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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia - Piano Paulson

USA - Perché la Camera ha bocciato il Piano Paulson

Crisi creditizia - Opinioni

Crisi finanziaria: ormai è già troppo tardi

Macro €uro e BCE

La tigre di carta chiamata Banca Centrale Europea

Crisi creditizia - Caso Islanda

Fallimenti vichinghi

Crisi creditizia - Cina

La crisi dei mercati vista dalla Cina: "gli americani ...

Crisi creditizia - Opinioni

Crisi, la fine del modello americano

Crisi creditizia - Opinioni

Crisi finanziaria: fate qualcosa (di più) ...

Crisi creditizia - Politica UE

Crisi: l'Unione Europea non si scioglie

Crisi creditizia - Politica UE

Crisi: l'arma nucleare

Crisi creditizia - Opinioni

Più frugali siamo già meglio di prima

Crisi creditizia - Opinioni

Meglio uno scrollone da choc o una crisi ...

Crisi creditizia - Mercati Emergenti

Addio al mito dei Mercati Emergenti

Valute

Tempesta valutaria: il cambio fisso non è una ....

   
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ANSA   +++   03 Ottobre 2008 20:10 MILANO   +++   CRISI MUTUI:BORSE BRINDANO A PIANO USA,ORA OCCHI SU BCE   +++   BORSA: L'approvazione del piano Paulson non dà slancio a WALL STREET.  PER S&P 500 SETTIMANA PEGGIORE 2001   +++   06 Ottobre 2008 08:51 MILANO   +++   BORSA: SFIDUCIA ASIA A PIANO USA, TOKYO CROLLA -4,25%   +++   Borsa: dal crollo asiatico a quello europeo   +++   CRISI MUTUI: IL LUNEDI' NERO DELLE BORSE DELL'87   +++   ANSA
 
  Mercoledì 01 Ottobre 2008   Venerdì 03 Ottobre 2008   Sabato 04 Ottobre 2008  
       
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  USA - Perché la Camera ha bocciato il Piano Paulson

01 Ottobre 2008 16:54 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore

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Diversi i motivi dietro la bocciatura. Tuttavia non serve solo per salvare Wall Street, anche le pensioni degli americani soffrono. Stanotte il voto al Senato. Urgenza e imperfezione contro ostilita' e rabbia.
La Camera dei rappresentanti americana ha bocciato lunedì il piano di salvataggio di Wall Street, o Tarp (Troubled asset relief program) per tre motivi che si possono definire preliminari. Perché è una cifra molto alta, superiore a quanto il New Deal spese negli anni 30 per i suoi programmi, in dollari di oggi; perché gli elettori sono furiosi e, siccome Wall Street è popolare quando fa guadagnare ma in fondo è sempre guardata con sospetto, hanno inondato letteralmente con le loro mail il sistema di telecomunicazioni della Camera, che ha dovuto effettuare interventi tecnici, e le mail erano 10 a 1 contro il salvataggio; e infine perché, se questa è la premessa, i deputati sono tutti sotto campagna elettorale perché la Camera si rinnova ogni due anni, tutta, mentre il Senato un terzo per volta, con un mandato quindi di sei anni.
Poi, ci sono gli aspetti specifici. Hank Paulson, il ministro del Tesoro, ha commesso un grosso errore di comunicazione presentandosi alla Camera con tre paginette e dicendo che la cosa andava fatta. Parlava con la mentalità del banchiere di Wall Street, quale è passato al Tesoro direttamente da Goldman Sachs, ben conscio che senza questa misura i guai sarebbero enormi e globali, ma senza mettersi bene nella mentalità del deputato americano, che difende il primato della politica e sa che a casa gliene verrà chiesto conto. Paulson ha detto poi che la misura non dovrebbe essere "punitiva" per le banche, acquistare cioè i loro asset di dubbio valore a un prezzo troppo basso, e ha cercato di addolcire il linguaggio con cui la bozza indicava la necessità di limitare i compensi per i topo manager e soprattutto le buonusicte. Questo è stato veramente un passo falso.
Poi c'è il fatto che l'impianto della legge punta a calmare i mercati alleggerendo il peso dei titoli a rischio, che non si sa quanto valgano. Ma, e questo è uno dei punti ad esempio dei 200 economisti che hanno firmato un messaggio contro la legge, questo non assicurerebbe un risultato. "Il punto è che dietro i titoli a rischio c'è la realtà del mercato immobiliare, che ha bruciato con il crollo dei prezzi circa 4 mila miliardi di valore, valore legato ai titoli che sono in giro sul mercato americano e globale", dice Dean Baker, co direttore del Center for Economic and Policy Research di Washington. E in effetti uno dei punti indicati con forza dai 228 deputati che hanno votato contro riguarda i pignoramenti e la necessità di frenarli, consentendo ad esempio alla magistratura fallimentare di modificare i termini dei mutui. Le banche naturalmente si oppongono. Secondo Baker sarebbe comunque stato meglio seguire una linea come quella adottata per salvare il gigante assicurativo Aig, dare fondi in cambio di quote di azioni privilegiate, e non acquistare assets che hanno un valore, forse, ma non si sa quale. Anche per Simon Johnson, della Sloan school of management del Mit, a Boston, il cuore del problema è la casa, ma l'urgenza comunque impone di agire e il piano Paulson per quanto imperfetto è qualcosa.
I termini della questione sono così riassumibili. Da un lato c'è una misura, imperfetta, ma che comunque risponde a una urgenza e deve affrontare anche una realtà tecnica di non facile comprensione. Dall'altro c'è l'ostilità, il senso di frustrazione e rabbia di chi è chiamato a saldare il conto. E dimentica magari che spesso il boom (artificioso) di questi anni lo ha favorito. Da parte di Washington, di Bush, della leadership del Congresso e dei due candidati è in atto una forte campagna per spiegare che non si tratta di salvare Wall Street, ma l'economia americana (e globale). Può darsi che qualcuno nella grande provincia americana incominci a capire, attarverso il crollo dello schema 401k di pensione integrativa legato anche alla Borsa, che anche i propri risparmi oltre che il posto di lavoro sono a rischio. E non solo la poltrona dei pescecani di Wall Street.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

IMMOBILIARE: SI CHIUDE L'ERA DEL BOOM A NEW YORK

01 Ottobre 2008 17:55 NEW YORK - di WSI
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Il New York Times riporta che la forte espansione del mercato immobiliare nell’area di New York potrebbe essere giunta alla conclusione. Dopo sette anni di continui investimenti in nuove costruzioni, affitti alle stelle, incrementi esagerati dei prezzi di vendita ed un appetito irrefrenabile per abitazioni di lusso e penthouse con vista su Central Park, la crisi del credito e le turbolenze a Wall Street sembrano destinate a segnare la fine del boom del real estate nella Grande Mela.
Le societa’ costruttrici hanno iniziato a lamentare l’improvviso rifiuto dei proprietari a finanziare progetti considerati certi appena pochi mesi o addirittura solo alcune settimane fa. A loro volta questi ultimi accusano la mancanza di fondi da reinvestire dovuta all’assenza di inquilini di alto livello disposti a sborsare cifre notevoli per una suite nei grattacieli piu' esclusivi.
Inoltre le aziende sono sempre piu’ restie ad impegnarsi in nuovi leasing di affitto nell’area di Manhattan perche’ intimorite da un deterioramento delle condizioni economiche che potrebbe comportare un rallentamento dei guadagni e il taglio del personale.
Per Scott Singer, executive vice president di Singer & Bassuk, societa’ di brokeraggio immobiliare, "non esiste il minimo dubbio sul fatto che assisteremo ad un significativo rallentamento dei nuovi cantieri edili, a partire da subito".
 
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Crisi finanziaria: ormai è già troppo tardi

02 Ottobre 2008 02:32 LUGANO - di Alfonso Tuor

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È ormai già troppo tardi. Anche la bocciatura inaspettata del maxipiano da 700 miliardi di dollari, che è anche un clamoroso schiaffo al presidente Bush da parte del Congresso, dimostra che pure il sistema politico è «impazzito» e non è in grado di evitare il tracollo del sistema finanziario. Questo verdetto era già stato pronunciato dal vero barometro di questa crisi, ossia dal mercato interbancario e da quello monetario, dove i tassi erano ulteriormente saliti già in giornata, nonostante la «certezza» che il Congresso avrebbe dato il via libera al «Troubled Asset Relief Program (TARP)» proposto dall’amministrazione Bush.
Questo giudizio è stato inoltre confermato dalla mole degli interventi delle banche centrali chiamate a sostituirsi a mercati non più disposti a dare un soldo alle banche. Così ieri la Federal Reserve ha dovuto iniettare 620 miliardi di dollari e la Banca centrale europea 240 miliardi di dollari. Sono cifre enormi, che mettono a dura prova anche i bilanci delle stesse banche centrali.
La crisi sta precipitando sia negli Stati Uniti sia in Europa. I governi di Olanda, Belgio e Lussemburgo hanno dovuto parzialmente nazionalizzare il gruppo bancario-assicurativo Fortis, per evitarne il fallimento. Il governo tedesco e alcune banche germaniche sono dovuti intervenire per salvare la banca Hypo Real Estate; il governo inglese ha dovuto nazionalizzare la banca Bradford & Bingley, di cui continuerà a detenere il portafoglio crediti, mentre il resto delle attività è stato venduto alla spagnola Santander. Negli Stati Uniti lo Stato federale si è assunto parte delle sofferenze del colosso bancario Wachovia, che poi è stato inglobato da Citigroup.
Insomma le banche continuano a cadere come birilli, poiché non vi è alcun segnale di riapertura dei mercati interbancario e monetario, da cui traggono la linfa per poter vivere. L’impressionante accelerazione del collasso è stata determinata dal clamoroso errore storico di lasciar fallire la Lehman Brothers, senza capire le ripercussioni sistemiche di quella bancarotta. Da allora, più esattamente dallo scorso 14 settembre (due settimane fa), la crisi è diventata ingestibile, poiché la sfiducia nei confronti del sistema bancario si è via via trasformata in panico. In queste condizioni il maxipiano di Henry Paulson, che mirava a ricostruire la fiducia degli investitori, era già stato superato dai fatti e risultava quindi inutile.
Ora si tratta di limitare i danni di questo collasso del sistema bancario e del clima di crisi politica creato dal voto di sfiducia nei confronti dell’amministrazione espresso dal Congresso. Bisogna innanzitutto impedire con tutti i mezzi che questa crisi sfoci in una nuova Grande Depressione. Quindi, occorre nazionalizzare le banche sull’orlo della bancarotta, come si è già cominciato a fare in Europa, sperando che grazie alla garanzia dello Stato i risparmiatori e gli investitori riprendano a finanziare il sistema bancario, risolvendo l’attuale crisi di liquidità. Ciò non basterà, poiché le banche non sono solo a corto di soldi, ma anche e soprattutto di capitale. Quindi, occorrerà ricapitalizzarle, affinché abbiano la possibilità di continuare a finanziare il sistema economico e affinché non avvenga una terribile stretta creditizia, che bloccherebbe le economie europea ed americana, la cui crescita sta già frenando in modo rapido e brusco.
Bisogna inoltre sperare che l’inevitabile aumento del debito pubblico americano non si traduca in una crisi del dollaro. Infatti, a differenza del Giappone e dell’Europa, il debito statale statunitense è finanziato con capitali stranieri, e in particolare dalle banche centrali dei paesi asiatici ed arabi. Nel 2007 il 57% delle obbligazioni emesse dal Tesoro era sottoscritto da stranieri, così come un quinto delle obbligazioni emesse da Fannie Mae e Freddie Mac e un quinto delle obbligazioni emesse dalle società americane.
Alcuni segnali fanno sospettare che qualcosa si stia incrinando anche in questo ambito. Infatti, oggi sul mercato assicurare un’obbligazione dello Stato americano costa più che assicurare un’obbligazione di Mac Donald’s. Il rischio per il dollaro non è costituito da uno sciopero degli investimenti degli Stati asiatici ed arabi, che sarebbe contro i loro stessi interessi, ma da una fuga degli americani dal dollaro. Una caduta verticale del dollaro renderebbe questa crisi assolutamente ingovernabile.
Tutto ciò comunque non basta. L’effetto combinato della recessione, che si prospetta severa, e della distruzione di ricchezza provocata dal crollo del sistema bancario, dalla caduta dei valori immobiliari e di quelli azionari portano dritti dritti ad una severa deflazione. Per evitare di cadere in una spirale deflazionistica, è necessario varare pacchetti di rilancio economico basati su grandi investimenti pubblici. Questa svolta non può comunque attuarla un’amministrazione Bush pubblicamente sconfessata in primo luogo dagli stessi deputati repubblicani.
Tutte queste misure hanno carattere d’urgenza e possono raggiungere unicamente l’obiettivo di evitare il peggio. Occorre contemporaneamente ricominciare a costruire il futuro sulle macerie del tracollo del sistema finanziario. Ciò significa indire una conferenza internazionale, sullo stile di quella tenuta a Bretton Woods nel 1944, per creare il quadro istituzionale di un nuovo sistema finanziario, monetario e commerciale che ci permetta di imboccare di nuovo un periodo di crescita e di prosperità. In tal caso, questa crisi si rivelerà utile, poiché almeno sarebbe servita a spazzar via le politiche che ci hanno portato al disastro attuale.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

  La tigre di carta chiamata Banca Centrale Europea

02 Ottobre 2008 02:23 ROMA - di Federico Rampini

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Dopo Fortis, Dexia: ora a chi tocca il prossimo panico da bancarotta? Quale nome avrà il successivo crac da scongiurare scaricandolo sui contribuenti europei?
In quale capitale del Vecchio continente si terrà il prossimo meeting notturno per sanare un disastro finanziario prima delle luci dell´alba e dell´apertura dei mercati? Dall´ultimo weekend i tempi della crisi si sono accelerati in Europa: almeno una grande banca al giorno sfiora il crollo, imponendo affannosi salvataggi pubblici. Il metodo seguito fin qui, improvvisato e frammentario, non regge più. S´impone con urgenza una politica europea della vigilanza bancaria, nuovi strumenti, nuove istituzioni, nuove risorse. È tutta l´architettura dei mercati finanziari europei che va ridisegnata, superando per sempre l´attuale mosaico di competenze suddivise tra staterelli impotenti, nani lillipuziani rispetto alle dimensioni globali dei Moloch bancari che loro stessi hanno amorevolmente incoraggiato a crescere.
Il caso Dexia dà la misura dei rischi che stiamo correndo. Ancora una volta per salvare questo colosso pericolante si sono dovuti unire ben tre Stati ? Francia Belgio e Lussemburgo ? che hanno precipitosamente versato 9 miliardi di euro nelle casse dell´istituto. Nicholas Sarkozy, formatosi nell´ammirazione del modello neoliberista americano, oggi è costretto a nazionalizzare seguendo suo malgrado l´esempio del socialista François Mitterrand un quarto di secolo fa. Perché Sarkozy sia con le spalle al muro lo ha spiegato lui stesso, dopo il summit notturno con il governatore della Banque de France: se falliva Dexia erano in pericolo «il finanziamento degli enti locali, la sicurezza e la stabilità dei sistemi finanziari in Francia e in Europa».
Dexia, frutto di fusioni tra casse di risparmio locali (prevalentemente francesi e belghe), è il più grosso erogatore di finanziamenti ai Comuni d´Europa. Questo dà la dimensione del rischio: va ben al di là della platea degli investitori di Borsa. Ma l´intervento in extremis concordato fra Parigi e Bruxelles ? seguito da misure assicurative prese in Irlanda, dove si era aperta un´altra "falla" sistemica sulla sicurezza di tutti i depositi ? getta un´ombra di dubbio sulla credibilità degli appelli alla calma.
«Non c´è nessuna ragione di essere impauriti e di cedere al panico», garantiva ieri il governatore della Banque de France, Christian Noyer. Per mesi lui e altri banchieri centrali del continente hanno continuato a vantare la solidità del nostro sistema bancario, teorizzando che fosse meno esposto di quello americano. Dopo i fatti degli ultimi giorni l´impressione è che le banche europee siano ancora meno trasparenti di quelle americane.
Lo stesso Noyer è stato costretto ad ammettere che non si possono escludere sorprese "quando saranno pubblicati i bilanci bancari nelle prossime settimane o nei prossimi mesi". Ma i risparmiatori, i clienti, gli azionisti, avrebbero diritto di saperne di più nelle prossime ore, senza aspettare settimane o mesi.
Seguendo le cronache di questo tracollo di fiducia nel sistema creditizio, il cittadino europeo ha scoperto di colpo che la Banca centrale europea è una tigre di carta. Fu a lungo dipinta come un´istituzione onnipotente e perfino prepotente; oggi è additata per la sua impotenza: ed è una pessima notizia. In realtà sta tutto scritto nei trattati e negli statuti. Nessuno ha mai voluto trasferire alla Bce i poteri di vigilanza, che sono rimasti gelosamente in mano alle autorità nazionali. L´istituto di Francoforte può fissare i tassi d´interesse sull´euro e provvedere liquidità, ma non ha gli strumenti per intervenire sulla crisi di solvibilità di un colosso bancario italiano o francese o tedesco. Non ha neppure l´accesso alle informazioni più rilevanti custodite (o sepolte) nei conti delle aziende di credito.
Dopo anni di crescente euroscetticismo, o anti-europeismo, in cui la destra italiana si è distinta con un ruolo di punta, questa crisi mondiale ci dimostra che abbiamo un terribile bisogno di Europa. Tutto ciò che non è stato fatto per rafforzare l´Unione negli anni passati, in queste ore si ritorce contro di noi.
Oggi a Bruxelles il commissario europeo Charlie McCreevy, responsabile per il mercato unico, presenterà una serie di proposte importanti: una grande riforma delle regole di vigilanza e controllo sulle banche. Per la prima volta si affaccia un piano organico, perché gli arbitri e i poliziotti che devono disciplinare il credito abbiano la stessa dimensione sovranazionale dei giganti bancari.
Il progetto McCreevy include requisiti più severi sulle riserve di capitale che le banche devono accantonare, e sui comportamenti prudenziali nell´erogazione del credito. Meglio tardi che mai. È essenziale che queste innovazioni siano approvate e varate in tempi rapidi. Guai se venissero sabotate da ottusi nazionalismi, o congelate nei tempi geologici dei negoziati che in passato hanno seppellito tanti trattati europei. Stavolta incombe un´emergenza mondiale, chi intralcia la protezione dell´economia europea si assume responsabilità gravissime.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

