Economia:
apocalittici e ottimisti
29 Settembre 2009
01:18 MILANO - di *Alessandro Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist
di Abaxbank
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La settimana scorsa avevamo scritto che aspettavamo
al varco i denunciatori di bolle. Pensavamo che sarebbero
entrati in agitazione con l’SP 500 a 1200, quindi fra
qualche mese. Ecco invece farsi avanti Crispin Odey, un
importante gestore di fondi hedge, che con l’S&P 500 a 1060
ci informa che già adesso stiamo entrando in una bolla. Odey
è uno che spara sempre cannonate, un gioioso apocalittico
che non conosce il basso profilo. L’anno scorso ha fatto un
sacco di soldi. Fa il matto ma non è un matto. E’ tesoriere
del partito conservatore britannico, il massimo
dell’Establishment.
Le varie denominazioni apocalittiche hanno abbandonato
l’idea della replica integrale della Grande Depressione e
cioè di altri due tre anni di caduta verticale. Da giugno
luglio, più o meno, si sono assestate sul tema del double
dip, la ricaduta. Ma anche da questa linea hanno dovuto
arretrare. Il double dip, prima altamente probabile, è oggi
visto da Krugman e Roubini come una possibilità da non
escludere.
Per dirla tutta, il double dip è, per chi lavora nel campo
minato del forecasting, una previsione facile facile, di
quelle che consentono di avere sempre ragione. Come ha detto
Adam Posen, qualche forma di double dip ci sarà di sicuro.
Ora cresciamo a una velocità in accelerazione. Prima o poi
la crescita rallenterà e voilà, diremo tutti quanti, vi
avevamo avvertito.
I double dip sono però oggetti ambigui. Un conto è dire che
da una velocità annualizzata del 4 per cento passeremo al 2
per cento verso la fine del 2010. Un altro conto è
ipotizzare una nuova recessione, magari più leggera di
quella tremenda da cui siamo usciti in giugno ma sempre
recessione. Per tutto il 2003 e 2004 Stephen Roach (allora
capo economista di Morgan Stanley) tuonò ogni giorno, con la
sua prosa incalzante e brillante, contro la ripresa a suo
dire effimera dell’economia e dei mercati. Centinaia e
centinaia di pezzi scritti benissimo, non ce ne perdemmo
uno, in cui le argomentazioni di scuola austriaca portavano
invariabilmente a conclusioni che oscillavano tra il grigio
scurissimo e il nero più cupo e desolato. Dopo la lettura si
rimaneva spesso a fissare il vuoto. Ci voleva qualche minuto
per riprendersi.
Per tutto il 2003 e 2004 molti gestori in tutto il mondo si
persero la prima metà dell’imponente bull market (che portò
l’S&P 500 da 800 a 1550) perché temevano il double dip. Gli
italiani ci aggiunsero anche il 2005, per via di Parmalat,
Cirio e Argentina.
Non ci si dica che la Grande Recessione del 2008-2009 ha
dato pienamente ragione ai doubledippers. L’ha data in parte
e cinque anni dopo. A oggi, dopo tutto quello che è
successo, il Pil mondiale è del 15 per cento più alto che
nel 2003. Perfino l’azionario, a sfracello avvenuto, è oggi
del 10 per cento più alto rispetto ai tempi dei primi severi
ammonimenti sul double dip.
Le scuole austroapocalittiche, negli ultimi mesi, hanno
messo le mani avanti sulla ripresa. Hanno detto che, dovesse
l’economia inopinatamente riprendersi (poco e per breve
tempo, naturalmente), il prezzo da pagare sarebbe
l’iperinflazione.
Il ragionamento era (é) questo. Le banche sono piene di
liquidità presso la banca centrale (frutto degli scriteriati
acquisti di titoli con creazione di moneta da parte della
Fed). Ai primi segni di ripresa le banche si precipiteranno
a ritirarla per prestarla in giro. A quel punto
l’inflazione, ora nascosta, esploderà.
Due obiezioni. La prima è che c’è in giro talmente tanta
capacità inutilizzata (uomini disoccupati, macchinari fermi,
case sfitte e palazzi per uffici vuoti) che prima di creare
inflazione passeranno degli anni. La seconda è che se si
ipotizza (come fanno loro, ma anche molti altri) una ripresa
debole, senza occupati, senza investimenti e con pochi
consumi non si vede a chi le banche riusciranno a prestare i
soldi che ritireranno dalla Fed.
Ecco allora che le scuole apocalittiche abbandonano la tesi
dell’iperinflazione (e dei conseguenti crollo dei bond e
zimbabwizzazione globale) e passano con scioltezza all’idea
dell’asset inflation. Le banche insomma ritireranno pochi
soldi per finanziare la crescita ma ne ritireranno tanti per
alimentare orribili speculazioni su materie prime e azioni.
E già le vediamo all’opera.
Vedremo. Per adesso proviamo a vedere rapidamente se è così
vero che le azioni siano già care. Guardiamo separatamente
margini, valutazioni e sentiment. I margini, ovvero quanti
dollari di profitto si riescono a portare a casa ogni 100 di
vendite. Ricordiamo che dopo la crisi precedente, dopo
Internet, si giurò tutti quanti che i margini record degli
ultimi anni Novanta non si sarebbero rivisti mai più. Due
anni dopo si rividero e poi continuarono a crescere.
In questa crisi, se escludiamo le banche, il punto minimo
dei margini è stato più alto del punto più alto di tutti gli
anni Ottanta e Novanta. Ora i margini sono già in rapida
ripresa. Tagliando i costi con ferocia mai vista le imprese
hanno alzato la leva operativa. Basterà cioè un modesto
aumento delle vendite per generare un ampio recupero dei
margini.
Il sentiment. Si sostiene da più parti che i mercati sono
pericolosi perché tutti sono positivi. In realtà non si
vedono segnali di posizioni sbilanciate. Chi compra rivende
presto, si congratula con se stesso e si ritrova scarico
come prima, senza sapere bene che cosa fare con i soldi.
Dopo un po’ ricomincia. Non si vede, insomma, quell’accumulo
progressivo di posizioni che appesantisce i portafogli e li
rende vulnerabili. Ecco perché i reversal sono rari e
superficiali. Il sentiment, d’altra parte, è fatto di cose
che si pensano, di cose che si dicono e di cose che si
fanno. Alla fine contano solo queste ultime.
Secondo JP Morgan ci sono nel mondo in questo momento 115
trilioni investiti in cash e bond e solo 35 in equity. Dei
115 ben 46 sono in cash a tasso zero e hanno davanti mesi e
mesi di siccità totale. Una parte cercherà sollievo nei
bond, che avranno quindi un solido supporto e possibilità
concrete di ulteriori apprezzamenti, ma qualcosa, dai bond,
si spingerà verso l’equity.
Le valutazioni. Ci sono metriche che abbiamo sempre
giudicato strampalate, come il cosiddetto "Fed model", che
danno livelli altissimi per l’S&P 500. Anche le versioni più
moderate, quelle che confrontano l’earnings yield con il
rendimento delle obbligazioni di qualità più bassa danno
livelli molto alti, ma anche qui diffidiamo, in particolare
in una fase di tassi eccezionalmente bassi.
Per contro, indicatori più seri come il Dividend Discount
Model, la Q di Tobin (il valore di borsa confrontato con il
costo di ricostituire l’impresa da zero) o il P/E di Shiller
(un P/E che tiene conto della fase del ciclo in cui ci si
trova) mostrano che i livelli del mercato sono equilibrati.
Guardando al 2010 David Kostin di Goldman Sachs ipotizza
utili operativi di 75 dollari per azione sull’S&P 500. A
1070 il mercato applica un multiplo perfettamente
ragionevole di 14. Se poi, senza nessuna pretesa di rigore,
facciamo per divertimento un confronto tra il 1070 di oggi e
il 1070 della primavera del 1998 (un anno attraversato dalla
crisi asiatica) scopriamo cose interessanti.
Il Pil nominale americano era allora di 8.8 trilioni, oggi è
di 14.1. Il prezzo delle case, con il crollo che c’è appena
stato, è salito da allora del 49 per cento. Gli utili per
azione dell’S&P 500erano di 44 dollari e l’anno prossimo,
secondo le stime che abbiamo visto, potrebbero arrivare a
75. Il valore di libro dell’S&P 500 era allora di 254
dollari ed è oggi di 580. Solo l’S&P 500 appare invariato
rispetto a 11 anni fa. In conclusione, posizioni
sottopesate, capacità intatta di ricostituire margini più
alti e valutazioni ragionevoli portano a ritenere
assolutamente prematuro qualsiasi richiamo all’idea di
bolla. Chi lo fa ci appare francamente bollofobico.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero |
Il
futuro del dollaro
October 1st, 2009 - di
Mario Seminerio
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Per molto tempo gli
investitori si sono indebitati ed hanno venduto
massicciamente lo yen giapponese, utilizzando il ricavato
per acquisire asset ad alto rendimento. Questa strategia,
denominata “carry trade”, ha prodotto elevati ritorni fin
quando la crisi economica non ha sconvolto le scommesse
degli investitori, spingendoli a ricomprare lo yen e
chiudere le posizioni.
Oggi, alcuni
osservatori ritengono che gli investitori sarebbero tentati
di rimettere all’opera il carry trade, utilizzando questa
volta il dollaro come veicolo di finanziamento. Ciò
spiegherebbe parte dell’indebolimento sofferto recentemente
dalla divisa statunitense, oltre a suggerire ulteriore
pressione ribassista per il futuro. Nel mercato valutario,
le divise di
finanziamento tradizionalmente sono quelle a basso tasso
d’interesse e bassa volatilità. Mentre il primo requisito è
intuitivo, il secondo è necessario perché la volatilità del
cambio può spazzare via il differenziale sul quale gli
investitori contano per realizzare un profitto.
Per questi motivi lo
yen ha a lungo goduto della preferenza degli investitori. La
divisa giapponese è stata caratterizzata da tassi
persistentemente prossimi allo zero, mantenuti tali dalla
Bank of Japan nel tentativo di stimolare l’economia. Le
stesse condizioni starebbero verificandosi oggi per il
dollaro. Alla
fine di agosto, per la prima volta dopo sedici anni,
indebitarsi in dollari è divenuto più conveniente che farlo
in yen giapponesi. I bassi tassi statunitensi, oltre
alla profondità e liquidità del mercato del dollaro,
renderebbero quindi la valuta statunitense attraente ai
trader che volessero usarla come base per il carry trade.
La Fed intende mantenere i tassi a zero per il prossimo
futuro, e non ha alcuna fretta di procedere sulla strada
della normalizzazione delle condizioni monetarie, anche
perché l’evoluzione della congiuntura appare particolarmente
incerta, pur in presenza di una sostanziale stabilizzazione
delle condizioni di attività.
Inoltre, il fatto
che il dollaro appaia in protratto trend ribassista (anche
per l’esigenza di riequilibrare il deficit delle partite
correnti e compensare con l’export la minore domanda dei
consumatori), ne accresce l’attrattività come veicolo di
finanziamento.
Non tutti però concordano circa la fattibilità dell’utilizzo
del dollaro in queste operazioni. Le prospettive dello yen
come veicolo di finanziamento sembrano essere diventate
problematiche dopo l’affermazione elettorale del Partito
Democratico, che vorrebbe modificare il modello economico
del paese (da uno orientato all’export ad un altro a favore
della domanda interna), e non sarebbe quindi contrario
all’ipotesi di progressivo rafforzamento del cambio,
eventualità che è ovviamente l’ultima cosa che un carry
trader desidera.
La persistenza del trend di rafforzamento dello yen non è
tuttavia universalmente data per scontata. Secondo alcuni
analisti, tale tendenza avrebbe tratto alimento
dall’attività di rimpatrio dei profitti in agevolazione
d’imposta, in scadenza questo semestre fiscale (il 30
settembre), mentre i
recenti commenti del neo-ministro giapponese delle Finanze,
Hirohisa Fujii, inizialmente interpretati dal mercato come
non opposizione ad un movimento di rivalutazione, e
successivamente corretti nella più blanda decisione di
contrastare movimenti troppo rapidi sul mercato dei cambi,
hanno finito solo con l’iniettare volatilità nel cambio
yen-dollaro.
Secondo alcuni
osservatori, l’interesse per lo yen come veicolo di
finanziamento potrebbe presto riemergere, soprattutto alla
luce della forte debolezza mostrata dall’economia del paese,
che è la conseguenza di una tasso di crescita fortemente
inferiore a quello potenziale (il cosiddetto output
gap), che sta manifestandosi anche con il rilevante tasso di
deflazione del paese: in agosto l’indice dei prezzi al
consumo core, cioè al netto degli alimentari freschi, è
stato pari a meno 2,4 per cento tendenziale.
La valuta
statunitense sta oggi subendo la pressione di un consenso
quasi plebiscitario in favore del suo indebolimento e ciò
potrebbe, nel breve termine, determinare movimenti di
recupero piuttosto bruschi, spesso innescati da quelli che
appaiono poco più che “pretesti”. Ad esempio come
quelli causati dalle recenti dichiarazioni di un membro
della Banca centrale russa, che ha indicato che il proprio
paese intende mantenere un peso di circa il 30 per cento ai
Treasuries nella composizione delle riserve valutarie russe.
Il rally dei mercati azionari, con l’indice MSCI World
cresciuto di quasi il 70 per cento dai minimi dello scorso
marzo, ha contribuito a rafforzare l’appeal del carry trade.
A sua volta il dollaro australiano, un beneficiario del
carry trade che si muove in tandem con i mercati azionari, è
cresciuto del 23 per cento contro dollaro, beneficiando
anche delle condizioni macroeconomiche del paese, che appare
uscito dalla recessione e la cui banca centrale presto
potrebbe iniziare un ciclo di restrizione monetaria.
I carry trade, che
(non bisogna dimenticarlo), sono uno dei prodotti della
disponibilità di credito a buon mercato, tendono ad avere
una vita media più breve di quanto comunemente si creda, ed
un protratto ribasso dei corsi azionari, come potrebbe
accadere ove la crescita degli utili dovesse rivelarsi
inferiore a quanto attualmente prezzato dai mercati,
potrebbe ridurne l’attrattività.
Altro elemento di potenziale controindicazione all’utilizzo
del dollaro come veicolo di carry trade è dato dal ruolo di
valuta-rifugio che la divisa statunitense continua a
rivestire durante periodi di crisi geopolitiche.
In sintesi,
nell’ambito di una tendenza macroeconomica di medio termine
che vede il dollaro orientato al deprezzamento per
riequilibrare gli squilibri macroeconomici, l’”ipotesi carry
trade” potrebbe determinare accelerazioni nel movimento di
deprezzamento del dollaro, fino ad un allontanamento dai
fondamentali, e produrre quindi fasi di accentuata
volatilità sui mercati valutari.
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Fonte -
Epistemes.org |
Stati Uniti,
l’economia sta già perdendo slancio?
Thursday, 1 October, 2009 at 18:10 -
by phastidio ______________________________________________
Il dato sui redditi personali di agosto mostra un incremento
dello 0,2 per cento, 0,1 per cento oltre le attese. Le spese
per consumi personali sono aumentate dell’1,3 per cento, 0,2
per cento in più del consenso, con il maggior incremento
(5,3 per cento mensile) realizzato dalla categoria dei beni
durevoli, un effetto del programma di rottamazione auto
“cash for clunkers“. Il deflatore dei prezzi delle spese per
consumi personali è cresciuto dello 0,3 per cento mensile.
