un po’ ricomincia. Non si vede, insomma, quell’accumulo progressivo di posizioni che appesantisce i portafogli e li rende vulnerabili. Ecco perché i reversal sono rari e superficiali. Il sentiment, d’altra parte, è fatto di cose che si pensano, di cose che si dicono e di cose che si fanno. Alla fine contano solo queste ultime.

Secondo JP Morgan ci sono nel mondo in questo momento 115 trilioni investiti in cash e bond e solo 35 in equity. Dei 115 ben 46 sono in cash a tasso zero e hanno davanti mesi e mesi di siccità totale. Una parte cercherà sollievo nei bond, che avranno quindi un solido supporto e possibilità concrete di ulteriori apprezzamenti, ma qualcosa, dai bond, si spingerà verso l’equity.

Le valutazioni. Ci sono metriche che abbiamo sempre giudicato strampalate, come il cosiddetto "Fed model", che danno livelli altissimi per l’S&P 500. Anche le versioni più moderate, quelle che confrontano l’earnings yield con il rendimento delle obbligazioni di qualità più bassa danno livelli molto alti, ma anche qui diffidiamo, in particolare in una fase di tassi eccezionalmente bassi.

Per contro, indicatori più seri come il Dividend Discount Model, la Q di Tobin (il valore di borsa confrontato con il costo di ricostituire l’impresa da zero) o il P/E di Shiller (un P/E che tiene conto della fase del ciclo in cui ci si trova) mostrano che i livelli del mercato sono equilibrati. Guardando al 2010 David Kostin di Goldman Sachs ipotizza utili operativi di 75 dollari per azione sull’S&P 500. A 1070 il mercato applica un multiplo perfettamente ragionevole di 14. Se poi, senza nessuna pretesa di rigore, facciamo per divertimento un confronto tra il 1070 di oggi e il 1070 della primavera del 1998 (un anno attraversato dalla crisi asiatica) scopriamo cose interessanti.

Il Pil nominale americano era allora di 8.8 trilioni, oggi è di 14.1. Il prezzo delle case, con il crollo che c’è appena stato, è salito da allora del 49 per cento. Gli utili per azione dell’S&P 500erano di 44 dollari e l’anno prossimo, secondo le stime che abbiamo visto, potrebbero arrivare a 75. Il valore di libro dell’S&P 500 era allora di 254 dollari ed è oggi di 580. Solo l’S&P 500 appare invariato rispetto a 11 anni fa. In conclusione, posizioni sottopesate, capacità intatta di ricostituire margini più alti e valutazioni ragionevoli portano a ritenere assolutamente prematuro qualsiasi richiamo all’idea di bolla. Chi lo fa ci appare francamente bollofobico.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Il futuro del dollaro

October 1st, 2009 - di Mario Seminerio

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Per molto tempo gli investitori si sono indebitati ed hanno venduto massicciamente lo yen giapponese, utilizzando il ricavato per acquisire asset ad alto rendimento. Questa strategia, denominata “carry trade”, ha prodotto elevati ritorni fin quando la crisi economica non ha sconvolto le scommesse degli investitori, spingendoli a ricomprare lo yen e chiudere le posizioni.

Oggi, alcuni osservatori ritengono che gli investitori sarebbero tentati di rimettere all’opera il carry trade, utilizzando questa volta il dollaro come veicolo di finanziamento. Ciò spiegherebbe parte dell’indebolimento sofferto recentemente dalla divisa statunitense, oltre a suggerire ulteriore pressione ribassista per il futuro. Nel mercato valutario, le divise di finanziamento tradizionalmente sono quelle a basso tasso d’interesse e bassa volatilità. Mentre il primo requisito è intuitivo, il secondo è necessario perché la volatilità del cambio può spazzare via il differenziale sul quale gli investitori contano per realizzare un profitto.

Per questi motivi lo yen ha a lungo goduto della preferenza degli investitori. La divisa giapponese è stata caratterizzata da tassi persistentemente prossimi allo zero, mantenuti tali dalla Bank of Japan nel tentativo di stimolare l’economia. Le stesse condizioni starebbero verificandosi oggi per il dollaro. Alla fine di agosto, per la prima volta dopo sedici anni, indebitarsi in dollari è divenuto più conveniente che farlo in yen giapponesi. I bassi tassi statunitensi, oltre alla profondità e liquidità del mercato del dollaro, renderebbero quindi la valuta statunitense attraente ai trader che volessero usarla come base per il carry trade.

La Fed intende mantenere i tassi a zero per il prossimo futuro, e non ha alcuna fretta di procedere sulla strada della normalizzazione delle condizioni monetarie, anche perché l’evoluzione della congiuntura appare particolarmente incerta, pur in presenza di una sostanziale stabilizzazione delle condizioni di attività. Inoltre, il fatto che il dollaro appaia in protratto trend ribassista (anche per l’esigenza di riequilibrare il deficit delle partite correnti e compensare con l’export la minore domanda dei consumatori), ne accresce l’attrattività come veicolo di finanziamento.

Non tutti però concordano circa la fattibilità dell’utilizzo del dollaro in queste operazioni. Le prospettive dello yen come veicolo di finanziamento sembrano essere diventate problematiche dopo l’affermazione elettorale del Partito Democratico, che vorrebbe modificare il modello economico del paese (da uno orientato all’export ad un altro a favore della domanda interna), e non sarebbe quindi contrario all’ipotesi di progressivo rafforzamento del cambio, eventualità che è ovviamente l’ultima cosa che un carry trader desidera.

La persistenza del trend di rafforzamento dello yen non è tuttavia universalmente data per scontata. Secondo alcuni analisti, tale tendenza avrebbe tratto alimento dall’attività di rimpatrio dei profitti in agevolazione d’imposta, in scadenza questo semestre fiscale (il 30 settembre), mentre i recenti commenti del neo-ministro giapponese delle Finanze, Hirohisa Fujii, inizialmente interpretati dal mercato come non opposizione ad un movimento di rivalutazione, e successivamente corretti nella più blanda decisione di contrastare movimenti troppo rapidi sul mercato dei cambi, hanno finito solo con l’iniettare volatilità nel cambio yen-dollaro.

Secondo alcuni osservatori, l’interesse per lo yen come veicolo di finanziamento potrebbe presto riemergere, soprattutto alla luce della forte debolezza mostrata dall’economia del paese, che è la conseguenza di una tasso di crescita fortemente inferiore a quello potenziale (il cosiddetto output gap), che sta manifestandosi anche con il rilevante tasso di deflazione del paese: in agosto l’indice dei prezzi al consumo core, cioè al netto degli alimentari freschi, è stato pari a meno 2,4 per cento tendenziale.

La valuta statunitense sta oggi subendo la pressione di un consenso quasi plebiscitario in favore del suo indebolimento e ciò potrebbe, nel breve termine, determinare movimenti di recupero piuttosto bruschi, spesso innescati da quelli che appaiono poco più che “pretesti”. Ad esempio come quelli causati dalle recenti dichiarazioni di un membro della Banca centrale russa, che ha indicato che il proprio paese intende mantenere un peso di circa il 30 per cento ai Treasuries nella composizione delle riserve valutarie russe.

Il rally dei mercati azionari, con l’indice MSCI World cresciuto di quasi il 70 per cento dai minimi dello scorso marzo, ha contribuito a rafforzare l’appeal del carry trade. A sua volta il dollaro australiano, un beneficiario del carry trade che si muove in tandem con i mercati azionari, è cresciuto del 23 per cento contro dollaro, beneficiando anche delle condizioni macroeconomiche del paese, che appare uscito dalla recessione e la cui banca centrale presto potrebbe iniziare un ciclo di restrizione monetaria. I carry trade, che (non bisogna dimenticarlo), sono uno dei prodotti della disponibilità di credito a buon mercato, tendono ad avere una vita media più breve di quanto comunemente si creda, ed un protratto ribasso dei corsi azionari, come potrebbe accadere ove la crescita degli utili dovesse rivelarsi inferiore a quanto attualmente prezzato dai mercati, potrebbe ridurne l’attrattività.

Altro elemento di potenziale controindicazione all’utilizzo del dollaro come veicolo di carry trade è dato dal ruolo di valuta-rifugio che la divisa statunitense continua a rivestire durante periodi di crisi geopolitiche.

In sintesi, nell’ambito di una tendenza macroeconomica di medio termine che vede il dollaro orientato al deprezzamento per riequilibrare gli squilibri macroeconomici, l’”ipotesi carry trade” potrebbe determinare accelerazioni nel movimento di deprezzamento del dollaro, fino ad un allontanamento dai fondamentali, e produrre quindi fasi di accentuata volatilità sui mercati valutari.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

Stati Uniti, l’economia sta già perdendo slancio?

Thursday, 1 October, 2009 at 18:10 - by phastidio
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Il dato sui redditi personali di agosto mostra un incremento dello 0,2 per cento, 0,1 per cento oltre le attese. Le spese per consumi personali sono aumentate dell’1,3 per cento, 0,2 per cento in più del consenso, con il maggior incremento (5,3 per cento mensile) realizzato dalla categoria dei beni durevoli, un effetto del programma di rottamazione auto “cash for clunkers“. Il deflatore dei prezzi delle spese per consumi personali è cresciuto dello 0,3 per cento mensile. Di conseguenza, le spese personali reali sono aumentate dell’1 per cento mensile, mentre il reddito reale personale è calato nel mese dello 0,1 per cento. A causa dell’effetto una tantum di spinta ai consumi personali e di redditi nominali in moderato incremento, il tasso di risparmio è sceso dal 4 al 3 per cento. Nei mesi prossimi, in assenza di circostanze straordinarie come la rottamazione delle auto, è prevedibile che il risparmio torni a crescere, mentre la difficile situazione del mercato del lavoro (vedi oltre) non depone a favore di uno sviluppo dei consumi.
Dal versante dell’occupazione, il dato di oggi sui sussidi di disoccupazione, aumentati la scorsa settimana di 551.000 unità, è peggiore rispetto alle stime di consenso, oltre ad essere decisamente troppo elevato per un’economia che si trova nel ventiduesimo mese di recessione. Ieri, il dato degli occupati nel settore privato, realizzato dalla società specializzata ADP, ha evidenziato una distruzione netta di 254.000 impieghi nel mese di settembre.
Oggi è stato reso noto anche il dato dell’indice ISM manifatturiero di settembre, che ha evidenziato una prosecuzione dell’espansione, avendo fatto segnare un livello di 52,6. Tuttavia, si registra una lieve decelerazione rispetto al passo dell’attività di agosto, quando l’indice aveva registrato un valore di 52,9, e soprattutto il dato odierno è peggiore delle stime di consenso, che ipotizzavano un’accelerazione della crescita, al livello di 54 (ricordiamo che valori dell’indice superiori a 50 indicano espansione). A livello disaggregato, la componente riferita ai nuovi ordini perde 4 punti, a 60,8, ancora in confortevole espansione. Gli ordini arretrati aumentano di 1 punto, e per il terzo mese consecutivo. Gli ordini all’export calano di mezzo punto, ma restano prossimi al massimo da agosto 2008. Le scorte, componente chiave che dovrebbe guidare il rimbalzo del Pil nel terzo trimestre, crescono di ben 8 punti ed al massimo da ottobre 2008 ma, al livello di 42,5, stanno ancora contraendosi.
In sintesi, lo slancio della manifattura resta per ora intatto ma, venuti meno alcuni degli eventi eccezionali che vi hanno contribuito, l’economia si trova a rischio per il quarto trimestre, mentre per il terzo resta un consenso di crescita annualizzata del Pil del 3 per cento circa. Le note dolenti vengono, come detto, dal mercato del lavoro, la cui emorragia prosegue. Ciò significa che il consumatore americano, malgrado il soprassalto di vitalità “a credito” (tanto per cambiare) del terzo trimestre, già dal quarto trimestre tornerà a ripiegarsi su sé stesso. L’aspetto più inquietante di questa congiuntura è che la dinamica dei licenziamenti sta rallentando, sia pure in forte ritardo sulla ripresa dei livelli di attività, ma le dinamica delle nuove assunzioni resta straordinariamente muta.
Resta da vedere se Wall Street deciderà anche questa volta di ignorare i dati macro, quando non particolarmente favorevoli.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