CARTE DI CREDITO: SARANNO LA PROSSIMA TEMPESTA

02 Ottobre 2008 02:46 NEW YORK - di WSI
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I debiti degli americani sulle carte di credito sono sul punto di esplodere e saranno il prossimo uragano a colpire il gia' fragile settore finanziario degli Stati Uniti. Lo sostiene una societa' di ricerca americana, Innovest StrategicValue Advisors, in un rapporto appena pubblicato. Le banche saranno costrette a svalutare ben $18.6 miliardi in conti di carte di credito insolventi nel primo trimestre del 2009 e $96 miliardi in tutto il 2009, piu' del doppio rispetto alle stime relative al 2008.
Per tutto il 2007, i "charge-off" sono ammontati a $26.6 miliardi, mentre la stima per quest'anno arriva a $41.5 miliardi. Da queste proiezioni, gli analisti di Innovest ritengono che si tratti di una cifra complessiva tale da poter creare danni non indifferenti ai bilanci delle maggiori societa' emittenti di carte di credito, e cioe' Visa, MasterCard e American Express.
Le svalutazioni del debito "tossico" sulle carte di credito per adesso stanno "sfidando la gravita'" se il paragone viene fatto con quel che sta accadendo sul mercato dei mutui, secondo Gregory Larkin, senior banking analyst di Innovest. Ma questo scenario e' destinato rapidamente a mutare. "Se la storia e' un indicatore da seguire - spiega l'analista - ci sara' per le carte di credito un'impennata di insolvenze pari a quella che si e' vista per i mutui, dove l'aumento e' stato pari di otto volte".
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

APOCALYPSE FINANZIARIA: LIBOR ALLE STELLE, CROLLO DEI COMMERCIAL PAPER, CREDITO CONGELATO

03 Ottobre 2008 01:29 NEW YORK - di WSI
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E' veramente la peggiore crisi dal 1929, dalla finanza si passera' tra poco all'economia reale, ovunque nel mondo. I tassi di interesse sui prestiti a tre mesi in dollari - scrive Bloomberg - sono al massimo di 9 mesi, il ricorso al debito da parte delle aziende e' crollato al record negativo di sempre, mentre i junk bond sono collassati, esacerbando il fenomeno di congelamento del credito che sta paralizzando tutte le aziende, piccole e grandi, in tutto il mondo.
Il tasso interbancario di Londra (Libor) che le banche applicano l'un l'altra per i prestiti interbancari e' salito per il quarto giorno consecutivo, portando quest'indicatore sulla scarsita' di cash disponibile tra le banche a un nuovo record. Si e' verificato quindi - secondo Bloomberg - il piu' forte crollo di strumenti di debito a breve termine delle aziende almeno dal 2000, il che ha causato un calo del 5.6% sul mercato americano dei commercial paper, stando ai dati della Federal Reserve.
La crisi si aggrava, dopo che settembre e' stato il peggior mese in assoluto per il debito corporate. Le emissioni di junk bonds sono crollate ad un minimo assoluto, gli strumenti a breve termine sono totalmente prosciugati e perfino i titoli obbligazionari delle aziende piu' solide e piu' sane hanno sofferto le peggiori perdite degli ultimi 20 anni: gli investitori infatti abbandonano qualsiasi strumento che non sia il Titolo del Tesoro degli Stati Uniti, considerato l'unico sicuro in questo scenario di terribile crisi finanziaria.
Scrive Bloomberg che il mercato del credito e' congelato e i tassi del money-market continuano a salire anche dopo che le banche centrali hanno pompato una cifra senza precedenti - $1 trilione di dollari, cioe' 1000 miliardi - nel sistema finanziario. "La finestra del credito e' chiusa", ha detto Jim Press, presidente della Chrysler, terza casa automobilistica americana, in gravi difficolta' industriali e finanzarie. Insomma se il sangue non scorre piu' nelle vene dell'economia americana, il malato va in catelessi, anche se non muore. Qualcosa deve essere fatto.
Che banche e banche commerciali continuino ad essere affamate di liquidità lo dimostra il fatto che nella settimana che si è appena chiusa i prestiti dalla finestra di tasso di sconto della Fedral Reserve sono saliti del 60% rispetto ai sette giorni precedenti, attestandosi a 348,2 miliardi di dollari.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

Hedge fund azionari, fine di un mito

03 Ottobre 2008 11:29 - di Macromonitor
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Maverick Capital Ltd., Greenlight Capital LLC e The Children’s Investment Fund Management LLP hanno segnato a settembre ribassi di oltre il 12 percento, nel mese che ha visto gli hedge fund azionari registrare la peggiore perdita mensile di sempre, oltre a pesanti riscatti da parte della clientela.
Maverick Capital di Lee Ainslie ha perso il 19,5 per cento, mentre Greenlight Capital, gestito da David Einhorn, ha lasciato sul terreno il 12,8 percento. Children’s Investment, guidato da Chris Hohn a Londra, ha perso il 15 percento, in base a stime preliminari.
In media gli hedge fund azionari hanno perso l’8,6 percento a settembre, la flessione mensile più pesante da quando Hedge Fund Research Inc. ha cominciato a raccogliere questi dati, nel 1990. Sebbene tale performance sia migliore del declino del 12 percento segnato dall’indice MSCI World Index, benchmark per
l’azionario mondiale, questo non consolerà molto gli investitori, che secondo gli analisti potrebbero aumentare gli smobilizzi.
La scarsa performance di alcuni hedge fund avrà delle ripercussioni sul processo di asset allocation, e potrebbe condurre a modifiche sostanziali delle strategie. Altri gestori che hanno registrato perdite superiori alla media a settembre includono Stephen Mandel, il cui fondo Lone Cyprus di Greenwich, nel Connecticut, ha ceduto il 14,7 percento, e Third Point LLC, amministrato da Daniel Loeb a New York, che ha perso l’11 percento.
Gli hedge fund di tutte le categorie hanno perso mediamente il 6,9 percento a settembre, secondo l’indice Global Hedge Fund Index di Hedge Fund Research. Si tratta del mese peggiore per questo settore da 1.900 miliardi di dollari dall’agosto 1998, quando la Russia risultò insolvente sul proprio debito, innescando il crollo di Long-Term Capital Management LP.
Nel frattempo, alcune stime ipotizzano che i fondi di fondi hedge dovranno effettuare smobilizzi per oltre 100 miliardi di dollari prima della fine dell’anno per far fronte ai riscatti, esacerbando il ribasso delle borse. Alcuni fondi di fondi hedge in Europa temono di vedere riscatti pari anche al 25 per cento del loro patrimonio entro la fine del quarto trimestre. Per molti fondi, la scadenza per i riscatti da effettuarsi entro fine anno era il 30 settembre. Il fallimento di Lehman Brothers Holdings Inc. crea complicazioni nel far fronte alle richieste di riscatto in quanto fondi quali GLG Partners Inc. e RAB Capital PLC hanno parte del loro patrimonio congelato nelle procedure fallimentari.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

Wells Fargo o del capitalismo vero

03 Ottobre 2008 15:22 - di Macromonitor
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Il matrimonio forzato di Wachovia con Citigroup è sfumato. L´acquirente è invece Wells Fargo, che ha acquisito la banca di Charlotte pagando con azioni proprie per un valore di 15 miliardi di dollari e ha lanciato un segnale importantissimo al mercato e al Congresso: lasciateci lavorare e possiamo farcela da soli.
Wells Fargo non ha chiesto nulla alla Fed, all’ente di tutela dei depositi o al governo federale, al contrario di quanto aveva fatto Citigroup; ha offerto un prezzo minore, ma si è accollata ogni rischio dell’operazione.
L’operazione è importante per un motivo : dimostra quanto fallace sia l’idea che soltanto un intervento statale possa salvare il sistema, di quanto potrebbe addirittura ritardare la ristrutturazione del sistema, fornendo incentivi distorti e false speranze.
In realtà, i compratori esistono, ma sorge il sospetto che la tentazione di scroccare qualche soldo al governo sia, per molte banche, troppo forte. E quindi ecco da parte dei compratori la richiesta di fondi, ecco le operazioni complicate con prestiti a basso costo, la richiesta di garanzie sulle perdite ed altri sussidi.
Per la banca in difficoltà, il “venditore”, è più semplice sostenere che non sia stata l’imprudenza, ma la congiuntura a farla finire nei guai e che l’assenza di un compratore è colpa del “mercato”, non del fatto che si richieda un prezzo troppo elevato.
Per fortuna, Wells Fargo non ricade in nessna delle due categorie e Wachovia ha preferito la soluzione decente. Ci hanno dato un bell’esempio.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Domenica 05 Ottobre 2008   Martedì 07 Ottobre 2008   Mercoledì 08 Ottobre 2008  
       
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GR1 RAI - 06 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 07 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 08 OTT ore 22:00

   

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  Fallimenti vichinghi

04 Ottobre 2008 23:27 - di J Christian Falkenberg

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L’Islanda sarà il prossimo salvataggio? Il caso islandese offre una rara coccasione per una dimostrazione drammaticamente efficace dei problemi derivanti da un salvataggio bancario. La corona islandese ha perso il 14% in due giorni e il CDS, ossia l’assicurazione contro il fallimento della nazione, adesso richiede un pagamento anticipato del 15% del valore assicurato ed il 5% di commissione all’anno.
Cosa è successo? Un incrocio fra espansionismo vichingo, follia statolatrica ed abile sfruttamento della bolla creditizia scatenata dagli eccessi di liquidità di altre nazioni.
L’isola nordica è decisamente particolare: è una nazione molto piccola sia in termini di popolazione che di PIL , 300 mila abitanti per 19 miliardi di dollari, la cui storia economica recente ha visto notevoli episodi inflazionistici , lasciando tassi d’interesse relativamente elevati in termini nominali rispetto ai rendimenti di titoli di stato in euro ed in dollari.
Questo differenziale è stato particolarmente rilevante negli anni dal 2003 al 2006, quando le ingenti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali e, poi, la bolla del credito hanno ridotto al lumicino i rendimenti di qualsiasi attività anche rischiosa.
Molti investitori cominciarono in quegli anni ad investire in corone islandesi: la nazione è da sempre politicamente stabile, prospera, socialmente tranquilla. L’inflazione, in rapido calo, poneva problemi sempre minori ed il debito pubblico era quasi inesistente. I tassi a due cifre pagati dalle banche di Reykjavik erano ormai una rarità per una nazione del “primo mondo” . Le tre maggiori banche islandesi e alcuni imprenditori locali hanno sfruttato gli elevati tassi d’interesse per lanciarsi in una spettacolare espansione oltremare, soprattutto in Gran Bretagna; i fondi necessari sono arrivati dalla platea degli investitori istituzionali, felice per la elevata remunerazione ed hanno permesso alla piccola nazione di ammassare attività estere equivalenti a circa nove volte il proprio PIL.
Di fatto, queste operazioni hanno trasformato la corona islandese in qualcosa più simile ad una cambiale emessa da un hedge fund che ad una moneta “normale”: i flussi relativi all’indebitamento dall’estero e successivo investimento, sempre all’estero, dominano non soltanto quelli relativi al commercio internazionale, ma persino quelli interni.
In Islanda, la prima banca ad andare in crisi è stata Glitnir, la più piccola fra gli istituti maggiori e quella con la struttura finanziaria più precaria: Glitnir ha infatti una base di depositi molto ridotta, che copre a malapena un terzo degli impieghi; il resto viene finanziato sul mercato monetario e con emissioni obbligazionarie, che ultimamente non hanno trovato compratori. Lo stato islandese è prontamente intervenuto per salvare la banca, iniettando 600 milioni di dollari in cambio di un aumento di capitale che lo porta a possedere i tre quarti del capitale. Un caso di fallimento di mercato brillantemente risolto da un audace intervento statale, quindi? Al contrario. L’ennesima dimostrazione del fallimento delle politiche socialiste, per due motivi.
Innanzitutto, il tentativo di salvataggio ha semplicemente trasferito il problema dal sistema bancario al rischio paese. L’Islanda non ha le risorse per gestire da sola la crisi: è vero che il debito è soltanto il 20% del GDP, ma la sola Glitnir ha un fabbisogno di liquidità di alcune centinaia di milioni di euro soltanto nelle prossime settimane e di tre miliardi (ossia il 10% del PIL islandese) nel 2009. La banca centrale islandese non può stampare Euro o dollari, ma soltanto corone islandesi con cui poi acquistare altre divise. Ecco spiegato il crollo della divisa islandese e l’impennata del rischio di credito: il debito non può che esplodere al rialzo. Il Tesoro islandese sta già cercando di ottenere dai governi amici una linea di credito da dieci miliardi, con cui staiblizzare la situazione.
In secondo luogo abbiamo i rischi legati ai falsi sensi di sicurezza derivanti dalla garanzia statale, più o meno implicita. Nessuno si è preoccupato di verificare quanto solvibili fossero le banche o lo Stato islandese, almeno all’inizio: i governi europei salvano sempre le proprie banche, vero? Vero. Ci provano almeno, ma cosa succede se la banca in questione è troppo grande? Succede che l’illusione dello Stato onnipotente viene smascherata brutalmente. Per una volta, il Leviatano era soltanto un pesce piccolo. Il caso islandese offre uno scorcio interessante sulle conseguenze dei salvataggi bancari proprio perché la ridotta dimensione del bilancio governativo pone in drammatica evidenza i costi da sopportare, senza le cortine fumogene possibili per una grande nazione; altrove, grazie a maggiori risorse e debito denominato nella propria divisa, questa dinamica viene mascherata e dilazionata, anche se rimane invariata ed è altrettanto perniciosa.
Ricordiamocelo, quando invochiamo la mano santa governativa, l’impiego sociale delle risorse: qualcuno deve pagare, sempre, per errori spesso ingigantiti dalle illusioni fornite dall’apparato statale.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

  La crisi dei mercati vista dalla Cina: "gli americani ci hanno rovinato"

07 Ottobre 2008 02:45 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore

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"Maledetti americani", impreca l'uomo del borsino. "Sì, maledetti americani, ci hanno proprio rovinato", gli fa eco un altro a fianco a lui. Xu e Zhang fumano nervosamente davanti all'ingresso di una casa di brokeraggio, mentre sparano sentenze al veleno su Wall Street, la politica e l'alta finanza Usa. I due uomini sulla cinquantina, alla stregua di decine di migliaia di investitori cinesi con il debole per l'azzardo di Borsa, non hanno dubbi: se oggi sono più poveri e inguaiati, è tutta colpa dei loro dirimpettai sulla sponda opposta del Pacifico. È da là che, negli ultimi dodici mesi, è iniziato a soffiare sempre più forte quel vento di sfiducia che ha finito per travolgere il listino di Shanghai, facendolo piombare dai massimi storici a livelli che nessuno, oltre la Grande Muraglia, avrebbe mai più pensato di rivedere. "Gli americani ci hanno rovinato", ripete Zhang sfilando dai pantaloni le tasche vuote. "Un anno fa, avevo circa 180mila yuan sul mio conto azionario. Oggi, me ne restano a malapena 20mila", aggiunge l'uomo del borsino con un amaro sorriso di sconforto.
La storia dirà se il crollo della Borsa Rossa, il listino che nel biennio 2006-2007 aveva messo a segno le migliori performance mondiali, è stata davvero tutta colpa degli americani. O se i cinesi non ci abbiano messo molto del loro. "È una questione che non mi riguarda", dice un giovane impiegato di banca. "Chi ha investito i propri quattrini in Borsa sapeva benissimo che poteva perdere tutto. Era già successo, e neanche tanto tempo prima".