Di conseguenza, le spese personali reali sono aumentate
dell’1 per cento mensile, mentre il reddito reale personale
è calato nel mese dello 0,1 per cento. A causa dell’effetto
una tantum di spinta ai consumi personali e di redditi
nominali in moderato incremento, il tasso di risparmio è
sceso dal 4 al 3 per cento. Nei mesi prossimi, in assenza di
circostanze straordinarie come la rottamazione delle auto, è
prevedibile che il risparmio torni a crescere, mentre la
difficile situazione del mercato del lavoro (vedi oltre) non
depone a favore di uno sviluppo dei consumi.
Dal versante dell’occupazione, il dato di oggi sui sussidi
di disoccupazione, aumentati la scorsa settimana di 551.000
unità, è peggiore rispetto alle stime di consenso, oltre ad
essere decisamente troppo elevato per un’economia che si
trova nel ventiduesimo mese di recessione. Ieri, il dato
degli occupati nel settore privato, realizzato dalla società
specializzata ADP, ha evidenziato una distruzione netta di
254.000 impieghi nel mese di settembre.
Oggi è stato reso noto anche il dato dell’indice ISM
manifatturiero di settembre, che ha evidenziato una
prosecuzione dell’espansione, avendo fatto segnare un
livello di 52,6. Tuttavia, si registra una lieve
decelerazione rispetto al passo dell’attività di agosto,
quando l’indice aveva registrato un valore di 52,9, e
soprattutto il dato odierno è peggiore delle stime di
consenso, che ipotizzavano un’accelerazione della crescita,
al livello di 54 (ricordiamo che valori dell’indice
superiori a 50 indicano espansione). A livello disaggregato,
la componente riferita ai nuovi ordini perde 4 punti, a
60,8, ancora in confortevole espansione. Gli ordini
arretrati aumentano di 1 punto, e per il terzo mese
consecutivo. Gli ordini all’export calano di mezzo punto, ma
restano prossimi al massimo da agosto 2008. Le scorte,
componente chiave che dovrebbe guidare il rimbalzo del Pil
nel terzo trimestre, crescono di ben 8 punti ed al massimo
da ottobre 2008 ma, al livello di 42,5, stanno ancora
contraendosi.
In sintesi, lo slancio della manifattura resta per ora
intatto ma, venuti meno alcuni degli eventi eccezionali che
vi hanno contribuito, l’economia si trova a rischio per il
quarto trimestre, mentre per il terzo resta un consenso di
crescita annualizzata del Pil del 3 per cento circa. Le note
dolenti vengono, come detto, dal mercato del lavoro, la cui
emorragia prosegue. Ciò significa che il consumatore
americano, malgrado il soprassalto di vitalità “a credito”
(tanto per cambiare) del terzo trimestre, già dal quarto
trimestre tornerà a ripiegarsi su sé stesso. L’aspetto più
inquietante di questa congiuntura è che la dinamica dei
licenziamenti sta rallentando, sia pure in forte ritardo
sulla ripresa dei livelli di attività, ma le dinamica delle
nuove assunzioni resta straordinariamente muta.
Resta da vedere se Wall Street deciderà anche questa volta
di ignorare i dati macro, quando non particolarmente
favorevoli.
Fonte
- Macromonitor
DALLA EXIT ALLA
WAITING STRATEGY
04 Ottobre 2009 23:20 NEW YORK -
ASCA ______________________________________________
La disoccupazione cresce e la domanda cala. Nessun governo
vuole prendersi la responsabilita' di ridurre il sostegno
pubblico all'economia di fronte a un quadro ancora
incertissimo.
Le speranze giungono dalle previsioni formulate dal Fondo
Monetario Internazionale. Frena la caduta dell'economia
mondiale, quest'anno il Pil potrebbe fermarsi a -1,1%
rispetto a -1,4% delle precedenti stime. Decisamente piu'
roseo lo scenario del 2010, crescita economica a +3,1%.Volge
al bello anche il Superindice economico dell'Ocse distante
solo 2 punti da quota 100, la soglia dove l'economia ritorna
sul sentiero d'espansione. Ma sulla qualita' e sulla durata
della ripresa e' nebbia fitta. Banche centrali e governi
ritengono che sara' molto lenta.
Jean Claude-Trichet, presidente della Bce, ha parlato di un
'''percorso molto accidentato''. Diversi uffici studi non
escludono che l' Eurozona e gli Stati Uniti possano
registrare nel terzo trimestre una variazione leggermente
positiva del Pil, insufficiente pero' ad invertire il trend
crescente della disoccupazione. Negli Usa, il tasso di
disoccupazione e' salito a settembre al 9,8%, il top degli
ultimi 26 anni. L'economia a stelle strisce continua a
bruciare 250 mila posti di lavoro al mese, molto meno dello
scorso autunno quando si viaggiava a quota 700 mila, ma
sempre tanti per sperare in un rilancio dei consumi privati.
La spesa per consumi e' il vero volano dell'economia Usa
poiche' rappresenta il 75% del Pil americano.
Per ora, pero', i cittadini americani pensano soprattutto a
risparmiare. Nel mese di agosto, ultimo dato disponibile,
hanno messo da parte il 3% del reddito disponibile. Nel
primo trimestre del 2008, dunque alla vigilia della
recessione, risparmiavano solo lo 0,2%. Per gli economisti
di Pimco, il numero uno mondiale nel comparto dei bond, gli
americani quest'anno potrebbero risparmiare fino all'8% del
reddito disponibile tornando sui livelli del 1992, anche
quello anno di recessione.
Nell'Eurozona il tasso di disoccupazione viaggia al 9,6%, il
massimo storico nella breve storia dell'unione monetaria, ma
potrebbe salire oltre il 10% nel 2010. Si tratta di numeri
che ostacolano una rapida ripresa dei consumi. Non a caso il
vertice dell'Ecofin di Goteborg ha ribadito la necessita' di
mantenere in piedi le misure anticrisi decise dai governi
nazionali. Per l'auto gli incentivi potrebbero essere
prorogati al 2010, un modo per sostenere la domanda di
consumo di beni durevoli e cercare di salvare posti di
lavoro. Anche a Washington, l'amministrazione Usa non ha
manifestato alcuna intenzione di ritirare il forte sostengo
pubblico all'economia.
Nei fatti, sulle due sponde dell'Atlantico si parla di '''exit
strategy'', la strategia di uscita dalla crisi, ma si
pratica la '''waiting strategy'', la strategia dell'attesa
di tempi migliori. Nessuna cancelleria vuole prendersi la
responsabilita' di ridurre il sostegno pubblico all'economia
di fronte a un quadro ancora incertissimo. Sia a Bruxelles e
sia Washington, in presenza di disoccupazione crescente e
calo della domanda domestica, sperano in una ripresa
dell'export. Un oggetto del desiderio che potrebbe creare
qualche frizione.
Dall'inizio dell'unione monetaria, il cambio nominale
effettivo dell'euro sulle 21 principali valute
dell'interscambio commerciale tra Eurozona e resto del mondo
si e' rivalutato del 24%, nel paniere c'e' anche il
biglietto verde.
Sull'apprezzamento dell'euro '''ne parleremo al prossimo
G7'', ha detto Joaquim Almunia, commissario Ue agli affari
economici e monetari. Nel diario della crisi fa capolino la
questione del tasso di cambio. Forse, si teme che alcuni
paesi, per compensare il deficit di domanda interna, possano
spingere l'export con svalutazioni competitive.
Fonte
- ASCA
Davvero l’Asia
ci salverà dalla crisi?
October 5th, 2009 by editor -
Mario Seminerio ______________________________________________
I dati sull’occupazione statunitense nel mese di settembre,
pubblicati venerdì scorso, mostrano soprattutto la
preoccupante persistenza del deterioramento del mercato del
lavoro. Il numero di impieghi distrutti sta rallentando, ma
quello delle ore lavorate continua ad essere prossimo ai
minimi storici. Quando la domanda riprende, le aziende
dapprima ricorrono all’aumento delle ore lavorate, e solo in
un momento successivo a nuove assunzioni. In questo senso il
numero di ore lavorate rappresenta un indicatore
anticipatore della congiuntura, mentre i tradizionali dati
sul numero di occupati e disoccupati sono indicatori
differiti.
I dati della scorsa settimana confermano che il sistema
produttivo può ancora fare a meno di accrescere gli
organici. Oggi si distruggono meno impieghi ma ancor meno se
ne creano. Ecco la spiegazione di dati settimanali sui
sussidi di disoccupazione ancora così elevati, a ben
ventidue mesi dall’inizio ufficiale della recessione.
In questo contesto, le imprese americane hanno ristrutturato
pesantemente gli organici: il numero di ore lavorate è
crollato rispetto al prodotto aziendale, e ciò si traduce in
un forte aumento di produttività e nella riduzione della
leva operativa, cioè del punto di pareggio economico in
rapporto ai volumi prodotti. In altri termini, le imprese
stanno ponendo le basi per forti incrementi di redditività a
fronte di variazioni anche contenute della domanda. La grave
condizione del mercato del lavoro ha evidenti riflessi sul
credito: aumento delle insolvenze e dei fallimenti
individuali e d’impresa e minore capacità delle banche a
prestare, dovendo preoccuparsi soprattutto di utilizzare i
margini per accantonamenti a perdite su crediti.
Ci sono quindi buoni motivi per ritenere che il National
Bureau of Economic Research (NBER), l’organismo indipendente
che ha il compito di datare le fasi recessive, attenderà
almeno la stabilizzazione del mercato del lavoro prima di
dichiarare finita la recessione. E potrebbe volerci del
tempo.
Storicamente, l’economia statunitense è uscita dalle
recessioni per mano della spesa dei consumatori e
dell’investimento immobiliare residenziale. Oggi, questi due
motori di crescita sono spenti: il consumatore, dopo il
soprassalto indotto dal programma di rottamazione auto, che
ha anticipato flussi di acquisto futuri, è destinato a
riprendere l’aumento del tasso di risparmio, per ripagare i
debiti; il mercato immobiliare, che mostra i primi segni di
stabilizzazione, è gravato da un imponente stock di case
pignorate dalle banche a mutuatari insolventi e non ancora
poste in vendita, per evitare ulteriori crolli dei prezzi.
Su tutto, il reddito personale appare minacciato dalla crisi
del mercato del lavoro, in un circolo vizioso molto
pericoloso.
Difficile pensare che l’Asia e il Sudamerica guidato dal
Brasile possano trasformarsi oggi nella locomotiva del
pianeta: le dimensioni delle economie cinese ed indiana
ancora non lo consentono, mentre la trasformazione del paese
del Sol Levante da esportatore in consumatore, prevista dal
programma del Partito Democratico, appare destinata a
infrangersi contro una realtà fatta di invecchiamento della
popolazione e crisi fiscale.
Ma una tendenza sembra sempre più affermarsi: il baricentro
della crescita globale sta lentamente ma inesorabilmente
spostandosi sempre più verso l’Est ed il Sud del pianeta.
Nei prossimi anni il Nord-Ovest dovrà compiere una profonda
(e dolorosa) riflessione sul proprio futuro e sulla propria
organizzazione sociale. Fonte
- Liberal Quotidiano
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Geithner:
le banche fanno lobby Devono accettare nuove regole
05 Ottobre 2009 14:16
ISTANBUL - di Il Sole 24 Ore
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ISTANBUL – Il cerchio è chiuso. Dopo Pittsburg e Istanbul,
dopo il G20 che ha cambiato gli assetti economici globali e
dopo le riunioni di Fondo, Banca Mondiale e G7 che hanno
ratificato i cambiamenti con la membership multilaterale al
completo, il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner,
in un'intervista esclusiva per l'Italia con Il Sole 24 Ore,
riflette sull'«epoca nuova» che, dice, «si apre davanti a
noi». Passare dalla teoria alla pratica ora è difficile.
Difficile perché molte questioni riorganizzano di fatto gli
equilibri di potere, fra paesi e istituzioni. E perché da
molte parti spuntano critiche e resistenze.
Ci sono i rischi che si aprono per il sistema e per i
consumatori, soprattutto se le azioni di stimolo adottate
finora avranno le gambe corte e se il passaggio a una
"crescita sostenibile", come appare dall'andamento
occupazione in America, risulterà faticoso. Ci sono le
banche che dovranno accettare le nuove regole e i nuovi
limiti - molto pochi in realtà stando ai critici - nel loro
stesso interesse: quello di restituire la fiducia al
mercato, dice Geithner. E ci sono infine le istituzioni
multilaterali che dovranno aprirsi ai paesi emergenti e
cambiare le gerarchie su cui ha poggiato l'ordine
internazionale fino alla crisi del 2007/2009.
Su un punto Geithner è chiaro: con questa crisi tutto è
cambiato. E insiste perché tutto non resti come prima. A
giudicare dall'atmosfera del party offerto sulle rive del
Bosforo dalla J.P. Morgan Chase, in un vecchio palazzo fine
Ottocento, tutto in realtà appare molto uguale a prima. Ma
Geithner non ha dubbi: conta «the big picture» il quadro
d'insieme, si cambia per colmare il gap tra la vecchia
governance mondiale che poggiava su parametri nazionali e un
mercato che si muoveva già in avanti su base globale. Poi
tutto è sfuggito di mano. Colpa di chi? Dei banchieri avidi?
Dei regolatori negligenti? Di nuovo: «Guardiamo al futuro»,
dice.
Geithner, 48 anni, il 75esimo segretario al Tesoro
americano, ha costruito la sua esperienza professionale
gestendo situazioni di crisi. Prima al Tesoro, quando da
giovane funzionario si occupò della crisi asiatica del 1997
e in particolare della crisi finanziaria sudcoreana. Subito
dopo passò ai piani alti, con i suoi maestri Bob Rubin e
Larry Summers. E infine prese la guida della Federal reserve
a New York dove si è confrontato con la crisi dei nostri
giorni fin dagli inizi, lavorando molto vicino a Henry
Paulson e a Ben Bernanke. Si dice che sia in soggezione
davanti a Summers, suo mentore e vero architetto del nuovo
ordine della Casa Bianca. Ma Geithner cresce: a Istanbul è
da solo e porta avanti con determinazione la palla lanciata
a Pittsburgh.
Si dice che abbia una sensibilità nei confronti degli
interlocutori stranieri di cui sono privi altri americani.
La sua in effetti è una storia atipica. Nato a Brooklyn,
parte da bambino con la famiglia per l'Africa - Zimbabwe e
Zambia - poi per l'India, dove il padre si occupava di paesi
emergenti per la Fondazione Ford. Poi la famiglia va in
Thailandia, dove "Tim" fa tutto il liceo alla scuola
internazionale di Bangkok. Si laurea in Affari
internazionali in America e studia il mandarino e il
giapponese.
A Istanbul lo incontriamo nei sotterranei dello smisurato
centro congressi, dove ci sono gli uffici delle delegazioni.
L'ufficio americano è in fondo a un corridoio labirintico.