DALLA EXIT ALLA WAITING STRATEGY

04 Ottobre 2009 23:20 NEW YORK - ASCA
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La disoccupazione cresce e la domanda cala. Nessun governo vuole prendersi la responsabilita' di ridurre il sostegno pubblico all'economia di fronte a un quadro ancora incertissimo.
Le speranze giungono dalle previsioni formulate dal Fondo Monetario Internazionale. Frena la caduta dell'economia mondiale, quest'anno il Pil potrebbe fermarsi a -1,1% rispetto a -1,4% delle precedenti stime. Decisamente piu' roseo lo scenario del 2010, crescita economica a +3,1%.Volge al bello anche il Superindice economico dell'Ocse distante solo 2 punti da quota 100, la soglia dove l'economia ritorna sul sentiero d'espansione. Ma sulla qualita' e sulla durata della ripresa e' nebbia fitta. Banche centrali e governi ritengono che sara' molto lenta.
Jean Claude-Trichet, presidente della Bce, ha parlato di un '''percorso molto accidentato''. Diversi uffici studi non escludono che l' Eurozona e gli Stati Uniti possano registrare nel terzo trimestre una variazione leggermente positiva del Pil, insufficiente pero' ad invertire il trend crescente della disoccupazione. Negli Usa, il tasso di disoccupazione e' salito a settembre al 9,8%, il top degli ultimi 26 anni. L'economia a stelle strisce continua a bruciare 250 mila posti di lavoro al mese, molto meno dello scorso autunno quando si viaggiava a quota 700 mila, ma sempre tanti per sperare in un rilancio dei consumi privati. La spesa per consumi e' il vero volano dell'economia Usa poiche' rappresenta il 75% del Pil americano.
Per ora, pero', i cittadini americani pensano soprattutto a risparmiare. Nel mese di agosto, ultimo dato disponibile, hanno messo da parte il 3% del reddito disponibile. Nel primo trimestre del 2008, dunque alla vigilia della recessione, risparmiavano solo lo 0,2%. Per gli economisti di Pimco, il numero uno mondiale nel comparto dei bond, gli americani quest'anno potrebbero risparmiare fino all'8% del reddito disponibile tornando sui livelli del 1992, anche quello anno di recessione.
Nell'Eurozona il tasso di disoccupazione viaggia al 9,6%, il massimo storico nella breve storia dell'unione monetaria, ma potrebbe salire oltre il 10% nel 2010. Si tratta di numeri che ostacolano una rapida ripresa dei consumi. Non a caso il vertice dell'Ecofin di Goteborg ha ribadito la necessita' di mantenere in piedi le misure anticrisi decise dai governi nazionali. Per l'auto gli incentivi potrebbero essere prorogati al 2010, un modo per sostenere la domanda di consumo di beni durevoli e cercare di salvare posti di lavoro. Anche a Washington, l'amministrazione Usa non ha manifestato alcuna intenzione di ritirare il forte sostengo pubblico all'economia.
Nei fatti, sulle due sponde dell'Atlantico si parla di '''exit strategy'', la strategia di uscita dalla crisi, ma si pratica la '''waiting strategy'', la strategia dell'attesa di tempi migliori. Nessuna cancelleria vuole prendersi la responsabilita' di ridurre il sostegno pubblico all'economia di fronte a un quadro ancora incertissimo. Sia a Bruxelles e sia Washington, in presenza di disoccupazione crescente e calo della domanda domestica, sperano in una ripresa dell'export. Un oggetto del desiderio che potrebbe creare qualche frizione.
Dall'inizio dell'unione monetaria, il cambio nominale effettivo dell'euro sulle 21 principali valute dell'interscambio commerciale tra Eurozona e resto del mondo si e' rivalutato del 24%, nel paniere c'e' anche il biglietto verde.
Sull'apprezzamento dell'euro '''ne parleremo al prossimo G7'', ha detto Joaquim Almunia, commissario Ue agli affari economici e monetari. Nel diario della crisi fa capolino la questione del tasso di cambio. Forse, si teme che alcuni paesi, per compensare il deficit di domanda interna, possano spingere l'export con svalutazioni competitive.
 

Fonte - ASCA

 

 

Davvero l’Asia ci salverà dalla crisi?

October 5th, 2009 by editor - Mario Seminerio
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I dati sull’occupazione statunitense nel mese di settembre, pubblicati venerdì scorso, mostrano soprattutto la preoccupante persistenza del deterioramento del mercato del lavoro. Il numero di impieghi distrutti sta rallentando, ma quello delle ore lavorate continua ad essere prossimo ai minimi storici. Quando la domanda riprende, le aziende dapprima ricorrono all’aumento delle ore lavorate, e solo in un momento successivo a nuove assunzioni. In questo senso il numero di ore lavorate rappresenta un indicatore anticipatore della congiuntura, mentre i tradizionali dati sul numero di occupati e disoccupati sono indicatori differiti.
I dati della scorsa settimana confermano che il sistema produttivo può ancora fare a meno di accrescere gli organici. Oggi si distruggono meno impieghi ma ancor meno se ne creano. Ecco la spiegazione di dati settimanali sui sussidi di disoccupazione ancora così elevati, a ben ventidue mesi dall’inizio ufficiale della recessione.
In questo contesto, le imprese americane hanno ristrutturato pesantemente gli organici: il numero di ore lavorate è crollato rispetto al prodotto aziendale, e ciò si traduce in un forte aumento di produttività e nella riduzione della leva operativa, cioè del punto di pareggio economico in rapporto ai volumi prodotti. In altri termini, le imprese stanno ponendo le basi per forti incrementi di redditività a fronte di variazioni anche contenute della domanda. La grave condizione del mercato del lavoro ha evidenti riflessi sul credito: aumento delle insolvenze e dei fallimenti individuali e d’impresa e minore capacità delle banche a prestare, dovendo preoccuparsi soprattutto di utilizzare i margini per accantonamenti a perdite su crediti.
Ci sono quindi buoni motivi per ritenere che il National Bureau of Economic Research (NBER), l’organismo indipendente che ha il compito di datare le fasi recessive, attenderà almeno la stabilizzazione del mercato del lavoro prima di dichiarare finita la recessione. E potrebbe volerci del tempo.
Storicamente, l’economia statunitense è uscita dalle recessioni per mano della spesa dei consumatori e dell’investimento immobiliare residenziale. Oggi, questi due motori di crescita sono spenti: il consumatore, dopo il soprassalto indotto dal programma di rottamazione auto, che ha anticipato flussi di acquisto futuri, è destinato a riprendere l’aumento del tasso di risparmio, per ripagare i debiti; il mercato immobiliare, che mostra i primi segni di stabilizzazione, è gravato da un imponente stock di case pignorate dalle banche a mutuatari insolventi e non ancora poste in vendita, per evitare ulteriori crolli dei prezzi. Su tutto, il reddito personale appare minacciato dalla crisi del mercato del lavoro, in un circolo vizioso molto pericoloso.
Difficile pensare che l’Asia e il Sudamerica guidato dal Brasile possano trasformarsi oggi nella locomotiva del pianeta: le dimensioni delle economie cinese ed indiana ancora non lo consentono, mentre la trasformazione del paese del Sol Levante da esportatore in consumatore, prevista dal programma del Partito Democratico, appare destinata a infrangersi contro una realtà fatta di invecchiamento della popolazione e crisi fiscale.
Ma una tendenza sembra sempre più affermarsi: il baricentro della crescita globale sta lentamente ma inesorabilmente spostandosi sempre più verso l’Est ed il Sud del pianeta. Nei prossimi anni il Nord-Ovest dovrà compiere una profonda (e dolorosa) riflessione sul proprio futuro e sulla propria organizzazione sociale.

 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

 

 

  Geithner: le banche fanno lobby Devono accettare nuove regole

05 Ottobre 2009 14:16 ISTANBUL - di Il Sole 24 Ore

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ISTANBUL – Il cerchio è chiuso. Dopo Pittsburg e Istanbul, dopo il G20 che ha cambiato gli assetti economici globali e dopo le riunioni di Fondo, Banca Mondiale e G7 che hanno ratificato i cambiamenti con la membership multilaterale al completo, il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner, in un'intervista esclusiva per l'Italia con Il Sole 24 Ore, riflette sull'«epoca nuova» che, dice, «si apre davanti a noi». Passare dalla teoria alla pratica ora è difficile. Difficile perché molte questioni riorganizzano di fatto gli equilibri di potere, fra paesi e istituzioni. E perché da molte parti spuntano critiche e resistenze.
Ci sono i rischi che si aprono per il sistema e per i consumatori, soprattutto se le azioni di stimolo adottate finora avranno le gambe corte e se il passaggio a una "crescita sostenibile", come appare dall'andamento occupazione in America, risulterà faticoso. Ci sono le banche che dovranno accettare le nuove regole e i nuovi limiti - molto pochi in realtà stando ai critici - nel loro stesso interesse: quello di restituire la fiducia al mercato, dice Geithner. E ci sono infine le istituzioni multilaterali che dovranno aprirsi ai paesi emergenti e cambiare le gerarchie su cui ha poggiato l'ordine internazionale fino alla crisi del 2007/2009.

Su un punto Geithner è chiaro: con questa crisi tutto è cambiato. E insiste perché tutto non resti come prima. A giudicare dall'atmosfera del party offerto sulle rive del Bosforo dalla J.P. Morgan Chase, in un vecchio palazzo fine Ottocento, tutto in realtà appare molto uguale a prima. Ma Geithner non ha dubbi: conta «the big picture» il quadro d'insieme, si cambia per colmare il gap tra la vecchia governance mondiale che poggiava su parametri nazionali e un mercato che si muoveva già in avanti su base globale. Poi tutto è sfuggito di mano. Colpa di chi? Dei banchieri avidi? Dei regolatori negligenti? Di nuovo: «Guardiamo al futuro», dice.
Geithner, 48 anni, il 75esimo segretario al Tesoro americano, ha costruito la sua esperienza professionale gestendo situazioni di crisi. Prima al Tesoro, quando da giovane funzionario si occupò della crisi asiatica del 1997 e in particolare della crisi finanziaria sudcoreana. Subito dopo passò ai piani alti, con i suoi maestri Bob Rubin e Larry Summers. E infine prese la guida della Federal reserve a New York dove si è confrontato con la crisi dei nostri giorni fin dagli inizi, lavorando molto vicino a Henry Paulson e a Ben Bernanke. Si dice che sia in soggezione davanti a Summers, suo mentore e vero architetto del nuovo ordine della Casa Bianca. Ma Geithner cresce: a Istanbul è da solo e porta avanti con determinazione la palla lanciata a Pittsburgh.
Si dice che abbia una sensibilità nei confronti degli interlocutori stranieri di cui sono privi altri americani. La sua in effetti è una storia atipica. Nato a Brooklyn, parte da bambino con la famiglia per l'Africa - Zimbabwe e Zambia - poi per l'India, dove il padre si occupava di paesi emergenti per la Fondazione Ford. Poi la famiglia va in Thailandia, dove "Tim" fa tutto il liceo alla scuola internazionale di Bangkok. Si laurea in Affari internazionali in America e studia il mandarino e il giapponese.
A Istanbul lo incontriamo nei sotterranei dello smisurato centro congressi, dove ci sono gli uffici delle delegazioni. L'ufficio americano è in fondo a un corridoio labirintico. Una sala riunioni spoglia, con un tavolo bianco. Di fianco, in un'altra saletta, c'è una riunione in corso. Dietro la vetrata c'è il volto lungo e un po' triste di Ben Bernanke, il presidente della Fed. Quello di Geithner, invece resta sereno e sorridente.

Segretario Geithner, per il Finacial stability board restano molte incertezze tecniche, ci sono ostilità, qui in Europa e fra le altre istituzioni multilaterali. Fin dove arriva il progetto?
Facciamo un passo indietro, il quadro istituzionale multilaterale poggiava su Fondo monetario, Banca mondiale e Wto. Con l'aumento dell'integrazione finanziaria, dei mercati e dell'economia la gestione di queste attività è rimasta informale, indietro rispetto al processo di integrazione. Con il Financial stability forum, poi trasformato in Financial stability board, i ministri finanziari, le banche centrali, i supervisori, i contabili, le istituzioni multilaterali convergono tutti su un unico riferimento di controllo. E' un fatto nuovo. Sono nove mesi che ci lavoriamo e siamo arrivati a una strutturazione. Ci sono ancora molte cose complesse che debbono essere risolte, ma c'è una buona relazione, c'è una buona divisione del lavoro. Ci sono anche alcune organizzazioni che temono di perdere delle loro prerogative a vantaggio di altri, tutto normale quando c'è qualcosa di nuovo: le cose si aggiusteranno. Quel che vediamo però è che c'è un progresso reale nell'organizzare le riforme finanziarie, nell'imporre nuovi rapporti di capitale per le banche.

Lei ha detto che il Board diventerà il quarto pilastro di Bretton Woods. In che termini?
È vero. Ho parlato di quarto pilastro di Bretton Woods, ma ci sono in realtà delle differenze giuridiche: Bretton Woods aveva la forma di un trattato che andava ratificato dai parlamenti, per il Financial stability board non volevamo quel genere di complicazioni. Completa un quadro e deve completarlo al più presto con riforme finanziarie, regole, limitazioni, incentivi. Una struttura istituzionale è importante. Ma è più importante avere le regole, fare le cose presto e bene.

Da più parti le banche resistono, troppi limiti che rischiano di paralizzare il credito e la crescita. Si tratta di resistenze reali o di semplice lobby?
Credo si tratti di lobby. È legittimo cercare di essere informati e di influenzare un processo: e' vero, possono esserci dei rischi per l'innovazione finanziaria e dunque le banche parlano di problemi di efficienza nell'allocazione delle risorse e di problemi per la crescita. Ma la questione più importante anche per loro è un'altra: se non si raggiunge e non si garantisce una stabilità di base, diventerà più difficile allocare capitali sul mercato. Questo processo dunque è nel loro stesso interesse. Con una osservazione: le regole non le fanno le banche, le fanno i governi.

Lei ha anche detto che è nell'interesse dei singoli paesi cambiare.
È vero e il presupposto per il successo poggia su un'unica forte realtà: le cose funzioneranno meglio se lavoreremo insieme. Anche durante la crisi abbiamo visto quanto sia stato impossibile per un singolo paese cercare di tirarsi fuori da solo. Occorre convincere tutti che il loro interesse individuale poggia su un'azione collettiva. Questo ci servirà per affrontare meglio il rischio di prossime bolle. E dunque proviamo un nuovo quadro sistemico, abbiamo creato il G20, abbiamo la sfida di fare delle cose insieme, la crisi era così difficile da averci portato verso un interesse collettivo per evitare la prossima crisi. E dunque avremo cambiamenti. In America risparmieremo di più e ci indebiteremo di meno, la Cina cercherà di essere meno dipendente dalle esportazioni e di promuovere la domanda interna, e così via. Tutto ciò per rendere il futuro della crescita più sostenibile.

È vero che il problema centrale resta quello dello squilibrio commerciale Cina Stati Uniti?
No. Ci sono altre regioni: Giappone e Europa da soli rappresentano il 40% dell'output mondiale...

Parliamo del dollaro sempre più debole e dell'Sdr, il paniere delle principali valute che i cinesi vorrebbero adottare come nuova valuta di riferimento dei mercati finanziari e commerciali per superare le vulnerabilità del sistema monetario internazionale...
Ho già detto che siamo per un dollaro forte. Ma questo ci porta delle responsabilità dirette. Dobbiamo essere molto attenti nel sostenere la fiducia e la Fed nel difendere la stabilità dei prezzi. E dunque abbiamo delle missioni precise: riusciremo ad avere i giusti fondamentali economici, le giuste politiche, un'ampia base di stabilità? I governi faranno quel che debbono fare per sostenere la fiducia. Per quel che ci riguarda sappiamo che molti investitori credono che mercati con tanta liquidità offrono stabilità e noi dei progressi li abbiamo già fatti, il disavanzo delle partite correnti è passato dal 7% del Pil al 3,5%.