Due diverse percezioni della crisi. Il terremoto finanziario che sta sconvolgendo il capitalismo mondiale vede la Cina spaccata in due. Da un lato, c'è l'enorme parco buoi (una cinquantina di milioni di persone) che piange, si pente e maledice pensando ai quei 1.700 miliardi di dollari andati in fumo nel giro di un anno. Dall'altro, c'è la stragrande maggioranza dei cinesi, per la quale la crisi finanziaria globale è un affare lontano e remoto. Qualcosa che non li riguarda, ordinarie notizie di sventure altrui da ascoltare distrattamente al telegiornale della sera.
Ma per quanto tempo ancora la crisi dei mutui subprime sarà un mal di testa solo per i cinesi del borsino? Probabilmente, non per molto. È vero, l'esposizione delle banche del Dragone verso la disastrata finanza Usa è molto contenuta, come hanno tenuto a sottolineare più volte in questi giorni le autorità monetarie di Pechino. Ed è altrettanto vero che, sebbene la Cina sia dopo il Giappone la maggiore finanziatrice del debito americano (il paese detiene 520 miliardi di dollari di Treasury Bond, mentre Tokio ne ha in portafoglio quasi 600), l'unica cosa che oggi potrebbe mettere in ginocchio il gigante asiatico è una dichiarazione di default degli Stati Uniti. Ma questo, nonostante Washington sia alle prese con la peggiore crisi degli ultimi 80 anni, allo stato dei fatti è ancora un rischio improbabile.
Rischio fuga di capitali: la stagione delle Ipo miliardarie è finita Ciò premesso, la coda del ciclone partito da Wall Street nell'estate 2007, e poi via via cresciuto d'intensità sino ad assumere dimensioni devastanti, sembra destinata a colpire molto presto anche sul mondo della finanza cinese. "L'eccesso di liquidità globale che negli Stati Uniti ha generato una montagna di sofferenze bancarie, di prodotti finanziari a rischio e di investimenti sbagliati alla fine è arrivata anche in Cina – spiega Manu Bhaskaran, economista di Centennial Group Singapore – Negli ultimi anni, infatti, le aspettative di rivalutazione dello yuan hanno catalizzato una parte consistente di questa liquidità nel paese, creando una bolla speculativa sia in Borsa che nel settore immobiliare. Ora è evidente che un ritiro massiccio di questi capitali potrebbe avere effetti destabilizzanti sul sistema finanziario cinese".
Un sistema finanziario che, nell'ultimo biennio, sfruttando abilmente l'arma del renminbi forte e l'insaziabile appetito degli investitori internazionali per tutto quanto fosse marchiato made in China, ha cavalcato alla grande il momento propizio scaricando sui mercati internazionali una quantità di carta senza precedenti. Dalla primavera 2006 a oggi, Pechino ha lanciato quasi duecento Offerte Pubbliche di Vendita societarie per un controvalore complessivo di circa 100 miliardi di dollari. Ma ora, con questi chiari di luna, la grande stagione delle Ipo è finita.
La crisi finanziaria contagerà l'economia reale Quel che è peggio, e che ancora sfugge ai cinesi della strada, è che il botto della finanza americana avrà ripercussioni negative anche sull'economia reale del Dragone. È solo una questione di tempo, assicurano gli esperti, sempre più indaffarati a rivedere al ribasso le stime di crescita del prodotto interno lordo cinese. "La congiuntura sta rallentando più rapidamente del previsto", avverte Dong Tao, economista di Credit Suisse. I segnali della frenata sono molteplici: il calo delle vendite di auto, la contrazione dei consumi energetici, la gelata delle transazioni immobiliari, la flessione dei prezzi interni dell'acciaio.
Ma il pericolo maggiore viene dal principale motore dell'economia cinese, cioè dal commercio estero. "Finora le esportazioni hanno tenuto testa alla recessione mondiale, ma già tra qualche mese la crisi finanziaria americana e la rivalutazione dello yuan, soprattutto quella nei confronti dell'euro, si faranno sentire", sostiene l'economista indipendente, Andy Xie. Nonostante gli sforzi prodotti dal Governo negli ultimi anni, le esportazioni contribuiscono ancora per un terzo alla formazione del prodotto interno lordo del Dragone. L'attesa frenata del made in China, dunque, avrà certamente un impatto depressivo sull'intera economia. "Quando l'economia di un paese dipende in misura rilevante dal commercio estero, e non può contare su un mercato domestico sufficientemente dinamico per compensare il rallentamento dell'export, è normale che il rischio per la crescita economica sia maggiore che altrove", osserva Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia.
Il vecchio modello di sviluppo export oriented deve cambiare al di là degli effetti negativi che il grande crollo di Wall Street produrrà nei mesi a venire sulla finanza cinese, la lezione principale per il Dragone è proprio questa: le sorti dell'economia di una superpotenza non possono essere legate a doppio filo al ciclo economico internazionale. "Questa crisi deve spingere la Cina a cambiare il proprio modello di sviluppo", dicono ora in coro gli esperti, suggerendo a Pechino la ricetta per affrontare il nuovo corso: rivalutare lo yuan e varare riforme fiscali per stimolare i consumi interni.
La tanto biasimata invasione del made in China nel mondo volge dunque al termine? È prematuro per dirlo. Per ora, Pechino ne gode i benefici: 1.800 miliardi di dollari di riserve valutarie accumulate in meno di cinque anni. Ma, al tempo stesso, fa tutti gli scongiuri del caso. Quasi un terzo di quel tesoretto, infatti, è andato a finanziare il paese più indebitato del pianeta: non sia mai che ai "maledetti americani" salti in mente di combinare qualche altro brutto scherzo.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

FMI: PER RESTITUIRE FIDUCIA RICETTA IN CINQUE PUNTI/SCHEDA

07 Ottobre 2008 15:06 WASHINGTON - di ANSA
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(ANSA) - WASHINGTON, 7 OTT - Per restituire fiducia e stabilità al sistema finanziario "in circostanze eccezionali" come quelle attuali si può trarre "insegnamento - afferma il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) - dalle esperienze passate che ci indicano i cinque principi base da seguire: misure globali, tempestive e chiaramente comunicate; assicurare che gli interventi governativi siano temporanei e gli interessi dei consumatori protetti; puntare a politiche organiche fra i diversi paesi per stabilizzare i mercati così da massimizzare l'impatto; assicurare una rapida risposta in base alla scoperta tempestiva di tensioni; perseguire obiettivi di medio termine per un sistema finanziario più efficiente, solido e competitivo". "Nell'applicare questi principi, azioni concrete sono necessarie per smarcare tre aree di problemi legati al deleverage: capitali insufficienti, valutazione incerta degli asset e disfunzioni nel mercato del finanziamento", aggiunge il Fmi nel Global Financial Stability Report, ribadendo che 'il ripristino della stabilita' finanziaria beneficerebbe ora di un impegno pubblico delle autorità dei paesi colpiti dalla crisi". Ecco di seguito i cinque principi base da tenere in considerazione: - MISURE GLOBALI, TEMPESTIVE E CHIARAMENTE COMUNICATE: "Dovrebbero includere le principali sfide offerte dalle tensioni che si sono create con il deleveraging: e cioé migliorare la disponibilità di finanziamenti per stabilizzare i conti; iniettare capitale per supportare le istituzioni con basi solide che però non sono momentaneamente in grado di rifornirsi di adeguato capitale; promuovere un deleverage ordinato rafforzando gli asset in difficioltà attraverso il potere pubblico, stando comunque attenti a evitare di esacerbare effetti prociclici". - POLITICHE ORGANICHE FRA PAESI: "Puntare a una serie di politiche coerenti fra i paesi per stabilizzare il sistema finanziario massimizzando l'impatto ed evitando effetti avversi". - RISPOSTE RAPIDE SULLA BASE DELLA SCOPERTA TEMPESTIVA DELLE TENSIONI: "Questo richiede un elevato grado di coordinamento fra ogni paese e in molti casi un coordinamento cross border, e una rete che consenta di intraprendere azioni risolutive anche da una serie di autorità diverse". - INTERVENTI GOVERNATIVI TEMPORANEI: "Assicurare che gli interventi di emergenza dei governi siano temporanei e gli interessi dei contribuenti protetti: i meccanismi di intervento dovrebbero minimizzare il moral hazard, riconoscendo che le esigenze della situazione in atto richiedono un evidente supporto pubblico". Nell'intervenire è importante che si includa la partecipazione dei privati ai rischi al ribasso e dei contribuenti ai benefici. - PERSEGUIRE OBIETTIVI DI MEDIO TERMINE PER SISTEMA SOLIDO: Per raggiungere l'obiettivo di un "sistema finanziario più efficiente, solido e competitivo" è necessario un rafforzamento della rete internazionale per aiutare a migliorare la supervisione e la normativa a livello domestico e internazionale , così come la messa a punto di meccanismi per aumentare l'efficacia della disciplina di mercato. (ANSA).
 

Fonte - ANSA

 

 

 

Per superare crisi la Fed snobba le banche e si affida ai mercati

07 Ottobre 2008 15:09  - di Macromonitor
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La Fed, con l’assistenza del Tesoro, ha annunciato un massiccio programma di acquisto di commercial paper, ossia di cambiali a breve termine emesse direttamente dalle aziende.
Questo mercato è il principale metodo di finanziamento a breve termine per le grandi aziende USA, mentre in Italia, come in gran parte d’Europa, si preferiscono strumenti bancari, come lo scoperto di conto corrente.
La Fed insomma si prepara a prestare direttamente alle aziende. In questo modo spera di poter svolgere il compito per cui è stata creata, ossia impedire il blocco dell’economia reale causato dal panico finanziario, senza dover sovvenzionare in maniera ancora piu massiccia, e sinora inutile, una serie di banche commerciali troppo ossessionate dai propri investimenti andati a male per continuare a fare il proprio lavoro.
La soluzione adottata potrebbe ridurre anche il problema dell’effetto asimmetrico della fornitura di liquidità: se le banche commerciali non sono intenzionate a prestare alle aziende ed a lavorare l’una con l’altra, le iniezioni di liquidità servono a poco o nulla perché non vengono trasmesse all’economia reale.
La maggiore controindicazione è che adesso sarà la Fed, ossia una burocrazia statale, a decidere l’allocazione del credito. Questo genere di intervento e si è sempre rivelato totalmente disastroso, generando distorsioni e favoritismi giganteschi e spesso frenando lo svilpuppo nel lungo periodo; la speranza è di poter gestire con prudenza l’applicazoine di un proigramma solo temporaneo e diretto all’acquisto esclusivo di crediti con durata di poche settimane o mesi, emessi dalle maggiori aziende americane.
Il paradosso e l’amara ironia è che non soltanto il sistema parabancario non regolamentato per ora sopravvive meglio di quello regolamentato, ma che persino la Fed, con questa mossa, lo riconosce implicitamente, scavalcando le “proprie” banche, sino ad ora protette e coccolate come indispensabili e rivolgendo le proprie attenzioni direttamente ad un mercato mobiliare.
In gran parte d’Europa l’architettura finanziaria è stata distorta e compressa sino a pochi anni fa, in modo da incentrare sulle banche commerciali ogni tipo di intermediazione finanziaria, impedendo per anni la nascita di mercati come quello della carta commerciale.
Se fossimo nella stessa situazione, insomma, non avremmo un sistema “in presa diretta” per lo scambio di denaro, ma saremmo impantanati nei medesimi drammi descritti da Keynes e visti recentemente in Giappone. Alla faccia della “sicurezza” della regolamentazione.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Crisi, la fine del modello americano

08 Ottobre 2008 16:32 NEW YORK - di Francis Fukuyama

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Le dimensioni del crac di Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli Stati Uniti: il danno al «brand» America.
Le idee sono una delle nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica. La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye.
E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani che denunciavano il modello capitalistico americano come «capitalismo da cowboy».
Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo. Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il settore finanziario.
Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»; improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire l’egemonia degli Stati Uniti.
La scelta che dobbiamo fare ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli - come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti. Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati, quali completamente da scartare.
Molti commentatori hanno sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le biotecnologie.
Sul piano internazionale la rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80, quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e l’Argentina. Simili politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo cieco.
Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci, era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori: se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel disavanzo.
La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.
Il secondo articolo di fede reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street. E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici, certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che sono all’origine della crisi attuale.
Lo scandalo della Enron, il deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto alla promozione della democrazia non è mai stata messa in discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per «intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente - compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita - non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».
La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.

 

Fonte - Newsweek

 

 

 

 

  Crisi finanziaria: fate qualcosa (di più) per spegnere l'incendio

09 Ottobre 2008 13:28 LUGANO - di Corriere del Ticino

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Quello che tutti si aspettavano è capitato ieri pomeriggio. Per fermare la caduta delle borse e soprattutto per contrastare l’ulteriore diffusione del panico creato dall’enorme incendio che sta bruciando il settore finanziario e con una mossa senza precedenti le banche centrali di sei paesi (tra cui anche la Svizzera e la Cina) hanno simultaneamente tagliato di mezzo punto i tassi di interesse.
In Europa il risultato è stato solo momentaneo: gli indici azionari si sono ripresi, restando comunque in territorio negativo, e poi hanno ripreso a cadere, chiudendo con ribassi superiori al 5%. I mercati hanno dunque letto la decisione di ridurre il costo del denaro come una mossa positiva, ma non sufficiente a ricreare un clima di fiducia.
Sorprendentemente la lettura più negativa è stata quella delle borse europee, che avrebbero dovuto invece felicitarsi della svolta di una Bce, ancora poco tempo fa contraria ad un allentamento della politica monetaria. Questa reazione non è però del tutto stupefacente, poiché oggi il problema non sono i tassi guida delle banche centrali, anche se quelli europei sono certamente troppo alti per un’economia che si sta avviando a passi veloci verso una dura recessione, ma la chiusura di fatto del mercato interbancario, del mercato monetario e di quello dei capitali. Il taglio del costo del denaro non cambia sostanzialmente la situazione di questi mercati.
Infatti la sfiducia, che oggi tocca anche il piccolo risparmiatore, risiede prima di tutto nelle banche stesse, che non si prestano più i soldi tra di loro, poiché non si fidano della bontà dei bilanci dei concorrenti, dato che sanno perfettamente che anche i loro nascondono enormi buchi. Quindi, il settore finanziario, che ha sempre invocato la trasparenza, è giustamente vittima dell’opacità dei propri conti. Quando una banca non si fida di un’altra, non si capisce per quali motivi dovrebbe fidarsi il risparmiatore. Quindi le stesse banche potrebbero contrastare il panico, se cominciassero a giocare a carte scoperte, presentando conti chiari e credibili.
La sfiducia del risparmiatore cresce ulteriormente al moltiplicarsi delle iniziative di autorità politiche e monetarie. Questi interventi, che si susseguono a ritmo frenetico, rendono palpabile il dato di fatto sempre più chiaro che vi è un crescente panico anche tra i pompieri che dovrebbero invece spegnere l’incendio che sta divampando nei mercati finanziari. E infatti mentre si spendono miliardi come se fossero bruscolini, si moltiplicano le iniziative senza precedenti.
Martedì sera il governo britannico ha deciso di creare un fondo di 100 miliardi di franchi per ricapitalizzare, attraverso una parziale nazionalizzazione, le otto maggiori banche inglesi. Sempre martedì scorso la Federal Reserve ha deciso di acquistare direttamente i debiti a breve termine delle imprese per sostituirsi ad un mercato monetario che non è più disposto ad acquistare i commercial papers (ossia le cambiali commerciali). Ciò sta provocando la rapida contrazione di un mercato (che si aggirava attorno ai 1’600 miliardi di dollari) che serviva per finanziare a breve termine le aziende.
L’intento della Fed è totalmente condivisibile: evitare una crisi di liquidità delle imprese che metterebbe in ginocchio un apparato produttivo che già deve fare i conti con una brusca frenata dell’economia. Ma con questo passo la banca centrale americana, che è già diventata il principale prestatore di prima istanza del sistema bancario, si sta rapidamente trasformando anche in una banca commerciale.
La crescente frenesia degli interventi e i loro scarsi risultati dovrebbero cominciare a spingere autorità monetarie e politriche a interrogarsi se questo incendio può essere ancora spento e in secondo luogo se l’intestardirsi a salvare un settore finanziario, che non è in crisi per i prestiti concessi a famiglie ed imprese, ma per la carta straccia che esso stesso ha prodotto, non rischia di dilapidare i soldi dei contribuenti e alla lunga anche la fiducia dei risparmiatori nella stessa solvibilità degli Stati.
Ciò deve preoccupare anche perché questo capitale di fiducia sarà indispensabile per attutire i dolori di una recessione economica che si prospetta molto dura e per finanziare i pacchetti di rilancio di un’economia devastata dalle follie della nuova ingegneria finanziaria.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

 

I governi del G7 mettono in gioco 2000 miliardi

12 OTTOBRE 2008 WASHINGTON - di Mario Platero
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Dopo un comunicato del G7 che gli analisti hanno giudicato in prima battuta "blando" e non sufficientemente aggressivo di fronte alla crisi finanziaria sistemica con cui si confronta il Pianeta, i singoli paesi del G7 cercheranno di passare dalle parole ai fatti. A Washington in ambienti vicini al Gruppo dei Sette, si da certo che Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania metteranno in pratica tra questa sera e domani mattina misure straordinarie che potrebbero mobilitare, una volta erogati i fondi, una disponibilita' di danaro complessiva superiore ai 2000 miliardi di dollari. C'e' intanto il pacchetto americano da 700 miliardi di dollari che potrebbe essere gia' in parte mobilitato per rafforzare il capitale di Morgan Stanley, la prestigiosa banca d'affari che versa in gravi difficolta' e ha disperato bisogno di un aumento di capitali o di un accesso a importanti quantitativi di liquidita'. Fonti autorevoli raccolta a Washington inoltre danno per certo che oggi a Parigi, alle riunioni dei 14 leader europei, il Cancelliere tedesco Angela Merkel presentera' un pacchetto da circa 400 miliardi di euro (circa 536 miliardi di dollari). Il pacchetto includera' garanzie dello stato e l'opzione per la partecipazione diretta nel capitale delle istituzioni in difficolta'. L'erogazione sara' condizionata a certi impegni che dovranno essere sottoscritti dalle banche e il pacchetto potrebbe essere discusso e approvato gia' domani mattina a Berlino. La gran Bretagna mettera' sul tavolo il suo piano da 400 miliardi di sterline, circa 682 miliardi di dollari gia' annunciato la settimana scorsa, con l'autorizzazione all'acquisto di titoli fino a 50 miliardi di sterline e garanzie a breve e medio termine per altri circa 100 miliardi di sterline. Ma il fatto nuovo e' che alcune delle banche inglesi hanno annunciato che entro le sette del mattino di lunedi' presenteranno i dettagli della loro partecipazione al piano di salvataggio messo a punto dal governo inglese. Il piano prevede l'annuncio delle dimissioni di alcuni dei manager delle banche in difficolta' ad esempio Fred Goodwin, l'amministratore delegato di Royal Bank of Scotland. Ma secondo le indiscrezioni che circolano a Washington le autorita' potrebbero anche richiedere la chiusura temporanea di alcune attivita' di borsa per consentire agli investitori di analizzare nel dettaglio il progetto, che dovrebbe portare liquidita' al sistema e consentire ai mercati del credito di riprendere a funzionare.
Questi dettagli sono certamente piu' concreti di quelli che avevamo appreso venerdi' sera. Danno corpo al comunicato in cinque punti del G7 che diventa una sorta di ombrello guida al di sotto del quale i paesi cercano lo stesso di coordinare, pur con diverse politiche fiscali, gli interventi per poter rispondere alle sfide del mercato globale.
Proprio quello che aveva chiesto mattina il Presidente George W. Bush quando e' apparso coi ministri finanziari del G7 nel Giardino delle Rose della Casa Bianca.
"I mercati in agitazione richiedono una seria risposta globale" ha detto il Presidente. E subito dopo ha aggiunto:"la crisi e diffusa a livello mondiale e non potra' essere risolta in tempi brevissimi… Useremo tutti gli strumenti a nostra disposizione per risolvere i problemi di liquidita', ci troviamo nel mezzo di questa crisi insieme e ne usciremo insieme" ha detto il Presidente nel suo terzo discorso do questa settimana.
Poi, in serata, i ministri del G7 si sono riuniti con altri 12 paesi membri del G20 piu' il rappresentante dell'Unione Europea. Il G7 ha cercato cosi' di estendere anche a un gruppo maggiormente rappresentativo dell'economia globale il pacchetto di aiuti perche' potesse essere sottoscritto con entusiasmo analogo a quello manifestato venerdi' dai sette grandi in occasione delle rispettive conferenze stampa.