Una sala riunioni spoglia, con un tavolo bianco. Di fianco,
in un'altra saletta, c'è una riunione in corso. Dietro la
vetrata c'è il volto lungo e un po' triste di Ben Bernanke,
il presidente della Fed. Quello di Geithner, invece resta
sereno e sorridente.
Segretario Geithner, per il Finacial stability board restano
molte incertezze tecniche, ci sono ostilità, qui in Europa e
fra le altre istituzioni multilaterali. Fin dove arriva il
progetto?
Facciamo un passo indietro, il quadro istituzionale
multilaterale poggiava su Fondo monetario, Banca mondiale e
Wto. Con l'aumento dell'integrazione finanziaria, dei
mercati e dell'economia la gestione di queste attività è
rimasta informale, indietro rispetto al processo di
integrazione. Con il Financial stability forum, poi
trasformato in Financial stability board, i ministri
finanziari, le banche centrali, i supervisori, i contabili,
le istituzioni multilaterali convergono tutti su un unico
riferimento di controllo.
E' un fatto nuovo. Sono nove mesi
che ci lavoriamo e siamo arrivati a una strutturazione. Ci
sono ancora molte cose complesse che debbono essere risolte,
ma c'è una buona relazione, c'è una buona divisione del
lavoro. Ci sono anche alcune organizzazioni che temono di
perdere delle loro prerogative a vantaggio di altri, tutto
normale quando c'è qualcosa di nuovo: le cose si
aggiusteranno. Quel che vediamo però è che c'è un progresso
reale nell'organizzare le riforme finanziarie, nell'imporre
nuovi rapporti di capitale per le banche.
Lei ha detto che il Board diventerà il quarto pilastro di
Bretton Woods. In che termini?
È vero. Ho parlato di quarto pilastro di Bretton Woods, ma
ci sono in realtà delle differenze giuridiche: Bretton Woods
aveva la forma di un trattato che andava ratificato dai
parlamenti, per il Financial stability board non volevamo
quel genere di complicazioni.
Completa un quadro e deve
completarlo al più presto con riforme finanziarie, regole,
limitazioni, incentivi. Una struttura istituzionale è
importante. Ma è più importante avere le regole, fare le
cose presto e bene.
Da più parti le banche resistono, troppi limiti che
rischiano di paralizzare il credito e la crescita. Si tratta
di resistenze reali o di semplice lobby?
Credo si tratti di lobby. È legittimo cercare di essere
informati e di influenzare un processo: e' vero, possono
esserci dei rischi per l'innovazione finanziaria e dunque le
banche parlano di problemi di efficienza nell'allocazione
delle risorse e di problemi per la crescita. Ma la questione
più importante anche per loro è un'altra: se non si
raggiunge e non si garantisce una stabilità di base,
diventerà più difficile allocare capitali sul mercato.
Questo processo dunque è nel loro stesso interesse. Con una
osservazione: le regole non le fanno le banche, le fanno i
governi.
Lei ha anche detto che è nell'interesse dei singoli paesi
cambiare.
È vero e il presupposto per il successo poggia su un'unica
forte realtà: le cose funzioneranno meglio se lavoreremo
insieme. Anche durante la crisi abbiamo visto quanto sia
stato impossibile per un singolo paese cercare di tirarsi
fuori da solo. Occorre convincere tutti che il loro
interesse individuale poggia su un'azione collettiva. Questo
ci servirà per affrontare meglio il rischio di prossime
bolle. E dunque proviamo un nuovo quadro sistemico, abbiamo
creato il G20, abbiamo la sfida di fare delle cose insieme,
la crisi era così difficile da averci portato verso un
interesse collettivo per evitare la prossima crisi. E dunque
avremo cambiamenti. In America risparmieremo di più e ci
indebiteremo di meno, la Cina cercherà di essere meno
dipendente dalle esportazioni e di promuovere la domanda
interna, e così via. Tutto ciò per rendere il futuro della
crescita più sostenibile.
È vero che il problema centrale resta quello dello
squilibrio commerciale Cina Stati Uniti?
No. Ci sono altre regioni: Giappone e Europa da soli
rappresentano il 40% dell'output mondiale...
Parliamo del dollaro sempre più debole e dell'Sdr, il
paniere delle principali valute che i cinesi vorrebbero
adottare come nuova valuta di riferimento dei mercati
finanziari e commerciali per superare le vulnerabilità del
sistema monetario internazionale...
Ho già detto che siamo per un dollaro forte. Ma questo ci
porta delle responsabilità dirette. Dobbiamo essere molto
attenti nel sostenere la fiducia e la Fed nel difendere la
stabilità dei prezzi. E dunque abbiamo delle missioni
precise: riusciremo ad avere i giusti fondamentali
economici, le giuste politiche, un'ampia base di stabilità?
I governi faranno quel che debbono fare per sostenere la
fiducia. Per quel che ci riguarda sappiamo che molti
investitori credono che mercati con tanta liquidità offrono
stabilità e noi dei progressi li abbiamo già fatti, il
disavanzo delle partite correnti è passato dal 7% del Pil al
3,5%.
E' vero che gli Stati Uniti vogliono mantenere una egemonia
economica che non gli appartiene più?
Il nostro primo dovere è dare ai nostri cittadini garanzie,
poi dobbiamo esercitare un'influenza internazionale:
dobbiamo portare sul tavolo delle idee nuove attorno alle
quali creare consenso, infine dobbiamo tornare alla nostra
strategia di base: l'abbiamo espressa 60 anni fa quando
abbiamo impostato un sistema multilaterale con degli
standard comuni, la esprimiamo oggi con un Presidente pronto
a cooperare anche a costo di gravi problemi interni.
Ma è immaginabile che l'America lasci la sua presa sul Fondo
monetario?
Abbiamo circa il 18% del capitale del Fondo. Questo vuole
dire che non sarà poi molto difficile per dei paesi
organizzare una coalizione per superare quella percentuale.
Sottolineo che la nostra quota è più piccola in proporzione
a quel che facciamo, contribuiamo alla formulazione di
consensi fra vari paesi, siamo stati una forza importante
per tornare alla stabilita' finanziaria. Non credo che oggi
vi sia in discussione l'idea che prevede un ruolo minore per
gli Stati Uniti... Aggiungo, non forziamo nessuno a far
nulla, è vero che l'America ha avuto certe responsabilità
per questa crisi. Lo abbiamo ammesso. Ma voglio anche dirle
che in molti paesi i rapporti di capitale o di indebitamento
erano molto peggio dei nostri.
Alcuni criticano la vostra strategia: troppi interventi...
È stata una strategia di necessità, non di scelta. Davanti
alla crisi non c'era molto altro da fare se non agire.
Qual è il rischio di una nuova crisi? Cosa succederà il
prossimo settembre, quando il vostro piano di stimoli
cesserà la missione di pompare cento miliardi di dollari al
trimestre nell'economia?
Siamo nella prima fase della ripresa. È la domanda più
difficile a cui rispondere ovviamente. Ci sono molti rischi
possibili davanti a noi. Il più pericoloso? Che la gente si
senta tranquilla troppo presto. Ricordi i problemi di un
anno fa. È ancora molto presto. Torniamo a quel dicevo
prima: abbiamo delle priorità perseguiamole insieme.
G7-G20: ci chiarisce l'apparente duplicazione o confusione
di ruoli?
Non ci sono nuove ipotesi di G. Abbiamo il G20, per il G7 mi
preoccupo che la forma non prevalga sulla sostanza. Ho detto
durante la riunione che non dobbiamo essere guidati da
comunicati. Dobbiamo fare delle buone scelte nel G7 ed
essere candidi, trasparenti e discreti gli uni con gli
altri. Ci vuole una forma di cooperazione più informale e
più efficace.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore |
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Martedì
06
Ottobre
2009 |
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Mercoledì
07
Ottobre
2009 |
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Venerdì
09
Ottobre
2009 |
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Prove
tecniche di exit strategy
10 Ottobre 2009 14:44
MILANO - di Fabrizio Galimberti e Luca
Paolazzi
________________________________________
L'estate si è chiusa con conferme, l'autunno si è aperto con
dubbi. Conferme di inizio ripresa, sebbene per molti attori
economici la parola suoni ancora come insulto, perché
continuano la carestia di ordini e la moria di posti di
lavoro. Conferme basate su statistiche soft, come fiducia e
indici anticipatori, e pesanti come la produzione, il
fatturato, gli ordini e l'export (quest'ultimo anche
globale).
Dubbi sulla tenuta della svolta, inseriti in una granitica
certezza: il recupero sarà graduale e lento. Gli economisti
(vil razza dannata) escludono in massa che il domani possa
riservare sorprese positive e gli fanno eco nel predicare
prudenza i policy-maker di ogni angolo del pianeta. Pochi
osano immaginare che il rimbalzo risulti direttamente
proporzionato nell'intensità alla violenza della caduta. Ma
i segnali degli indicatori avanzati dell'Ocse sono corali e
consolanti. L'effetto elastico, che si è sempre verificato
nelle recessioni passate, sarebbe negato questa volta dalla
fragilità del sistema finanziario che continua a lesinare il
credito. Ciò appare sicuramente più vero in Europa (dove
pure il risveglio della produzione industriale in agosto -
mese difficile da interpretare - è promettente) che negli
Usa. Non è soltanto una differenza di condizioni della
finanza, perché se è vero che il credito bancario non si è
ristretto al di là dell'Atlantico meno che al di qua, è
anche vero che lì le banche pesano per una frazione dei
canali di finanziamento e che la Fed è intervenuta in modo
massiccio e deciso a sbloccare tutti gli altri.
L'economia americana è infatti molto più avanti nel
realizzare gli aggiustamenti degli squilibri. Lo scossone
all'occupazione (7,2 milioni di posti in meno in 21 mesi,
-5,2%) è stato feroce ma ormai è agli sgoccioli (il ritmo di
espulsione è ora quello normale di una lieve recessione); in
Europa invece proseguirà e raggiungerà un'entità analoga.
Ciò ha consentito un rapido ripristino dei margini di
profitto e le imprese a stelle e strisce godono di una
posizione finanziaria che non è mai stata così solida
all'uscita da una recessione; sono pronte perciò a investire
e stanno già ricominciando a farlo. Nonostante il basso
utilizzo della capacità? Sì, perché gli investimenti in
nuove iniziative o in miglioramenti di prodotto e processo
non sono legati agli impianti esistenti e spesso anzi sono
la componente della domanda che tende a saturarne l'impiego.
Se ripartono gli investimenti, l'occupazione, il reddito e
la spesa delle famiglie seguiranno rapidamente. Tanto più
che il tasso di risparmio è risalito e che la ricchezza
netta, grazie al riavvio dei prezzi delle case (altra
correzione ultimata là, ma non in molte nazioni europee), al
recupero dei prezzi di Borsa e al rimborso dei debiti è
tornata a salire.
Se si rimette in moto la locomotiva Usa, tutto il convoglio
globale avanzerà a ritmi decisamente più spediti
dell'atteso. Nell'area euro, e in particolare in Italia,
invece, la dinamica dei margini di profitto e in generale
dei profitti non ha ancora dato segnali significativi di
progresso e il processo di rilancio della domanda di
macchinari impiegherà più tempo, ostacolata peraltro in
maggior misura dalle difficoltà del credito e da una
situazione finanziaria delle imprese molto meno rosea,
specie in Italia. Perciò la ripresa nell'eurozona farà più
fatica a ingranare.
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DEBITO
PUBBLICO NETTO |
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Inflazione
La dinamica dei prezzi al consumo rimane confortevolmente
fredda. Non soltanto quella totale, che risente ancora del
favorevole confronto su base annua con l'epoca delle materie
prime gonfiate dalla bolla e che sta comunque gradualmente
risalendo, ma anche quella core, che si sta abbassando e
avvicinando all'1% sia in Usa sia nell'Eurozona. Mentre i
corsi delle commodity, dopo essere rimbalzati, stanno
oscillando senza particolare direzione, poiché c'è il
calmiere dell'abbondanza di offerta.
Difficile immaginare
una ripartenza dell'inflazione in queste condizioni, che
sono invece le più favorevoli per i lavoratori in termini di
conforto al potere d'acquisto e dovrebbero perciò rendere
facile rinnovare i contratti, quando non si vogliano fare
autogol competitivi.
Tassi di interesse, valute, moneta
Le valutazioni che sottendono la decisione delle banche
centrali in Israele e in Australia di aumentare i tassi (di
un quarto di punto - in settembre in Israele e in ottobre in
Australia) sono analoghe: il miglioramento delle prospettive
di crescita da un lato e la volontà di uscire dal livello
eccezionalmente basso dei rispettivi tassi-guida,
dall'altro. In quanto tali, le due decisioni si annunciano
come prime e timide "prove tecniche" di una strategia di
uscita dalle politiche monetarie fortemente espansive. Ma
due rondini non fanno primavera.
Di qua e di là
dell'Atlantico i tassi delle banche centrali sono saldamente
installati vicino allo zero, e c'è una promessa, implicita o
esplicita, di tenerli fermi per un tempo considerevole.
Se però queste "prove tecniche di rialzo" servono a
rassicurare i mercati sulla volontà delle banche centrali di
aumentare il costo del danaro e strangolare nella culla
l'idra dell'inflazione, ben vengano gli aumenti. Che saranno
in ogni caso graduali e in presa diretta con il
miglioramento - un miglioramento che deve essere duraturo e
non episodico per dar via libera a ulteriori aumenti dei
tassi - della congiuntura interna e internazionale. I timori
dell'inflazione sono naturalmente legati ai due fattori
distintivi della possente risposta delle politiche
economiche. Il mare di liquidità che è stato creato e che
scroscia nei mercati, e il balzo dei deficit e dei debiti
pubblici. Balzo che procura, ai sospettosi di professione,
un brivido di inquietudine: l'inflazione aiuta i debitori, e
potrebbe essere nell'interesse dei governi di diluire il
debito con l'inflazione. Come tutte le teorie del complotto,
anche questa è fondata più su fantasmi che sulla realtà.
D'altronde, è il mercato stesso a smentire queste ipotesi complottarde. Se questi timori fossero veri e diffusi, i
tassi sui titoli pubblici lunghi li rifletterebbero fin
d'ora. Se è vero che i debiti pubblici (al netto delle
attività) in percentuale del Pil sono saliti dappertutto
(vedi grafico), è anche vero che, come afferma uno studio
dell'Ocse, il rientro dall'inchiostro rosso è ambizioso ma
non impossibile.
Certo se, come è possibile, ci sono oggi rischi verso l'alto
per la crescita, il peso dei debiti sarebbe diluito
dall'aumento del denominatore nel rapporto debito/Pil. E se
alle manovre tradizionali di contenimento del deficit
(maggiori entrate e riduzioni di spese) si aggiungono i
benefici di una nuova ondata di privatizzazioni, la
"missione impossibile" potrebbe avere lo stesso successo di
quelle dei famosi telefilm.
I timori sul dollaro sono naturalmente legati ai deficit
gemelli, il cui combinato disposto (deficit corrente+deficit
pubblico) ha raggiunto nuovi record. Tuttavia, questo nuovo
primato degli squilibri americani è meno preoccupante di
quanto sembri. Il deficit corrente, che negli anni scorsi
aveva sfiorato il 7% del Pil, è calato (secondo trimestre
2009) fino al 2,7%, e il record è dovuto solo al deficit
pubblico, che è invece schizzato all'11,7 per cento. A parte
il fatto che quello stratosferico livello contiene alcune
imputazioni contabili non-cash, l'esperienza Usa dice che il
peso del deficit è riassorbibile in situazione di crescita.