E' vero che gli Stati Uniti vogliono mantenere una egemonia economica che non gli appartiene più?
Il nostro primo dovere è dare ai nostri cittadini garanzie, poi dobbiamo esercitare un'influenza internazionale: dobbiamo portare sul tavolo delle idee nuove attorno alle quali creare consenso, infine dobbiamo tornare alla nostra strategia di base: l'abbiamo espressa 60 anni fa quando abbiamo impostato un sistema multilaterale con degli standard comuni, la esprimiamo oggi con un Presidente pronto a cooperare anche a costo di gravi problemi interni.

Ma è immaginabile che l'America lasci la sua presa sul Fondo monetario?
Abbiamo circa il 18% del capitale del Fondo. Questo vuole dire che non sarà poi molto difficile per dei paesi organizzare una coalizione per superare quella percentuale. Sottolineo che la nostra quota è più piccola in proporzione a quel che facciamo, contribuiamo alla formulazione di consensi fra vari paesi, siamo stati una forza importante per tornare alla stabilita' finanziaria. Non credo che oggi vi sia in discussione l'idea che prevede un ruolo minore per gli Stati Uniti... Aggiungo, non forziamo nessuno a far nulla, è vero che l'America ha avuto certe responsabilità per questa crisi. Lo abbiamo ammesso. Ma voglio anche dirle che in molti paesi i rapporti di capitale o di indebitamento erano molto peggio dei nostri.
Alcuni criticano la vostra strategia: troppi interventi...
È stata una strategia di necessità, non di scelta. Davanti alla crisi non c'era molto altro da fare se non agire.

Qual è il rischio di una nuova crisi? Cosa succederà il prossimo settembre, quando il vostro piano di stimoli cesserà la missione di pompare cento miliardi di dollari al trimestre nell'economia?
Siamo nella prima fase della ripresa. È la domanda più difficile a cui rispondere ovviamente. Ci sono molti rischi possibili davanti a noi. Il più pericoloso? Che la gente si senta tranquilla troppo presto. Ricordi i problemi di un anno fa. È ancora molto presto. Torniamo a quel dicevo prima: abbiamo delle priorità perseguiamole insieme.

G7-G20: ci chiarisce l'apparente duplicazione o confusione di ruoli?
Non ci sono nuove ipotesi di G. Abbiamo il G20, per il G7 mi preoccupo che la forma non prevalga sulla sostanza. Ho detto durante la riunione che non dobbiamo essere guidati da comunicati. Dobbiamo fare delle buone scelte nel G7 ed essere candidi, trasparenti e discreti gli uni con gli altri. Ci vuole una forma di cooperazione più informale e più efficace.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Martedì 06 Ottobre 2009   Mercoledì 07 Ottobre 2009   Venerdì 09 Ottobre 2009  
       
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  Prove tecniche di exit strategy

10 Ottobre 2009 14:44 MILANO - di Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi

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L'estate si è chiusa con conferme, l'autunno si è aperto con dubbi. Conferme di inizio ripresa, sebbene per molti attori economici la parola suoni ancora come insulto, perché continuano la carestia di ordini e la moria di posti di lavoro. Conferme basate su statistiche soft, come fiducia e indici anticipatori, e pesanti come la produzione, il fatturato, gli ordini e l'export (quest'ultimo anche globale).

Dubbi sulla tenuta della svolta, inseriti in una granitica certezza: il recupero sarà graduale e lento. Gli economisti (vil razza dannata) escludono in massa che il domani possa riservare sorprese positive e gli fanno eco nel predicare prudenza i policy-maker di ogni angolo del pianeta. Pochi osano immaginare che il rimbalzo risulti direttamente proporzionato nell'intensità alla violenza della caduta. Ma i segnali degli indicatori avanzati dell'Ocse sono corali e consolanti. L'effetto elastico, che si è sempre verificato nelle recessioni passate, sarebbe negato questa volta dalla fragilità del sistema finanziario che continua a lesinare il credito. Ciò appare sicuramente più vero in Europa (dove pure il risveglio della produzione industriale in agosto - mese difficile da interpretare - è promettente) che negli Usa. Non è soltanto una differenza di condizioni della finanza, perché se è vero che il credito bancario non si è ristretto al di là dell'Atlantico meno che al di qua, è anche vero che lì le banche pesano per una frazione dei canali di finanziamento e che la Fed è intervenuta in modo massiccio e deciso a sbloccare tutti gli altri.

L'economia americana è infatti molto più avanti nel realizzare gli aggiustamenti degli squilibri. Lo scossone all'occupazione (7,2 milioni di posti in meno in 21 mesi, -5,2%) è stato feroce ma ormai è agli sgoccioli (il ritmo di espulsione è ora quello normale di una lieve recessione); in Europa invece proseguirà e raggiungerà un'entità analoga. Ciò ha consentito un rapido ripristino dei margini di profitto e le imprese a stelle e strisce godono di una posizione finanziaria che non è mai stata così solida all'uscita da una recessione; sono pronte perciò a investire e stanno già ricominciando a farlo. Nonostante il basso utilizzo della capacità? Sì, perché gli investimenti in nuove iniziative o in miglioramenti di prodotto e processo non sono legati agli impianti esistenti e spesso anzi sono la componente della domanda che tende a saturarne l'impiego. Se ripartono gli investimenti, l'occupazione, il reddito e la spesa delle famiglie seguiranno rapidamente. Tanto più che il tasso di risparmio è risalito e che la ricchezza netta, grazie al riavvio dei prezzi delle case (altra correzione ultimata là, ma non in molte nazioni europee), al recupero dei prezzi di Borsa e al rimborso dei debiti è tornata a salire.

Se si rimette in moto la locomotiva Usa, tutto il convoglio globale avanzerà a ritmi decisamente più spediti dell'atteso. Nell'area euro, e in particolare in Italia, invece, la dinamica dei margini di profitto e in generale dei profitti non ha ancora dato segnali significativi di progresso e il processo di rilancio della domanda di macchinari impiegherà più tempo, ostacolata peraltro in maggior misura dalle difficoltà del credito e da una situazione finanziaria delle imprese molto meno rosea, specie in Italia. Perciò la ripresa nell'eurozona farà più fatica a ingranare.

 

  DEBITO PUBBLICO NETTO  
     
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Inflazione
La dinamica dei prezzi al consumo rimane confortevolmente fredda. Non soltanto quella totale, che risente ancora del favorevole confronto su base annua con l'epoca delle materie prime gonfiate dalla bolla e che sta comunque gradualmente risalendo, ma anche quella core, che si sta abbassando e avvicinando all'1% sia in Usa sia nell'Eurozona. Mentre i corsi delle commodity, dopo essere rimbalzati, stanno oscillando senza particolare direzione, poiché c'è il calmiere dell'abbondanza di offerta. Difficile immaginare una ripartenza dell'inflazione in queste condizioni, che sono invece le più favorevoli per i lavoratori in termini di conforto al potere d'acquisto e dovrebbero perciò rendere facile rinnovare i contratti, quando non si vogliano fare autogol competitivi.

Tassi di interesse, valute, moneta
Le valutazioni che sottendono la decisione delle banche centrali in Israele e in Australia di aumentare i tassi (di un quarto di punto - in settembre in Israele e in ottobre in Australia) sono analoghe: il miglioramento delle prospettive di crescita da un lato e la volontà di uscire dal livello eccezionalmente basso dei rispettivi tassi-guida, dall'altro. In quanto tali, le due decisioni si annunciano come prime e timide "prove tecniche" di una strategia di uscita dalle politiche monetarie fortemente espansive. Ma due rondini non fanno primavera. Di qua e di là dell'Atlantico i tassi delle banche centrali sono saldamente installati vicino allo zero, e c'è una promessa, implicita o esplicita, di tenerli fermi per un tempo considerevole.

Se però queste "prove tecniche di rialzo" servono a rassicurare i mercati sulla volontà delle banche centrali di aumentare il costo del danaro e strangolare nella culla l'idra dell'inflazione, ben vengano gli aumenti. Che saranno in ogni caso graduali e in presa diretta con il miglioramento - un miglioramento che deve essere duraturo e non episodico per dar via libera a ulteriori aumenti dei tassi - della congiuntura interna e internazionale. I timori dell'inflazione sono naturalmente legati ai due fattori distintivi della possente risposta delle politiche economiche. Il mare di liquidità che è stato creato e che scroscia nei mercati, e il balzo dei deficit e dei debiti pubblici. Balzo che procura, ai sospettosi di professione, un brivido di inquietudine: l'inflazione aiuta i debitori, e potrebbe essere nell'interesse dei governi di diluire il debito con l'inflazione. Come tutte le teorie del complotto, anche questa è fondata più su fantasmi che sulla realtà. D'altronde, è il mercato stesso a smentire queste ipotesi complottarde. Se questi timori fossero veri e diffusi, i tassi sui titoli pubblici lunghi li rifletterebbero fin d'ora. Se è vero che i debiti pubblici (al netto delle attività) in percentuale del Pil sono saliti dappertutto (vedi grafico), è anche vero che, come afferma uno studio dell'Ocse, il rientro dall'inchiostro rosso è ambizioso ma non impossibile.

Certo se, come è possibile, ci sono oggi rischi verso l'alto per la crescita, il peso dei debiti sarebbe diluito dall'aumento del denominatore nel rapporto debito/Pil. E se alle manovre tradizionali di contenimento del deficit (maggiori entrate e riduzioni di spese) si aggiungono i benefici di una nuova ondata di privatizzazioni, la "missione impossibile" potrebbe avere lo stesso successo di quelle dei famosi telefilm.

I timori sul dollaro sono naturalmente legati ai deficit gemelli, il cui combinato disposto (deficit corrente+deficit pubblico) ha raggiunto nuovi record. Tuttavia, questo nuovo primato degli squilibri americani è meno preoccupante di quanto sembri. Il deficit corrente, che negli anni scorsi aveva sfiorato il 7% del Pil, è calato (secondo trimestre 2009) fino al 2,7%, e il record è dovuto solo al deficit pubblico, che è invece schizzato all'11,7 per cento. A parte il fatto che quello stratosferico livello contiene alcune imputazioni contabili non-cash, l'esperienza Usa dice che il peso del deficit è riassorbibile in situazione di crescita. Il ribilanciamento delle valute è un utile ingrediente nello scioglimento degli squilibri, ma è improbabile che il dollaro possa rivisitare i minimi del 2008 contro euro. Mentre è probabile che riprenda la rivalutazione dello yuan: il non-deliverable forward a 12 mesi ha ripreso ad apprezzarsi.

IN SINTESI

L'USCITA DALLA CRISI
- La fase di ripresa sarà più una maratona che uno sprint.
Le maratone non hanno un inizio bruciante, ma hanno tuttavia un inizio, e con qualche buona volontà si può vedere nell'aumento dei tassi in Australia (il primo nel G20) la prova tecnica per un avvio della exit strategy. Anche l'espansione quantitativa della moneta si sta moderando.

LA FIDUCIA SI ALLARGA
- Da qualche mese ormai gli indici di fiducia stanno risalendo, e questa risalita riguarda sia le imprese che i consumatori. Geograficamente, il miglioramento è abbastanza diffuso da far pensare che il tutto diventi più della somma delle parti.

TASSI FERMI, ANZI NO
- Israele e Australia: sono i soli due paesi in cui è cominciata la "normalizzazione" dei tassi, che altrove, nel segmento breve, vengono promessi fermi dalle banche centrali.
Sul lungo nominale, qualche timida riduzione non scalfisce l'alto livello dei tassi reali.

YUAN, PROVE DI RIALZO
- Dopo essersi appiattito sul cambio a pronti, il tasso di cambio della moneta cinese a 12 mesi segnala di nuovo la rivalutazione insistentemente chiesta dagli Usa e dagli organismi internazionali in funzione di "ribilanciamento" della crescita globale. Il dollaro è ancora sotto pressione, ma il rischio verso il basso è limitato.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

E se la ripresa fosse forte come in passato?

10 Ottobre 2009 12:53 MILANO - di Walter Riolfi
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Crescendo in settimana del 4%, a un passo dai massimi del mese scorso, le Borse sembrano convinte che la prossima ripresa economica sarà rapida e forte come quelle che sono seguite alle recessioni degli ultimi 30 anni. Sette giorni fa su queste pagine s'era scritto che questa volta potrebbe essere diverso. Che un'economia gravata dai debiti delle famiglie e dello stato e tenuta in piedi con la flebo dei soldi pubblici, non potrà crescere ai ritmi visti in passato. E con l'intero sistema finanziario alle prese con la riduzione del debito, dovremo scordare gli allegri consumi visti nella seconda metà degli anni '90 e più ancora dopo il 2003. Chi scrive è piuttosto convinto di questa tesi. Ma si rende anche conto che il ritornello del «questa volta è diverso» lo s'è sentito tante volte in passato, prima che le cose ritornassero invece sostanzialmente come prima.
Nel 1991, nel pieno di quella recessione, la rivista «Fortune» aveva titolato in copertina: «La fine del grande consumismo». E «Time» nel giugno 2001, ai primi segni del riflusso seguito alla bolla dei tecnologici, aveva pronosticato una nuova era di «vita più semplice». In ogni momento, in cui un'incipiente crisi ha appannato il precedente splendore, s'è immaginata la fine delle vecchie abitudini e l'avvento di una diversa mentalità. E «Time» s'è ripetuta qualche mese fa con una copertina dedicata alla «Nuova frugalità». Ma dopo il '92, la gente ha continuato a consumare come prima o ancora più di prima. E dopo il 2003 la corsa ai consumi ha proseguito come mai s'era visto in precedenza, favorita dal facile ricorso al debito. E per quanto uno studio pubblicato sul «The New Yorker» abbia spiegato che gli americani hanno speso più nei servizi (sanitari, scolastici) che nei beni di consumo e soprattutto più nell'acquisto di una abitazione, resta il fatto che tra il 2003 e il 2007 c'è stata un'esplosione del credito al consumo delle famiglie che non volevano privarsi anche di una nuova automobile o di arredi sempre più costosi.
Questa volta, però, potrebbe essere diverso davvero, perché il livello dell'indebitamento non è mai stato così elevato in termini assoluti e relativi. Se la ripresa dovesse pertanto rivelarsi più lenta delle altre, lo capiremo solo il prossimo anno e in quello successivo. È quanto sostiene Richard Fisher della Fed, secondo il quale «il vero dilemma è cosa succederà nel 2010 e 2011». Fisher è moderatamente ottimista, ma si domanda cosa accadrà il prossimo anno, «quando non ci saranno più le protesi del governo» per l'acquisto di auto, elettrodomestici, case o semplicemente per sostenere il credito, come sta facendo la Fed: nella sostanza l'unico compratore delle cartolarizzazioni sui mutui casa.