 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 

 

  Venerdì 10 Ottobre 2008   Lunedì 13 Ottobre 2008   Giovedì 16 Ottobre 2008  
       
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GR1 RAI - 09 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 10 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 13 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 14 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 16 OTT ore 22:00

   

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  Crisi: l'Unione Europea non si scioglie

12 Ottobre 2008 14:01 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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L’Europa, quando soffre, soffre al quadrato per via dell’euro. A nessuno viene in mente che Florida, California e Nevada, in pesante recessione da mesi per la crisi immobiliare e (California) altamente indebitati, potrebbero utilmente abbandonare il dollaro e creare una loro valuta statale per svalutare e vivere felici.
In Eurolandia, invece, a ogni crisi si levano voci in tal senso. Il risultato è che una parte del mercato, a ogni crisi, si mette a puntare sullo scioglimento di Eurolandia e fa aumentare gli spread dei paesi deboli rispetto ai titoli tedeschi. Al limite dei limiti, lo scioglimento avrebbe avuto più senso, per l’Italia, nella crisi precedente, quella del 2005, quando la competitività italiana, al contrario di quella tedesca, stava effettivamente attraversando una fase molto difficile. Oggi, per contro, non si può certo dire che le banche tedesche siano messe meglio delle nostre.
In ogni caso, la volontà politica di sciogliersi non esiste al momento né tra i forti né tra i deboli. Per prevenire attacchi, quindi, in tempi di crisi Eurolandia svaluta tutta insieme con grande aggressività. Per questo, nei prossimi mesi, il dollaro si manterrà sostenuto (e indicizzato al livello di crisi globale) e ritraccerà parzialmente solo a ripresa avviata.
I mercati hanno ormai capito che c’è una lunga teoria di bombe da disinnescare una dopo l’altra da qui a fine 2009. Per questo le reazioni alle misure ormai quotidiane dei policy maker sono accolte con freddezza. E’ possibile però, già a partire dai prossimi giorni, che la massa critica delle misure di policy (e l’avvio ultrarapido della loro implementazione) raggiunga un livello tale da provocare un recupero. Si tratterebbe però di un bear market rally senza grandi potenzialità, più che altro un’occasione per realizzare di corsa aumenti di capitale.
La gigantesca operazione di pulizia in corso sta già avendo effetti recessivi e deflazionistici su tutta la linea. Verrà quindi il momento in cui una linea espansiva dovrà essere adottata non solo sul piano monetario, ma anche su quello fiscale.
Il nuovo establishment americano che si insedierà a fine gennaio alla Casa Bianca e in Congresso adotterà subito misure di rifinanziamento volontario dei mutui, secondo le linee dei piani già elaborati da Feldstein, Hubbard e Shiller. Ci sarà un costo per il Tesoro, ma verranno frenati i pignoramenti e la caduta dei prezzi delle case. Il piano Paulson verrà rivisto e potenziato, con altre iniezioni di centinaia di miliardi. Si daranno soldi agli stati e alle municipalità in piena crisi fiscale. Si spenderà in opere pubbliche.
Prima di allora, nel lungo intervallo da qui a febbraio, si prenderanno altre misure per sostenere le banche (e non solo). Come dice l’ex Fomc McTeer, nel paese del Bill of Rights è più facile, in caso di emergenza nazionale, sospendere l’habeas corpus che il mark to market. Alla fine il mark to market salterà a furore di popolo. Chi teme che in questo modo il mercato non avrà più fiducia nelle banche (e le banche non l’avranno più tra di loro) deve essere stato in viaggio su Marte in queste ultime settimane. Chi è rimasto sulla Terra ha avuto modo di notare che questa fiducia è già scomparsa.
Il mark to market, insieme alle ratio di Basilea e al VaR, è incompatibile con la sopravvivenza del sistema nei momenti di stress a meno che non esista e non si usi la facoltà di dichiarare lo stato d’eccezione e di sospenderlo. Questo non significa adagiarsi alla giapponese e nascondere la polvere sotto il tappeto per anni e anni. Significa trovare un compromesso. Si può ad esempio concedere la sospensione a chi si impegna a ricapitalizzare e ridurre la leva in tempi concordati e definiti. Quanto a Basilea e al VaR, la loro natura prociclica (e quindi potenzialmente distruttiva) emerse in tutta evidenza già nell’agosto del 1998. Una loro revisione radicale è già in discussione da tempo e verrà accelerata dalla crisi.
Per chi investe non c’è fretta. Chi torna ora da Marte perfettamente liquido non deve sentire urgenza di aumentare il profilo di rischio. C’è un 80 per cento di probabilità che i policy maker riescano a riprendere il controllo della situazione, ma il 20 rimanente fa molta paura. Ci sono in giro occasioni della vita, ma ce ne saranno altre fra sei mesi.
Gli investitori dedicati, dal canto loro, faranno bene a uniformarsi al nuovo clima culturale da anni Cinquanta che per qualche tempo prenderà il posto del canone degli anni 1983-2007. Le società tranquille, con molta cassa e poca finanza, quelle stesse che erano dai mercati e dagli analisti (più leva, più debito, sfruttate al massimo il capitale che avete o ridatelo indietro, si diceva) saranno un porto sicuro e apprezzato, come in generale i farmaceutici, le utilities e le telecom. Nei crediti occorrerà fare attenzione ai ciclici, che potranno dare brutte sorprese. Nel debito emergente sarà bene ripiegare sui sovrani in valuta.
Chiudiamo, per completezza, con una voce contrarian, quella di Greenspan che dice che usciremo dalla crisi "presto piuttosto che tardi". I maligni pensano che voglia seminare ottimismo per attenuare l’impatto di una crisi di cui molti lo ritengono corresponsabile. A essere più magnanimi si ricorderà però che Greenspan fu il primo (a parte i permabear) a prevedere già nel febbraio 2007 una vasta crisi. Ebbe ragione allora e speriamo che ce l’abbia anche questa volta.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

  Crisi: l'arma nucleare

13 Ottobre 2008 05:20 ROMA - di La Repubblica

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Sotto una pressione inaudita, nell´attesa snervante del verdetto dei mercati di oggi, il vertice europeo ha partorito finalmente un piano. Per scongiurare nuove catastrofi nelle Borse si doveva voltare pagina rispetto alla cacofonia con cui l´Unione aveva affrontato le prime ondate dello tsunami finanziario.
Bisognava cancellare il ricordo dell´insulso G-4 che una settimana prima a Parigi aveva prodotto solo retorica. Ma in una settimana molto è cambiato, dopo cinque sedute di Borsa segnate dal più grave tracollo storico dopo il 1929. La minaccia di un "collasso sistemico dell´economia mondiale", agitata dal Fondo monetario, ha agito come un elettrochoc sui governi europei. Il vertice di ieri sera ha fatto meglio del G-7, che a Washington si era chiuso sabato con frasi generiche. Il documento europeo è più specifico. Imita, come anticipato ieri da Repubblica, il piano già operativo in Gran Bretagna.
L´arma "nucleare", nelle speranze di governi e banche centrali, è il vasto ombrello protettivo che deve rianimare i flussi del credito.
E´ un´assicurazione degli Stati contro le insolvenze, che va a garantire i prestiti fra banche, le emissioni obbligazionarie degli istituti di credito, tutto quel mercato interbancario che si è paralizzato con gravi conseguenze per il finanziamento dell´economia reale. Nessuna grande banca sarà lasciata fallire: c´è il via libera alla ricapitalizzazione da parte degli Stati.
Saranno estese le nazionalizzazioni parziali per salvare gli istituti di credito in difficoltà con poderose iniezioni di denaro pubblico. E´ implicita una sospensione – o una interpretazione molto elastica – delle regole di Bruxelles contro gli aiuti di Stato. Anche il rigore di bilancio imposto dal Patto di stabilità sarà messo fra parentesi.
Quanto costerà questa immensa operazione anti-crisi ai cittadini contribuenti? Poiché l´applicazione di questi interventi resta una prerogativa dei governi nazionali, il costo totale ieri sera è rimasto nel vago. Entro mercoledì ogni governo dovrebbe annunciare quanto stanzierà. Alcuni ordini di grandezza: la Gran Bretagna ha già messo in conto di spendere almeno 250 miliardi di sterline per la garanzia sui crediti interbancari, e 50 miliardi per le nazionalizzazioni; in Germania stamattina il governo dovrebbe varare interventi analoghi per un costo stimato a 400 miliardi di euro; la piccola Norvegia ha stanziato 41 miliardi di euro. Siamo ben oltre i 20 miliardi di euro che il governo italiano aveva indicato per i suoi interventi di emergenza.
Un primo problema è questo: il vero onere dell´ombrello "nucleare" di garanzia e delle nazionalizzazioni al momento non lo conosce nessuno. Rischia di essere molto elevato. Non tutti gli Stati europei hanno gli stessi mezzi per affrontarlo. La situazione delle finanze pubbliche in Italia è tra le peggiori.
Un´altra zona d´ombra nel piano europeo riguarda le nuove regole contabili promesse alle banche, perché non debbano scaricare subito sui loro bilanci le voragini di perdite create dai "titoli tossici". Se questo sarà un regalo ai banchieri, un "liberi tutti", un´indulgenza plenaria per attribuire a quei titoli dei valori generosi, sarebbe un grave errore foriero di nuovi abusi.
In questa fase in cui la priorità è rianimare un sistema creditizio che ha subito un vero e proprio infarto, bisogna evitare di offrirgli al tempo stesso una stecca di sigarette e una bottiglia di grappa perché ricominci la vita di prima. Nell´economia di mercato le crisi devono servire anche ad eliminare i soggetti più inefficienti, possibilmente limitando i danni inflitti a vittime innocenti: questa regola andrà tenuta ferma nell´applicazione del piano europeo.
Nella migliore delle ipotesi il vertice di Parigi sarà stato utile per tappare la falla immediata, l´emergenza acuta che attanaglia il sistema finanziario, diffonde panico, raziona i fondi a tutte le attività economiche. Ma anche se si riesce ad arrestare questa calamità, dietro incombe una tempesta altrettanto grave.
E´ la recessione mondiale, un calo pesante dei consumi, interi settori industriali e di servizi colpiti duramente, emorragie di posti di lavoro. La recessione sarà sofferta dalla maggioranza delle popolazioni. Il vertice dell´Eurogruppo ieri si è concentrato a spegnere l´incendio vicino, e non ha affrontato l´altro problema che incombe. L´attenzione va riequilibrata rapidamente.
I cittadini non accetteranno che i loro disagi economici non abbiano la stessa priorità dei crac bancari. Ieri alcuni leader avrebbero voluto che dal summit di Parigi uscisse una cifra tonda, un totale dello sforzo finanziario messo in campo dall´Europa. Da un lato quel numero poteva servire a "impressionare" i mercati; dall´altro doveva rassicurare i contribuenti indicando che il soccorso alle banche avrà dei limiti. Nelle prossime ore ogni governo dovrà rispondere per la sua parte, rivelando i costi nazionali dell´operazione. E´ essenziale che non ricominci in quella fase la cacofonia, che aprirebbe la strada a giochi concorrenziali e fughe di capitali da un paese all´altro.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

CRISI MUTUI: BRETTON WOODS, NEL '44 DA MACERIE GUERRA/SCHEDA

13 Ottobre 2008 19:48 ROMA - di ANSA
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ROMA, 13 OTT - La conferenza di Bretton Woods, apice dell'attuazione della politica keynesiana, si tenne nel luglio del 1944, mentre la seconda guerra volgeva al termine, nella cittadina del New Hampshire e stabilì le regole per le future relazioni commerciali e finanziarie internazionali. Un codice valido tuttora nonostante le ripetute crisi di sistema e le critiche sempre più numerose, fino alla contestazione no-global di Seattle nel '99 e durata in modo vistoso per alcuni anni. Per giungere agli accordi furono necessarie tre settimane di lavori e i risultati costituirono il primo ordine monetario concordato tra Stati sovrani e destinato a regolare i rapporti monetari nel secondo dopoguerra. Si riunirono 730 delegati provenienti dalle 44 nazioni alleate contro l'Asse. Gli accordi erano incardinati in un sistema di regole e procedure per disciplinare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due: l'obbligo per ogni Paese di adottare una politica monetaria per stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che diventava così la valuta principale (erano consentite solo lievi oscillazioni delle altre valute); il compito di equilibrare i pagamenti internazionali attraverso la costituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Successivamente fu istituito il Gatt, poi trasformato nella Wto, l'organizzazione per il commercio internazionale. Un primo colpo al sistema di Bretton Woods fu dato dalla decisione presa a Ferragosto del 1971 da Nixon di abolire la convertibilità del dollaro. Il sistema è invece sopravvissuto a quella decisione e alle ripetute crisi internazionali negli anni Novanta, da quella delle tigri asiatiche a quella della Russia tra il 1997 e il 1998. Dopo il crac argentino del 2002 si iniziò a parlare di riforma della governance di Fmi e della Banca Mondiale, i due pilastri di Bretton Woods. Nel corso degli anni hanno contribuito alla crisi del sistema anche gli scandali che portarono nel 2000 alle dimissioni di Michel Camdessus dal Fmi, a causa delle accuse per i suoi rapporti con la Russia, e nel 2007 alle dimissioni di Paul Wolfowitz dalla Banca Mondiale dopo le accuse di nepotismo. Ora, la crisi finanziaria più dura dal 1929, la prima veramente globale, almeno per i Paesi più industrializzati, rischia di mandare in pensione definitivamente Bretton Woods, come ormai chiesto apertamente da molti governi, dal premier britannico Gordon Brown al presidente francese Sarkozy al ministro Tremonti, che intendono promuovere una nuova Bretton Woods, più rispondente alle sfide del nuovo millennio. (ANSA).
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

SHILLER: «MA I CITTADINI NON SONO SUDDITI»

13 Ottobre 2008 12:27 WASHINGTON - di Federico Fubini
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Da sempre, uno dei sintomi di una crisi è la folla di coloro che sostengono di averla prevista. Ma Bob Shiller è diverso, e non solo perché da vivo dà il nome a una moderna istituzione americana: l'indice Case-Shiller sui prezzi delle case, da lui stesso messo a punto. No: Shiller, docente a Yale, fa categoria a sé perché aveva (davvero) messo in guardia per tempo sugli scoppi delle bolle di Internet e degli immobili. Lui le chiama «epidemie sociali», attacchi della peste del ventunesimo secolo scatenati da un «residuo feudale».
Crede che il G7 di Washington rassicurerà le Borse? «Il vertice ha elencato ciò che i vari Paesi pensano di fare o fanno. Non è stata certo una risposta creativa, spumeggiante. I punti del G7 suonano come una lista di prime cose ragionevoli da fare ma non c'è una proposta di lungo periodo, sistemica. Non mi stupisce. E immagino che non possa avere molto impatto sui mercati, perché è tutto così prevedibile ».
Dunque lei è pessimista su come reagiranno i mercati? «I mercati immobiliari non credo proprio che reagiscano. Quanto alle Borse, cosa faranno è un mistero e sinceramente sono preoccupato. Il G7 di questo week-end è un segnale che i governi stanno facendo qualcosa per riportare la fiducia, ma credo anche che sia un fattore secondario».
Lei propone di democratizzare la finanza. Che significa? «Si tratta di mettere gli strumenti finanziari a disposizione della gente comune. Cent'anni fa solo i più ricchi avevano accesso a forme di gestione del loro rischio finanziario. Ora invece abbiamo forme di partecipazione ai mercati per buona parte della popolazione. Ma non c'è ancora un illuminismo finanziario diffuso, e questa crisi ne è l'esempio: è una crisi immobiliare, deriva dalla cattiva diversificazione degli investimenti e dell'indebitamento della gente comune».
Le banche hanno sfruttato l'ignoranza delle famiglie? «La gente è consigliata a indebitarsi in un portafoglio di investimenti non diversificato. È stupefacente che simili fenomeni sopravvivano nel 21esimo secolo».
Vuole dire che le banche trattano i cittadini da sudditi? «Curioso: parlare di sudditi, richiama un'eredità feudale da cui stiamo gradualmente liberandoci. Abbiamo ancora un bel po' di strada da fare in questo senso».
Ma ormai Wall Street è così odiata che i governi esitano a agire per salvare il sistema finanziario. «E ciò è preoccupante. Ricordiamoci sempre che la finanza è il plasma vitale dell'economia moderna, dobbiamo cercare di far sì che continui a progredire. Il mio timore è che questa crisi spinga la popolazione ad accusare le istituzioni finanziarie, invece di concentrarsi sugli errori commessi nella gestione del rischio».
Teme la caccia all'untore, come nelle epidemie medievali? «Mi fa pensare alla crisi nel '98 del maxi- fondo speculativo Ltcm: allora tutti incolparono i due premi Nobel che vi furono coinvolti, Robert Merton e Myron Scholes. Ma Ltcm fallì perché non aveva una buona gestione del rischio, non perché le loro teorie erano sbagliate».
Sarebbe opportuno che lo Stato comprasse le case o i mutui insolventi in America? «Parte del piano di salvataggio deve andare alle famiglie. Non sembra giusto che vada tutto alle banche e la gente comune debba dipendere dai benefici che filtrano giù giù dall'alto. In America diecimila famiglie vengono buttate fuori dalle loro case ogni giorno. Ciò sta creando un risentimento tremendo, radicato, che porta sfiducia fra gli individui, nei confronti del governo e verso le istituzioni. Dobbiamo fare qualcosa».
Comprare case aiuterebbe anche l'economia? «Come misura tampone, sì. Ma anziché provare misure improvvisate, dovremmo farlo in modo strutturale».
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