Il ribilanciamento delle valute è un utile ingrediente nello
scioglimento degli squilibri, ma è improbabile che il
dollaro possa rivisitare i minimi del 2008 contro euro.
Mentre è probabile che riprenda la rivalutazione dello yuan:
il non-deliverable forward a 12 mesi ha ripreso ad
apprezzarsi.
IN SINTESI
L'USCITA DALLA CRISI
- La fase di ripresa sarà più una maratona che uno sprint.
Le maratone non hanno un inizio bruciante, ma hanno tuttavia
un inizio, e con qualche buona volontà si può vedere
nell'aumento dei tassi in Australia (il primo nel G20) la
prova tecnica per un avvio della exit strategy. Anche
l'espansione quantitativa della moneta si sta moderando.
LA FIDUCIA SI ALLARGA
- Da qualche mese ormai gli indici di fiducia stanno
risalendo, e questa risalita riguarda sia le imprese che i
consumatori. Geograficamente, il miglioramento è abbastanza
diffuso da far pensare che il tutto diventi più della somma
delle parti.
TASSI FERMI, ANZI NO
- Israele e Australia: sono i soli due paesi in cui è
cominciata la "normalizzazione" dei tassi, che altrove, nel
segmento breve, vengono promessi fermi dalle banche
centrali.
Sul lungo nominale, qualche timida riduzione non scalfisce
l'alto livello dei tassi reali.
YUAN, PROVE DI RIALZO
- Dopo essersi appiattito sul cambio a pronti, il tasso di
cambio della moneta cinese a 12 mesi segnala di nuovo la
rivalutazione insistentemente chiesta dagli Usa e dagli
organismi internazionali in funzione di "ribilanciamento"
della crescita globale. Il dollaro è ancora sotto pressione,
ma il rischio verso il basso è limitato.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
E se la ripresa
fosse forte come in passato?
10 Ottobre 2009 12:53 MILANO -
di Walter Riolfi ______________________________________________
Crescendo in settimana del 4%, a un passo dai massimi del
mese scorso, le Borse sembrano convinte che la prossima
ripresa economica sarà rapida e forte come quelle che sono
seguite alle recessioni degli ultimi 30 anni. Sette giorni
fa su queste pagine s'era scritto che questa volta potrebbe
essere diverso. Che un'economia gravata dai debiti delle
famiglie e dello stato e tenuta in piedi con la flebo dei
soldi pubblici, non potrà crescere ai ritmi visti in
passato. E con l'intero sistema finanziario alle prese con
la riduzione del debito, dovremo scordare gli allegri
consumi visti nella seconda metà degli anni '90 e più ancora
dopo il 2003. Chi scrive è piuttosto convinto di questa
tesi. Ma si rende anche conto che il ritornello del «questa
volta è diverso» lo s'è sentito tante volte in passato,
prima che le cose ritornassero invece sostanzialmente come
prima.
Nel 1991, nel pieno di quella recessione, la rivista
«Fortune» aveva titolato in copertina: «La fine del grande
consumismo». E «Time» nel giugno 2001, ai primi segni del
riflusso seguito alla bolla dei tecnologici, aveva
pronosticato una nuova era di «vita più semplice». In ogni
momento, in cui un'incipiente crisi ha appannato il
precedente splendore, s'è immaginata la fine delle vecchie
abitudini e l'avvento di una diversa mentalità. E «Time» s'è
ripetuta qualche mese fa con una copertina dedicata alla
«Nuova frugalità». Ma dopo il '92, la gente ha continuato a
consumare come prima o ancora più di prima. E dopo il 2003
la corsa ai consumi ha proseguito come mai s'era visto in
precedenza, favorita dal facile ricorso al debito. E per
quanto uno studio pubblicato sul «The New Yorker» abbia
spiegato che gli americani hanno speso più nei servizi
(sanitari, scolastici) che nei beni di consumo e soprattutto
più nell'acquisto di una abitazione, resta il fatto che tra
il 2003 e il 2007 c'è stata un'esplosione del credito al
consumo delle famiglie che non volevano privarsi anche di
una nuova automobile o di arredi sempre più costosi.
Questa volta, però, potrebbe essere diverso davvero, perché
il livello dell'indebitamento non è mai stato così elevato
in termini assoluti e relativi. Se la ripresa dovesse
pertanto rivelarsi più lenta delle altre, lo capiremo solo
il prossimo anno e in quello successivo. È quanto sostiene
Richard Fisher della Fed, secondo il quale «il vero dilemma
è cosa succederà nel 2010 e 2011». Fisher è moderatamente
ottimista, ma si domanda cosa accadrà il prossimo anno,
«quando non ci saranno più le protesi del governo» per
l'acquisto di auto, elettrodomestici, case o semplicemente
per sostenere il credito, come sta facendo la Fed: nella
sostanza l'unico compratore delle cartolarizzazioni sui
mutui casa.
Tutto come prima?
O forse anche questa volta sarà come è stato negli ultimi 30
anni e la gente tornerà a spendere come prima, le banche
faranno quello che hanno fatto fino al 2007 e ritornerà un
turbinio di fusioni e acquisizioni: come un segnale s'è
visto la scorsa settimana negli Usa, quando in un sol giorno
sono state annunciate operazioni per 14 miliardi di $. E la
Borsa, ovviamente, tornerà a volare come tra il 2003 e il
2007. Perché, come si comprende dal bellissimo libro di
Carmen Reinhart e Ken Rogoff (This Time is Different: Eight
Centuries of Financial Folly), niente è mai così differente.
Ma per rivedere i tempi di due anni fa, occorre che si torni
ad oliare gli ingranaggi del credito facile: che le banche
inondino di denaro il sistema finanziario (come in parte già
stanno facendo con i soldi prestati a tassi zero dalle
banche centrali), che le famiglie riprendano a indebitarsi e
consumare e che risorga il mercato immobiliare.
Per quanto nessuno sia in grado di capire fino a che punto
possa arrivare il grado d'indebitamento di un'istituzione o
di un cittadino, è anche piuttosto probabile che su questa
strada s'incontrerà prima o poi un'altra bolla speculativa.
Con qualche correzione, il sistema finanziario e politico,
specie quello americano, sembra adesso incline a far
ritornare le cose al recente passato. Ne va della ripresa
economica (a "V", come immagina sempre più gente) e del
benessere dei cittadini. Ma con gli stati usciti da questa
crisi indebitati come mai negli ultimi 60 anni, la prossima
bolla e la conseguente recessione saranno peggiori di quelle
che ci sono recentemente capitate.
Se i 57 economisti sondati da Bloomberg non sono molto
ottimisti sull'andamento della disoccupazione e sulla
crescita dei consumi, così come per gli stessi motivi sono
piuttosto preoccupati sul tenore della ripresa i 48
intervistati dal WSJ; e se Nouriel Roubini continua a vedere
problemi (ma lo scenario che dipinge non sembra alla fine
così diverso da quello abbozzato dai dubbi del citato
Richard Fisher); parecchi broker di Wall Street stanno già
cavalcando la tesi del recupero a "V" e di una borsa avviata
a scalare nuove vette nei prossimi due anni. Merrill Lynch
ha enunciato i suoi «5 motivi per essere ottimisti»,
spiegando che il rimbalzo (60%) dell'S&P ha ancora tanta
strada da fare, che gli investitori sarebbero ancora troppo
pessimisti, che il quadro macroeconomico è assai favorevole,
che gli utili aziendali miglioreranno sensibilmente e che,
dunque, il mercato è attraente e non troppo caro, come vanno
dicendo gli scettici.
Sull'onda di analoghi ragionamenti, Wall Street ha
guadagnato il 4,5% in settimana (+4,5% anche il Nasdaq) e lo
Stoxx il 3,7% (+4,9% Milano, +4,1% Parigi, +4,5%
Francoforte, +3,5% Londra).
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
GLI USA SOFFOCHERANNO
LA CRESCITA MONDIALE
14 Ottobre 2009 16:30 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Parola del finanziere Soros, secondo cui lo yuan
sottovalutato contribuisce alla perdita di valore del
dollaro. Bisogna mettere a punto un sistema di controllo
globale del mercato valutario al piu' presto. In Cina si sta
formando una bolla di asset.
Il milionario investitore ungherese George Soros ha
avvertito che gli attuali accordi sul mercato valutario sono
carichi di pericoli e problemi e che pertanto il mondo ha un
urgente bisogno di un nuovo sistema di controllo globale.
A detta di Soros, gestore del fondo hedge Soros Fund
Management e assurto a fama mondiale per le sue attivita' di
speculazione sulle valute, il dollaro dovrebbe indebolirsi
nei confronti dello yuan cinese in modo da permettere agli
Stati Uniti di contenere il deficit valutario.
Tuttavia Soros, tra gli uomini piu' ricchi al mondo, ha
aggiunto che siccome la valuta cinese e' strettamente legata
al biglietto verde, uno yuan costantemente sottovalutato non
fa che contribuire alla perdita di valore del dollaro contro
le altre principali valute concorrenti. Dall'inizio
dell'anno il dollaro ha bruciato circa il 7% del suo valore
rispetto al basket delle sei principali monete rivali.
Nel frattempo uno yuan sottovalutato rende i beni al consumo
prodotti in Cina piu' economici rispetto ai mercati
stranieri. Pechino ha alimentato la propria crescita
puntando sulle esportazioni nei mercati al consumo degli Usa
e di altri Paesi occidentali, spingendo molti produttori
attivi in tali mercati ad uscire di scena perche' non in
grado di reggere la concorrenza.
Soros, che ha guadagnato circa $1 miliardo (610.5 milioni di
sterline) nel 1992 dopo aver venduto oltre $10 miliardi in
valuta inglese costringendo la Banca di Inghilterra a
svalutare la propria moneta, ha dichiarato che la
globalizzazione dei mercati finanziari e' stata costruita su
un "falso pretesto", ovvero che gli stessi mercati possano
auto-regolarsi, quando invece ci sarebbe bisogno di mettere
a punto un sistema di controllo globale.
"Si tratta di una sfida enorme", ha detto nel corso di un
evento promosso dalla rivista Economist alla Borsa di New
York secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa Reuters.
Poche ore prima dell'intervento dell'investitore, il
Dipartimento del Tesoro Usa ha sottolineato che la Cina non
sta manipolando la sua valuta, ma che sta accumulando scorte
di monete estere ad un ritmo preoccupante, che minaccia il
processo di riduzione degli squilibri economici globali.
Parlando dell'economia globale, Soros ha fatto notare che "registrera'
una crescita, ma comunque e' destinata a rimanere piatta",
precisando che gli Stati Uniti soffocheranno la crescita
mondiale. Il finanziere ungherese e' inoltre convinto che in
Cina si stia formando una sorta di bolla degli asset.
Fonte
-
WallStreetItalia
|
Il
declino Usa e i menestrelli
anti Obama
October 14th, 2009 by
editor - di Andrea Gilli
________________________________________
Sul Weekly Standard di questa settimana è apparso un pezzo
di Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post, e
noto neoconservatore, nel quale si cerca di dimostrare la
debolezza della tesi del declino americano. Conoscendo sia
il settimanale in questione che Krauthammer, non avevo
grandi aspettative. La lettura dell’articolo è riuscita però
a colpirmi: mi ha infatti convinto non solo che l’America
sia davvero in declino materiale (l’opposto di quanto
Krauthammer cercava di fare), ma anche che la sua
traiettoria intellettuale non sia molto robusta. Infatti, se
il meglio che si riesce a produrre a suffragio di questa
tesi è un articolo tanto sgangherato, che pure un bambinetto
di terza elementare potrebbe smentire, allora significa che
stiamo proprio arrivando al capolinea.
Nel suo articolo, l’editorialista del Washington Post si
chiede, fondamentalmente se il declino americano sia
inevitabile oppure se non sia altro che frutto di una
scelta. La sua risposta è tranchant. Il declino è una scelta
e Obama sta scegliendo di far diventare l’America una
Potenza di serie B.
Prima di andare oltre, capiamoci sul significato di declino.
Quando declina un Paese? Dallo studio settecentesco di
Gibbon sull’ascesa e il declino dell’Impero Romano, fino ai
lavori di Marcur Olson sul declino e ascela delle nazioni
per poi arrivare allo storico Paul Kennedy che ha studiato
l’ascesa e il declino delle Grandi Potenze, un certo accordo
sembra esserci tra gli studiosi: Stati, Nazioni, Imperi,
Grandi Potenze declinano quando qualcuno cresce più di loro.
Si noti, più di loro. La minor crescita può essere dovuta ad
una lunga serie di fattori (corruzione interna, impersial
overstretch, inefficienza burocratica e amministrativa,
etc.), il punto però, non cambia: il declino si deve a tassi
d crescita più bassi rispetto ad altri. Fino al 1850, la
Cina aveva il PIL più grande del mondo, ma i suoi tassi di
crescita erano più bassi di quelli europei: il risultato fu
la colonizzazione de facto del Paese ad opera delle Potenze
occidentali.
Krauthammer dice che l’America ha la più florida e dinamica
economia del mondo (?), con la produttività più elevata (?),
dunque – a suo modo di vedere – Obama starebbe scegliendo
per il declino. Nonostante il Paese abbia davanti a sè molte
altre opzioni strategiche, Obama sceglierebbe dunque la più
modesta, fino mediocre, e soprattutto strategicamente
peggiore. Se l’America crescesse del 10% l’anno e il resto
del mondo al 5%, Krauthammer avrebbe ragione. Purtroppo, i
dati dicono il contrario. Nel 2001, la somma del PIL di
India, Brasile, Cina e Russia ammontava al 27% del PIL
americano. Nel 2007, cioè prima ancora della crisi, eravamo
al 51%. I dati del 2008 arrivano al 58%. Perché? Semplice:
Cina, India, Brasile, e in parte Russia, sono cresciute
negli anni 2000 a tassi quasi doppi rispetto all’America.
Questo si chiama declino relativo.
Si può far finta di niente, e andare avanti imperterriti con
la politica precedente. Hitler, per esempio, prese questa
decisione. Con il 10% del PIL mondiale pensava di poter
conquistare tutta l’Europa. Napoleone fece una scelta
analoga. Abbiamo visto come sono finiti entrambi.
Alternativamente, si può tenere conto di questo dato e
metterlo alla base della propria politica estera.
Obama sta
scegliendo la seconda opzione. Può sbagliare, può fare
errori. Ma la sua politica è semplice: in un mondo dove
l’America primeggia, l’America detta le leggi (anni
Novanta). In un mondo nel quale l’America è relativamente
più debole, l’America non può più dettare le leggi (nuovo
millennio) ma deve dialogare con gli altri – che piaccia o
no.