Tutto come prima?
O forse anche questa volta sarà come è stato negli ultimi 30 anni e la gente tornerà a spendere come prima, le banche faranno quello che hanno fatto fino al 2007 e ritornerà un turbinio di fusioni e acquisizioni: come un segnale s'è visto la scorsa settimana negli Usa, quando in un sol giorno sono state annunciate operazioni per 14 miliardi di $. E la Borsa, ovviamente, tornerà a volare come tra il 2003 e il 2007. Perché, come si comprende dal bellissimo libro di Carmen Reinhart e Ken Rogoff (This Time is Different: Eight Centuries of Financial Folly), niente è mai così differente. Ma per rivedere i tempi di due anni fa, occorre che si torni ad oliare gli ingranaggi del credito facile: che le banche inondino di denaro il sistema finanziario (come in parte già stanno facendo con i soldi prestati a tassi zero dalle banche centrali), che le famiglie riprendano a indebitarsi e consumare e che risorga il mercato immobiliare.
Per quanto nessuno sia in grado di capire fino a che punto possa arrivare il grado d'indebitamento di un'istituzione o di un cittadino, è anche piuttosto probabile che su questa strada s'incontrerà prima o poi un'altra bolla speculativa. Con qualche correzione, il sistema finanziario e politico, specie quello americano, sembra adesso incline a far ritornare le cose al recente passato. Ne va della ripresa economica (a "V", come immagina sempre più gente) e del benessere dei cittadini. Ma con gli stati usciti da questa crisi indebitati come mai negli ultimi 60 anni, la prossima bolla e la conseguente recessione saranno peggiori di quelle che ci sono recentemente capitate.
Se i 57 economisti sondati da Bloomberg non sono molto ottimisti sull'andamento della disoccupazione e sulla crescita dei consumi, così come per gli stessi motivi sono piuttosto preoccupati sul tenore della ripresa i 48 intervistati dal WSJ; e se Nouriel Roubini continua a vedere problemi (ma lo scenario che dipinge non sembra alla fine così diverso da quello abbozzato dai dubbi del citato Richard Fisher); parecchi broker di Wall Street stanno già cavalcando la tesi del recupero a "V" e di una borsa avviata a scalare nuove vette nei prossimi due anni. Merrill Lynch ha enunciato i suoi «5 motivi per essere ottimisti», spiegando che il rimbalzo (60%) dell'S&P ha ancora tanta strada da fare, che gli investitori sarebbero ancora troppo pessimisti, che il quadro macroeconomico è assai favorevole, che gli utili aziendali miglioreranno sensibilmente e che, dunque, il mercato è attraente e non troppo caro, come vanno dicendo gli scettici.
Sull'onda di analoghi ragionamenti, Wall Street ha guadagnato il 4,5% in settimana (+4,5% anche il Nasdaq) e lo Stoxx il 3,7% (+4,9% Milano, +4,1% Parigi, +4,5% Francoforte, +3,5% Londra).
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

GLI USA SOFFOCHERANNO LA CRESCITA MONDIALE

14 Ottobre 2009 16:30 NEW YORK - WSI
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Parola del finanziere Soros, secondo cui lo yuan sottovalutato contribuisce alla perdita di valore del dollaro. Bisogna mettere a punto un sistema di controllo globale del mercato valutario al piu' presto. In Cina si sta formando una bolla di asset.
Il milionario investitore ungherese George Soros ha avvertito che gli attuali accordi sul mercato valutario sono carichi di pericoli e problemi e che pertanto il mondo ha un urgente bisogno di un nuovo sistema di controllo globale.
A detta di Soros, gestore del fondo hedge Soros Fund Management e assurto a fama mondiale per le sue attivita' di speculazione sulle valute, il dollaro dovrebbe indebolirsi nei confronti dello yuan cinese in modo da permettere agli Stati Uniti di contenere il deficit valutario.
Tuttavia Soros, tra gli uomini piu' ricchi al mondo, ha aggiunto che siccome la valuta cinese e' strettamente legata al biglietto verde, uno yuan costantemente sottovalutato non fa che contribuire alla perdita di valore del dollaro contro le altre principali valute concorrenti. Dall'inizio dell'anno il dollaro ha bruciato circa il 7% del suo valore rispetto al basket delle sei principali monete rivali.
Nel frattempo uno yuan sottovalutato rende i beni al consumo prodotti in Cina piu' economici rispetto ai mercati stranieri. Pechino ha alimentato la propria crescita puntando sulle esportazioni nei mercati al consumo degli Usa e di altri Paesi occidentali, spingendo molti produttori attivi in tali mercati ad uscire di scena perche' non in grado di reggere la concorrenza.
Soros, che ha guadagnato circa $1 miliardo (610.5 milioni di sterline) nel 1992 dopo aver venduto oltre $10 miliardi in valuta inglese costringendo la Banca di Inghilterra a svalutare la propria moneta, ha dichiarato che la globalizzazione dei mercati finanziari e' stata costruita su un "falso pretesto", ovvero che gli stessi mercati possano auto-regolarsi, quando invece ci sarebbe bisogno di mettere a punto un sistema di controllo globale.
"Si tratta di una sfida enorme", ha detto nel corso di un evento promosso dalla rivista Economist alla Borsa di New York secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa Reuters. Poche ore prima dell'intervento dell'investitore, il Dipartimento del Tesoro Usa ha sottolineato che la Cina non sta manipolando la sua valuta, ma che sta accumulando scorte di monete estere ad un ritmo preoccupante, che minaccia il processo di riduzione degli squilibri economici globali.
Parlando dell'economia globale, Soros ha fatto notare che "registrera' una crescita, ma comunque e' destinata a rimanere piatta", precisando che gli Stati Uniti soffocheranno la crescita mondiale. Il finanziere ungherese e' inoltre convinto che in Cina si stia formando una sorta di bolla degli asset.

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

  Il declino Usa e i menestrelli anti Obama

October 14th, 2009 by editor - di Andrea Gilli

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Sul Weekly Standard di questa settimana è apparso un pezzo di Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post, e noto neoconservatore, nel quale si cerca di dimostrare la debolezza della tesi del declino americano. Conoscendo sia il settimanale in questione che Krauthammer, non avevo grandi aspettative. La lettura dell’articolo è riuscita però a colpirmi: mi ha infatti convinto non solo che l’America sia davvero in declino materiale (l’opposto di quanto Krauthammer cercava di fare), ma anche che la sua traiettoria intellettuale non sia molto robusta. Infatti, se il meglio che si riesce a produrre a suffragio di questa tesi è un articolo tanto sgangherato, che pure un bambinetto di terza elementare potrebbe smentire, allora significa che stiamo proprio arrivando al capolinea.

Nel suo articolo, l’editorialista del Washington Post si chiede, fondamentalmente se il declino americano sia inevitabile oppure se non sia altro che frutto di una scelta. La sua risposta è tranchant. Il declino è una scelta e Obama sta scegliendo di far diventare l’America una Potenza di serie B.
Prima di andare oltre, capiamoci sul significato di declino. Quando declina un Paese? Dallo studio settecentesco di Gibbon sull’ascesa e il declino dell’Impero Romano, fino ai lavori di Marcur Olson sul declino e ascela delle nazioni per poi arrivare allo storico Paul Kennedy che ha studiato l’ascesa e il declino delle Grandi Potenze, un certo accordo sembra esserci tra gli studiosi: Stati, Nazioni, Imperi, Grandi Potenze declinano quando qualcuno cresce più di loro. Si noti, più di loro. La minor crescita può essere dovuta ad una lunga serie di fattori (corruzione interna, impersial overstretch, inefficienza burocratica e amministrativa, etc.), il punto però, non cambia: il declino si deve a tassi d crescita più bassi rispetto ad altri. Fino al 1850, la Cina aveva il PIL più grande del mondo, ma i suoi tassi di crescita erano più bassi di quelli europei: il risultato fu la colonizzazione de facto del Paese ad opera delle Potenze occidentali.

Krauthammer dice che l’America ha la più florida e dinamica economia del mondo (?), con la produttività più elevata (?), dunque – a suo modo di vedere – Obama starebbe scegliendo per il declino. Nonostante il Paese abbia davanti a sè molte altre opzioni strategiche, Obama sceglierebbe dunque la più modesta, fino mediocre, e soprattutto strategicamente peggiore. Se l’America crescesse del 10% l’anno e il resto del mondo al 5%, Krauthammer avrebbe ragione. Purtroppo, i dati dicono il contrario. Nel 2001, la somma del PIL di India, Brasile, Cina e Russia ammontava al 27% del PIL americano. Nel 2007, cioè prima ancora della crisi, eravamo al 51%. I dati del 2008 arrivano al 58%. Perché? Semplice: Cina, India, Brasile, e in parte Russia, sono cresciute negli anni 2000 a tassi quasi doppi rispetto all’America. Questo si chiama declino relativo.

Si può far finta di niente, e andare avanti imperterriti con la politica precedente. Hitler, per esempio, prese questa decisione. Con il 10% del PIL mondiale pensava di poter conquistare tutta l’Europa. Napoleone fece una scelta analoga. Abbiamo visto come sono finiti entrambi. Alternativamente, si può tenere conto di questo dato e metterlo alla base della propria politica estera. Obama sta scegliendo la seconda opzione. Può sbagliare, può fare errori. Ma la sua politica è semplice: in un mondo dove l’America primeggia, l’America detta le leggi (anni Novanta). In un mondo nel quale l’America è relativamente più debole, l’America non può più dettare le leggi (nuovo millennio) ma deve dialogare con gli altri – che piaccia o no.
Krauthammer guarda volutamente i dati sbagliati. Così può leggere come una scelta libera quella che in realtà è una scelta dettata dalla necessità. E di conseguenza può procedere con un ragionamento che, a posteriori, è totalmente sbilenco (chi non fosse convinto dei dati, guardi questi due studi, non proprio sviluppati dal centro dell’anti-americanismo mondiale, Accenture e NIC, la società di consulenza americana e il centro studi dell’intelligence americana rispettivamente)
Ignorando infatti che sono i tassi relativi di crescita tra le Potenze a determinare la loro gerarchia internazionale, l’editorialista del Washington Post si lancia in una serie di affermazioni davvero spericolate. Perchè, chiede, l’America era una potenza egemone? Per Krauthammer, ciò si deve alla sua superiorità morale. Il fatto che l’America avesse, negli anni Novanta, l’economia più florida al mondo, e l’esercito più forte del pianeta, in questa sua ricostruzione, non hanno alcun ruolo.

Si noti, seguendo questa logica, storicamente, le potenze egemoni dovrebbero essere quelle moralmente più più solide (non approfondiamo su come si faccia la classifica), mentre il crollo delle Grandi Potenze sarebbe semplicemente una questione di scelte. In altre parole, il Vaticano dovrebbe dominare la politica mondiale e l’URSS poteva tranquillamente continuare ad esistere, nonostante le sue imbarazzanti inefficienze economiche.
E perché la presenza americana è ben accolta in giro per il mondo – chiede ancora Krauthammer? Perché l’America sarebbe una potenza benevola. Di nuovo, la sua superiorità economica e militare, in questo calcolo, non avrebbe alcun ruolo. Strano che allora la Svizzera non possa prendere il suo ruolo… (non c’è spazio, in questa sede, per ragionare su quanto ben accolta sia la presenza americana in giro per il mondo: basta dire che in Iraq e Afghanistan stiamo vedendo tutto il calore che viene loro mostrato).