AL GRANDE CONTESTATORE DI BUSH IL PREMIO NOBEL IN ECONOMIA

13 Ottobre 2008 19:08 STOCCOLMA - di La Repubblica
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Il premio Nobel per l'Economia è stato assegnato quest'anno allo statunitense Paul Krugman, storico oppositore della politica economica ed estera di Bush e noto come economista neo-keynesiano, teorico cioè dell'intervento dello Stato per regolare il mercato. Il riconoscimento, ha reso noto l'Accademia Reale Svedese delle scienze, è stato attribuito all'economista per i suoi lavori sugli scambi commerciali internazionali. ''Credo molto nel proseguimento del mio lavoro. Spero che questo non cambi troppo le cose'', è stato il commento a caldo di Krugman all'assegnazione del prestigioso premio, istituito nel 1969.
Nato nel 1953 a Long Island, Krugman è professore all'università di Princeton (ma per molti anni ha insegnato al Mit) ed editorialista del New York Times. Krugman è anche uno dei pochi studiosi che aveva osservato con largo anticipo i rischi che hanno poi generato la crisi finanziaria. Profetico il suo libro scritto nel 2001 "Il ritorno dell'economia della depressione. Stiamo andando verso un nuovo '29?'. Nel 1991 ha ottenuto il prestigioso riconoscimento John Bates Clark Medal dall'Associazione americana per l'economia. E' diventato molto popolare, molto conosciuto al grande pubblico, soprattutto per i suoi attacchi a Bush, in particolare in occasione del taglio delle tasse (inutilmente gravoso per il bilancio pubblico, a detta di Krugman) e della guerra in Iraq.
Ma non bisogna confondere l'assegnazione del Nobel con una 'discesa in campo' contro il presidente americano e a favore di un intervento statale nell'economia da parte dell'Accademia delle scienze svedese, afferma Francesco Daveri, professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Economia dell'Università di Parma e redattore del sito economico Lavoce.info.
"Non credo che l'Accademia delle Scienze faccia scelte di campo, - osserva Daveri - semplicemente ha dato il premio Nobel a chi ha cambiato il modo in cui gli economisti pensavano alla globalizzazione. Dopo le sue pubblicazioni, lo studio dell'economia internazionale non è stato più lo stesso. Nel momento in cui lui ha iniziato a studiarla, molti avevano sfiducia nella globalizzazione e nelle sue conseguenze. Lui non l'ha certo presa come oro colato, i suoi studi dimostrano anche che il mondo globale è molto più soggetto alle crisi. Ma è riuscito a valutarlo in tutta la sua complessità.
Scoprendo, per esempio, che non valeva più la teoria dei rendimenti costanti di scala, in base alla quale che un'azienda fosse piccola o grande non faceva differenza ai fini della competizione. Invece quelle che riescono a esportare meglio delle altre, e quindi a competere, sono proprio le grandi aziende che diventano multinazionali. Una considerazione che sembra banale, però prima di lui per qualche strana ragione gli economisti non ci avevano pensato, e se ci avevano pensato non avevano superato le difficoltà di ordine tecnico che impedivano di sviluppare dei modelli".
Teorico della globalizzazione, e del commercio internazionale, ma non paladino delle barriere doganali, a differenza di quanto qualcuno per un certo tempo ha interpretato. "Le sue teorie economiche erano state interpretate erroneamente come un modo per fornire un supporto a politiche protezioniste, - ricorda Daveri - si diceva che se quello che conta è avere aziende grandi, allora occorre proteggerle finché non sono grandi, è la teoria dell'infant industry. Però lui ha anche spiegato che si trattava di una vecchia tesi degli anni '50, non più valida. Un'efficienza protetta produrrà Alitalia, non certo Wal-Mart o Nokia".
Altra scoperta fondamentale della teoria economica di Krugman è quella relativa alla concorrenza nei mercati globali: "Prima dei suoi studi - spiega Daveri - l'ipotesi era che tutti i mercati fossero in concorrenza perfetta. Krugman ha dimostrato che molto spesso sono invece oligopoli, ognuno vende un prodotto un po' differente dagli altri e questo lo rende oligopolista, anche perché i consumatori si affezionano ad alcuni beni, che comprano più volentieri. E allora come fanno le imprese a commerciare? Questa teoria dimostra che pertanto esistono buone ragioni per specializzarsi e per commerciare con molti Paesi, e per avere economie aperte, non difese dai dazi. I gusti delle persone sono variegati, ecco perché conviene il commercio internazionale".
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

TRUMP: E' COME IL SOCIALISMO... MA MI PIACE

14 Ottobre 2008 16:54 NEW YORK - di WSI
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L'immobiliarista americano, icona del peggior capitalismo Usa, dice che gli Stati Uniti "stavano per sprofondare nella Grande Depressione n. 2". Ma il piano di salvataggio, pur non avendo nulla del "libero mercato", e' forse l'unica strada percorribile.
Il miliardario americano Donald Trump, icona del peggior capitalismo Usa, con il suo sbandierato stile di vita ispirato al lusso, dice che gli Stati Uniti "stavano per avviarsi verso la Grande Depressione n. 2". Eppure nell'attuale scenario il piano di ricapitalizzazione delle banche organizzato dai governi di tutto il mondo e in particolare dall'amministrazione Bush, pur non avendo proprio nulla dei principi del "libero mercato", e' forse l'unica strada percorribile per non far precipitare la crisi sistemica.
Mentre il piano globale per ricapitalizzare le banche sara' probabilmente negativo per il suo business - ha detto - facendo salire i prezzi in un momento in cui lui ha denaro in cassa per acquistare, e' tuttavia un piano "intelligente e necessario", ha detto l'immobiliarista di New York. "Stavamo per andare verso la Grande Depressione n. 2", ha detto Trump in un'intervista.
Come figura chiave del capitalismo da "libero mercato" (il che non e' nemmeno vero, perche' anche lui fini' in bancarotta e fu salvato da dalle banche alla fine degli anni Ottanta) Trump ammette di sentirsi non del tutto a proprio agio davanti all'iniezione "artificiale" di capitali nelle banche. Ma nello stesso tempo dice che e' un'idea decisamente migliore rispetto al piano originale presentato dal ministro del Tesoro Henry Paulson, puntato al riacquisto degli asset "tossici". "Adesso e' praticamente un piano socialista.... ma mi piace, mi piace davvero", ha detto il Donald.
Secondo Trump il piano dei governi fa fronte al problema del capitale per le banche, ma la vera radice della questione - e cioe' il mercato immobiliare - non e' stata ancora affrontata. "Qualcosa deve eseere fatto per tutti quelli che non riescono a pagare il mutuo o devono rifinanziarlo", ha detto Trump. "La piu' grossa industria del mondo e' il mercato delle case, e accidenti se siamo stati colpiti". Secondo l'immobiliarista, infine, il mercato del credito non potra' mai recuperare completamente se il prezzo del petrolio in futuro salira' di nuovo. "Il greggio dovrebbe quotare tra i $40 e i $50 al barile".
 
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

VOLCKER (EX N.1 FED): SI VA VERSO LA RECESSIONE

14 Ottobre 2008 17:51 NEW YORK - di WSI
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"Ho visto molte crisi, ma mai nessuna come l'attuale" dice Paul Volcker, ex chairman della Federal Reserve. "Penso che non riusciremo a sfuggire ai danni per l'economia reale. E' quasi inevitabile: dovremo fronteggiare una notevole recessione".
"Ho visto molte crisi, ma mai nessuna come l'attuale" dice Paul Volcker, ex chairman (predecessore di Alan Greenspan) della Federal Reserve dal 1979 al 1987 in un discorso a Singapore. "Penso che non riusciremo a sfuggire ai danni per l'economia reale. E' quasi inevitabile: dovremo fronteggiare una notevole recessione".
"Questo tipo di misure - ha detto Volcker - e cioe' gli interventi e le garanzie dei governi, sono veramente sgradevoli". "Ma per quanto sgradevoli, temo fossero necessari, in quest'emergenza, per restaurare un minimo di stabilita' e fiducia sui mercati".
"Queste banche sono state di fatto nazionalizzate, apertamente o non apertamente - ha detto l'ex presidente della Banca Centrale degli Stati Uniti - e cio' non e' mai accaduto prima nella storia dei paesi sviluppati. Come libereremo poi le banche dal controllo (supporto) del governo? Questa e' la sfida per il futuro".
Wall Street Italia ha tratto le frasi citate da Paul Volcker da un articolo pubblicato dall'edizione online dell'International Herald Tribune, che a sua volta ha utilizzato un'agenzia dell'Associated Press (vedi l'articolo nella versione inglese).
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

ROUBINI PREVEDE LA PEGGIORE RECESSIONE DEGLI ULTIMI 40 ANNI

15 Ottobre 2008 03:09 NEW YORK - di ANSA
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"Saremo sopresi dalla severita' della contrazione economica (che durera' tra i 18 e i 24 mesi) e dalla severita' delle perdite finanziarie", dice il professore di economia di New York. I tassi d'interesse scenderanno a zero.
Nouriel Roubini, super-gufo n.1 tra gli esperti di economia, il professore che aveva predetto con largo anticipo (nel 2006) l'attuale crisi finanziaria, ha detto oggi che gli Stati Uniti soffriranno la peggiore recessione degli ultimi 40 anni, il che portera' ancora piu' in basso i prezzi in borsa.
"Ci sono rischi significativi al ribasso per il mercato e per l'economia", ha detto Roubini, 50 anni, professore di economia alla New York University in un'intervista a Bloomberg Television. "Saremo sorpresi dalla severita' della recessione e dalla severita' delle perdite finanziarie".
L'economista ha affermato che la recessione durera' tra i 18 e i 24 mesi, il tasso di disoccupazione salira' al 9%, le perdite sul mercato creditizio supereranno in totale i $3 trilioni (3000 miliardi) mentre i prezzi delle case, gia' depressi, scenderanno di un ulteriore 15% oltre al 25% gia' perso dal picco (quindi in totale -40%) e "non sarei sorpreso che i tassi di interesse scendano a zero", ha aggiunto. Il governo degli Stati Uniti dovra' raddoppiare gli acquisti di azioni nelle banche perche' l'attuale piano sara' insufficinete; il governo sara' costretto a forzare gli istituti di credito a sospendere i dividendi per evitare che troppe banche finiscano in bancarotta, ha concluso Roubini.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Domenica 19 Ottobre 2008   Martedì 21 Ottobre 2008   Venerdì 23 Ottobre 2008  
       
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GR1 RAI - 20 OTT ore 22:00

   

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GR1 RAI - 23 OTT ore 22:00

   

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  Più frugali siamo già meglio di prima

17 Ottobre 2008 14:27 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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La crisi bancaria globale è finita, o quanto meno arginata, ma ora comincia la recessione. Le misure adottate nel mondo sulle banche sono robuste e vanno al di là di quanto chiesto dai mercati. L’iniezione più o meno obbligatoria di capitale pubblico nelle banche copre in larga misura le perdite ancora inespresse e rende possibile l’arresto del processo di riduzione della leva del credito. Non rende ancora possibile l’inversione di tendenza (ovvero l’aumento di credito disponibile) ma ferma l’emorragia. Il cuore del sistema, che aveva già subito un infarto in primavera ai tempi di Bear Stearns, era sul punto di fermarsi, ma è stato salvato in tempo.
La riabilitazione sarà lenta. Per qualche tempo le banche dovranno stare a riposo e nutrirsi con la flebo del carry di curva (finanziandosi a breve e investendo in titoli del Tesoro a lungo), con un aumento delle commissioni e con uno spread tra tassi attivi e passivi molto elevato. Nei prossimi mesi le banche non avranno la forza di salvare da sole il sistema, ma smetteranno di metterne in pericolo la vita.
Durante la convalescenza le banche centrali assumeranno aggressivamente molte delle funzioni delle banche ordinarie. Rifinanzieranno il debito a brevissimo delle imprese sottoscrivendo carta commerciale. Daranno loro liquidità a medio termine scontando altra carta o beni reali in mano alle imprese. Quanto al fornire capitale, questo sarà compito dei governi e dei parlamenti, ma la formula sarà simile a quella utilizzata per le banche. Il Tesoro sottosciverà azioni privilegiate di grandi imprese di rilevanza sistemica.
I vari piani Paulson nazionali verranno ingranditi, sia per dare altri soldi alle banche (ma questa volta a condizione che li prestino) sia per finanziare direttamente l’economia reale. Le dimensioni delle banche centrali aumenteranno considerevolmente. La Banca del Giappone negli anni Novanta portò il suo stato patrimoniale dal 10 al 30 per cento del Pil. In questi mesi la Fed ha portato il suo dal 6 all’11 e ha davanti a sé tutto lo spazio che vuole senza che questo generi inflazione (come dimostra l’esperienza stessa giapponese). Lo stesso, ovviamente, per la Bce.
Per i policy maker e per i mercati si tratta ora di prendere le misure alla recessione che è iniziata due mesi fa in tutto il mondo, Cina esclusa. Il dibattito è tra chi sostiene l’idea di una recessione superficiale e chi parla di recessione profonda.
Con una recessione superficiale i risky asset sarebbero tutti da comprare già adesso. Molte borse sono vicine ai livelli dei minimi del 2002 e a quelli del 1997 che precedettero la bolla di Internet. Il Pil nominale di tutti i paesi, nel frattempo, è però enormemente cresciuto e anche gli utili, verosimilmente, attraverseranno la recessione restando su livelli più alti di quelli del 1997 e del 2002. Anche i crediti, paragonati ai precedenti episodi di recessione, sono molto attraenti.
Questa, però, non si presenta come una recessione di routine che conclude un ciclo di espansione di qualche anno (otto-nove anni quelle degli anni Ottanta e Novanta, cinque anni, ma straordinariamente intensi, in questi anni Duemila). Questa ha piuttosto l’aria della recessione che conclude un megaciclo di tre decenni, quello seguito alla stagflazione degli anni Settanta.
Dobbiamo quindi espiare non solo i peccati commessi dopo l’ultima penitenza del 2002, ma tutti i peccati della nostra vita, così come previsto dalle procedure del Giudizio Universale. Nelle penitenze precedenti, infatti, è ben vero che abbiamo recitato i Pater e i Gloria richiesti, settimana!! ma è altrettanto vero che non abbiamo rimediato alle distorsioni che si andavano creando anno dopo anno.
Le penitenze ordinarie, infatti, non comportavano un ritorno al livello di partenza della leva delle banche e dell’indebitamento dei privati. Al punto che, durante l’ultima penitenza del 2002, la leva delle banche d’investimento aumentò a livelli mai più raggiunti in seguito (contrariamente all’opinione comune che ritiene che il record appartenga ai giorni nostri) e l’indebitamento dei privati, grazie ai mutui a basso prezzo, non fu per nulla scalfito dalla recessione.
L’iconografia del Giudizio Universale raffigura ignudi i mortali e ignudi dobbiamo tornare tutti quanti questa volta, spogliandoci degli eccessi di leva e di indebitamento. Per fortuna la leva delle banche è già in veloce riduzione da più di un anno. Quanto ai privati, i pignoramenti sono una forma brutale ma efficace di risoluzione dei debiti, mentre il ritorno globale alla frugalità è già evidente.
Parte della pena, dunque, è già stata espiata, ma altrettanto resta da fare. Non da parte delle banche, come abbiamo visto, ma da parte di altri soggetti, come gli hedge funds, la leva va ancora ridotta. Quanto alle famiglie, il processo sarà più lento ma ancora lungo.
In queste circostanze è facile prevedere che la recessione non sarà superficiale. Prepariamoci a numeri grossi, resi tali anche dal meccanismo di annualizzazione che si usa in America (e non in Europa). In pratica, un Pil che in un trimestre passa da 100 a 99.50 diminuisce in assoluto dello 0.50 per cento, ma a una velocità annualizzata scende del 2 per cento. E potrebbe andare anche peggio, anche se non di molto e solo, probabilmente, per due trimestri.
Per quanto molto sia già nei prezzi, non si può pensare che l’azionario riesca a salire con di fronte a sé mesi e mesi di dieta quotidiana di dati macro sgradevoli e di dati societari, inevitabilmente, in ripiegamento. Il massimo che si può chiedere è di galleggiare su questi livelli e di ottenere dal cielo qualche bear market rally.
Un elemento di conforto è che i policy maker hanno piena consapevolezza della situazione e sono pronti, come hanno dimostrato, a dare risposte forti. Negli Stati Uniti si lavora a un secondo pacchetto fiscale. Sarà più grande di quello di luglio (che pure ha tenuto in piedi il Pil per un trimestre) e sarà disegnato in modo che entri tutto quanto in circolazione (senza cioè essere usato per ripagare debiti).
In Europa si permetterà un piccolo aumento dei disavanzi pubblici. Il Fondo Monetario, molto liquido, aiuterà i paesi emergenti. I tassi scenderanno ancora ovunque. Già il 29 ottobre potrebbe esserci un nuovo taglio da parte della Fed, ma quello che più conta, in questo momento, è che scenda il megaspread tra i tassi di policy e i tassi interbancari. Questa discesa sarà lenta ma avverrà a tutti i costi.
Il petrolio a prezzo pieno (i 147 dollari di tre mesi fa) era per tre quarti un problema e per un quarto un’opportunità (l’export europeo in Russia e nel Golfo). Il petrolio di oggi, esattamente a metà prezzo (74 dollari), è per tre quarti un’opportunità e per un quarto un problema (produttori in grande affanno, caduta del nostro export).
Chi investe trova oggi una situazione diversa da quella di una settimana fa. Azioni e debito delle banche appaiono più difendibili di prima, mentre il resto dell’economia, su cui è adesso puntata l’attenzione, appare in termini relativi più vulnerabile. Questo anche se il mondo, nel suo complesso, è oggi messo meglio di sette giorni fa.