Krauthammer guarda volutamente i dati sbagliati. Così può
leggere come una scelta libera quella che in realtà è una
scelta dettata dalla necessità. E di conseguenza può
procedere con un ragionamento che, a posteriori, è
totalmente sbilenco (chi non fosse convinto dei dati, guardi
questi due studi, non proprio sviluppati dal centro
dell’anti-americanismo mondiale, Accenture e NIC, la società
di consulenza americana e il centro studi dell’intelligence
americana rispettivamente)
Ignorando infatti che sono i tassi relativi di crescita tra
le Potenze a determinare la loro gerarchia internazionale,
l’editorialista del Washington Post si lancia in una serie
di affermazioni davvero spericolate. Perchè, chiede,
l’America era una potenza egemone? Per Krauthammer, ciò si
deve alla sua superiorità morale. Il fatto che l’America
avesse, negli anni Novanta, l’economia più florida al mondo,
e l’esercito più forte del pianeta, in questa sua
ricostruzione, non hanno alcun ruolo.
Si noti, seguendo questa logica, storicamente, le potenze
egemoni dovrebbero essere quelle moralmente più più solide
(non approfondiamo su come si faccia la classifica), mentre
il crollo delle Grandi Potenze sarebbe semplicemente una
questione di scelte. In altre parole, il Vaticano dovrebbe
dominare la politica mondiale e l’URSS poteva
tranquillamente continuare ad esistere, nonostante le sue
imbarazzanti inefficienze economiche.
E perché la presenza americana è ben accolta in giro per il
mondo – chiede ancora Krauthammer? Perché l’America sarebbe
una potenza benevola. Di nuovo, la sua superiorità economica
e militare, in questo calcolo, non avrebbe alcun ruolo.
Strano che allora la Svizzera non possa prendere il suo
ruolo… (non c’è spazio, in questa sede, per ragionare su
quanto ben accolta sia la presenza americana in giro per il
mondo: basta dire che in Iraq e Afghanistan stiamo vedendo
tutto il calore che viene loro mostrato).
Obama, in conclusione, stando a Krauthammer, sarebbe
colpevole di vilipendio alla bandiera, lesà maestà,
relativismo e magari anche tradimento alla patria. Con le
sue politiche starebbe quindi condannando l’America alla
Serie B della politica mondiale.
E’ così? Ovviamente no, e abbiamo spiegato perché. L’America
sta crescendo a tassi più bassi, e sul panorama
internazionale stanno crescendo tante, nuove potenze che
l’America non sarà mai in grado di gestire
contemporaneamente (dall’Europa alla Cina, dalla Russia al
Brasile, dall’India alla Nigeria, dall’Iran alla Turchia).
In altri termini, l’America non ha i mezzi per restare
l’egemone del sistema internazionale. Resterà una Grande
Potenza, probabilmente anche con ottime performance
economiche – soprattutto per via dell’accresciuta
competizione internazionale. Ma non farà più da guida.
E’ dura, ma è la verità. E Krauthammer non vuole accettarla.
E’ comprensibile: i resoconti storici ci dicono che gli
ultimi a scappare dagli imperi in declino non erano i
sovrani. Erano i menestrelli.
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Fonte -
Epistemes.org |
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Sabato
10
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2009 |
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13
Ottobre
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Giovedì
15
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Il dollaro rimarrà debole.
E' la liquidità a «volerlo»
15 Ottobre 2009 11:46
MILANO - di Vittorio Carlini
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Il dollaro rimarrà
debole. Gli esperti, anche in questo strano autunno
finanziario, sono in gran parte d'accordo. Qualcuno fissa,
per fine anno, un livello di cambio sull'Euro a 1,60. Altri,
più prudenti, indicano un movimento laterale attorno a
1,50-1,51. Ma
il trend di fondo è condiviso: il biglietto verde resterà "weakness";
«sul lungo periodo -scrive Citi -le pressioni al ribasso
resisteranno». Le divisioni nascono, al contrario, sul come
e perché questo avvenga. Da una parte c'è chi ricerca
le cause in "classici" fondamentali: il differenziale dei
tassi tra Europa e Stati Uniti, il deficit o il debito Usa.
Altri, invece, guardano più al contingente, ad alcune
caratteristiche dei mercati finanziari legate alla crisi. In
particolare, alla liquidità.
«La Federal reserve
americana - sottolinea Fabrizio Quirighetti, capo economista
di Banca Syz - per fronteggiare il credit crunch, sta
sfruttando anche il cosiddetto quantitive easing, cioè
acquista bond in dollari pagandoli sempre in dollari. La
conseguenza di questa politica monetaria, a differenza di
quella che sfrutta solo i tassi d'interesse, è un vero e
proprio aumento dei volumi della divisa Usa, un surplus di
biglietti verdi.
Che, però, il
mercato non riesce a digerire. Così, il dollaro si
indebolisce». Il quantitave easing, tuttavia, è stato
realizzato nel passato anche dalla Banca centrale del
giappone: perché a Tokyo non ci fu svalutazione dello yen?
«Perché - risponde Quirighetti - gli operatori erano sempre
interni a quel mercato. Il credito iscritto nel
bilancio della Bank of Japan, in corrispondenza delle
obbligazioni comprate dalla Banca centrale, era sempre
"intestato" a istituti finanziari giapponesi.
In questa situazione
l'effetto sui cambi con le altre valute non si sente, o si
sente di meno». Negli Usa, al contrario, «il debito è in
gran parte nelle mani degli investitori stranieri che, in
questo momento, non vogliono sentire» troppo l'odore dei
dollari. «Non è un caso - tiene a specificare
Quirighetti - che l'altra moneta che scende in questo
periodo è la sterlina. Anche lì, la Bank of England è
l'istituto centrale che ha fatto pieno uso del quantitave
easing». Insomma, la liquidità viene fatta aumentare per
fronteggiare la crisi; ma la liquidità, quasi non più
strumento bensì una variabile a sé stante, cerca la
diversificazione, va in caccia di altri rendimenti e si
dimentica del dollaro.
«Nell'ultimo report
dell'Fmi - aggiunge Bill Witherell, capo economista di
Cumberland avdisors - è indicato implicitamente che le
banche centrali sono riluttanti ad aumentare le loro riserve
nella divisa Usa e, lentamente, si indirizzano verso altre
monete. Ovvio che», come peraltro dimostrato
dall'ultimo dato della Banca centrale cinese nel periodo
luglio-settembre, «l'abbandono dell'America non può avvenire
hic et nunc: gli stessi asset miliardiari in dollari,
iscritti nei bilanci degli istituti finanziari, si
svaluterebbero. Ma il trend sembra definito».
«Anche perché
-aggiunge Witherell - diversi paesi, produttori e
consumatori di petrolio (gli stati del Golfo persico, Cina,
Russia, Giappone e Francia), avrebbero discusso della
possibilità di sostituire il dollaro con un basket di
monete, nelle transazioni del petrolio.
Di nuovo, però, lo
scenario non è immaginabile nel breve periodo». Chi
pensa, per esempio, a una sostituzione dei petrodollari con
i petroeuro, dovrebbe giustificare un balzo nominale della
bolletta energetica che, in questo periodo di crisi, sarebbe
indigesta alla gran parte dei paesi occidentali
Che la liquidità sia, in questo momento, una variabile
comunque da tenere d'occhio è peraltro dimostrato
dall'andamento delle quotazioni dell'oro. «Nel secondo
trimestre del 2009 - spiega Rozanna Wozniak, investment
research manager di World gold council - la cosiddetta "investment
demand", cioè l'investimento sull'oro inteso come asset
finanziario, pesava per 31% della domanda totale di
lingotti, contro il 19% dello stesso periodo del 2008». Ciò
vuol dire che, o con finalità di diversificazione o di
speculazione, anche nel mondo del metallo pregiato la
liquidità assume di per se stessa un ruolo sempre maggiore
nel determinare le quotazioni. Il tutto a scapito,
ovviamente, della domanda finalizzata all'utilizzo reale,
industriale o per le gioellerie, dei lingotti.
Al di là di questi
aspetti, c'è chi sottolinea motivazioni più "classiche".
«Nel breve periodo - afferma Ronny Hamaui, docente di
mercati monetari internazionali alla Cattolica - il calo del
dollaro è dovuto al differenziale d'interessi. In
particolare, è il carry trade: molti investitori vanno short
sul dollaro e investono sull'euro». «Certamente ci
sarà anche questo - dice Quirighetti - Però, la differenza
tra i tassi Bce (all'1%, ndr) e quelli della Fed (di fatto a
zero, ndr) non mi sembra tale da giustificare così ampi
spostamenti sui mercati monetari». Su questo fronte,
peraltro, molti si domandano quali le strategie sul costo
del denaro al di qua e al di là dell'oceano Atlantico. «Il
presidente della Bce - dice Quirighetti - è molto
focalizzato sul tema dell'inflazione.
È probabile che il
tasso di crescita dei prezzi al consumo, con la salita delle
quotazioni del petrolio e dell'inflazione core, a inizio del
2010 si attesti sul 2 per cento. Un evento che, quasi in
automatico, porterà l'Eurotower a rialzare il costo del
denaro. In quel momento sì, che l'Euro potrebbe salire sul
differenziale dei tassi». Certo, bisognerà vedere se Ben
Bernanke, capo della Fed, manterrà l'easy money. Se ciò
accadrà, il dollaro si terrà stretta la sua debolezza. Ma la
speranza è che, come accaduto nel recente passato, le banche
centrali coordino le loro azioni.
Più sul lungo
periodo, invece, «incidono il debito - dice Hamaui - e il
deficit commerciale americano. Quest'ultimo in particolare,
come sappiamo, è elevato: viaggia verso il 3% del Pil. Ora
il mantenimento di un biglietto verde debole nei confronti
delle altre valute è essenziale per sostenere l'export
americano». Washington, evidentemente, ha tutto
l'interesse a lasciare proseguire la scivolata della sua
moneta verso il basso: una situazione che sposta gli scenari
competitivi. «Il problema per l'economia di Eurolandia -
aggiunge Quirighetti - non sarebbe tanto un livello
dell'Euro più alto. La moneta unica europea a 1,60 sul
dollaro l'abbiamo già sperimentata e l'industria del Vecchio
Continente non è andata in frantumi.
La vera questione è,
soprattutto in un momento di crisi come l'attuale, la
velocità con cui si passa dalle quotazioni di oggi ad altre
più elevate. Se la salita sarà graduale non avremo
grandissimi problemi». Il mondo, insomma, continuerà ad
esistere. «Se, al contrario, il balzo dell'Euro sarà troppo
repentino le industrie europee soffriranno, e molto».
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
VALUTE: ORMAI E'
QUASI ALLARME ALL'EUROGRUPPO
16 Ottobre 2009 16:11 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
L'euro sale in zona 1.50 contro il biglietto verde,
nuovamente in calo a New York. La situazione e' vicina al
punto limite: "se il cambio continua sulla strada delle
ultime settimane ci sara' da preoccuparsi".
Il dollaro ha avviato la seduta di contrattazioni a New York
in calo sull'euro, con la moneta unica scambiata a 1,4926
dollari, in rialzo rispetto agli 1,4899 dollari dell'ultima
rilevazione di ieri. L'euro ha guadagnato terreno in attesa
di ulteriori indicazioni sullo stato di salute dell'economia
americana (mentre va avanti la stagione delle trimestrali
Usa con Texas Instruments e Apple, oggi pomeriggio è atteso
un discorso del numero uno della Fed, Bernanke). Per quanto
riguarda le altre principali valute, il biglietto verde è in
aumento sulla moneta giapponese a 90,94 yen, contro i 90,85
yen dell'ultima rilevazione di ieri. La sterlina vale 1,6318
dollari, in ribasso rispetto agli 1,6353 dollari precedenti.
Il franco svizzero è scambiato in calo a 0,986 dollari.
Sull'euro, intanto, è quasi allarme. I ministri
dell'Eurozona si riuniscono nel tardo pomeriggio a
Lussemburgo per la riunione mensile. Faranno il punto
sull'andamento del cambio. Attesa la conferma che con l'euro
in zona 1,50 contro dollaro la situazione è vicina al punto
limite. Il presidente dell'Eurogruppo Jean Claude Juncker ha
già detto che «se il cambio continua sulla strada delle
ultime settimane» ci sarà da preoccupasi, «ad un certo
momento».
Il dollaro da marzo ha perso oltre il 18% del suo valore
rispetto all'euro. Un euro a quota 1,50 non fa paura ai
ministri dell'economia, ma un euro in corsa, come é stato
nelle ultime settimane, sì. Il presidente dell'Eurogruppo
Juncker non ha naturalmente indicato a quale livello su
dollaro l'euro preoccuperà seriamente richiedendo qualche
azione (politica o di mercato non si sa). Per ora Eurogruppo
e Bce da una parte e Stati Uniti dall'altra si limitano a
uno scambio di segnali di fumo, ovviamente verbali.
In sostanza l'Eurozona non vuole assistere passivamente
all'evolversi di una tendenza che vede il dollaro in caduta
continua (la scorsa settimana ha toccato il massimo ribasso
degli ultimi 14 mesi), una debolezza che si scarica in modo
non proporzionato sulle valute fluttuanti in primo luogo
sull'euro e in queste circostanze sullo yen. Sul proscenio
dei cambi non c'è solo il lato dollaro ma anche il versante
yuan: non è un caso che Juncker abbia annunciato
l'intenzione di recarsi un'altra volta in Cina con il numero
uno della Bce, Trichet e il commissario dell'Unione europea,
Joaquin Almunia, per capire modi e tempi di rafforzamento
della divisa cinese.
L'Eurogruppo per oggi dovrebbe comunque limitarsi a
confermare le formule degli ultimi giorni puntando
l'attenzione sugli effetti negativi per la crescita e gli
equilibri globali complessivi provocati dal dollaro troppo
debole, senza far trasparire alcuna indicazione sui livelli
auspicabili del cambio. Ma potrebbe sottolineare il rischio
di un'assenza di contromisure sulla crescita economica
dell'Eurozona, che con un euro super potrebbe non
contribuire alla ripresa globale come atteso, concedendo
oltretutto un vantaggio notevole al Dragone cinese.
Quanto alle politiche di sostegno alla domanda, l'Eurogruppo
(e domani l'Ecofin) confermeranno la necessità
dell'intervento pubblico per tutto il 2010 con avvio delle
exit strategy dal 2011 solamente se la ripresa sarà
«radicata» e «autonoma»
Fonte
-
WallStreetItalia
Banca d'Inghilterra:
scelte radicali per riformare il settore
21 Ottobre 2009 12:12 LONDRA -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
LONDRA - Le nuove regole, per quanto severe, non bastano: è
ora necessario intervenire in modo radicale per riformare il
settore bancario. Il governatore della Banca d'Inghilterra
non ha fatto ricorso a eufemismi e mezze parole. In un
discorso chiaro e tagliente, Mervyn King ha dichiarato che
l'unica soluzione è separare a forza le divisioni depositi e
risparmi degli istituti di credito dalle attività
speculative a rischio, per evitare la crescita di gruppi
"troppo grandi per fallire".
Le proposte di regolamentazione del settore del Governo
britannico e dei leader del G20 prevedono che costringere le
banche a rafforzare i loro patrimoni e sottoporle a maggiori
controlli sia sufficiente a prevenire attività speculative
ad alto rischio e quindi un'altra crisi finanziaria. Questa
è "un'illusione", ha detto King. Secondo il governatore le
banche evidentemente non hanno imparato la lezione e non
hanno attuato le riforme necessarie, nonostante un livello
di sostegno pubblico al settore "da togliere il respiro",
una cifra vicina ai mille miliardi di sterline.