Obama, in conclusione, stando a Krauthammer, sarebbe colpevole di vilipendio alla bandiera, lesà maestà, relativismo e magari anche tradimento alla patria. Con le sue politiche starebbe quindi condannando l’America alla Serie B della politica mondiale.
E’ così? Ovviamente no, e abbiamo spiegato perché. L’America sta crescendo a tassi più bassi, e sul panorama internazionale stanno crescendo tante, nuove potenze che l’America non sarà mai in grado di gestire contemporaneamente (dall’Europa alla Cina, dalla Russia al Brasile, dall’India alla Nigeria, dall’Iran alla Turchia). In altri termini, l’America non ha i mezzi per restare l’egemone del sistema internazionale. Resterà una Grande Potenza, probabilmente anche con ottime performance economiche – soprattutto per via dell’accresciuta competizione internazionale. Ma non farà più da guida.
E’ dura, ma è la verità. E Krauthammer non vuole accettarla. E’ comprensibile: i resoconti storici ci dicono che gli ultimi a scappare dagli imperi in declino non erano i sovrani. Erano i menestrelli.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

  Sabato 10 Ottobre 2009   Martedì 13 Ottobre 2009   Giovedì 15 Ottobre 2009  
       
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  Il dollaro rimarrà debole. E' la liquidità a «volerlo»

15 Ottobre 2009 11:46 MILANO - di Vittorio Carlini

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Il dollaro rimarrà debole. Gli esperti, anche in questo strano autunno finanziario, sono in gran parte d'accordo. Qualcuno fissa, per fine anno, un livello di cambio sull'Euro a 1,60. Altri, più prudenti, indicano un movimento laterale attorno a 1,50-1,51. Ma il trend di fondo è condiviso: il biglietto verde resterà "weakness"; «sul lungo periodo -scrive Citi -le pressioni al ribasso resisteranno». Le divisioni nascono, al contrario, sul come e perché questo avvenga. Da una parte c'è chi ricerca le cause in "classici" fondamentali: il differenziale dei tassi tra Europa e Stati Uniti, il deficit o il debito Usa. Altri, invece, guardano più al contingente, ad alcune caratteristiche dei mercati finanziari legate alla crisi. In particolare, alla liquidità.
«La Federal reserve americana - sottolinea Fabrizio Quirighetti, capo economista di Banca Syz - per fronteggiare il credit crunch, sta sfruttando anche il cosiddetto quantitive easing, cioè acquista bond in dollari pagandoli sempre in dollari. La conseguenza di questa politica monetaria, a differenza di quella che sfrutta solo i tassi d'interesse, è un vero e proprio aumento dei volumi della divisa Usa, un surplus di biglietti verdi. Che, però, il mercato non riesce a digerire. Così, il dollaro si indebolisce». Il quantitave easing, tuttavia, è stato realizzato nel passato anche dalla Banca centrale del giappone: perché a Tokyo non ci fu svalutazione dello yen? «Perché - risponde Quirighetti - gli operatori erano sempre interni a quel mercato. Il credito iscritto nel bilancio della Bank of Japan, in corrispondenza delle obbligazioni comprate dalla Banca centrale, era sempre "intestato" a istituti finanziari giapponesi. In questa situazione l'effetto sui cambi con le altre valute non si sente, o si sente di meno». Negli Usa, al contrario, «il debito è in gran parte nelle mani degli investitori stranieri che, in questo momento, non vogliono sentire» troppo l'odore dei dollari. «Non è un caso - tiene a specificare Quirighetti - che l'altra moneta che scende in questo periodo è la sterlina. Anche lì, la Bank of England è l'istituto centrale che ha fatto pieno uso del quantitave easing». Insomma, la liquidità viene fatta aumentare per fronteggiare la crisi; ma la liquidità, quasi non più strumento bensì una variabile a sé stante, cerca la diversificazione, va in caccia di altri rendimenti e si dimentica del dollaro.

«Nell'ultimo report dell'Fmi - aggiunge Bill Witherell, capo economista di Cumberland avdisors - è indicato implicitamente che le banche centrali sono riluttanti ad aumentare le loro riserve nella divisa Usa e, lentamente, si indirizzano verso altre monete. Ovvio che», come peraltro dimostrato dall'ultimo dato della Banca centrale cinese nel periodo luglio-settembre, «l'abbandono dell'America non può avvenire hic et nunc: gli stessi asset miliardiari in dollari, iscritti nei bilanci degli istituti finanziari, si svaluterebbero. Ma il trend sembra definito». «Anche perché -aggiunge Witherell - diversi paesi, produttori e consumatori di petrolio (gli stati del Golfo persico, Cina, Russia, Giappone e Francia), avrebbero discusso della possibilità di sostituire il dollaro con un basket di monete, nelle transazioni del petrolio. Di nuovo, però, lo scenario non è immaginabile nel breve periodo». Chi pensa, per esempio, a una sostituzione dei petrodollari con i petroeuro, dovrebbe giustificare un balzo nominale della bolletta energetica che, in questo periodo di crisi, sarebbe indigesta alla gran parte dei paesi occidentali
Che la liquidità sia, in questo momento, una variabile comunque da tenere d'occhio è peraltro dimostrato dall'andamento delle quotazioni dell'oro. «Nel secondo trimestre del 2009 - spiega Rozanna Wozniak, investment research manager di World gold council - la cosiddetta "investment demand", cioè l'investimento sull'oro inteso come asset finanziario, pesava per 31% della domanda totale di lingotti, contro il 19% dello stesso periodo del 2008». Ciò vuol dire che, o con finalità di diversificazione o di speculazione, anche nel mondo del metallo pregiato la liquidità assume di per se stessa un ruolo sempre maggiore nel determinare le quotazioni. Il tutto a scapito, ovviamente, della domanda finalizzata all'utilizzo reale, industriale o per le gioellerie, dei lingotti.
Al di là di questi aspetti, c'è chi sottolinea motivazioni più "classiche". «Nel breve periodo - afferma Ronny Hamaui, docente di mercati monetari internazionali alla Cattolica - il calo del dollaro è dovuto al differenziale d'interessi. In particolare, è il carry trade: molti investitori vanno short sul dollaro e investono sull'euro». «Certamente ci sarà anche questo - dice Quirighetti - Però, la differenza tra i tassi Bce (all'1%, ndr) e quelli della Fed (di fatto a zero, ndr) non mi sembra tale da giustificare così ampi spostamenti sui mercati monetari». Su questo fronte, peraltro, molti si domandano quali le strategie sul costo del denaro al di qua e al di là dell'oceano Atlantico. «Il presidente della Bce - dice Quirighetti - è molto focalizzato sul tema dell'inflazione. È probabile che il tasso di crescita dei prezzi al consumo, con la salita delle quotazioni del petrolio e dell'inflazione core, a inizio del 2010 si attesti sul 2 per cento. Un evento che, quasi in automatico, porterà l'Eurotower a rialzare il costo del denaro. In quel momento sì, che l'Euro potrebbe salire sul differenziale dei tassi». Certo, bisognerà vedere se Ben Bernanke, capo della Fed, manterrà l'easy money. Se ciò accadrà, il dollaro si terrà stretta la sua debolezza. Ma la speranza è che, come accaduto nel recente passato, le banche centrali coordino le loro azioni.
Più sul lungo periodo, invece, «incidono il debito - dice Hamaui - e il deficit commerciale americano. Quest'ultimo in particolare, come sappiamo, è elevato: viaggia verso il 3% del Pil. Ora il mantenimento di un biglietto verde debole nei confronti delle altre valute è essenziale per sostenere l'export americano». Washington, evidentemente, ha tutto l'interesse a lasciare proseguire la scivolata della sua moneta verso il basso: una situazione che sposta gli scenari competitivi. «Il problema per l'economia di Eurolandia - aggiunge Quirighetti - non sarebbe tanto un livello dell'Euro più alto. La moneta unica europea a 1,60 sul dollaro l'abbiamo già sperimentata e l'industria del Vecchio Continente non è andata in frantumi. La vera questione è, soprattutto in un momento di crisi come l'attuale, la velocità con cui si passa dalle quotazioni di oggi ad altre più elevate. Se la salita sarà graduale non avremo grandissimi problemi». Il mondo, insomma, continuerà ad esistere. «Se, al contrario, il balzo dell'Euro sarà troppo repentino le industrie europee soffriranno, e molto».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

VALUTE: ORMAI E' QUASI ALLARME ALL'EUROGRUPPO

16 Ottobre 2009 16:11 NEW YORK - WSI
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L'euro sale in zona 1.50 contro il biglietto verde, nuovamente in calo a New York. La situazione e' vicina al punto limite: "se il cambio continua sulla strada delle ultime settimane ci sara' da preoccuparsi".
Il dollaro ha avviato la seduta di contrattazioni a New York in calo sull'euro, con la moneta unica scambiata a 1,4926 dollari, in rialzo rispetto agli 1,4899 dollari dell'ultima rilevazione di ieri. L'euro ha guadagnato terreno in attesa di ulteriori indicazioni sullo stato di salute dell'economia americana (mentre va avanti la stagione delle trimestrali Usa con Texas Instruments e Apple, oggi pomeriggio è atteso un discorso del numero uno della Fed, Bernanke). Per quanto riguarda le altre principali valute, il biglietto verde è in aumento sulla moneta giapponese a 90,94 yen, contro i 90,85 yen dell'ultima rilevazione di ieri. La sterlina vale 1,6318 dollari, in ribasso rispetto agli 1,6353 dollari precedenti. Il franco svizzero è scambiato in calo a 0,986 dollari.
Sull'euro, intanto, è quasi allarme. I ministri dell'Eurozona si riuniscono nel tardo pomeriggio a Lussemburgo per la riunione mensile. Faranno il punto sull'andamento del cambio. Attesa la conferma che con l'euro in zona 1,50 contro dollaro la situazione è vicina al punto limite. Il presidente dell'Eurogruppo Jean Claude Juncker ha già detto che «se il cambio continua sulla strada delle ultime settimane» ci sarà da preoccupasi, «ad un certo momento».
Il dollaro da marzo ha perso oltre il 18% del suo valore rispetto all'euro. Un euro a quota 1,50 non fa paura ai ministri dell'economia, ma un euro in corsa, come é stato nelle ultime settimane, sì. Il presidente dell'Eurogruppo Juncker non ha naturalmente indicato a quale livello su dollaro l'euro preoccuperà seriamente richiedendo qualche azione (politica o di mercato non si sa). Per ora Eurogruppo e Bce da una parte e Stati Uniti dall'altra si limitano a uno scambio di segnali di fumo, ovviamente verbali.
In sostanza l'Eurozona non vuole assistere passivamente all'evolversi di una tendenza che vede il dollaro in caduta continua (la scorsa settimana ha toccato il massimo ribasso degli ultimi 14 mesi), una debolezza che si scarica in modo non proporzionato sulle valute fluttuanti in primo luogo sull'euro e in queste circostanze sullo yen. Sul proscenio dei cambi non c'è solo il lato dollaro ma anche il versante yuan: non è un caso che Juncker abbia annunciato l'intenzione di recarsi un'altra volta in Cina con il numero uno della Bce, Trichet e il commissario dell'Unione europea, Joaquin Almunia, per capire modi e tempi di rafforzamento della divisa cinese.
L'Eurogruppo per oggi dovrebbe comunque limitarsi a confermare le formule degli ultimi giorni puntando l'attenzione sugli effetti negativi per la crescita e gli equilibri globali complessivi provocati dal dollaro troppo debole, senza far trasparire alcuna indicazione sui livelli auspicabili del cambio. Ma potrebbe sottolineare il rischio di un'assenza di contromisure sulla crescita economica dell'Eurozona, che con un euro super potrebbe non contribuire alla ripresa globale come atteso, concedendo oltretutto un vantaggio notevole al Dragone cinese.
Quanto alle politiche di sostegno alla domanda, l'Eurogruppo (e domani l'Ecofin) confermeranno la necessità dell'intervento pubblico per tutto il 2010 con avvio delle exit strategy dal 2011 solamente se la ripresa sarà «radicata» e «autonoma»
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Banca d'Inghilterra: scelte radicali per riformare il settore

21 Ottobre 2009 12:12 LONDRA - Il Sole 24 Ore
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LONDRA - Le nuove regole, per quanto severe, non bastano: è ora necessario intervenire in modo radicale per riformare il settore bancario. Il governatore della Banca d'Inghilterra non ha fatto ricorso a eufemismi e mezze parole. In un discorso chiaro e tagliente, Mervyn King ha dichiarato che l'unica soluzione è separare a forza le divisioni depositi e risparmi degli istituti di credito dalle attività speculative a rischio, per evitare la crescita di gruppi "troppo grandi per fallire".
Le proposte di regolamentazione del settore del Governo britannico e dei leader del G20 prevedono che costringere le banche a rafforzare i loro patrimoni e sottoporle a maggiori controlli sia sufficiente a prevenire attività speculative ad alto rischio e quindi un'altra crisi finanziaria. Questa è "un'illusione", ha detto King. Secondo il governatore le banche evidentemente non hanno imparato la lezione e non hanno attuato le riforme necessarie, nonostante un livello di sostegno pubblico al settore "da togliere il respiro", una cifra vicina ai mille miliardi di sterline.
Le riforme proposte finora possono solo curare i sintomi del problema, ma per andare alle cause serve un intervento più deciso. La possibilità di sostegno pubblico andrebbe riservata alle "parti buone" delle banche che sono utili alla società, cioè al retail banking. «Incoraggiare le banche ad assumersi rischi che risultano in ricchi dividendi e bonus quando le cose vanno bene e in perdite per i contruibuenti quando vanno male distorce l'allocazione delle risorse e la gestione del rischio, - ha detto King. - E' l'azzardo morale (moral hazard) più grande della storia».
Intanto stamani un rapporto del Centre for Economic and Business Research prevede che i bonus per i banchieri della City raddoppieranno in valore quest'anno, passando a 6 miliardi di sterline dai 4 dell'anno scorso in seguito all'aumento degli utili bancari e la riduzione della concorrenza nel settore. La cifra totale dei b0nus è comunque ancora inferiore al massimo storico di 10,2 miliardi di sterline del 2007, l'anno dello scoppio della crisi finanziaria.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Beige Book: l'economia è in fase di stabilizzazione. Zoppica il mercato del lavoro