 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

 

BUFALE: JOE L'IDRAULICO HA BEFFATO IL MONDO

18 Ottobre 2008 17:01 MILANO - di Giuseppe De Bellis
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Joe non si chiama Joe. Joe l’idraulico non fa l’idraulico. Joe l’idraulico di Toledo, non si chiama Joe, non fa l’idraulico, non è di Toledo. Spegnete i riflettori dal suo giardino, lo show è finito.
Joe non si chiama Joe. Joe l’idraulico non fa l’idraulico. Joe l’idraulico di Toledo, non si chiama Joe, non fa l’idraulico, non è di Toledo. Spegnete i riflettori dal suo giardino, lo show è finito. Ora può diventare solo una puntata dei Simpson. Questo è Homer: l’americano medio che appare in tv e racconta la sua storia, i suoi problemi, le sue ansie, il suo portafoglio, le sue tasse. Vero di sicuro. Falso per forza.
Joe ha preso in giro l’America, il mondo, poi se stesso: l’hanno intervistato tutti, lui ha parlato sotto un canestro, lui è diventato un simbolo: l’icona della classe media, la faccia della campagna elettorale, il baluardo no tax. Ventiquattro citazioni nel dibattito presidenziale tra Barack Obama e John McCain valgono le bugie. Quanto s’è divertito a sentire il candidato repubblicano parlare di lui? «Sono le persone come Joe che creano ricchezza e vanno lasciate libere di farlo, non colpite con le tasse». E quando Obama si è rivolto a lui? «Stai tranquillo, Joe».
Forse s’è tranquillizzato Obama: se ne farà una ragione di essere stato preso in giro, di essere rimasto intrappolato nelle domande di quello che lui credeva un idraulico. Soffre di più McCain: l’ha preso come testimonial improvvisato della sua campagna, la faccia di un americano vero che l’ha aiutato a mettere in difficoltà il suo avversario. Così ieri l’ha tirato fuori ancora: «Ho licenziato tutti i miei consiglieri e ho assunto Joe l’idraulico».
La prima parte della battuta non era poi così ironica. Si sarà chiesto quello che si chiedono gli altri: gli staff elettorali controllano tutto, certificano ogni parola, ogni smorfia, spendono milioni in spot dove ciascun termine è studiato, ma non riescono a sapere che Joe l’idraulico, l’uomo che i suoi consulenti hanno detto di citare a raffica, in realtà è un po’ un cialtrone e adesso lo mette in imbarazzo, lo danneggia, lo fa apparire un credulone o un manovratore.
Perché Joe Wurzelbacher, in realtà è Samuel J. Wurzelbacher, dove J. sta per Joseph, cioè Joe, ma a quanto pare nessuno lo chiama così. Poi non è un idraulico: è in attesa di avere una licenza da plumber e senza quella in Ohio non si può lavorare. Non ha neanche completato l’apprendistato, né appartiene al sindacato degli idraulici. Poi guadagna 40mila dollari, cioè un quarto meno di quanto abbia detto per mettere in difficoltà Obama: Joe, cioè Sam, aveva chiesto al candidato democratico se era vero che lui, con un reddito potenziale di 250mila dollari, sarebbe stato penalizzato dal caro-tasse voluto da Barack sui redditi più alti.
Una domanda scomoda, una risposta zoppicante, Obama il comunicatore improvvisamente senza parole, sconfitto da un essere umano normale. Grande Joe, mitico Joe, straordinario Joe. Tutta una vita davanti: l’americano e il suo sogno, la possibilità di parlare all’uomo che può comandare il pianeta e dirgli che a lui non piace. Era lui che parlava, ma in realtà non era lui.
Buona o cattiva fede, non importa nemmeno: il problema è che ci sono cascati tutti, traditi dalla voglia di raccontare a se stessi e al mondo una storia vera in una campagna mediatica, internettiana, virtuale. Tutti immediatamente pronti a dire che nei tre miliardi di dollari spesi per arrivare alla Casa Bianca, l’unica cosa reale, concreta e importante era la vita di Joe, la sua voglia di comprare l’azienda che lo faceva lavorare.
Fregati di nuovo: la storia vera è una storia falsa. Bella, giusta, perfetta. Però falsa. E lui, Joe-Sam, è l’eroe che non sarà nessuno, prima usato volontariamente o involontariamente, poi dimenticato perché bugiardo. Di più: adesso scatta la corsa a sapere se qualcuno l’ha pagato. E ovviamente il complotto è duplice: lo ha usato McCain, ma poi la situazione gli è sfuggita di mano; oppure l’ha usato Obama che ha fatto finta di andare in difficoltà per poi tornare alla grande dimostrando che l’avversario usa tutti i mezzi pur di sconfiggerlo. Vale tutto. Tanto alla fine Samuel J. Wurzelbacher non voterà neppure perché sulla domanda di registrazione all’anagrafe elettorale il cognome è scritto sbagliato: Worzelbacher.

 

Fonte - Il Giornale

 

 

 

 

BERNANKE: LA CRISI SARA' LUNGA, SI' AD AIUTI DI STATO

20 Ottobre 2008 16:33 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore
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Le prospettive dell'economia americana restano «incredibilmente incerte» e in quest'ottica l'idea di un nuovo intervento da parte del governo federale con un secondo pacchetto di stimoli fiscali può essere considerata «appropriata».
Le prospettive dell'economia americana restano «incredibilmente incerte» e in quest'ottica l'idea di un nuovo intervento da parte del governo federale con un secondo pacchetto di stimoli fiscali può essere considerata «appropriata». Lo ha detto il governatore della Federal Reserve Ben Bernanke nel corso della sua audizione di fronte alla commissione bilancio della Camera. Secondo il governatore della banca centrale americana l'economia resterà debole per «diversi trimestri».
Intanto però, per l'economia americana arriva una boccata d'ossigeno. Negli Stati Uniti il superindice dell'attività economica ha registrato un incremento dello 0,3% nel mese di settembre. È il primo rialzo dallo scorso aprile. L'attesa degli analisti era per una lettura invariata rispetto al mese precedente. Tuttavia è stata rivista al ribasso la rilevazione di agosto (-0,9%) rispetto al precedente -0,5 per cento.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

CRISI MUTUI: BERNANKE, APPROPRIATI NUOVI STIMOLI FISCALI

20 Ottobre 2008 16:47 ROMA - di ANSA
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(ANSA) - ROMA, 20 OTT - Bernanke dunque appoggia l'ipotesi di un nuovo pacchetto di stimoli fiscali prendendo le distanze dalla posizione assunta dalla Casa Bianca, e ha anche esortato il governo a prendere in considerazione misure che possano "aiutare l'accesso al credito da parte di consumatori, proprietari di case e imprese". Interventi in questa direzione - ha aggiunto il numero uno della Fed - "potrebbero essere particolarmente efficaci per promuovere la crescita economica e la creazione di posti di lavoro". Per Bernanke, in vista della "probabile debolezza dell'economia nei prossimi trimestri" e dei "rischi di un rallentamento prolungato" appare "appropriato" che "a questo punto il Congresso prenda in esame un pacchetto fiscale". In particolare, Bernanke ha evidenziato il rischio di un calo degli investimenti nei mesi a venire e di una ulteriore contrazione nell'edilizia residenziale nel 2009, aggiungendo che il ribasso dei prezzi delle materie prime e il rallentamento dell'economia "potrebbero far scendere l'inflazione su livelli compatibili con la stabilità dei prezzi". Il presidente della Fed si è anche detto "fiducioso" che i recenti interventi varati dal governo "aiuteranno a normalizzare il mercato del credito" anche se è "troppo presto per vederne gli effetti", precisando tuttavia che una "stabilizzazione del credito non riuscirà a far ripartire l'economia in tempi rapidi". (ANSA).
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

Cina - La crescita rallenta

20 Ottobre 2008 16:47 ROMA  - di Macromonitor
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L’economia cinese, il maggior contributore alla crescita globale, si è espansa nel terzo trimestre al passo più lento da cinque anni, dopo che la crisi finanziaria ha tagliato la domanda per l’export. Il prodotto interno lordo è cresciuto del 9 per cento tendenziale, a fronte di un più 10,1 per cento del secondo trimestre e di stime di consenso che ipotizzavano una crescita del 9,7 per cento. Si tratta del quinto trimestre consecutivo di crescita in rallentamento, e potrebbe esacerbare i cali nei prezzi di ferro, rame, e petrolio, frenando la domanda di export interna all’Asia, dove le economie stanno già contraendosi.
Il governo di Pechino ha annunciato ieri un’accresciuta spesa per infrastrutture e tagli d’imposta per gli esportatori, mentre la banca centrale potrebbe tagliare i tassi per la terza volta quest’anno. In settembre l’inflazione cinese è rallentata al 4,6 per cento, il passo più lento da giugno 2007, sul raffreddamento dei prezzi delle materie prime.
La crescita del pil cinese nel terzo trimestre è stata la più debole dallo scoppio della SARS, nel secondo trimestre 2003. Il contributo del commercio estero alla crescita si è dimezzato nei primi 9 mesi rispetto all’anno precedente. Tra gli altri dati, la produzione industriale è cresciuta in settembre dell’11,4 per cento, il passo più lento da oltre sei anni, per effetto dell’indebolimento degli ordini all’export e delle chiusure di impianti per ridurre l’inquinamento durante i Giochi Olimpici. La crescita nell’investimento fisso urbano nei primi nove mesi del 2008 è accelerata al 27,6 per cento, da 27,4 per cento di agosto. Le infrastrutture ferroviarie ed il programma di ricostruzione post-terremoto sono destinati a sostenere il passo dell’investimento.
Le vendite al dettaglio sono cresciute in settembre del 23,2 per cento, prossime al passo più rapido degli ultimi nove anni, mentre i prezzi alla produzione, nello stesso mese, hanno rallentato la propria corsa al 9,1 per cento tendenziale, da 10,1 per cento di agosto. Il reddito disponibile per le aree urbane nei primi nove mesi dell’anno è cresciuto del 14,7 per cento, a 11.865 yuan (circa 1740 dollari), mentre il reddito delle aree rurali è cresciuto del 19,6 per cento, a 3971 yuan. Si tratta di un passo verso la riduzione della diseguaglianza reddituale tra città e campagne, che rappresenta il maggiore rischio per la stabilità politica e sociale del paese. I dati sono naturalmente espressi in valore nominale, e sono quindi gonfiati dall’inflazione.
La banca centrale, dalla metà di luglio, ha frenato la tendenza all’apprezzamento dello yuan, nel tentativo di proteggere l’occupazione nelle imprese esportatrici. Secondo alcune analisi, la crescita dell’export cinese potrebbe crollare quest’anno dal 22 per cento registrato nei primi nove mesi dell’anno, a zero o anche ad un valore negativo. Oltre al peggioramento delle prospettive per l’export, la debolezza nel mercato immobiliare rappresenta una minaccia per la quarta economia mondiale: nei primi otto mesi del 2008 le vendite di case in volume sono crollati del 55,5 per cento a Pechino e del 38,5 per cento a Shanghai, secondo dati dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua. Il Consiglio di Stato ha comunicato che aumenterà l’offerta di abitazioni a basso costo e ridurrà i costi delle transazioni immobiliari.
La situazione di avanzo di bilancio e la presenza di riserve valutarie al record mondiale di 1900 miliardi di dollari consentiranno poi alla Cina di spingere la spesa pubblica, contribuendo all’evoluzione del modello di sviluppo, da uno centrato sull’export ad uno a maggiore incidenza di consumi ed investimenti.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

GREENSPAN: CRISI FINANZIARIA, UNO 'TSUNAMI' CHE LASCERA' IL SEGNO

23 Ottobre 2008 16:31 NEW YORK - di ANSA
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L’ex capo della Fed Alan Greenspan, intervenuto di fronte al Congresso Usa, nell'ambito delle audizioni sulle origini della crisi finanziaria, ha parlato della crisi come "uno tsunami che si verifica una volta ogni secolo", lanciando un allarme sul forte impatto che ci sara' sull’economia e sul livello dell’occupazione. "Sono rimasto choccato" dalla crisi creditizia.
Greenspan ha confermato che alla radice del problema ci sia stata l’elevata domanda per gli asset legati ai mutui subprime da parte di quegli investitori e speculatori incuranti della qualita' dei prestatari e del fatto che la bolla del mercato immobiliare sarebbe potuta prima o poi esplodere.
"Considerato il danno prodotto fino ad oggi, non riesco a pensare ad un modo per evitare un significativo incremento dei licenziamenti e del tasso di disoccupazione. Le famiglie americane si dovranno adeguare, come meglio possibile, ad una contrazione della disponibilita’ del credito e ad una maggiore insicurezza sul posto di lavoro".
Greenspan ha sottolineato che la condizione necessaria per la fine della crisi sia una stabilizzazione dei prezzi delle case che purtroppo non si verifichera’ ancora "per diversi mesi".
Dunque l'ex presidente della Federal Reserve protagonista dell'economia americana fino al gennaio 2006, e da molti considerato tra i massimi responsabili delle bolle creditizia e immobiliare gonfiate dal 2001 in poi da tassi d'interesse all'1%, ha decisamente cambiato idea sulla finanza e i mercati.
Dopo essere stato uno strenuo difensore del libero mercato applicato ai servizi finanziari e della capacità della finanza di autodisciplinarsi, l'ex banchiere centrale più potente della terra oggi ha detto che la finanza deve essere sottoposta a controlli più rigidi. E ha auspicato che le banche d'investimento che impacchettano i crediti (come i mutui) all'interno di titoli strutturati (come nel caso delle cartolarizzazioni) sia obbligate a mantenere una parte di questi titoli.
"Preferirei fosse altrimenti, ma in questa situazione finanziaria non vedo altra scelta che obbligare tutti gli istituti che fanno cartolarizzazioni di mantenere una parte significativa dei titoli che emettono", ha detto Greenspan nel suo intervento alla Camera a Washington.
Una soluzione che secondo l'ex presidente della Fed darebbe alle banche un incentivo a valutare gli attivi che vengono 'impacchettati' in maniera più aderente alla loro rischiosità. Nel maggio 2005 Greenspan - fino a poco tempo fa considerato un 'guru' finanziario quasi infallibile - disse che "l'autodisciplina in genere sui è dimostrata molto più efficace della regolamentazione governativa nel limitare l'assunzione dei rischi".
 

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

CRISI MUTUI: RECORD PIGNORAMENTI CASE IN USA

23 Ottobre 2008 19:31 NEW YORK - di ANSA
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Sale vertiginosamente il numero degli americani che perdono la propria casa, mentre i prezzi delle abitazioni crollano, la disoccupazione e' in aumento e vengono programmati migliaia di licenziamenti.
Sale a livelli record il numero degli americani che perde la propria casa perché vittima dei pignoramenti; mentre i prezzi delle abitazioni crollano, la disoccupazione è in aumento e altre migliaia di licenziamenti vengono programmati da un colosso bancario come Goldman Sachs e dal gigante dell'auto General Motors. Sono queste alcune delle cattive notizie giunte oggi da Oltreoceano, che mostrano come gli Stati Uniti stiano facendo i conti con l'imminente recessione.
Il mercato immobiliare americano è ancora nel pieno della crisi, tanto che proprio oggi il governo Usa ha fatto sapere che sono allo studio misure per aiutare chi è in difficoltà con il pagamento delle rate del mutuo. I pignoramenti immobiliari hanno raggiunto un nuovo massimo storico, con un aumento del 71% nel terzo trimestre rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, al livello-record di 765.558 unità.
Così, il governo federale americano sta pensando di utilizzare parte del pacchetto di aiuti da 700 miliardi di dollari varato dal Congresso nei giorni scorsi, per offrire garanzie sui prestiti in modo da aiutare chi è in difficoltà con le rate a non perdere la propria casa. Ma intanto proprio il boom dei pignoramenti spinge ancora più giù i prezzi delle abitazioni rendendo gli americani più poveri, senza contare che continua l'emorragia di posti lavoro. L'indice dei prezzi delle case - rilevato dall'Office of Federal Housing Enterprise Oversight (OFHEO) - ha segnato ad agosto un crollo del 5,9% su base annua (-0,6% mensile dopo il -0,8% di luglio), mentre le richieste di sussidio di disoccupazione sono salite la scorsa settimana di 15.000 unità, più del doppio di quanto previsto dagli economisti.
Le domande di sussidio hanno toccato quota 478.000, ma potrebbero presto raggiungere la soglia psicologica delle 500.000 unità, se si tiene conto delle migliaia di tagli occupazionali annunciati nelle ultime ore. Goldman Sachs sarebbe pronta a eliminare 3.260 dipendenti, il 10% del totale della forza lavoro. Il taglio farebbe salire a oltre 130.000 il numero dei licenziamenti totalizzati nella sola industria finanziaria da metà 2007, offuscando quelli che seguirono lo scoppio della bolla tecnologica.
E la cifra potrebbe diventare ancora più alta se si dà credito allo scenario prefigurato da oggi Nouriel Roubini, l'economista che due anni fa predisse la crisi: la situazione di "panico" dei mercati - ha spiegato Roubini a un convegno a Londra - porterà a una "massiccia svendita di asset" e alla chiusura di centinaia di hedge fund con il rischio che i mercati finanziari globali possano sospendere l' attività per una settimana o due.
Quanto a General Motors, fa i conti con la pesante crisi del mercato dell'auto e sta pensando di eliminare altri cinquemila posti di lavoro entro il primo novembre attraverso un piano di incentivi all'esodo. E per tagliare ulteriormente i costi, la casa automobilistica ha deciso di sospendere già da novembre il versamento dei contributi a carico dell' azienda per il piano pensionistico.
 

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Meglio uno scrollone da choc o una crisi stentata, lunga e noiosa?