Le riforme proposte finora possono solo curare i sintomi del
problema, ma per andare alle cause serve un intervento più
deciso. La possibilità di sostegno pubblico andrebbe
riservata alle "parti buone" delle banche che sono utili
alla società, cioè al retail banking. «Incoraggiare le
banche ad assumersi rischi che risultano in ricchi dividendi
e bonus quando le cose vanno bene e in perdite per i
contruibuenti quando vanno male distorce l'allocazione delle
risorse e la gestione del rischio, - ha detto King. - E'
l'azzardo morale (moral hazard) più grande della storia».
Intanto stamani un rapporto del Centre for Economic and
Business Research prevede che i bonus per i banchieri della
City raddoppieranno in valore quest'anno, passando a 6
miliardi di sterline dai 4 dell'anno scorso in seguito
all'aumento degli utili bancari e la riduzione della
concorrenza nel settore. La cifra totale dei b0nus è
comunque ancora inferiore al massimo storico di 10,2
miliardi di sterline del 2007, l'anno dello scoppio della
crisi finanziaria.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Beige Book:
l'economia è in fase di stabilizzazione. Zoppica il mercato
del lavoro
Mercoledì, 21 ottobre 2009 -
22.00 -
TREND ON LINE ______________________________________________
Ancora segnali di stabilizzazione per l'economia americana
che orma si è lasciata alle spalle la recessione,
proseguendo lungo il cammino di una ripresa, che però
potrebbe essere accidentata oltre che lenta. Simili
indicazioni erano già emerse in occasioni dell'ultima
riunione della Federal Reserve e a distanza di due settimane
dal prossimo meeting vengono ribadite questa sera nel Beige
Book Beige Book. Si tratta del tradizionale rapporto della
Banca centrale americana che fornisce lumi sulla situazione
della congiuntura a stelle e strisce. Il documento viene
redatto otto volte all'anno, due settimane prima di ogni
riunione della Fed, e costituisce una base su cui lavorare
in ciascun meeting soprattutto con riferimento alle
decisioni da prendere in materia di politica monetaria.
Nel documento di questa sera si legge che in generali, nei
vari distretti oggetto di rilevazione si riscontra una
stabilizzazione dell'economia, con un modesto miglioramento.
A dare segnali di risveglio sono soprattutto il settore
manifatturiero e quello della proprietà immobiliare
residenziale. In vari distretti si registra un'erosione
della qualità del credito, segnalando al contempo che
l'attività bancaria è ancora titubante, a fronte di una
domanda di prestiti debole o in flessione.
Il settore che mostra la maggior debolezza è quello degli
immobili commerciali e in genere nel Beige Book si parla di
una domanda fiacca, malgrado gli incentivi per l'acquisto di
nuove auto abbiano funzionato e sortito gli effetti sperati.
La spesa per consumi si conferma in ogni caso debole anche
se si riscontrano dei miglioramenti in questa direzione. La
fragilità dei consumi però dovrebbe essere confermata anche
in occasione della prossima stagione dello shopping
natalizio, ormai alle porte.
A frenare i consumi è la difficile situazione del mercato
del lavoro che mostra condizioni ancora deboli o miste nei
vari distretti oggetto di indagine. Del resto ricordiamo che
il tasso di disoccupazione è ormai prossimo al 10% e le
prospettive non sono certo incoraggianti visto che il tasso
è destinato a rimanere elevato anche durante il prossimo
anno. Ci sono però margini per un lieve ottimismo, visto che
nel Beige Book si parla di alcuni segnali incoraggianti,
basti pensare all'aumento delle assunzioni a tempo
indeterminato, fermo restando che ciò no dovesse alimentare
facili entusiasmi.
Nel complesso si tratta di indicazioni che non aggiungono
grandi novità a quando già comunicato al mercato nelle
scorte settimane. Dalla lettura del Beige Book di questa
sera emerge inoltre che la Federal Reserve, almeno per il
momento, non dovrebbe cambiare la sua politica monetaria. I
tassi di interessei rimarranno su livelli estremamente bassi
ancora per lungo tempo, come ribadito in più occasioni non
solo dalla Banca Centrale americana ma dallo stesso Bernanke.
Nessuna sorpresa dunque dovrebbe giungere dall'incontro di
politica monetaria in programma agli inizi del mese di
novembre, che porterà ad una conferma del range tra lo 0% e
lo 0,25% per il costo del denaro negli Stati Uniti.
Il Beige Book di questa sera non è riuscito comunque a dare
sostegno a Wall Street dove i tre indici principali si sono
mantenuti inizialmente in territorio positivo dopo la
diffusione del documento. Nell'ultima ora di contrattazioni
invece si è avuta una rapida inversione di rotta che ha
portato non solo ad azzerare il vantaggio iniziale ma anche
a far tornare le vendite sul mercato. I tre indici
principali hanno infatti terminato gli scambi sui minimi
intraday, con il Dow Jones (notizie) e l'S&P500 in calo
rispettivamente dello 0,92% e dello 0,89%, insieme al Nasdaq
Composite (NASDAQ: notizie) che si è fermato in area 2.150
con un ribasso più contenuto dello 0,59%. Secondo quanto
argomentato nelle sale operative si tratterebbe di prese di
profitto dopo i forti rialzi delle ultime giornate che hanno
portato i listini su livelli decisamente importante.
Fonte
- TREND ON LINE
In Cina l'economia
continua a crescere: Pil a +8,9% nel terzo trimestre
22 Ottobre 2009 08:21 MILANO -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
La crescita cinese è ancora aumentata nel terzo trimestre:
il Pil ha raggiunto l'8,9 per cento grazie a un piano
considerevole di rilancio che ha causato un boom
dell'edilizia, una fiammata in Borsa e una ripartenza dei
consumi delle famiglie.
Nel secondo trimestre il Pil era cresciuto del 7,9%, dopo un
rallentamento, +6,1%, nel primo. La crescita nei primi nove
mesi dell'anno è stata del 7,7 per cento, ha riferito oggi
l'ufficio nazionale delle statistiche: il valore accumulato
del Prodotto Interno Lordo nei primi nove mesi del 2009 ha
quindi raggiunto i 21,78 miliardi di yuan (2,12 miliardi di
euro). I responsabili si aspettano che l'economia raggiunga
almeno l'obiettivo di crescita annuale dell'8 per cento.
Accelera la crescita della produzione industriale. A
settembre il dato ha fatto segnare un +13,9% facendo meglio
sia delle attese, che indicavano un +13,3%, sia del mese di
agosto, che aveva fatto segnare un +13,3%. Complessivamente,
nel terzo trimestre la produzione industriale è salita del
+12,4% dopo il +9,1% del secondo trimestre.
In Cina gli investimenti in capitale fisso nelle zone urbane
sono saliti del 33,3% nei primi 9 mesi dell'anno rispetto a
+33,5% dei primi sei mesi. Il rialzo sui nove mesi è più
forte di 5,7 punti rispetto a quello registrato nello stesso
periodo del 2008. Tuttavia gli analisti evidenziano come il
progresso più significativo sia legato al +52,6% degli
investimenti nelle infrastrutture, segno del forte ruolo
pubblico di sostegno all'economia cinese.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
Quanto è "troppo"
per il debito di un governo?
22 ottobre 2009 - 10:31 -
di Emily Kaiser ______________________________________________
A chi chiede in prestito migliaia di miliardi di dollari
aiuta avere una buona reputazione, introiti fissi e molti
amici ricchi e fiduciosi.
Questo, in parte, spiega perchè i 1.400 miliardi di dollari
di deficit Usa annunciati la scorsa settimana hanno lasciato
attoniti i politici ma non hanno spaventato gli investitori,
che continuano a dare denaro al governo Usa a bassi tassi di
interesse.
E questo spiega anche come mai Giappone e Italia possono
andare avanti con un debito superiore al Pil - mentre in
passato economie di mercati emergenti come l'Argentina sono
state schiacciate da indebitamenti di dimensioni simili.
Per quanto riguarda l'Italia conta poi che non sia mai
andata in default dai tempi di Benito Mussolini e che
appartenga al sistema dell'euro.
Secondo il Fondo monetario internazionale, il rapporto tra
debito e Pil nei paesi del G7 continuerà a salire quest'anno
e rimarrà probabilmente elevato almeno fino al 2012.
In parte, ciò è conseguenza della recessione: la spesa dei
governi è schizzata verso l'alto nel tentativo di salvare le
banche e resuscitare le economie, mentre i ricavi da tasse
sono diminuiti.
I Governi cercano di trovare un magico equilibrio tra il
"fare", per mettere fine alla crisi, e il "non fare", per
evitare di piombare nel buco nero del debito.
"E' questo il dilemma centrale di questo periodo storico
(trovare il punto d'equilibrio)", dice il segretario del
Tesoro Timothy Geithner.
Una cosa comunque è certa: se i Paesi più ricchi del globo
prenderanno sotto gamba il problema del debito, le
conseguenze saranno gravi e gli effetti a domino.
Per gli Usa, ad esempio, i primi segni di difficoltà
potrebbero tradursi in un rapido deprezzamento del dollaro,
un aumento veloce dell'inflazione e un balzo dei rendimenti
dei Treasuries.
Fonte
- REUTERS
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Attenzione
alla premiata stamperia di moneta
21 Ottobre 2009 14:19
LUGANO - di Alfonso Tuor
________________________________________
La situazione attuale appare a prima vista
irrealistica: le borse volano (mercoledì l’indice americano Dow Jones è ritornato sopra la quota psicologica dei 10.000
punti), i mercati dei capitali lavorano a pieno ritmo e le
grandi banche internazionali hanno ripreso a registrare
grandi utili nelle attività di trading che hanno originato
la crisi. L’unico neo è rappresentato dai mercati dei cambi
dove il dollaro e la sterlina britannica continuano a
deprezzarsi.
La debolezza del biglietto verde statunitense, che è ad un
passo dalla parità con il franco e prossimo a quota 1,50
rispetto all’euro, ha messo le ali all’oro e sta facendo
lievitare i prezzi di alcune materie prime.
Questo apparente
miracolo di un mondo finanziario risorto dalle sue ceneri ha
un’unica causa: l’incessante attività di stampa di moneta
condotta in principal modo dalla Federal Reserve americana e
dalla Banca d’Inghilterra e in misura più moderata dalla
Banca centrale europea e dalla Banca Nazionale Svizzera.
L’enorme quantità di capitali in circolazione a costi
irrisori fornisce l’impressione che la crisi sia ormai
superata.
La realtà è ben diversa. Innanzitutto questi capitali sono
stati in massima parte usati per rimettere in funzione i
mercati finanziari. Una parte delle perdite delle banche
sono state socializzate, ossia sono ora addebitate ai
contribuenti. Solo
un’esigua quota della liquidità creata dalle banche centrali
è stata direttamente usata per rilanciare l’economia reale.
Non sorprende quindi che non vi siano chiari segnali di
ripresa e che molti economisti temano che, esaurito
l’effetto di queste misure straordinarie, l’economia possa
ricadere in recessione.
Questo timore è particolarmente diffuso negli Stati Uniti,
come attestano i verbali dell’ultima riunione del Comitato
direttivo della Federal Reserve, ed è avvertito soprattutto
dai mercati dei cambi. La debolezza del dollaro e della
sterlina può essere considerata un indicatore della
convinzione che la stabilizzazione dell’attività economica
degli ultimi mesi è molto fragile e che Washington e Londra
continueranno a stampare moneta (come del resto hanno
confermato) per tentare di rilanciare le loro economie.
E proprio in
quest’ottica il deprezzamento di dollaro e sterlina è stato
almeno finora assecondato dalle stesse autorità americane e
britanniche e non osteggiato da Europa e Giappone (solo
recentemente la Banca centrale europea ha dichiarato di
temere il rialzo del valore dell’euro). Ad essere
preoccupati appaiono solo alcuni Paesi del Sud-Est asiatico,
che paventano di veder strangolata la propria industria di
esportazione dal calo del dollaro, che comporta
automaticamente anche un ribasso della valuta cinese.
I vantaggi per gli
Stati Uniti del deprezzamento del dollaro non sono evidenti.
La maggiore competitività dei prodotti e dei servizi
americani sui mercati esteri è largamente minata
dall’aumento del prezzo delle materie prime e soprattutto
del petrolio e di tutti quei beni che gli Stati Uniti non
producono più. Tutto ciò riduce il potere d’acquisto delle
famiglie americane e rende più problematica una ripresa dei
consumi. La politica del dollaro debole rappresenta un
vantaggio solo se l’obiettivo della politica monetaria
americana è far risorgere l’inflazione che avrebbe la virtù
taumaturgica di ridurre l’ammontare del debito detenuto da
famiglie, imprese e Stato federale.
Finora questo timore non è nemmeno lontanamente intravvisto
dai mercati dei capitali, che sono i più sensibili alle
aspettative inflazionistiche. Ma se i segnali di ripresa
dovessero cominciare ad essere credibili, è prevedibile che
immediatamente salirebbero i tassi di interesse, soprattutto
quelli a medio e a lungo termine.
Si può dunque sostenere che la debolezza del dollaro sia una
spia di un’economia americana in condizioni ancora molto
precarie, che non ha assolutamente superato la crisi e che
anzi continua ad avere bisogno di continui interventi
governativi per non ricadere in recessione.
 |
Fonte -
Corriere del Ticino |
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Fare
cassa e speculare
21 Ottobre 2009 06:33
LONDRA - di Mauro Bottarelli
________________________________________
Fare cassa. La priorità, per il governo britannico,
da qui a fine anno in attesa che inizi il conto alla
rovescia per le elezioni generali, è una sola: rientrare per
quanto possibile dal terribile passivo accumulato con le
operazioni di salvataggio prima e stimolo dopo ed evitare la
spirale del debito pubblico selvaggio.
Detto fatto, il premier britannico, Gordon Brown, si
appresta ora ad annunciare un piano di cessioni di beni
pubblici per 16 miliardi di sterline nei prossimi due anni,
di cui 3 miliardi (4,8 miliardi di dollari) nelle prossime
due settimane. Quest'ultima tranche di privatizzazioni
includerà la vendita della società di scommesse Tote, la
partecipazione del governo nel tunnel ferroviario sulla
Manica e sul Tamigi, un portafoglio di prestiti agli
studenti e la quota statale del 33% nell'Urenco, la società
pubblica per l'arricchimento dell'uranio.
Le cessioni serviranno a diminuire l'indebitamento pubblico
e prevedono altri 13 miliardi di sterline di vendite di beni
pubblici, già indicate in un rapporto del 2007. Ma per
capire come Oltremanica stiano prendendo molto seriamente la
gravità di questa fase, un misto tra speranze di ripresa e
potenziali ricaschi di una crisi a "w", lo si deduce dalle
altre dichiarazioni di politica economica fatte dal primo
ministro, secondo il quale fermare la politica di
quantitative easing metterebbe in pericolo la ripresa
economica. Cosa sia il quantitative easing è noto ma
ripeterlo giova: si tratta di una politica per creare moneta
da parte delle banche centrali attraverso l'acquisto di
titoli finanziari in mano a privati e include anche la
possibilità di acquistare nuovi titoli del debito pubblico
da parte delle autorità monetarie.