Mercoledì, 21 ottobre 2009 - 22.00 - TREND ON LINE
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Ancora segnali di stabilizzazione per l'economia americana che orma si è lasciata alle spalle la recessione, proseguendo lungo il cammino di una ripresa, che però potrebbe essere accidentata oltre che lenta. Simili indicazioni erano già emerse in occasioni dell'ultima riunione della Federal Reserve e a distanza di due settimane dal prossimo meeting vengono ribadite questa sera nel Beige Book Beige Book. Si tratta del tradizionale rapporto della Banca centrale americana che fornisce lumi sulla situazione della congiuntura a stelle e strisce. Il documento viene redatto otto volte all'anno, due settimane prima di ogni riunione della Fed, e costituisce una base su cui lavorare in ciascun meeting soprattutto con riferimento alle decisioni da prendere in materia di politica monetaria.
Nel documento di questa sera si legge che in generali, nei vari distretti oggetto di rilevazione si riscontra una stabilizzazione dell'economia, con un modesto miglioramento. A dare segnali di risveglio sono soprattutto il settore manifatturiero e quello della proprietà immobiliare residenziale. In vari distretti si registra un'erosione della qualità del credito, segnalando al contempo che l'attività bancaria è ancora titubante, a fronte di una domanda di prestiti debole o in flessione.
Il settore che mostra la maggior debolezza è quello degli immobili commerciali e in genere nel Beige Book si parla di una domanda fiacca, malgrado gli incentivi per l'acquisto di nuove auto abbiano funzionato e sortito gli effetti sperati. La spesa per consumi si conferma in ogni caso debole anche se si riscontrano dei miglioramenti in questa direzione. La fragilità dei consumi però dovrebbe essere confermata anche in occasione della prossima stagione dello shopping natalizio, ormai alle porte.
A frenare i consumi è la difficile situazione del mercato del lavoro che mostra condizioni ancora deboli o miste nei vari distretti oggetto di indagine. Del resto ricordiamo che il tasso di disoccupazione è ormai prossimo al 10% e le prospettive non sono certo incoraggianti visto che il tasso è destinato a rimanere elevato anche durante il prossimo anno. Ci sono però margini per un lieve ottimismo, visto che nel Beige Book si parla di alcuni segnali incoraggianti, basti pensare all'aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, fermo restando che ciò no dovesse alimentare facili entusiasmi.
Nel complesso si tratta di indicazioni che non aggiungono grandi novità a quando già comunicato al mercato nelle scorte settimane. Dalla lettura del Beige Book di questa sera emerge inoltre che la Federal Reserve, almeno per il momento, non dovrebbe cambiare la sua politica monetaria. I tassi di interessei rimarranno su livelli estremamente bassi ancora per lungo tempo, come ribadito in più occasioni non solo dalla Banca Centrale americana ma dallo stesso Bernanke. Nessuna sorpresa dunque dovrebbe giungere dall'incontro di politica monetaria in programma agli inizi del mese di novembre, che porterà ad una conferma del range tra lo 0% e lo 0,25% per il costo del denaro negli Stati Uniti.
Il Beige Book di questa sera non è riuscito comunque a dare sostegno a Wall Street dove i tre indici principali si sono mantenuti inizialmente in territorio positivo dopo la diffusione del documento. Nell'ultima ora di contrattazioni invece si è avuta una rapida inversione di rotta che ha portato non solo ad azzerare il vantaggio iniziale ma anche a far tornare le vendite sul mercato. I tre indici principali hanno infatti terminato gli scambi sui minimi intraday, con il Dow Jones (notizie) e l'S&P500 in calo rispettivamente dello 0,92% e dello 0,89%, insieme al Nasdaq Composite (NASDAQ: notizie) che si è fermato in area 2.150 con un ribasso più contenuto dello 0,59%. Secondo quanto argomentato nelle sale operative si tratterebbe di prese di profitto dopo i forti rialzi delle ultime giornate che hanno portato i listini su livelli decisamente importante.

 

Fonte - TREND ON LINE

 

 

 

In Cina l'economia continua a crescere: Pil a +8,9% nel terzo trimestre

22 Ottobre 2009 08:21 MILANO - Il Sole 24 Ore
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La crescita cinese è ancora aumentata nel terzo trimestre: il Pil ha raggiunto l'8,9 per cento grazie a un piano considerevole di rilancio che ha causato un boom dell'edilizia, una fiammata in Borsa e una ripartenza dei consumi delle famiglie.
Nel secondo trimestre il Pil era cresciuto del 7,9%, dopo un rallentamento, +6,1%, nel primo. La crescita nei primi nove mesi dell'anno è stata del 7,7 per cento, ha riferito oggi l'ufficio nazionale delle statistiche: il valore accumulato del Prodotto Interno Lordo nei primi nove mesi del 2009 ha quindi raggiunto i 21,78 miliardi di yuan (2,12 miliardi di euro). I responsabili si aspettano che l'economia raggiunga almeno l'obiettivo di crescita annuale dell'8 per cento.
Accelera la crescita della produzione industriale. A settembre il dato ha fatto segnare un +13,9% facendo meglio sia delle attese, che indicavano un +13,3%, sia del mese di agosto, che aveva fatto segnare un +13,3%. Complessivamente, nel terzo trimestre la produzione industriale è salita del +12,4% dopo il +9,1% del secondo trimestre.
In Cina gli investimenti in capitale fisso nelle zone urbane sono saliti del 33,3% nei primi 9 mesi dell'anno rispetto a +33,5% dei primi sei mesi. Il rialzo sui nove mesi è più forte di 5,7 punti rispetto a quello registrato nello stesso periodo del 2008. Tuttavia gli analisti evidenziano come il progresso più significativo sia legato al +52,6% degli investimenti nelle infrastrutture, segno del forte ruolo pubblico di sostegno all'economia cinese.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Quanto è "troppo" per il debito di un governo?

22 ottobre 2009 - 10:31 - di Emily Kaiser
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A chi chiede in prestito migliaia di miliardi di dollari aiuta avere una buona reputazione, introiti fissi e molti amici ricchi e fiduciosi.
Questo, in parte, spiega perchè i 1.400 miliardi di dollari di deficit Usa annunciati la scorsa settimana hanno lasciato attoniti i politici ma non hanno spaventato gli investitori, che continuano a dare denaro al governo Usa a bassi tassi di interesse.
E questo spiega anche come mai Giappone e Italia possono andare avanti con un debito superiore al Pil - mentre in passato economie di mercati emergenti come l'Argentina sono state schiacciate da indebitamenti di dimensioni simili.
Per quanto riguarda l'Italia conta poi che non sia mai andata in default dai tempi di Benito Mussolini e che appartenga al sistema dell'euro.
Secondo il Fondo monetario internazionale, il rapporto tra debito e Pil nei paesi del G7 continuerà a salire quest'anno e rimarrà probabilmente elevato almeno fino al 2012.
In parte, ciò è conseguenza della recessione: la spesa dei governi è schizzata verso l'alto nel tentativo di salvare le banche e resuscitare le economie, mentre i ricavi da tasse sono diminuiti.
I Governi cercano di trovare un magico equilibrio tra il "fare", per mettere fine alla crisi, e il "non fare", per evitare di piombare nel buco nero del debito.
"E' questo il dilemma centrale di questo periodo storico (trovare il punto d'equilibrio)", dice il segretario del Tesoro Timothy Geithner.
Una cosa comunque è certa: se i Paesi più ricchi del globo prenderanno sotto gamba il problema del debito, le conseguenze saranno gravi e gli effetti a domino.
Per gli Usa, ad esempio, i primi segni di difficoltà potrebbero tradursi in un rapido deprezzamento del dollaro, un aumento veloce dell'inflazione e un balzo dei rendimenti dei Treasuries.

 

Fonte - REUTERS

 

 

 

 

 

  Attenzione alla premiata stamperia di moneta

21 Ottobre 2009 14:19 LUGANO - di Alfonso Tuor

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La situazione attuale appare a prima vista irrealistica: le borse volano (mercoledì l’indice americano Dow Jones è ritornato sopra la quota psicologica dei 10.000 punti), i mercati dei capitali lavorano a pieno ritmo e le grandi banche internazionali hanno ripreso a registrare grandi utili nelle attività di trading che hanno originato la crisi. L’unico neo è rappresentato dai mercati dei cambi dove il dollaro e la sterlina britannica continuano a deprezzarsi.

La debolezza del biglietto verde statunitense, che è ad un passo dalla parità con il franco e prossimo a quota 1,50 rispetto all’euro, ha messo le ali all’oro e sta facendo lievitare i prezzi di alcune materie prime. Questo apparente miracolo di un mondo finanziario risorto dalle sue ceneri ha un’unica causa: l’incessante attività di stampa di moneta condotta in principal modo dalla Federal Reserve americana e dalla Banca d’Inghilterra e in misura più moderata dalla Banca centrale europea e dalla Banca Nazionale Svizzera. L’enorme quantità di capitali in circolazione a costi irrisori fornisce l’impressione che la crisi sia ormai superata.

La realtà è ben diversa. Innanzitutto questi capitali sono stati in massima parte usati per rimettere in funzione i mercati finanziari. Una parte delle perdite delle banche sono state socializzate, ossia sono ora addebitate ai contribuenti. Solo un’esigua quota della liquidità creata dalle banche centrali è stata direttamente usata per rilanciare l’economia reale. Non sorprende quindi che non vi siano chiari segnali di ripresa e che molti economisti temano che, esaurito l’effetto di queste misure straordinarie, l’economia possa ricadere in recessione.

Questo timore è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, come attestano i verbali dell’ultima riunione del Comitato direttivo della Federal Reserve, ed è avvertito soprattutto dai mercati dei cambi. La debolezza del dollaro e della sterlina può essere considerata un indicatore della convinzione che la stabilizzazione dell’attività economica degli ultimi mesi è molto fragile e che Washington e Londra continueranno a stampare moneta (come del resto hanno confermato) per tentare di rilanciare le loro economie.

E proprio in quest’ottica il deprezzamento di dollaro e sterlina è stato almeno finora assecondato dalle stesse autorità americane e britanniche e non osteggiato da Europa e Giappone (solo recentemente la Banca centrale europea ha dichiarato di temere il rialzo del valore dell’euro). Ad essere preoccupati appaiono solo alcuni Paesi del Sud-Est asiatico, che paventano di veder strangolata la propria industria di esportazione dal calo del dollaro, che comporta automaticamente anche un ribasso della valuta cinese.

I vantaggi per gli Stati Uniti del deprezzamento del dollaro non sono evidenti. La maggiore competitività dei prodotti e dei servizi americani sui mercati esteri è largamente minata dall’aumento del prezzo delle materie prime e soprattutto del petrolio e di tutti quei beni che gli Stati Uniti non producono più. Tutto ciò riduce il potere d’acquisto delle famiglie americane e rende più problematica una ripresa dei consumi. La politica del dollaro debole rappresenta un vantaggio solo se l’obiettivo della politica monetaria americana è far risorgere l’inflazione che avrebbe la virtù taumaturgica di ridurre l’ammontare del debito detenuto da famiglie, imprese e Stato federale.

Finora questo timore non è nemmeno lontanamente intravvisto dai mercati dei capitali, che sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche. Ma se i segnali di ripresa dovessero cominciare ad essere credibili, è prevedibile che immediatamente salirebbero i tassi di interesse, soprattutto quelli a medio e a lungo termine.

Si può dunque sostenere che la debolezza del dollaro sia una spia di un’economia americana in condizioni ancora molto precarie, che non ha assolutamente superato la crisi e che anzi continua ad avere bisogno di continui interventi governativi per non ricadere in recessione.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

  Venerdì 16 Ottobre 2009   Sabato 17 Ottobre 2009   Lunedì 19 Ottobre 2009  
       
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  Fare cassa e speculare

21 Ottobre 2009 06:33 LONDRA - di Mauro Bottarelli

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Fare cassa. La priorità, per il governo britannico, da qui a fine anno in attesa che inizi il conto alla rovescia per le elezioni generali, è una sola: rientrare per quanto possibile dal terribile passivo accumulato con le operazioni di salvataggio prima e stimolo dopo ed evitare la spirale del debito pubblico selvaggio.

Detto fatto, il premier britannico, Gordon Brown, si appresta ora ad annunciare un piano di cessioni di beni pubblici per 16 miliardi di sterline nei prossimi due anni, di cui 3 miliardi (4,8 miliardi di dollari) nelle prossime due settimane. Quest'ultima tranche di privatizzazioni includerà la vendita della società di scommesse Tote, la partecipazione del governo nel tunnel ferroviario sulla Manica e sul Tamigi, un portafoglio di prestiti agli studenti e la quota statale del 33% nell'Urenco, la società pubblica per l'arricchimento dell'uranio.

Le cessioni serviranno a diminuire l'indebitamento pubblico e prevedono altri 13 miliardi di sterline di vendite di beni pubblici, già indicate in un rapporto del 2007. Ma per capire come Oltremanica stiano prendendo molto seriamente la gravità di questa fase, un misto tra speranze di ripresa e potenziali ricaschi di una crisi a "w", lo si deduce dalle altre dichiarazioni di politica economica fatte dal primo ministro, secondo il quale fermare la politica di quantitative easing metterebbe in pericolo la ripresa economica. Cosa sia il quantitative easing è noto ma ripeterlo giova: si tratta di una politica per creare moneta da parte delle banche centrali attraverso l'acquisto di titoli finanziari in mano a privati e include anche la possibilità di acquistare nuovi titoli del debito pubblico da parte delle autorità monetarie.

La Gran Bretagna ha avviato un vasto programma di quantitative easing in parallelo all'allentamento dei tassi, per contrastare la crisi economica e finanziaria: «Vi è uno spartiacque fondamentale - dice Brown - nella politica britannica. C'è gente che vorrebbe che gli stimoli economici fossero ritirati subito, mentre l'economia è ancora in difficoltà e c'è gente che vorrebbe arrestare da oggi il quantitative easing, mettendo in pericolo la ripresa».

L'allarme di Brown sul ritiro degli stimoli all'economia e delle politiche di quantitative easing altro non è che una risposta alle proposte dei conservatori e in particolare a quelle del loro leader David Cameron, il quale ha detto che gli aiuti pubblici e monetari vanno rivisti «in fretta». Il leader dei Tories ha più volte detto, ultima la scorsa settimana al congresso del partito a Manchester, che la minaccia più grande per l'economia viene dal deficit pubblico, mentre Brown insiste nel mantenere gli stimoli finché l'economia non avrà mostrato chiari segni di ripresa.

Chi abbia ragione dei due, in un momento simile è difficile dirlo. Certamente le politiche di quantitative easing, a lungo andare fanno più danno che utile e la scelta di dismettere tutte le partecipazioni governative per fare cassa parla questa lingua. Dall'altra, però, resta il fatto che scommettere un po' sulla leva del debito può rivelarsi una scelta vincente se consente un consolidamento della ripresa e mette al riparo il sistema da possibili - e probabili - nuovi terremoti. Una cosa sola è certa: avere la sterlina e la Bank of England permette grande libertà e velocità di manovra, opzioni che la Bce non pare avere nel suo dna.