20 Ottobre 2008 01:30 MILANO - di Giuseppe Turani

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Il mondo si sta fermando? Per fortuna non ancora, e forse non succederà. Quello che è sicuro è che sta rallentando, e anche di parecchio. Secondo molti economisti (da quelli di Morgan Stanley a quelli di Global Insight, passando per quelli di Goldman Sachs) non dovremmo nemmeno arrivare a vedere dei numeri negativi nelle cifre che, anno dopo anno, misurano la crescita dei vari paesi. Ma gli economisti si sono già sbagliati molte volte e quindi possono sbagliare anche questa volta.
L´aria che si respira nel mondo degli affari è infatti molto diversa e, anche senza arrivare a sparare delle cifre, circola una specie di mantra: questa crisi non sarà pesantissima, ma sarà molto lunga. Il che significa che non dovremmo vedere arretramenti spaventosi, ma che dovremo viaggiare con crescite molto stentate (vicine allo zero) per parecchio tempo.
Il ragionamento che sta alla base del mantra che abbiamo appena indicato è piuttosto semplice. Questa, si dice, non è una crisi da choc (tipo rialzo brusco del prezzo del petrolio). Non è cioè una crisi dove, superato lo choc, poi tutto riprende abbastanza normalmente. Questa una crisi, come si usa dire, di tipo sistemico.
Il maledetto "affaire" dei prestiti subprime e dei derivati di varia natura ha terremotato tutto il sistema del credito. È un po´ come se una serie di esplosioni avesse fatto saltare l´intero sistema idraulico di un grattacielo. È evidente che prima di poter tornare a abitare normalmente in quell´edificio bisogna revisionare tutto l´impianto: scavare sotto i pavimenti, riparare tubature rotte, mettere raccordi nuovi, ecc. Al sistema del credito è successo esattamente questo: è saltato tutto. E il sistema del credito (ormai interamente integrato a livello mondiale) è essenziale per il buon funzionamento del resto dell´economia. Ma oggi questo sistema è bloccato, avariato.
Qualcuno, con una bella immagine, ha detto che il sistema del credito, dopo i corposi interventi dei vari governi e delle banche centrali, non è più in grado di fare del male a se stesso (perché sono arrivati i pompieri con le scorte di acqua e i medicinali), ma non è nemmeno in grado di aiutare le aziende dell´economia reale che si trovano nei guai. E gli interventi sul mondo del credito sono stati pesanti.
Il governo svizzero, ad esempio, ha rilevato da Ubs attività (titoli, obbligazioni, ecc.) pari a 60 miliardi di dollari per un dollaro. E l´Ubs è stata ben felice di fare questa transazione "suicida" perché quei 60 miliardi di roba erano marci per una quota molto rilevante, erano cioè fonte di perdite devastanti che adesso sono sulle spalle del governo svizzero. Ma è evidente che l´Ubs, che tutto sommato sta meglio di altre banche adesso, avrà in futuro i movimenti un po´ rallentati.
Il sistema del credito, insomma, è come un malato al cui capezzale sono arrivati i necessari soccorsi, e che quindi è fuori pericolo, ma che certo non è in condizioni di dare una mano agli altri che soffrono nella stessa corsia.
E quello che succede nell´economia reale è ben descritto in questo brano (che riporto integralmente dal report di una banca italiana) sui risultati di un´indagine della Federal Reserve di Philadelphia: «L´indagine della Philadelphia Fed sottolinea gli effetti negativi del blocco del credito: circa il 14 per cento delle imprese riporta difficoltà nell´ottenere credito per finanziare l´attività corrente nell´ultimo mese e circa il 30 per cento riporta problemi analoghi fronteggiati dai loro clienti. Circa il 18 per cento delle imprese indica che la restrizione del credito ha avuto un impatto sul proprio livello di produzione e il 15 per cento delle imprese ha rivisto significativamente verso il basso la spesa in conto capitale programmata per i prossimi sei mesi. L´indagine conferma che in assenza di un miglioramento delle condizioni e della disponibilità del credito la recessione potrebbe essere molto più profonda e duratura di quanto visto negli ultimi due cicli».
A conclusioni analoghe (o addirittura peggiori) arriverebbe qualunque indagine del genere che venisse fatta in Italia o in Europa. Il denaro, questa è la conclusione, c´è, ma non circola. E l´economia reale, quella delle fabbriche e degli uffici, si trova nei guai. Ma non è finita qui. Il problema vero consiste nel fatto che non si tratta, a questo punto, di rimettere semplicemente in sesto i vecchi circuiti finanziari. Quelli sono saltati perché avevano dentro una sorta di errore genetico: forse troppa libertà e troppa avidità. E quindi bisogna provvedere a una revisione completa del processo di erogazione del credito.
Ma su questo punto, la revisione del sistema del credito, non abbiamo nemmeno cominciato a pensare, probabilmente perché nessuno sa ancora da che parte andare. Una cosa, comunque, è certa. Nei prossimi anni ci sarà meno credito (per le imprese e per la gente) e costerà di più. Meno soldi, ma più cari. In queste condizioni la frenata dell´economia, o comunque la si voglia chiamare, è destinata a essere lunga, molto lunga.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Sabato 25 Ottobre 2008   Mercoledì 29 Ottobre 2008   Giovedì 30 Ottobre 2008  
       
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GR1 RAI - 30 OTT ore 22:00

   

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  Addio al mito dei Mercati Emergenti

28 Ottobre 2008 02:46 ROMA - di Marcello De Cecco

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Nominare William Rhodes a un banchiere centrale o un alto burocrate di un paese dell’America latina causa il tramonto immediato del suo buonumore: in un trentennio questo manager della Citibank è stato il protagonista di tutte le crisi del debito di quei paesi, e il suo arrivo in una delle capitali produceva costernazione e la realizzazione che la ricreazione era finita.
Fa una certa impressione, per questi motivi, leggere sul Financial Times del 23 ottobre, queste sue parole: «La crisi finanziaria di oggi è diversa dalle altre degli ultimi trent’anni. La turbolenza è stata esportata dagli Stati Uniti e poi dall’Europa ai mercati emergenti. Dopo la risoluzione delle crisi degli anni 80 e 90, molti mercati emergenti introdussero riforme chiave, seguirono politiche macroeconomiche prudenti, rafforzarono le istituzioni finanziarie e le banche centrali e accumularono considerevoli riserve bancarie».
Malgrado ciò, prosegue il banchiere, «molti di questi paesi sono stati coinvolti nella caduta di questa crisi creditizia. Essi sono le vittime di uno stress finanziario che non hanno causato loro e che è aldilà delle loro possibilità di controllo. Ciò potrebbe colpire le loro economie reali. La situazione si sta deteriorando: questi paesi non dovrebbero essere lasciati al loro destino».
Le parole del banchiere americano rispecchiano fedelmente quel che si legge nei dati e nei grafici degli andamenti delle borse dei paesi emergenti e degli spread dei loro titoli a reddito fisso: entrambi gli indici mostrano una resistenza veramente notevole fino all’estate scorsa, su livelli storicamente assai elevati. Poi, in tutti i paesi allo stesso tempo, alla fine dell’estate inizia una corsa al ribasso che si trasforma rapidamente in una caduta precipitosa.
Guardando all’intera serie dei dati dell’Emerging Market Bond Index tenuto dalla Morgan Bank per più di dieci anni, tuttavia, si legge con chiarezza la portentosa convergenza degli spread verso quelli dei paesi sviluppati che inizia nel 2003 e che si è solo da qualche mese interrotta e invertita. Da uno spread medio del 12% nel 2001 si arriva a uno del 2% nel 2006. Dopo un tratto orizzontale di un anno a quel miracoloso livello, l’indice riprende a salire, quando scoppia la crisi creditizia in America e si diffonde ai paesi europei, ma è ancora solo al 4% prima dell’estate 2008, e arriva in un balzo all’8% in pochissimi giorni. Siamo ancora lontani dal 12%, ma estrapolando da quel che è successo in un paio di settimane, non è affatto certo che non si raggiungano velocemente livelli mai prima toccati nei prossimi giorni.
Possiamo chiederci se il crollo degli spread che si è verificato a partire dal 2003 con la violenza che abbiamo notato sia dovuto ai comportamenti virtuosi dei paesi emergenti in quegli anni, ai quali allude Rhodes, oppure sia la conseguenza di una attività gigantesca di carry trade condotta negli stessi anni da speculatori grandi e piccoli.
La politica monetaria del Giappone, infatti, è in quel periodo estremamente espansiva e tiene i tassi sui prestiti in Yen a livelli bassissimi. Ne approfitta una congerie assai composita di arbitraggisti, che va dalle massaie giapponesi ai grandi banchieri occidentali, ai gestori dei diecimila hedge fund esistenti, per prendere a prestito in Giappone e comprare titoli ad alto rendimento nei paesi emergenti, naturalmente senza coprire il rischio di cambio, perché facendolo il rendimento di queste operazioni diverrebbe troppo basso o si annullerebbe.
Perché tanta sicurezza? Perché in quegli anni è noto che il Giappone, afflitto dalla stagnazione interna e da prezzi addirittura calanti, vuole rimediare ai suoi problemi di domanda interna esportando e fa di tutto, con le ben note arti del suo ministero delle Finanze, per tenere basso il cambio dello yen.
Una riprova ulteriore della mancanza di colpe dei paesi emergenti nel determinare la recente inversione degli spread viene dalla coincidenza di questo fenomeno con l’inversione dell’andamento dello yen nei confronti delle principali monete, in particolare di euro e dollaro. La corsa dello yen è divenuta precipitosa negli ultimi giorni, ma è iniziata anch’essa quest’estate, mettendo fine, ad esempio, ad un ribasso verso l’euro che ha fortemente preoccupato gli europei per qualche anno, aggiungendosi alla sottovalutazione della moneta cinese, con conseguenze perniciose per le bilancia commerciale della zona euro.
Certo il rialzo dello yen non è dipeso dai comportamenti dei paesi emergenti. Quasi sicuramente esso si deve al precipitare della crisi bancaria americana e al subitaneo interrompersi del Carry Trade, dovuto alla paura improvvisa che ha investito i prestatori giapponesi. Questi non solo impiegavano le loro risorse comprando titoli ad alto rendimento dei paesi emergenti, ma anche azioni quotate a Wall Street e lì la festa è finita anch’essa allo stesso tempo.
In un articolo della primavera scorsa, lo stesso Rhodes metteva in berlina il mito del "disaccoppiamento" delle fortune dei paesi asiatici e in generale di tutti i paesi emergenti da quelle del centro del mondo. Il collegamento, naturalmente, che non si era interrotto affatto, era quello tra domanda e prezzi delle materie prime e esportazioni dei paesi emergenti, oltre al deflusso di capitale dai mercati finanziari del centro e quelli della periferia che abbiamo già ricordato. Non è stato il solo a farlo, ma vale la pena ricordare, in questa età della dimenticanza rapida, quanti sostenevano, fino a pochissimo tempo fa, esattamente il contrario.
Non tutti i paesi emergenti sono uguali, naturalmente. La Cina, ad esempio, potrebbe in teoria mobilitare la domanda interna se quella estera viene meno, assai meglio di qualsiasi paese dell’ America Latina o della zona di influenza della Unione Europea. Ma, anche nel suo caso, no è affatto sicuro che riesca a farlo. Stiamo invece vedendo in questi giorni, quanto il legame con i paesi centro resti forte per le aree che abbiamo appena richiamato.
I casi della Turchia e quello dell’Ucraina e Bielorussia, così come quelli dei paesi baltici e dell’Ungheria sono dimostrazione eclatante di questa dipendenza. Il riverbero verso l’Europa sviluppata, e verso i paesi più fragili di essa, come l’Italia, di quanto sta accadendo in questi giorni in quei paesi a noi vicini e anche in Russia, minaccia di essere assai maggiore dei quello che promana dai paesi dell’America Latina verso gli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, anche oggi, si trovano nella posizione di dipendere essenzialmente solo da se stessi. Piaccia o no, il mondo si trova ancora su un "dollar standard" e, malgrado il loro enorme debito sia in gran parte in mani straniere, gli americani possono ancora trarsi dalle peste stampando moneta. L’altra faccia di questa medaglia è che nessuno, tranne gli Stati Uniti, può trarre gli stessi Stati Uniti fuori da una buca nella quale sono volontariamente caduti. Speriamo che ciò accada nei prossimi mesi, anche se molti cominciano a disperare delle capacità della classe dirigente americana.
Ma torniamo ai paesi emergenti, che si trovano nella situazione opposta a quella degli Stati Uniti. Quel che accade altrove condiziona potentemente la loro vita economica. Come ha notato Rhodes, se ne poteva dubitare nei decenni scorsi, quando il malessere latino americano era anche di origine interna. Ma nella crisi attuale l’ America Latina è stata in maniera patente alla mercè dei prezzi delle materie prime e delle condizioni del credito nel centro del mondo. I suoi tentativi di seguire regole macro e micro economiche considerate virtuose secondo l’etica del Consenso di Washington sono stati applauditi coralmente al centro del mondo, ma tutto è stato dimenticato in pochi giorni, quando è cominciato il rimpatrio accelerato dei capitali verso i mercati finanziari di provenienza e l’abbandono della speculazione al rialzo sul mercato delle materie prime.
Questa disordinata fuga mette in ombra anche alcune indubbie responsabilità nazionali, che sono certo presenti , ad esempio, in Ucraina, in Argentina, in Turchia, in Ungheria, nei paesi baltici. Esse sono importanti e senza il rimpatrio disordinato dei capitali, il crollo delle esportazioni, il collasso delle quotazioni delle materie prime, tali responsabilità sarebbero venuto in rilievo e si sarebbe potuto attribuirle e punirle politicamente in ciascun paese. Ora invece, la tempesta venuta da fuori assolve le classi di governo dalle loro responsabilità e permette loro di continuare a guidare i propri paesi senza alcuna censura politica.
Anzi, se dobbiamo estrapolare da quel che vediamo in questi giorni in Argentina, è partita una corsa da parte di tutte le parti politiche nazionali a reintrodurre strumenti di protezione del mercato interno che sembravano andate fuori moda da decenni, risuscitando tendenze nazionalizzatrici che anch’esse parevano appartenere ad una tradizione ormai desueta. Istruttivo è a questo proposito il caso di Aerolinas Argentinas.
Notiamo in fine che allo stesso tempo anche i paesi dell’Africa stanno precipitando, coi capitali che fuggono e titoli e monete che affondano. Ma di loro, come sempre, non si occupa nessuno.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

TASSI USA: LA FED LI ABBASSA ALL’1.00%

29 Ottobre 2008 19:17 NEW YORK - di WSI
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Come ampiamente atteso dal mercato, la Banca Centrale americana ha tagliato di 50 punti base il costo del denaro. I tassi d’interesse scendono all’1.00%, minimo dal 2004. Decisione unanime.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve, ha abbassato il costo del denaro degli Stati Uniti all’1.00%. Si tratta dell'ottavo taglio consecutivo nella serie di ribassi iniziata nell'ottobre 2007. La decisione segue il taglio di emergenza di mezzo punto percentuale deciso lo scorso 8 ottobre in accordo con la BCE, la Banca di Inghilterra e le banche centrali di Canada, Svizzera e Svezia. Abbassato di mezzo punto percentuale anche il tasso di sconto all'1.25%.
Intervenuto solo pochi giorni fa all’Economic Club di New York, il presidente Bernanke aveva dichiarato: "non abbasseremo la guardia finche’ non avremo raggiunto i nostri obiettivi di riparare e riformare il sistema finanziario e riportare prosperita’".
Il mercato si era adattato dunque all’idea di un forte taglio dei tassi. "La Fed assumera’ un atteggiamento particolarmente aggressivo" aveva affermato poco prima della comunicazione l’economista e professore della New York University Mark Gertler. "Al momento i rischi inflazionistici non hanno alcun peso, il problema e’ contenere l’impatto della recessione".
Domani sara’ rilasciato il dato sul Pil del terzo trimestre, le attese sono per una contrazione dello 0.5%. "L’inadeguata crescita costituira’ un problema fondamentale nei prossimi mesi" ha dichiarato l’ex governatore Fed Lyle Gramley. "Se l’economia dara’ nuovi segnali di rallentamento, la Fed potrebbe decidere di tagliare ancora nei prossimi meeting, fino a livelli che non si vedono dal lontano 1958". "Un tasso neutro non e’ da escludere".
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di abbassare di 50 punti base il target sui fed funds all’1.00%.
L’attivita’ economica sembra essere rallentata considerevolmente, causando un calo della spesa dei consumatori. La spesa per le attrezzature aziendali e la produzione industriale hanno subito un indebolimento negli ultimi mesi, e il rallentamento dell’attivita’ economica all’estero sta riducendo le prospettive sulle esportazioni. Inoltre, l’intensificazione delle turbolenze sui mercati finanziari potrebbe contenere ulteriormente la spesa, in parte riducendo la capacita’ delle famiglie e delle aziende nell’ottenere nuovi prestiti.
Alla luce del calo dei prezzi dell’energia e di altre commodities e delle deboli prospettive per l’attivita’ economica, il Comitato si aspetta una moderazione dell’inflazione nei prossimi trimestri ad un livello coerente con la stabilita’ dei prezzi.
Le recenti azioni politiche, incluso l’odierno abbassamento del costo del denaro, il taglio coordinato ai tassi d’interesse delle Banche Centrali, le straordinarie misure di liquidita’, e le azioni governative mirate al rafforzamento dei sistemi finanziari, dovrebbero gradualmente migliorare le condizioni del credito e promuovere un ritorno ad una crescita economica moderata. Tuttavia, i tischi al ribasso restano. Il Comitato continuera’ a monitorare attentamente gli sviluppi economici e finanziari ed agira’ come necessario per promuovere una crescita economica sostenibile e la stabilita’ dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh.
In un’azione collegata, Il Consiglio dei Governatori ha approvato all’unanimita’ l’abbassamento di 50 punti base del tasso di sconto all’1.25%. In tale azione, il Consiglio ha approvato le richieste presentate da Board of Directors delle Federal Reserve Bank di Boston, New York, Cleveland, e San Francisco.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di ridurre il tasso interbancario all’1.00%:
The Federal Open Market Committee decided today to lower its target for the federal funds rate 50 basis points to 1 percent.
The pace of economic activity appears to have slowed markedly, owing importantly to a decline in consumer expenditures. Business equipment spending and industrial production have weakened in recent months, and slowing economic activity in many foreign economies is damping the prospects for U.S. exports. Moreover, the intensification of financial market turmoil is likely to exert additional restraint on spending, partly by further reducing the ability of households and businesses to obtain credit.
In light of the declines in the prices of energy and other commodities and the weaker prospects for economic activity, the Committee expects inflation to moderate in coming quarters to levels consistent with price stability.
Recent policy actions, including today’s rate reduction, coordinated interest rate cuts by central banks, extraordinary liquidity measures, and official steps to strengthen financial systems, should help over time to improve credit conditions and promote a return to moderate economic growth. Nevertheless, downside risks to growth remain. The Committee will monitor economic and financial developments carefully and will act as needed to promote sustainable economic growth and price stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh.
In a related action, the Board of Governors unanimously approved a 50-basis-point decrease in the discount rate to 1-1/4 percent. In taking this action, the Board approved the requests submitted by the Boards of Directors of the Federal Reserve Banks of Boston, New York, Cleveland, and San Francisco.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