La Gran Bretagna ha avviato un vasto programma di
quantitative easing in parallelo all'allentamento dei tassi,
per contrastare la crisi economica e finanziaria: «Vi è uno
spartiacque fondamentale - dice Brown - nella politica
britannica. C'è gente che vorrebbe che gli stimoli economici
fossero ritirati subito, mentre l'economia è ancora in
difficoltà e c'è gente che vorrebbe arrestare da oggi il
quantitative easing, mettendo in pericolo la ripresa».
L'allarme di Brown sul ritiro degli stimoli all'economia e
delle politiche di quantitative easing altro non è che una
risposta alle proposte dei conservatori e in particolare a
quelle del loro leader David Cameron, il quale ha detto che
gli aiuti pubblici e monetari vanno rivisti «in fretta». Il
leader dei Tories ha più volte detto, ultima la scorsa
settimana al congresso del partito a Manchester, che la
minaccia più grande per l'economia viene dal deficit
pubblico, mentre Brown insiste nel mantenere gli stimoli
finché l'economia non avrà mostrato chiari segni di ripresa.
Chi abbia ragione dei due, in un momento simile è difficile
dirlo. Certamente le politiche di quantitative easing, a
lungo andare fanno più danno che utile e la scelta di
dismettere tutte le partecipazioni governative per fare
cassa parla questa lingua. Dall'altra, però, resta il fatto
che scommettere un po' sulla leva del debito può rivelarsi
una scelta vincente se consente un consolidamento della
ripresa e mette al riparo il sistema da possibili - e
probabili - nuovi terremoti. Una cosa sola è certa: avere la
sterlina e la Bank of England permette grande libertà e
velocità di manovra, opzioni che la Bce non pare avere nel
suo dna.
Detto questo, non solo da questa parte dell'oceano si
comincia a pensare in maniera difensiva, ovvero di dar vita
a una sorta di hedging politico della crisi. Il governo
statunitense ha infatti deciso di liberarsi al più presto
della sua quota in Citigroup, qualcosa di più di un terzo
delle azioni del colosso creditizio statunitense e lo ha
fatto cercando di sfruttare al massimo le potenzialità
dell'istituto prima di lasciarlo al proprio destino. È
infatti di tre giorni fa l’annuncio della vendita di Phibro,
la divisione di Citigroup specializzata nel trading sul
mercato del petrolio e di altre materie prime, punta di
diamante del gruppo e una delle vere e proprie macchine
fabbrica soldi durante il rally che portò le quotazioni del
petrolio a toccare i 147 dollari nel luglio del 2008, in
piena crisi e poi a disfarsi con altrettanta bravura delle
posizioni quando la brusca virata dettata dal crollo della
produzioni li portò a 34 dollari pochi mesi dopo.
Parlavamo di hedging politico e ora spieghiamo il perché.
Phibro è stata acquistata dalla compagnia petrolifera
Occidental Petroleum Corporation per soli 250 milioni di
dollari, cifra che non rappresenta nemmeno gli utili di un
anno di Phibro, che infatti negli ultimi cinque anni ha
presentato conti in attivo mediamente di 371 milioni di
dollari.
Il problema era tutto politico: primo, uno dei suoi trader
riceve 100 milioni di dollari l’anno e questo in clima di
caccia a speculatori e streghe finanziarie può apparire
sgradevole per un governo democratico che si ritrova ad
essere anche azionista. Secondo, appariva decisamente
sgradevole per il ministro del Tesoro, Timothy Geithner,
spiegare a mercato e cittadini che il governo che
rappresenta era primo azionista di uno dei protagonisti
principi del mercato dei futures petroliferi e delle
commodities, mercato che proprio Geithner insieme alla Sec
sta cercando - almeno a parole - di regolamentare evitando
la giungla delle dark pools.
Insomma, squeezes e corners poco si abbinano con il profilo
da Nobel per la pace del governo democratico. Ma la Borsa è
pronta a un altro rally, il mondo si prepari a un'altra
bolla.
 |
Fonte -
IlSussidiario.net |
Roubini: mercati
a rischio se il dollaro inverte la rotta
26 Ottobre 2009 17:58 NEW YORK
- ANSA ______________________________________________
Il dollaro ha toccato un nuovo
minimo a 1,5063 dollari sull'euro da 14 mesi. Una frenata,
quella del biglietto verde, che è andata di pari passo con
il rally dei mercati finanziari. Una correlazione non
casuale, come sostiene Nouriel Roubini, l'economista famoso
per aver previsto la crisi finanziaria generata dai mutui
subprime. La speculazione sulle valute - spiega l'economista
in un'intervista alla televisione americana Cnbc - gioca un
ruolo fondamentale nell'andamento dei mercati. Con rischi
notevoli. «Quando la discesa del dollaro si fermerà - è
convinto Roubini - l'inversione di marcia (ma in negativo)
contagerà i mercati finanziari, dando origine a un altro
pesante crac»
L'attuale rally delle Borse - è l'analisi di Roubini - è
stato generato dall'enorme massa di liquidità immessa sul
mercato dalla Federal Reserve, per far fronte alla stretta
creditizia. I bassi tassi d'interesse hanno spinto gli
investitori al carry trade (la pratica che consiste nel
prendere in prestito denaro dove i tassi sono bassi per
reinvestirli in valute più convenienti). Ma non solo. Molti
hanno chiesto dollari in prestito a tassi zero negli Usa,
per poi reinvestirli altrove. Sfruttando ad esempio il rally
dei mercati emergenti (come quello cinese) o delle commodity
(come l'oro e il petrolio). E con il dollaro in caduta
libera, può succedere addirittura che il costo effettivo a
cui si chiede in prestito il denaro finisca per essere
negativo. Come dire: chiedo in prestito 100 e restituisco
90.
Questo, secondo Roubini, è uno dei meccanismi che ha dato
origine al rally dei mercati di questi mesi. Ma così come si
è attivato, questo sistema si può disinnescare non appena il
trend ribassista del biglietto verde si interromperà. «Il
dollaro non può scendere per sempre - dice Roubini - quando
ci sarà l'inversione, chi finora chi ha speculato al ribasso
dovrà disfarsi improvvisamente degli asset che ha
acquistato, spingendo al ribasso i listini. Il perché è
presto detto. Per lo stesso motivo per cui il dollaro in
calo porta sotto zero il tasso effettivo di interesse, un
rialzo del biglietto verde rischia di farlo risalire. E su
grossi volumi questo potrebbe avere un impatto notevole.
C'è un rischio a breve termine? Secondo Roubini no. Molto
infatti dipende dalle scelte dal numero uno della Fed, Ben
Bernanke, sui tassi d'interesse. «Al momento - dice
l'economista - sono convinto che la banca centrale terrà
basso il costo del denaro per un po'». L'economia reale è
ancora molto debole. La disoccupazione è alta. E il dollaro
debole aiuta le esportazioni delle aziende americane. «Ma
una cosa è certa, finché i tassi rimarranno a questi
livelli, la speculazione non si interromperà». Come a dire,
se non si troverà a breve una soluzione, la bolla rischia di
gonfiarsi sempre di più.
Fonte
- ANSA
2009, 1929 o
1999?
Monday, 26 October, 2009 at 15:20 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Una comparazione molto di moda è
quella fra gli eventi del 2007-2009 e le fasi iniziali della
Grande Depressione. Un’altra crisi viene ricordata meno
spesso, ma è altrettanto interessante dal punto di vista dei
mercati finanziari : quella del 1998-1999.
Jeff Saut, analista a Raymond James ha individuato
recentemente i paralleli fra le due crisi . Nel 1998 la
Russia fece bancarotta sul proprio debito interno,
l’autorità monetaria di Hong Kong fu costretta ad
intervenire sul mercato, lo yen si apprezzò durante la crisi
valutaria e il fondo LTCM implose negli USA. I mercati
globali furono schiacciati, ma si ripresero rapidamente
grazie ad un rally indotto da un’iniezione di liquidità
della Fed da record e dal primo salvataggio di
un’istituzione “troppo grande per fallire” (too big to fail).
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Parallel crash
1998 - 2007/2009 |
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La maggior parte degli investitori rimase avversa al rischio per
quasi tutto il 1999, mentre il mercato decollava in una frenesia
generata dalla liquidità iniettata dalla Fed. E ’stata una delle
più grandi divergenze nel comportamento tra i piccoli
investitori e gli investitori professionali nella storia del
mercato e verso la fine del 1999 i piccoli investitori gettarono
la spugna e si precipitarono nel mercato. Sappiamo tutti cosa è
successo dopo. Il rally indotto dalla Fed si rivelò del tutto
effimero ed il mercato implose in maniera drammatica nel 2000,
con lo scoppio della bolla delle dot-com. Vi suona familiare? Se
il paragone regge, il problema maggiore per l’investitore
diventa relativo ai tempi di uscita. Questo, sia che il rally
sia soltanto temporaneo, sia che invece termini senza un secondo
crash.
Fonte
- Macromonitor
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Hernando de Soto Polar:
«Il diritto salverà l'economia»
26 Ottobre 2009 12:27
VENEZIA - di Marco Magrini
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Solo il diritto può salvare l'economia. Solo un
sistema legale dove le transazioni vengono ufficialmente
registrate, può accompagnare cinque miliardi di persone -
quelli che non conoscono il diritto di proprietà - dentro i
canoni dell'economia globale. «Il diritto ha avuto
un'importanza fondamentale, nel creare la prosperità dal
dopoguerra a oggi, un periodo durante il quale il mondo ha
creato tanta ricchezza quanto nei due millenni precedenti»,
sentenzia Hernando de Soto Polar, l'economista peruviano
spesso osannato (la Thatcher lo paragonò ad Adam Smith) e in
perenne odore di Nobel. «Prendiamo l'Egitto: il suo
patrimonio immobiliare è di 260 miliardi di dollari,
sessanta volte quanto il Paese ha ricevuto in aiuti
internazionali da quando Napoleone se n'è andato. Solo con
un solido sistema legale a tutela della proprietà, la gente
potrebbe ottenere finanziamenti e investire le risorse che
già esistono, per far girare l'economia».
De Soto, ieri a Venezia per partecipare al Congresso
nazionale del notariato, dice di non essere «per nulla
convinto» che la recessione sia agli sgoccioli. Tutt'altro.
Ma ha una tesi interessante. «Non credo che mille miliardi
di mutui subprime abbiano innescato 60mila miliardi di
perdite in un anno», confessa. «Mi colpì l'ex ministro del
Tesoro Usa, Paulson, quando chiese al Congresso 780 miliardi
per riformare gli asset "malati". Poi, venti giorni dopo,
rivelò che quei soldi sarebbero serviti a stimolare
l'economia. È andata così perché quegli asset malati non si
trovavano. Non erano registrati.
Per la prima volta
l'economia americana, cresciuta sui princìpi legali
anglosassoni, aveva creato una finanza sommersa dove i
derivati (carta di carta di carta) non erano neppure
tracciabili. La Sec parla di 600mila miliardi di dollari,
dieci volte il Pil mondiale».
Per spiegarsi, de Soto porta un curioso esempio. «Pochi
giorni dopo l'11 settembre, gli investigatori sapevano tutto
sugli attentatori: alberghi, acquisti, case affittate,
scuole frequentate. E sa perché? Perché il diritto di
proprietà implica di tenere traccia di tutte queste cose: in
Afghanistan o in Messico non sarebbe successo». Ora, il
diritto di proprietà esiste nel Nord America, in Europa e in
certi Paesi asiatici. «Riguarda solo un miliardo di persone
- commenta de Soto, l'uomo che ha salvato il Perù dal
tracollo, ai tempi del primo mandato del presidente Fujimori
- a cui possiamo aggiungere 700 milioni di quelli come me:
terzomondisti, ma occidentalizzati. I restanti cinque
miliardi di individui non sanno chi possiede cosa».
O meglio, le tribù lungo il fiume Congo o il Rio delle
Amazzoni lo sanno benissimo, ma senza uno standard legale
che li protegga. Anzi, che favorisca la loro crescita
economica. «Se avessero il diritto dalla loro parte,
scoprirebbero che non devono più morire per difendere quel
che hanno. Dopodiché, diventerebbero interessati alla
giustizia. Poi ai processi legislativi. Infine, alla
democrazia». Scusi, ma sotto quest'ottica, il diritto di
proprietà non dovrebbe essere incluso fra i diritti umani?
«Assolutamente sì», risponde Hernando de Soto, omonimo di un
celebre conquistador spagnolo, che non risulta essere suo
antenato. «Con Madeleine Albright, presiedo la Commissione
Onu per l'empowerment legale dei poveri, dove stiamo
lavorando in questa direzione».
Questo non vuol dire che il divario fra mondo ricco e povero
non si stia in parte chiudendo. «I telefoni cellulari hanno
fatto miracoli, nel connettere le persone in Africa. Ma
tutto dipende da come si evolverà la crisi». Perché,
secondo
de Soto, molti nodi devono ancora venire al pettine, a
cominciare da «quell'eccesso di liquidità» generato dai
piani nazionali di stimolo all'economia. «Sarà l'occasione
per il cambiamento», commenta. Per il resto, la storia
insegna. «I giapponesi erano poveri come i peruviani -
spiega - poi, dopo la guerra hanno adottato i diritti legali
e oggi la loro economia è undici volte la nostra. Gli
svizzeri non hanno né cacao né zucchero, ma guardi cos'hanno
fatto grazie alla forza dei contratti legali». Anche
l'esempio recente della Cina parla chiaro e forte.
Proprio com'è solito fare de Soto. Anche a chiedergli del
Nobel di cui parlano tutti. «La parola "proprietà" è a lungo
risuonata come una parola di destra. Chissà, a Stoccolma
qualcuno potrebbe non gradire», risponde l'economista, che
si professa «di sinistra». Anche se, negli anni delle grande
riforme peruviane, ha rischiato la vita nel contrastare -
con l'economia e il diritto - i guerriglieri maoisti di
Sendero Luminoso. Il suo libro più celebre, «El otro sendero»,
un altro sentiero, era un chiaro invito al suo Perù a
disfarsi di quell'ideologia. E il Perù ci è riuscito.
Ma c'è un altro sentiero per l'economia del mondo
globalizzato a metà? «Credo che per cambiare strada, ci
voglia uno shock. Che forse arriverà. Perfino Marx e Adam
Smith dicevano che la finanza doveva essere a servizio
dell'economia reale. Poi, all'improvviso, ci siamo trovati
davanti all'esatto contrario. Questo sì che è un sentiero da
abbandonare». Per il resto, quella grande fetta di mondo
senza neppure il diritto alla proprietà potrebbe un giorno
entrare compiutamente nell'economia globalizzata,
rivitalizzandola. Perché solo il diritto può salvare
l'economia dai suoi rovesci.
L'appuntamento
Oggi pomeriggio l'economista peruviano Hernando de Soto
Polar terrà una lectio magistralis al Congresso italiano del
Notariato, che si apre a Venezia e proseguirà fino a sabato
e che sarà trasmesso in diretta sul nostro sito.