Detto questo, non solo da questa parte dell'oceano si comincia a pensare in maniera difensiva, ovvero di dar vita a una sorta di hedging politico della crisi. Il governo statunitense ha infatti deciso di liberarsi al più presto della sua quota in Citigroup, qualcosa di più di un terzo delle azioni del colosso creditizio statunitense e lo ha fatto cercando di sfruttare al massimo le potenzialità dell'istituto prima di lasciarlo al proprio destino. È infatti di tre giorni fa l’annuncio della vendita di Phibro, la divisione di Citigroup specializzata nel trading sul mercato del petrolio e di altre materie prime, punta di diamante del gruppo e una delle vere e proprie macchine fabbrica soldi durante il rally che portò le quotazioni del petrolio a toccare i 147 dollari nel luglio del 2008, in piena crisi e poi a disfarsi con altrettanta bravura delle posizioni quando la brusca virata dettata dal crollo della produzioni li portò a 34 dollari pochi mesi dopo.

Parlavamo di hedging politico e ora spieghiamo il perché. Phibro è stata acquistata dalla compagnia petrolifera Occidental Petroleum Corporation per soli 250 milioni di dollari, cifra che non rappresenta nemmeno gli utili di un anno di Phibro, che infatti negli ultimi cinque anni ha presentato conti in attivo mediamente di 371 milioni di dollari.

Il problema era tutto politico: primo, uno dei suoi trader riceve 100 milioni di dollari l’anno e questo in clima di caccia a speculatori e streghe finanziarie può apparire sgradevole per un governo democratico che si ritrova ad essere anche azionista. Secondo, appariva decisamente sgradevole per il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, spiegare a mercato e cittadini che il governo che rappresenta era primo azionista di uno dei protagonisti principi del mercato dei futures petroliferi e delle commodities, mercato che proprio Geithner insieme alla Sec sta cercando - almeno a parole - di regolamentare evitando la giungla delle dark pools.

Insomma, squeezes e corners poco si abbinano con il profilo da Nobel per la pace del governo democratico. Ma la Borsa è pronta a un altro rally, il mondo si prepari a un'altra bolla.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

 

 

 

Roubini: mercati a rischio se il dollaro inverte la rotta

26 Ottobre 2009 17:58 NEW YORK - ANSA
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Il dollaro ha toccato un nuovo minimo a 1,5063 dollari sull'euro da 14 mesi. Una frenata, quella del biglietto verde, che è andata di pari passo con il rally dei mercati finanziari. Una correlazione non casuale, come sostiene Nouriel Roubini, l'economista famoso per aver previsto la crisi finanziaria generata dai mutui subprime. La speculazione sulle valute - spiega l'economista in un'intervista alla televisione americana Cnbc - gioca un ruolo fondamentale nell'andamento dei mercati. Con rischi notevoli. «Quando la discesa del dollaro si fermerà - è convinto Roubini - l'inversione di marcia (ma in negativo) contagerà i mercati finanziari, dando origine a un altro pesante crac»
L'attuale rally delle Borse - è l'analisi di Roubini - è stato generato dall'enorme massa di liquidità immessa sul mercato dalla Federal Reserve, per far fronte alla stretta creditizia. I bassi tassi d'interesse hanno spinto gli investitori al carry trade (la pratica che consiste nel prendere in prestito denaro dove i tassi sono bassi per reinvestirli in valute più convenienti). Ma non solo. Molti hanno chiesto dollari in prestito a tassi zero negli Usa, per poi reinvestirli altrove. Sfruttando ad esempio il rally dei mercati emergenti (come quello cinese) o delle commodity (come l'oro e il petrolio). E con il dollaro in caduta libera, può succedere addirittura che il costo effettivo a cui si chiede in prestito il denaro finisca per essere negativo. Come dire: chiedo in prestito 100 e restituisco 90.
Questo, secondo Roubini, è uno dei meccanismi che ha dato origine al rally dei mercati di questi mesi. Ma così come si è attivato, questo sistema si può disinnescare non appena il trend ribassista del biglietto verde si interromperà. «Il dollaro non può scendere per sempre - dice Roubini - quando ci sarà l'inversione, chi finora chi ha speculato al ribasso dovrà disfarsi improvvisamente degli asset che ha acquistato, spingendo al ribasso i listini. Il perché è presto detto. Per lo stesso motivo per cui il dollaro in calo porta sotto zero il tasso effettivo di interesse, un rialzo del biglietto verde rischia di farlo risalire. E su grossi volumi questo potrebbe avere un impatto notevole.
C'è un rischio a breve termine? Secondo Roubini no. Molto infatti dipende dalle scelte dal numero uno della Fed, Ben Bernanke, sui tassi d'interesse. «Al momento - dice l'economista - sono convinto che la banca centrale terrà basso il costo del denaro per un po'». L'economia reale è ancora molto debole. La disoccupazione è alta. E il dollaro debole aiuta le esportazioni delle aziende americane. «Ma una cosa è certa, finché i tassi rimarranno a questi livelli, la speculazione non si interromperà». Come a dire, se non si troverà a breve una soluzione, la bolla rischia di gonfiarsi sempre di più.
 

Fonte - ANSA

 

 

2009, 1929 o 1999?

Monday, 26 October, 2009 at 15:20 - by John Christian Falkenberg
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Una comparazione molto di moda è quella fra gli eventi del 2007-2009 e le fasi iniziali della Grande Depressione. Un’altra crisi viene ricordata meno spesso, ma è altrettanto interessante dal punto di vista dei mercati finanziari : quella del 1998-1999.
Jeff Saut, analista a Raymond James ha individuato recentemente i paralleli fra le due crisi . Nel 1998 la Russia fece bancarotta sul proprio debito interno, l’autorità monetaria di Hong Kong fu costretta ad intervenire sul mercato, lo yen si apprezzò durante la crisi valutaria e il fondo LTCM implose negli USA. I mercati globali furono schiacciati, ma si ripresero rapidamente grazie ad un rally indotto da un’iniezione di liquidità della Fed da record e dal primo salvataggio di un’istituzione “troppo grande per fallire” (too big to fail).

 

  Parallel crash 1998 - 2007/2009  
     
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La maggior parte degli investitori rimase avversa al rischio per quasi tutto il 1999, mentre il mercato decollava in una frenesia generata dalla liquidità iniettata dalla Fed. E ’stata una delle più grandi divergenze nel comportamento tra i piccoli investitori e gli investitori professionali nella storia del mercato e verso la fine del 1999 i piccoli investitori gettarono la spugna e si precipitarono nel mercato. Sappiamo tutti cosa è successo dopo. Il rally indotto dalla Fed si rivelò del tutto effimero ed il mercato implose in maniera drammatica nel 2000, con lo scoppio della bolla delle dot-com. Vi suona familiare? Se il paragone regge, il problema maggiore per l’investitore diventa relativo ai tempi di uscita. Questo, sia che il rally sia soltanto temporaneo, sia che invece termini senza un secondo crash.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Hernando de Soto Polar: «Il diritto salverà l'economia»

26 Ottobre 2009 12:27 VENEZIA - di Marco Magrini

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Solo il diritto può salvare l'economia. Solo un sistema legale dove le transazioni vengono ufficialmente registrate, può accompagnare cinque miliardi di persone - quelli che non conoscono il diritto di proprietà - dentro i canoni dell'economia globale. «Il diritto ha avuto un'importanza fondamentale, nel creare la prosperità dal dopoguerra a oggi, un periodo durante il quale il mondo ha creato tanta ricchezza quanto nei due millenni precedenti», sentenzia Hernando de Soto Polar, l'economista peruviano spesso osannato (la Thatcher lo paragonò ad Adam Smith) e in perenne odore di Nobel. «Prendiamo l'Egitto: il suo patrimonio immobiliare è di 260 miliardi di dollari, sessanta volte quanto il Paese ha ricevuto in aiuti internazionali da quando Napoleone se n'è andato. Solo con un solido sistema legale a tutela della proprietà, la gente potrebbe ottenere finanziamenti e investire le risorse che già esistono, per far girare l'economia».

De Soto, ieri a Venezia per partecipare al Congresso nazionale del notariato, dice di non essere «per nulla convinto» che la recessione sia agli sgoccioli. Tutt'altro. Ma ha una tesi interessante. «Non credo che mille miliardi di mutui subprime abbiano innescato 60mila miliardi di perdite in un anno», confessa. «Mi colpì l'ex ministro del Tesoro Usa, Paulson, quando chiese al Congresso 780 miliardi per riformare gli asset "malati". Poi, venti giorni dopo, rivelò che quei soldi sarebbero serviti a stimolare l'economia. È andata così perché quegli asset malati non si trovavano. Non erano registrati. Per la prima volta l'economia americana, cresciuta sui princìpi legali anglosassoni, aveva creato una finanza sommersa dove i derivati (carta di carta di carta) non erano neppure tracciabili. La Sec parla di 600mila miliardi di dollari, dieci volte il Pil mondiale».

Per spiegarsi, de Soto porta un curioso esempio. «Pochi giorni dopo l'11 settembre, gli investigatori sapevano tutto sugli attentatori: alberghi, acquisti, case affittate, scuole frequentate. E sa perché? Perché il diritto di proprietà implica di tenere traccia di tutte queste cose: in Afghanistan o in Messico non sarebbe successo». Ora, il diritto di proprietà esiste nel Nord America, in Europa e in certi Paesi asiatici. «Riguarda solo un miliardo di persone - commenta de Soto, l'uomo che ha salvato il Perù dal tracollo, ai tempi del primo mandato del presidente Fujimori - a cui possiamo aggiungere 700 milioni di quelli come me: terzomondisti, ma occidentalizzati. I restanti cinque miliardi di individui non sanno chi possiede cosa».
O meglio, le tribù lungo il fiume Congo o il Rio delle Amazzoni lo sanno benissimo, ma senza uno standard legale che li protegga. Anzi, che favorisca la loro crescita economica. «Se avessero il diritto dalla loro parte, scoprirebbero che non devono più morire per difendere quel che hanno. Dopodiché, diventerebbero interessati alla giustizia. Poi ai processi legislativi. Infine, alla democrazia». Scusi, ma sotto quest'ottica, il diritto di proprietà non dovrebbe essere incluso fra i diritti umani? «Assolutamente sì», risponde Hernando de Soto, omonimo di un celebre conquistador spagnolo, che non risulta essere suo antenato. «Con Madeleine Albright, presiedo la Commissione Onu per l'empowerment legale dei poveri, dove stiamo lavorando in questa direzione».

Questo non vuol dire che il divario fra mondo ricco e povero non si stia in parte chiudendo. «I telefoni cellulari hanno fatto miracoli, nel connettere le persone in Africa. Ma tutto dipende da come si evolverà la crisi». Perché, secondo de Soto, molti nodi devono ancora venire al pettine, a cominciare da «quell'eccesso di liquidità» generato dai piani nazionali di stimolo all'economia. «Sarà l'occasione per il cambiamento», commenta. Per il resto, la storia insegna. «I giapponesi erano poveri come i peruviani - spiega - poi, dopo la guerra hanno adottato i diritti legali e oggi la loro economia è undici volte la nostra. Gli svizzeri non hanno né cacao né zucchero, ma guardi cos'hanno fatto grazie alla forza dei contratti legali». Anche l'esempio recente della Cina parla chiaro e forte.
Proprio com'è solito fare de Soto. Anche a chiedergli del Nobel di cui parlano tutti. «La parola "proprietà" è a lungo risuonata come una parola di destra. Chissà, a Stoccolma qualcuno potrebbe non gradire», risponde l'economista, che si professa «di sinistra». Anche se, negli anni delle grande riforme peruviane, ha rischiato la vita nel contrastare - con l'economia e il diritto - i guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso. Il suo libro più celebre, «El otro sendero», un altro sentiero, era un chiaro invito al suo Perù a disfarsi di quell'ideologia. E il Perù ci è riuscito.
Ma c'è un altro sentiero per l'economia del mondo globalizzato a metà? «Credo che per cambiare strada, ci voglia uno shock. Che forse arriverà. Perfino Marx e Adam Smith dicevano che la finanza doveva essere a servizio dell'economia reale. Poi, all'improvviso, ci siamo trovati davanti all'esatto contrario. Questo sì che è un sentiero da abbandonare». Per il resto, quella grande fetta di mondo senza neppure il diritto alla proprietà potrebbe un giorno entrare compiutamente nell'economia globalizzata, rivitalizzandola. Perché solo il diritto può salvare l'economia dai suoi rovesci.
L'appuntamento
Oggi pomeriggio l'economista peruviano Hernando de Soto Polar terrà una lectio magistralis al Congresso italiano del Notariato, che si apre a Venezia e proseguirà fino a sabato e che sarà trasmesso in diretta sul nostro sito.
«Il professor de Soto - commenta Paolo Piccoli, presidente del Consiglio del Notariato - da sempre applica i suoi studi per dimostrare come la formalizzazione dei diritti, lungi dall'essere un costo o un freno per lo sviluppo, costituisca un motore potente per liberare risorse economiche, finanziarie e umane anche nei paesi in via di sviluppo; ma a una condizione: che i dati immessi nei Pubblici Registri siano affidabili e certi, perché provenienti da soggetti qualificati, imparziali, controllabili e responsabili»
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Giovedì 22 Ottobre 2009   Venerdì 23 Ottobre 2009   Venerdì 30 Ottobre 2009  
       
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  La difficile guerra di Ben Bernanke sui due fronti di finanza e valute

28 Ottobre 2009 14:02 MESSINA - di *Leon Zingales

Leon Zingales, PhD in Fisica, professore al Dipartimento di Matematica, Università di Messina.