FEDERAL RESERVE OFFRE LIQUIDITA' UN PO' A TUTTI

30 Ottobre 2008 12:33 SIENA - di MPS Capital Services
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La banca centrale Usa ha annunciato nuove linee swap temporanee in dollari ($30 miliardi ciascuna fino al 30 aprile 2009) nei confronti delle banche centrali di Brasile, Messico, Corea del Sud e Singapore.
Tassi di interesse: in area Euro ieri si è assistito alla seconda giornata consecutiva di forte rialzo dei listini azionari dopo le perdite della scorsa settimana. I tassi di mercato sono saliti sulla parte lunga della curva mentre sono calati sul breve comportando un aumento dello spread 2-10 anni da 120 a 126pb.
Al centro dell’attenzione è stato l’andamento dei titoli governativi periferici con lo spread Italia-Germania salito al nuovo livello record di 112pb sul tratto decennale. L’allargamento degli spread non coinvolge solo il nostro paese, ma anche altri paesi dell’area. Tale situazione ha portato Almunia, commissario Ue agli affari economici, a dichiarare che i livelli degli spread tra la Germania e gli altri paesi dell’Euro area sono attualmente eccessivamente alti.
Continua nel frattempo la discesa dei tassi monetari. L’Euribor a 3 mesi è calato ai minimi da circa 6 mesi al 4,827%. Questa mattina segnaliamo l’inatteso utile nel terzo trimestre (435Mln€) da parte di Deutsche Bank grazie alle nuove regole contabili che hanno ridotto le svalutazioni legate agli asset in portafoglio. Oggi sono attesi una serie di dati relativi alla fiducia in ottobre di vari settori all’interno dell’area, ma l’attenzione sarà soprattutto focalizzata ai dati Usa del pomeriggio. Sul decennale il supporto si colloca a 3,68% e la resistenza a 3,85%.
Anche negli Usa i tassi sono calati sul breve e saliti leggermente sul lungo comportando un aumento dello spread 2-10 anni da 226 a 232pb. I principali listini azionari hanno chiuso in calo ad eccezione del Nasdaq. Confermando le attese del mercato, con decisione unanime la Fed ha tagliato i tassi di 50pb portando il tasso di riferimento all’1%, ai livelli del giugno 2003.
Nel comunicato la Fed ha segnalato che l’attività economica sembra aver rallentato in modo marcato. Inoltre l’intensificarsi della crisi finanziaria potrebbe esercitare ulteriori pressioni negative sui consumi, pertanto i rischi al ribasso rimangono elevati. Alla luce del declino dei prezzi dell’energia l’inflazione è attesa in moderazione nei prossimi trimestri.
Successivamente la banca centrale ha annunciato nuove linee swap temporanee in Dollari (30Mld$ ciascuna fino al 30 aprile 2009) nei confronti delle banche centrali di Brasile, Messico, Corea del Sud e Singapore. Si tratta di una decisione simile a quella già in essere con altre 10 banche centrali mondiali con lo scopo di migliorare la liquidità sui mercati e mitigare le difficoltà nel reperire finanziamenti in Dollari.
Il Fmi ha successivamente annunciato un nuovo programma di finanziamenti d’emergenza nei confronti dei paesi emergenti. I prestiti saranno di durata trimestrale ed i paesi che saranno ammessi potranno prendere a prestito fino al 500% della loro quota (il capitale per il quale contribuiscono al fondo). I finanziamenti saranno concessi però solamente a quei paesi che hanno avuto politiche economiche solide nel contrastare la crisi. Oggi è atteso il dato relativo alla crescita nel terzo trimestre che dovrebbe evidenziare una variazione trimestrale negativa grazie alla marcata contrazione dei consumi. Sul decennale la resistenza si colloca in ara 3,90%.
Valute: il taglio dei tassi negli Usa ed il ritorno dell’euforia sui listini azionari europei ed asiatici ha comportato un deprezzamento del Dollaro che si è riportato in prossimità di area 1,32 verso Euro. Per oggi i livelli di resistenza si collocano a 1,33 ed 1,3410. Il supporto in prossimità di 1,28. Molto atteso il dato sul Pil nel pomeriggio che potrebbe portare una certa volatilità. La ritornata euforia sui listini azionari asiatici ha provocato un deprezzamento dello Yen. Gli operatori stanno scommettendo anche su un taglio dei tassi in Giappone domani notte. Per oggi i livelli di resistenza sono individuabili a 99,70 verso Dollaro e 133,70 verso Euro. Segnaliamo che ieri anche la banca centrale cinese ha tagliato il tasso di riferimento per la terza volta negli ultimi due mesi nel tentativo di supportare la crescita economica.
Materie Prime: ritornano gli acquisti sul settore con tutte le principali componenti dell’indice GSCI che hanno chiuso positivi. Gli operatori sperano che la serie di tagli dei tassi da parte delle principali banche centrali possa contrastare la crisi economica e dar luogo ad un ritorno della domanda. Il greggio Wti è tornato in prossimità dei 70$/barili su attese di ulteriore taglio della produzione da parte dell’Opec ed una crescita minore delle attese delle scorte Usa. Bene anche i metalli industriali guidati dal nichel (+14,1%) e rame (+12,7%). Positivi anche i preziosi e le materie prime agricole.


 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

 

 

Stati Uniti - Contrazione nel terzo trimestre

Thursday, 30 October, 2008 at 14:43 - di Macromonitor
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Stati Uniti - Contrazione nel terzo trimestre
L’economia statunitense ha sofferto nel terzo trimestre la maggior contrazione dal 2001. Il prodotto interno lordo è diminuito dello 0,3 per cento su base annualizzata, contro attese poste a meno 0,5 per cento. Ieri, la Federal Reserve ha tagliato il tasso sui Fed Funds di mezzo punto percentuale per la seconda volta nel mese di ottobre, ammonendo su ulteriori rischi al ribasso per la congiuntura. La flessione del pil segue l’anomala espansione del 2,8 per cento nel secondo trimestre. Quella di oggi è la prima stima del pil del terzo trimestre, e sarà seguita da due revisioni, in novembre e dicembre, quando ulteriori dati saranno resi disponibili.
Tra le componenti del pil, la spesa dei consumatori è calata del 3,1 per cento annualizzato, prima flessione dal 1991 e la maggiore dal 1980: la stima di consenso ipotizzava un calo del 2,4 per cento. Il calo del 6,4 per cento nella spesa per beni non-durevoli, quali sono tipicamente alimentari ed abbigliamento, è la peggiore dal 1950. Anche il taglio in investimenti aziendali e progetti di costruzioni residenziali ha contribuito alla contrazione, mentre il restringimento del deficit commerciale e ed una minore flessione delle scorte hanno evitato che la flessione del pil fosse maggiore. Escludendo queste due categorie, il calo del pil sarebbe infatti stato dell’1,8 per cento annualizzato, peggior risultato dal 1991. Anche i consumi governativi hanno contribuito a frenare la contrazione, con un incremento annualizzato del 5,8 per cento, all’interno del quale spiccano il più 13,8 per cento di incremento nei consumi federali e del 18,1 per cento nella difesa nazionale. Il settore pubblico ha contribuito 1,1 5 punti percentuali alla crescita del pil, contro lo 0,78 per cento del secondo trimestre.
Il deflatore del prodotto interno lordo è stato del 4,2 per cento (contro stime per una crescita del 4 per cento), il maggiore degli ultimi 17 anni, e su di esso ha verosimilmente influito il calo dei prezzi all’importazione (che entrano nel calcolo del deflatore del pil con relazione sottrattiva) indotto soprattutto da petrolio ed altre materie prime.
Di rilievo la contrazione del reddito personale disponibile espresso in termini reali, che è stata pari all’8,7 per cento contro un aumento dell’11,9 per cento nel secondo trimestre. La variazione in dollari correnti è stata negativa per il 3,7 per cento, a fronte di un aumento del 16,7 per cento nel periodo aprile-giugno. Il calo del reddito personale disponibile nel terzo trimestre riflette il pattern dei rimborsi fiscali derivanti dall’Economic Stimulus Act del 2008, che hanno aggiunto 61,5 miliardi di dollari (a passo annualizzato) al reddito personale disponibile del terzo trimestre, a fronte di 311,6 miliardi aggiunti nel secondo trimestre.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

Americani in fuga da mattone e fondi

30/10/2008 15.16 - di Marco Caprotti
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La crisi del mattone piegherà ancora di più la schiena degli Stati Uniti. Secondo uno studio preparato dall’Università della California una discesa del 10% del prezzo delle case si tradurrà in una riduzione delle spese personali dell’1,2% che toglierà al Pil un 1% secco di crescita potenziale. In dollari, fanno 105 miliardi che non usciranno dalle tasche degli americani. Un brutto colpo per un’economia che, al 70%, dipende dagli acquisti delle famiglie.
La situazione è vicina al punto pericoloso: secondo la National Association of Realtors (l’organizzazione Usa che rappresenta i proprietari di case) i prezzi a settembre sono calati del 9% rispetto allo stesso periodo del 2007. Il mercato se ne è già accorto da tempo: l’indice Msci North America nell’ultimo mese (fino al 30 ottobre e calcolato in euro) ha perso l’7,21% portando a -26,52% la performance da inizio anno.
Sempre secondo lo studio, l’aumento dei prezzi degli immobili nella prima metà dell’ultimo decennio ha dato impulso alle spese personali. “L’andamento del mattone incide profondamente sulle abitudini delle famiglie”, ha spiegato Gary Painter, uno degli autori dell’analisi in un’intervista a Bloomberg. “Il crollo del valore delle case a livello psicologico viene percepito come un elemento negativo di lunga durata”.
La Federal Reserve, intanto, continua nelle sue manovre di salvataggio. La Banca centrale Usa ha abbassato di mezzo punto i tassi di interesse portandoli all’1%. Ha voluto però sottolineare che i rischi di un rallentamento della crescita restano e ha fatto intendere che la porta resta aperta per ulteriori tagli. Secondo gli operatori, se la crisi dovesse continuare, il presidente della Fed Ben Bernanke sarebbe pronto a portare a zero il costo del denaro.
Lo scenario, nel frattempo si mostra confuso. Da una parte c’è Pil che, nel terzo trimestre, ha registrato una contrazione dello 0,3%. Dall’altra ci sono colossi del calibro di Colgate che hanno registrato un aumento dei profitti. Non tutta la corporate America può vantare però questi risultati: Motorola ha già avvertito che il quarto trimestre sarà al di sotto delle aspettative degli analisti.

L’attenzione degli operatori nei prossimi giorni sarà rivolta alle elezioni presidenziali Usa che Morningstar seguirà in diretta con notizie, analisi, approfondimenti e commenti degli operatori di mercato a partire dal pomeriggio di martedì 4 novembre.
Nel tentativo di mettere un po’ di fieno in cascina, nel frattempo gli americani stanno scappando dai fondi di investimento. Secondo i dati di Morningstar Market Intelligence, solo a settembre si sono registrati riscatti per 49 miliardi di dollari. “E’ il dato peggiore dal 2000”, commenta Karen Dolan, analista di Morningstar. “E in base alle indicazioni che abbiamo ora, la situazione potrebbe essere peggiorata ad ottobre”. Un altro elemento preoccupante è che i soldi vengono tolti da tutte le categorie di prodotti, anche quelle considerate più prudenti.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

  Tempesta valutaria: il cambio fisso non è una buona idea

30 Ottobre 2008 00:44 MILANO - di Mario Seminerio

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Il movimento di violenta riduzione della leva finanziaria, che sta colpendo l’intera architettura finanziaria del pianeta, si è negli ultimi giorni esteso al mercato dei cambi. Dapprima con la rivalutazione dello yen, poi con il marcato rafforzamento del dollaro. Cerchiamo di analizzare il fenomeno. Lo yen giapponese si trova oggi al massimo degli ultimi 13 anni contro il dollaro, e degli ultimi sei anni contro l’euro. Alla base del movimento sta soprattutto la chiusura delle posizioni di "carry trade", in cui gli investitori si indebitano in divise a basso tasso d’interesse e comprano attivi in paesi ad alto tasso.
Il tasso d’interesse ufficiale giapponese, pari allo 0,5 per cento, è inferiore a quelli su dollari australiani ed euro rispettivamente di 5,5 e 3,25 punti percentuali. La scorsa settimana lo yen si è rivalutato dell’8,9 per cento contro dollaro, il maggior guadagno da ottobre 1998, e del 14 per cento contro l’euro, record settimanale dall’introduzione della moneta unica europea, nel 1999. A sua volta, l’euro si è deprezzato del 6 per cento contro la valuta statunitense.
Ma sono state soprattutto le valute dell’Oceania, da sempre obiettivo preferito dell’investimento in carry trade, ad essere colpite, anche a causa del crollo dei prezzi delle materie prime: il dollaro australiano in una settimana ha perso il 15 per cento contro yen, quello neozelandese il 13 per cento. Il movimento di rivalutazione dello yen è da sempre associato a fasi di mercato di accresciuta avversione al rischio, ma la sua magnitudine nel contesto attuale è destinata ad abbattersi con particolare violenza sulle esportazioni del paese, che stavano già scontando il rallentamento globale.
Il caso dell’apprezzamento del dollaro è in parte diverso, e segnala drammaticamente l’arrivo della crisi nei paesi emergenti. Facciamo un passo indietro di un decennio: dalla crisi del 1997-1998 è uscito un ordine valutario mondiale basato sul peg al dollaro statunitense da parte di molte divise di paesi asiatici. E’ quello che, impropriamente, è stato definito sistema di Bretton Woods II. Il sistema prevedeva che i paesi emergenti legassero in modo più o meno informale le proprie valute al dollaro statunitense, ad un cambio molto competitivo.
All’epoca il dollaro era forte, e ciò permetteva ai paesi asiatici di controllare le pressioni inflazionistiche, beneficiare di robusti flussi di export verso l’area del dollaro ed utilizzare il surplus commerciale così creato per finanziare il deficit delle partite correnti statunitensi, acquistando importi crescenti di titoli del Tesoro di Washington. Un meccanismo perfetto di credito di fornitura, funzionale ad alimentare i consumi statunitensi, ma che è entrato in crisi all’inizio di quest’anno: i rincari delle materie prime energetiche hanno creato forti surplus commerciali nei paesi produttori; questi ultimi, tuttavia, anziché consentire un apprezzamento delle proprie divise hanno mantenuto il peg al dollaro ed alla debolezza dell’economia statunitense.
Da qui, tassi reali fortemente negativi e boom di consumi e credito. In questo contesto si sono poi inserite le speculazioni di hedge funds e istituzioni finanziarie locali, che si sono indebitate in dollari a breve termine per comprare titoli ad alto rendimento, anch’essi espressi nella valuta statunitense. Di fatto il dollaro, con i suoi bassi tassi e la sua persistente debolezza era diventato quasi come lo yen, e cioè un veicolo di carry trade.

Per alcuni mesi si è ritenuto che i paesi emergenti potessero restare relativamente immuni alla crisi statunitense (lo scenario di decoupling), ma la realtà alla fine ha preso il sopravvento. La serie di garanzie statali sul credito, nei paesi occidentali, e l’avvio del processo di deleveraging hanno indotto e/o costretto molti investitori istituzionali a vendere gli attivi detenuti presso le banche dei paesi emergenti.
Queste ultime si sono trovate improvvisamente a corto di dollari per far fronte ai rimborsi di proprie passività, ed è iniziata la corsa alla valuta statunitense.
Quindi, mentre le banche centrali dei paesi emergenti hanno accumulato rilevanti riserve in dollari (grazie al peg), le istituzioni finanziarie private di quei paesi hanno vanificato tale accumulazione, indebitandosi pesantemente in dollari. A ciò si aggiunga che, mentre nelle scorse settimane la Federal Reserve ha istituito linee di currency swap illimitato con le altre banche centrali dei paesi sviluppati, nulla del genere si è ancora verificato con gli istituti di emissione dei paesi emergenti, che stanno quindi vivendo una replica della sindrome islandese (il rimborso di passività che eccedono le riserve valutarie nazionali), su scala infinitamente maggiore.
Nell’Est Europa la situazione è simile: tassi reali negativi derivanti dal peg all’euro hanno portato ad un boom di consumi e credito; banche, imprese e privati si sono indebitati in euro o in altre valute forti e a basso rendimento (in Ungheria, ad esempio, c’è stato un boom di mutui denominati in franchi svizzeri e addirittura in yen giapponesi), ed ora le casse nazionali si stanno drammaticamente prosciugando. La crisi dei paesi dell’Est Europa pesa anche sul cambio euro-dollaro, perché le banche europee sono particolarmente esposte a quest’area. Da qui potrebbe quindi originarsi il secondo epicentro della crisi, ed avere conseguenze molto pesanti per il sistema creditizio del nostro continente.
Quali indicazioni trarre dalle ramificazioni della crisi? Nelle ultime settimane abbiamo letto ed ascoltato appelli di politici europei che invocano "una nuova Bretton Woods". Se con questa espressione si intende esprimere l’esigenza di nuovi accordi di cambi fissi o semifissi, è bene ricordare che la storia degli ultimi anni ha dimostrato in modo incontrovertibile che regimi di cambio che non riflettono i fondamentali economici sono la ricetta sicura per disastri di vasta portata.
Quindi, nessuna Bretton Woods con riferimento ai cambi, che dovrebbero invece essere lasciati liberi di fluttuare. Le altre istituzioni uscite dal meeting del luglio 1944 sono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, l’entità delle cifre richieste per soccorrere i paesi emergenti in crisi è dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari, a fronte di erogazioni medie del Fmi che storicamente sono sempre ammontate a poche decine di miliardi. Nel frattempo, nuovi protagonisti sono comparsi sulla scena finanziaria globale: i fondi sovrani, la Banca Centrale Europea, lo stesso nuovo ruolo della Fed.

La concertazione mondiale per salvare l’economia richiederà quindi la presa d’atto di ciò che è cambiato tra il 1944 ed il 2008. Aspirare ad una regolazione finanziaria globale (per quanto lieve e non pervasiva) è finora sempre equivalso ad un’utopia: tra poche settimane sapremo se la gravità della crisi è destinata a trasformarla in realtà.

 

 

Fonte - Libero Mercato

 

 
 

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