«Il professor de Soto - commenta Paolo Piccoli, presidente
del Consiglio del Notariato - da sempre applica i suoi studi
per dimostrare come la formalizzazione dei diritti, lungi
dall'essere un costo o un freno per lo sviluppo, costituisca
un motore potente per liberare risorse economiche,
finanziarie e umane anche nei paesi in via di sviluppo; ma a
una condizione: che i dati immessi nei Pubblici Registri
siano affidabili e certi, perché provenienti da soggetti
qualificati, imparziali, controllabili e responsabili»
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
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Giovedì
22
Ottobre
2009 |
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Venerdì
23
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2009 |
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Venerdì
30
Ottobre
2009 |
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La
difficile guerra di Ben Bernanke
sui due fronti di finanza e valute
28 Ottobre 2009 14:02
MESSINA - di *Leon Zingales
Leon Zingales,
PhD in Fisica, professore al Dipartimento di Matematica,
Università di Messina.
________________________________________
Le fluttuazioni
esistono sempre, anche in corrispondenza di uno stato di
equilibrio, ma ciò che sta accadendo a livello
macroeconomico ha poco a che vedere con uno stato
d’equilibrio. Quando un sistema fisico è in prossimità di
una transizione di fase, ossia è in procinto di cambiare il
proprio stato termodinamico, esibisce fluttuazioni sempre
crescenti: la cosiddetta opalescenza critica.
Al fine di salvare
il sistema finanziario dall’Armageddon (almeno
temporaneamente) vi è stata una gigantesca immissione di
liquidità concordata da tutte le Banche Centrali mondiali,
ma ciò ha determinato la creazione di tremende
sollecitazioni del sistema valutario. Doppio dramma: rapido
incremento dei Deficit pubblici e tremendo stress
nell’interscambio valutario. Le monete risuonano:
esse fluttuano in modo ormai repentino. Si badi bene non si
sta parlando di Fiorino Ungherese o Lira Turca (con tutto il
rispetto parlando…), bensi’ ballano il Dollaro e la Sterlina
(all’interno di un trend decrescente in virtù del carry
trade). I pilastri su cui si regge il mercato valutario
mondiale ormai usualmente presentano variazioni percentuali
nel cambio valutario superiori al 2% nel giro di poche ore.
Basti pensare alla repentina ripresa del Dollaro che, prima
proiettato verso quota 1.51 è rapidamente sceso sotto 1.48.
In questo particolare caso la causa è probabilmente un
intervento diretto della FED che sta cercando in tutti i
modi di far procedere le aste dei titoli di Stato.
E’ ormai da mesi
presenti una correlazione diretta tra Dollaro e mercati
finanziari. Non a caso l’intervento della FED per far salire
il Dollaro ha contemporaneamente determinato un evidente
calo dei mercati finanziari mondiali.
La FED sta facendo una politica del bilancino: da un lato ha
la necessità di continuare a far salire le borse onde
diminuire la crisi di capitalizzazione delle maggiori
banche, dall’altro non può far indebolire troppo il Dollaro
per evitare la fuga degli investitori esteri dai TBills e
continuare a finanziare il crescente deficit. Vi è un patto
non scritto con le maggiori banche "too big to fail": lo
Stato fornisce liquidità sottocosto al settore bancario
(aumentando la solidità patrimoniale delle banche ovviamente
a spesa del deficit pubblico) e le banche acquistano titoli
di Stato guadagnando sul margine (ed ovviamente in parte
investono nella roulette dei mercati finanziari).
Il dramma è che tale
processo di flusso interno non basta: vi è la necessità che
anche gli investitori esteri comprino i titoli di Stato.
L’asta decennale e quella trentennale del 7 Ottobre hanno
evidenziato qualche elemento di schricchiolando in
quanto, malgrado i rapporti Bid-to-cover ratio si siano
mantenuti nei rassicuranti valori rispettivamente di 3.01 e
2.37, relativamente agli investitori esteri (Percentage of
indirect bidders) i rapporti sono stati prossimi a 1.5.
Di conseguenza la politica del bilancino è stata volta a
frenare la decrescita del Dollaro e ciò ha consentito
apparentemente una buona riuscita dell’asta biennale .
Infatti il rapporto Bid-to-cover ratio è stato un pregevole
3.63 (contro una media di 2.96 per le aste biennali), mentre
per quanto concerne gli investitori esteri ha raggiunto il
valore più che accettabile di 2.1.
Ma la vera partita si gioca oggi: siamo in trepidante attesa
per quanto concerne le aste a lunga scadenza, i cui
risultati verrano rese note oggi. Non è detto che funzioni.
Il bilancino funziona solo in presenza di piccole salite:
allorchè la salita è troppo ripida si rischia di bruciare la
frizione. Ho i miei dubbi che per molto tempo la FED possa
continuare ad affrontare una doppia crisi: finanziaria e
valutaria.
 |
Fonte -
xxx |
Est Europa, meno
rischi e qualche perplessità
mercoledì, 28 ottobre 2009 -
Marco Caprotti ______________________________________________
Sarà che agli operatori è tornato
un po’ di appetito per il rischio; sarà anche che le
prospettive nel lungo periodo per i Paesi emergenti, come
più volte ripetuto anche dagli analisti di Morningstar,
nonostante i rischi di breve periodo legati alla crisi
economica mondiale restano buone. Fatto sta che l’indice
Msci relativo all’Europa dell’est nell’ultimo mese (fino al
26 ottobre e calcolato in euro) ha guadagnato più dell’11%,
portando a +74,8% la performance da inizio anno.
“Le paure di crisi finanziaria estesa a tutta la regione si
stanno esaurendo”, spiega uno studio di Rge, la società di
ricerca dell’economista Nouriel Roubini. “Merito della
costante presenza del Fondo monetario internazionale (Fmi),
dell’aiuto dell’ovest ai Paesi che avevano più bisogno e, in
generale, di una ritrovata fiducia da parte degli
investitori”. Ciò non toglie che la fotografia dell’area
resti di difficile lettura. Proprio l’Fmi, per esempio, per
quanto riguarda l’Ucraina ha condizionato la concessione di
un prestito da 3,4 miliardi di dollari alla bocciatura di
una serie di riforme previdenziali e pensionistiche che
potrebbero essere eccessivamente onerose per i conti dello
Stato. Il programma del fondo era già stato sospeso per tre
mesi dopo una serie di incertezze a livello governativo
sull’utilizzo dei fondi.
Complicata anche la situazione nella Repubblica Ceca dove la
fiducia di aziende e consumatori ad ottobre è ancora in
territorio negativo per il dodicesimo mese consecutivo. Le
previsioni del ministero ceco delle finanze parlano di una
contrazione del Pil del 4,3% per quest’anno. La stima nei
prossimi giorni potrebbe essere rivista, ma non sono in
molti a scommettere su un suo miglioramento. Vanno meglio,
invece, le cose in Ungheria dove la fiducia sull’economia ha
registrato il salto maggiore da un anno a questa parte.
Segno, spiegano gli economisti, che la crisi iniziata a
settembre-ottobre del 2008, potrebbe aver toccato il punto
più basso ed è possibile un rimbalzo.
“Certo, dei rischi nella regione ci sono ancora”, continua
lo studio di Rge. “Ma sono emersi anche degli elementi
positivi. La ripresa nel secondo trimestre di Francia e
Germania è un segnale positivo: si tratta, infatti, di
mercati chiave per l’Europa dell’est e di due ricche fonti
di capitali”. Anche il rischio che il collasso della
Lettonia si possa estendere ai Paesi confinanti sembra
momentaneamente rientrato. “Gli investitori e i governanti
degli Stati dell’area hanno avuto tempo per prepararsi a
questa eventualità”, continua il report. “Il pericolo è
diminuito anche grazie al fatto che i Paesi della regione si
sono molto diversificati gli uni dagli altri. La Polonia, ad
esempio, vanta il primato di essere l’unico membro
dell’Unione europea ad aver evitato la recessione”.
Gli investitori, suggeriscono gli analisti di Roubini,
dovrebbero fare attenzione al comparto bancario dell’Europa
dell’est. “Molti istituti hanno in cassa un gran numero di
crediti inesigibili”, spiegano. “Nella maggior parte dei
casi, si tratta di banche controllate da istituzioni
dell’ovest che subirebbero il contraccolpo di un eventuale
peggioramento della situazione nella regione. Per
assorbirlo, potrebbero decidere di chiudere ancora una volta
il rubinetto dei prestiti”.
Asia al traino della
Cina
mercoledì, 28 ottobre 2009
-
xxx ______________________________________________
Asia al traino della Cina
Marco Caprotti - mercoledì, 28 ottobre 2009 - 16:33
MORNINGSTAR
La corsa dell'Asia continua. L'indice Msci della regione
(Giappone escluso), nell'ultimo mese (fino al 28 ottobre e
calcolato in euro) ha guadagnato più del 2%. Nello stesso
periodo, il paniere principale World è cresciuto dello
0,55%.
La performance della regione, tuttavia, non è storia delle
ultime quattro settimane. Il rimbalzo, infatti, dura dal
secondo trimestre di quest'anno. Merito, spiegano gli
analisti, delle aggressive politiche monetarie e fiscali
messe in campo dai Paesi dell'area che sono stati in grado
di compensare il calo della domanda. Una migliore gestione
dei magazzini, invece, è riuscita a rispondere alla discesa
della produzione industriale.
I grandi numeri mostrati dall'Asia, come al solito, sono
etichettati . Bank of Communication, la quarta banca del
Paese del Drago, ha comunicato che nel terzo trimestre ha
avuto un utile netto di 7,32 miliardi di yuan (quasi 1
miliardo di euro). Una crescita dell'1,5% rispetto allo
stesso periodo dell'anno scorso, appena al di sotto delle
attese degli analisti. Merito, sostanzialmente della ripresa
dell'economia che, nel trimestre di riferimento, ha avuto
un'espansione vicina al 9% che ha portato con se una
maggiore richiesta (e concessione) di crediti alle imprese.
Per gli stessi motivi la rivale China Construction Bank ha
avuto un utile per oltre 30 miliardi di yuan riuscendo, in
questo caso, a superare le attese degli operatori.
Il buono stato di forma del Paese asiatico è stato
confermato da China Investmment Corporation. Il fondo
sovrano del Regno di mezzo ha comunicato di avere a
disposizione l'equivalente di 110 miliardi di dollari per
fare investimenti all'estero. Soprattutto per entrare nel
capitale di società legate alle materie prime. Un modo
sicuro per proteggersi contro l'aumento dell'inflazione che
una crescita accelerata rischia di portarsi dietro.
Il punto, adesso, è capire se la crescita dell'intero
continente asiatico potrà continuare e con quali ritmi. “I
diversi Paesi della regione si trovano a che fare con una
debole domanda interna e una contrazione delle
esportazioni”, spiega uno studio di RGE. “Due elementi che
le politiche di emergenza messe in campo dagli stati
dell'area non potranno compensare ancora a lungo”.
Secondo i dati della società di analisi, la regione asiatica
nel 2009 crescerà del 4,9% nel 2009 e del 6,6% nel 2010.
“L'anno prossimo l'effetto delle politiche fiscali ed
economiche tenderà a scemare”, continua lo studio. “A quel
punto il futuro della regione dipenderà dall'andamento delle
esportazioni verso le economie più sviluppate e dal livello
dell'appetito per il rischio degli investitori”.
Fonte
- Morningstar
La stretta che
viene da Oriente
October 28th, 2009 -
EPISTEMES.ORG ______________________________________________
Come riporta Bloomberg, la banca
centrale indiana ha ordinato ai prestatori di aumentare il
cosiddetto statutory liquidity ratio, una sorta di ibrido
tra coefficiente di riserva obbligatoria e vincolo di
portafoglio a carico delle banche, portandolo dal 24 al 25
per cento. Ma l’India non è il solo paese a mettere mano a
misure di ritiro parziale della formidabile espansione
monetaria attuata negli ultimi due anni. Anche altre
autorità monetarie della regione Asia-Pacifico stanno
muovendosi, dopo l’aumento dei tassi ufficiali adottato
giorni addietro dalla Reserve Bank of Australia, per
contrastare il deterioramento delle partite correnti e la
crescita di occupazione indotte dalla ripresa.
Il problema maggiore, per la regione asiatica, è al momento
quello di contrastare lo sviluppo di bolle immobiliari
indotte dal livello eccezionalmente basso dei tassi
d’interesse e dalla enorme liquidità presente nel sistema
finanziario globale. Per il momento, tuttavia, in luogo di
aumenti espliciti dei tassi d’interesse, che rischiano di
causare l’effetto perverso di un afflusso di “denaro caldo”
in cerca di remunerazione, ed esacerbare la rivalutazione
delle valute locali (peraltro già molto marcata contro
dollaro e yuan), si preferisce optare per misure alternative
e prevalentemente amministrative di razionamento del
credito.
Tra tali misure alternative di raffreddamento del mercato
immobiliare si segnala la stretta sul limite massimo
d’indebitamento (il loan-to-value ratio, LTV). Ad Hong Kong,
ad esempio, il LTV su case di lusso è stato ridotto dal 70
al 60 per cento. Ciò significa che gli acquirenti devono
disporre di mezzi propri pari almeno al 40 per cento del
valore dell’immobile. Inoltre, l’autorità governativa ha
sospeso l’assicurazione pubblica per prestiti su immobili
non occupati dal proprietario. A Singapore, il governo ha
vietato i prestiti che prevedono solo la corresponsione
d’interesse per un periodo di tempo protratto. In Sud Corea
il regolatore finanziario prevede una stretta al credito
alle famiglie erogato da entità non bancarie, ed ha tagliato
il LTV al 50 per cento. In Cina, dopo l’ubriacatura di
credito facile dei mesi scorsi, le autorità hanno ordinato
alle cinque maggiori istituzioni creditizie di aumentare gli
accantonamenti per i bad loans e rafforzare i coefficienti
patrimoniali.
Le prossime settimane e mesi vedranno un tentativo di
normalizzare le condizioni monetarie e di prevenire, nei
limiti del possibile, nuove bolle speculative. Ogni paese o
area valutaria adotterà le soluzioni più idonee alla
congiuntura, o almeno questo è l’auspicio, il tutto nella
grande incognita relativa a tempi e modalità della ripresa
americana. Per l’Area Euro il problema si porrà nel momento
in cui si manifesteranno velocità differenziate di crescita
economica. Al momento, la Francia pare nelle migliori
condizioni congiunturali, come evidenziato dalla survey di
ottobre degli indici dei direttori acquisti.
La Francia potrebbe diventare (o ridiventare) il paese
consumatore d’Europa, e produrre un deficit delle partite
correnti utile per dare una piccola spinta ai partner di
Eurolandia. Ma non è tutto roseo. In un simile scenario (ed
in ogni altra ipotesi di grande paese che cresce più della
media europea), la Banca Centrale Europea verrebbe posta di
fronte ad un dilemma di politica monetaria: se lascia i
tassi invariati, il paese che cresce di più, e che
sperimenta una ripresa inflazionistica, vedrebbe la propria
crescita drogata da tassi d’interesse reali negativi, che
condurrebbero ad un boom dei consumi e del credito. E’ il
temuto scenario di bolla creditizia irlandese e spagnola,
che dovrebbe essere gestito dal paese interessato,
ricorrendo ad una stretta fiscale. Se la Bce decidesse
invece una stretta monetaria per contrastare la crescita
eccessiva di alcuni paesi, danneggerebbe l’economia di paesi
in ritardo nella ripresa, come rischia di essere il nostro.
Fonte
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EPISTEMES.ORG
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