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Le fluttuazioni esistono sempre, anche in corrispondenza di uno stato di equilibrio, ma ciò che sta accadendo a livello macroeconomico ha poco a che vedere con uno stato d’equilibrio. Quando un sistema fisico è in prossimità di una transizione di fase, ossia è in procinto di cambiare il proprio stato termodinamico, esibisce fluttuazioni sempre crescenti: la cosiddetta opalescenza critica.

Al fine di salvare il sistema finanziario dall’Armageddon (almeno temporaneamente) vi è stata una gigantesca immissione di liquidità concordata da tutte le Banche Centrali mondiali, ma ciò ha determinato la creazione di tremende sollecitazioni del sistema valutario. Doppio dramma: rapido incremento dei Deficit pubblici e tremendo stress nell’interscambio valutario. Le monete risuonano: esse fluttuano in modo ormai repentino. Si badi bene non si sta parlando di Fiorino Ungherese o Lira Turca (con tutto il rispetto parlando…), bensi’ ballano il Dollaro e la Sterlina (all’interno di un trend decrescente in virtù del carry trade). I pilastri su cui si regge il mercato valutario mondiale ormai usualmente presentano variazioni percentuali nel cambio valutario superiori al 2% nel giro di poche ore.
Basti pensare alla repentina ripresa del Dollaro che, prima proiettato verso quota 1.51 è rapidamente sceso sotto 1.48. In questo particolare caso la causa è probabilmente un intervento diretto della FED che sta cercando in tutti i modi di far procedere le aste dei titoli di Stato. E’ ormai da mesi presenti una correlazione diretta tra Dollaro e mercati finanziari. Non a caso l’intervento della FED per far salire il Dollaro ha contemporaneamente determinato un evidente calo dei mercati finanziari mondiali.

La FED sta facendo una politica del bilancino: da un lato ha la necessità di continuare a far salire le borse onde diminuire la crisi di capitalizzazione delle maggiori banche, dall’altro non può far indebolire troppo il Dollaro per evitare la fuga degli investitori esteri dai TBills e continuare a finanziare il crescente deficit. Vi è un patto non scritto con le maggiori banche "too big to fail": lo Stato fornisce liquidità sottocosto al settore bancario (aumentando la solidità patrimoniale delle banche ovviamente a spesa del deficit pubblico) e le banche acquistano titoli di Stato guadagnando sul margine (ed ovviamente in parte investono nella roulette dei mercati finanziari).

Il dramma è che tale processo di flusso interno non basta: vi è la necessità che anche gli investitori esteri comprino i titoli di Stato. L’asta decennale e quella trentennale del 7 Ottobre hanno evidenziato qualche elemento di schricchiolando in quanto, malgrado i rapporti Bid-to-cover ratio si siano mantenuti nei rassicuranti valori rispettivamente di 3.01 e 2.37, relativamente agli investitori esteri (Percentage of indirect bidders) i rapporti sono stati prossimi a 1.5.

Di conseguenza la politica del bilancino è stata volta a frenare la decrescita del Dollaro e ciò ha consentito apparentemente una buona riuscita dell’asta biennale . Infatti il rapporto Bid-to-cover ratio è stato un pregevole 3.63 (contro una media di 2.96 per le aste biennali), mentre per quanto concerne gli investitori esteri ha raggiunto il valore più che accettabile di 2.1.

Ma la vera partita si gioca oggi: siamo in trepidante attesa per quanto concerne le aste a lunga scadenza, i cui risultati verrano rese note oggi. Non è detto che funzioni. Il bilancino funziona solo in presenza di piccole salite: allorchè la salita è troppo ripida si rischia di bruciare la frizione. Ho i miei dubbi che per molto tempo la FED possa continuare ad affrontare una doppia crisi: finanziaria e valutaria.
 

Fonte - xxx

 

 

 

 

 

Est Europa, meno rischi e qualche perplessità

mercoledì, 28 ottobre 2009 - Marco Caprotti
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Sarà che agli operatori è tornato un po’ di appetito per il rischio; sarà anche che le prospettive nel lungo periodo per i Paesi emergenti, come più volte ripetuto anche dagli analisti di Morningstar, nonostante i rischi di breve periodo legati alla crisi economica mondiale restano buone. Fatto sta che l’indice Msci relativo all’Europa dell’est nell’ultimo mese (fino al 26 ottobre e calcolato in euro) ha guadagnato più dell’11%, portando a +74,8% la performance da inizio anno.
“Le paure di crisi finanziaria estesa a tutta la regione si stanno esaurendo”, spiega uno studio di Rge, la società di ricerca dell’economista Nouriel Roubini. “Merito della costante presenza del Fondo monetario internazionale (Fmi), dell’aiuto dell’ovest ai Paesi che avevano più bisogno e, in generale, di una ritrovata fiducia da parte degli investitori”. Ciò non toglie che la fotografia dell’area resti di difficile lettura. Proprio l’Fmi, per esempio, per quanto riguarda l’Ucraina ha condizionato la concessione di un prestito da 3,4 miliardi di dollari alla bocciatura di una serie di riforme previdenziali e pensionistiche che potrebbero essere eccessivamente onerose per i conti dello Stato. Il programma del fondo era già stato sospeso per tre mesi dopo una serie di incertezze a livello governativo sull’utilizzo dei fondi.
Complicata anche la situazione nella Repubblica Ceca dove la fiducia di aziende e consumatori ad ottobre è ancora in territorio negativo per il dodicesimo mese consecutivo. Le previsioni del ministero ceco delle finanze parlano di una contrazione del Pil del 4,3% per quest’anno. La stima nei prossimi giorni potrebbe essere rivista, ma non sono in molti a scommettere su un suo miglioramento. Vanno meglio, invece, le cose in Ungheria dove la fiducia sull’economia ha registrato il salto maggiore da un anno a questa parte. Segno, spiegano gli economisti, che la crisi iniziata a settembre-ottobre del 2008, potrebbe aver toccato il punto più basso ed è possibile un rimbalzo.
“Certo, dei rischi nella regione ci sono ancora”, continua lo studio di Rge. “Ma sono emersi anche degli elementi positivi. La ripresa nel secondo trimestre di Francia e Germania è un segnale positivo: si tratta, infatti, di mercati chiave per l’Europa dell’est e di due ricche fonti di capitali”. Anche il rischio che il collasso della Lettonia si possa estendere ai Paesi confinanti sembra momentaneamente rientrato. “Gli investitori e i governanti degli Stati dell’area hanno avuto tempo per prepararsi a questa eventualità”, continua il report. “Il pericolo è diminuito anche grazie al fatto che i Paesi della regione si sono molto diversificati gli uni dagli altri. La Polonia, ad esempio, vanta il primato di essere l’unico membro dell’Unione europea ad aver evitato la recessione”.
Gli investitori, suggeriscono gli analisti di Roubini, dovrebbero fare attenzione al comparto bancario dell’Europa dell’est. “Molti istituti hanno in cassa un gran numero di crediti inesigibili”, spiegano. “Nella maggior parte dei casi, si tratta di banche controllate da istituzioni dell’ovest che subirebbero il contraccolpo di un eventuale peggioramento della situazione nella regione. Per assorbirlo, potrebbero decidere di chiudere ancora una volta il rubinetto dei prestiti”.
 

 

Asia al traino della Cina

mercoledì, 28 ottobre 2009 - xxx
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Asia al traino della Cina
Marco Caprotti - mercoledì, 28 ottobre 2009 - 16:33 MORNINGSTAR
La corsa dell'Asia continua. L'indice Msci della regione (Giappone escluso), nell'ultimo mese (fino al 28 ottobre e calcolato in euro) ha guadagnato più del 2%. Nello stesso periodo, il paniere principale World è cresciuto dello 0,55%.
La performance della regione, tuttavia, non è storia delle ultime quattro settimane. Il rimbalzo, infatti, dura dal secondo trimestre di quest'anno. Merito, spiegano gli analisti, delle aggressive politiche monetarie e fiscali messe in campo dai Paesi dell'area che sono stati in grado di compensare il calo della domanda. Una migliore gestione dei magazzini, invece, è riuscita a rispondere alla discesa della produzione industriale.
I grandi numeri mostrati dall'Asia, come al solito, sono etichettati . Bank of Communication, la quarta banca del Paese del Drago, ha comunicato che nel terzo trimestre ha avuto un utile netto di 7,32 miliardi di yuan (quasi 1 miliardo di euro). Una crescita dell'1,5% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, appena al di sotto delle attese degli analisti. Merito, sostanzialmente della ripresa dell'economia che, nel trimestre di riferimento, ha avuto un'espansione vicina al 9% che ha portato con se una maggiore richiesta (e concessione) di crediti alle imprese. Per gli stessi motivi la rivale China Construction Bank ha avuto un utile per oltre 30 miliardi di yuan riuscendo, in questo caso, a superare le attese degli operatori.
Il buono stato di forma del Paese asiatico è stato confermato da China Investmment Corporation. Il fondo sovrano del Regno di mezzo ha comunicato di avere a disposizione l'equivalente di 110 miliardi di dollari per fare investimenti all'estero. Soprattutto per entrare nel capitale di società legate alle materie prime. Un modo sicuro per proteggersi contro l'aumento dell'inflazione che una crescita accelerata rischia di portarsi dietro.
Il punto, adesso, è capire se la crescita dell'intero continente asiatico potrà continuare e con quali ritmi. “I diversi Paesi della regione si trovano a che fare con una debole domanda interna e una contrazione delle esportazioni”, spiega uno studio di RGE. “Due elementi che le politiche di emergenza messe in campo dagli stati dell'area non potranno compensare ancora a lungo”.
Secondo i dati della società di analisi, la regione asiatica nel 2009 crescerà del 4,9% nel 2009 e del 6,6% nel 2010. “L'anno prossimo l'effetto delle politiche fiscali ed economiche tenderà a scemare”, continua lo studio. “A quel punto il futuro della regione dipenderà dall'andamento delle esportazioni verso le economie più sviluppate e dal livello dell'appetito per il rischio degli investitori”.

 

Fonte - Morningstar

 

 

La stretta che viene da Oriente

October 28th, 2009 - EPISTEMES.ORG
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Come riporta Bloomberg, la banca centrale indiana ha ordinato ai prestatori di aumentare il cosiddetto statutory liquidity ratio, una sorta di ibrido tra coefficiente di riserva obbligatoria e vincolo di portafoglio a carico delle banche, portandolo dal 24 al 25 per cento. Ma l’India non è il solo paese a mettere mano a misure di ritiro parziale della formidabile espansione monetaria attuata negli ultimi due anni. Anche altre autorità monetarie della regione Asia-Pacifico stanno muovendosi, dopo l’aumento dei tassi ufficiali adottato giorni addietro dalla Reserve Bank of Australia, per contrastare il deterioramento delle partite correnti e la crescita di occupazione indotte dalla ripresa.
Il problema maggiore, per la regione asiatica, è al momento quello di contrastare lo sviluppo di bolle immobiliari indotte dal livello eccezionalmente basso dei tassi d’interesse e dalla enorme liquidità presente nel sistema finanziario globale. Per il momento, tuttavia, in luogo di aumenti espliciti dei tassi d’interesse, che rischiano di causare l’effetto perverso di un afflusso di “denaro caldo” in cerca di remunerazione, ed esacerbare la rivalutazione delle valute locali (peraltro già molto marcata contro dollaro e yuan), si preferisce optare per misure alternative e prevalentemente amministrative di razionamento del credito.
Tra tali misure alternative di raffreddamento del mercato immobiliare si segnala la stretta sul limite massimo d’indebitamento (il loan-to-value ratio, LTV). Ad Hong Kong, ad esempio, il LTV su case di lusso è stato ridotto dal 70 al 60 per cento. Ciò significa che gli acquirenti devono disporre di mezzi propri pari almeno al 40 per cento del valore dell’immobile. Inoltre, l’autorità governativa ha sospeso l’assicurazione pubblica per prestiti su immobili non occupati dal proprietario. A Singapore, il governo ha vietato i prestiti che prevedono solo la corresponsione d’interesse per un periodo di tempo protratto. In Sud Corea il regolatore finanziario prevede una stretta al credito alle famiglie erogato da entità non bancarie, ed ha tagliato il LTV al 50 per cento. In Cina, dopo l’ubriacatura di credito facile dei mesi scorsi, le autorità hanno ordinato alle cinque maggiori istituzioni creditizie di aumentare gli accantonamenti per i bad loans e rafforzare i coefficienti patrimoniali.
Le prossime settimane e mesi vedranno un tentativo di normalizzare le condizioni monetarie e di prevenire, nei limiti del possibile, nuove bolle speculative. Ogni paese o area valutaria adotterà le soluzioni più idonee alla congiuntura, o almeno questo è l’auspicio, il tutto nella grande incognita relativa a tempi e modalità della ripresa americana. Per l’Area Euro il problema si porrà nel momento in cui si manifesteranno velocità differenziate di crescita economica. Al momento, la Francia pare nelle migliori condizioni congiunturali, come evidenziato dalla survey di ottobre degli indici dei direttori acquisti.
La Francia potrebbe diventare (o ridiventare) il paese consumatore d’Europa, e produrre un deficit delle partite correnti utile per dare una piccola spinta ai partner di Eurolandia. Ma non è tutto roseo. In un simile scenario (ed in ogni altra ipotesi di grande paese che cresce più della media europea), la Banca Centrale Europea verrebbe posta di fronte ad un dilemma di politica monetaria: se lascia i tassi invariati, il paese che cresce di più, e che sperimenta una ripresa inflazionistica, vedrebbe la propria crescita drogata da tassi d’interesse reali negativi, che condurrebbero ad un boom dei consumi e del credito. E’ il temuto scenario di bolla creditizia irlandese e spagnola, che dovrebbe essere gestito dal paese interessato, ricorrendo ad una stretta fiscale. Se la Bce decidesse invece una stretta monetaria per contrastare la crescita eccessiva di alcuni paesi, danneggerebbe l’economia di paesi in ritardo nella ripresa, come rischia di essere il nostro.

 

Fonte - EPISTEMES.ORG

 

 

 

 
 

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