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USA
-
Perché la Camera ha bocciato
il Piano Paulson
01 Ottobre 2008 16:54 NEW
YORK - di Il Sole 24 Ore
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Diversi i motivi dietro la bocciatura. Tuttavia non serve solo per
salvare Wall Street, anche le pensioni degli americani soffrono.
Stanotte il voto al Senato. Urgenza e imperfezione contro ostilita'
e rabbia.
La Camera dei rappresentanti americana ha bocciato lunedì il piano
di salvataggio di Wall Street, o Tarp (Troubled asset relief program)
per tre motivi che si
possono definire preliminari. Perché
è una cifra molto alta, superiore a quanto il New Deal spese negli
anni 30 per i suoi programmi, in dollari di oggi; perché gli
elettori sono furiosi e, siccome Wall Street è popolare
quando fa guadagnare ma in fondo è sempre guardata con sospetto,
hanno inondato letteralmente con le loro mail il sistema di
telecomunicazioni della Camera, che ha dovuto effettuare interventi
tecnici, e le mail erano 10 a 1 contro il salvataggio;
e infine perché, se questa è
la premessa, i deputati sono tutti sotto campagna elettorale perché
la Camera si rinnova ogni due anni, tutta, mentre il Senato un terzo
per volta, con un mandato quindi di sei anni.
Poi, ci sono gli aspetti
specifici. Hank Paulson, il ministro del Tesoro, ha commesso un
grosso errore di comunicazione presentandosi alla Camera con tre
paginette e dicendo che la cosa andava fatta. Parlava con la
mentalità del banchiere di Wall Street, quale è passato al Tesoro
direttamente da Goldman Sachs, ben conscio che senza questa misura i
guai sarebbero enormi e globali, ma senza mettersi bene nella
mentalità del deputato americano, che difende il primato della
politica e sa che a casa gliene verrà chiesto conto. Paulson ha
detto poi che la misura non dovrebbe essere "punitiva" per le
banche, acquistare cioè i loro asset di dubbio valore a un prezzo
troppo basso, e ha cercato di addolcire il linguaggio con cui la
bozza indicava la necessità di limitare i compensi per i topo
manager e soprattutto le buonusicte. Questo è stato veramente un
passo falso.
Poi c'è il fatto che
l'impianto della legge punta a calmare i mercati alleggerendo il
peso dei titoli a rischio, che non si sa quanto valgano.
Ma, e questo è uno dei punti
ad esempio dei 200 economisti che hanno firmato un messaggio contro
la legge, questo non assicurerebbe un risultato. "Il punto è
che dietro i titoli a rischio c'è la realtà del mercato immobiliare,
che ha bruciato con il crollo dei prezzi circa 4 mila miliardi di
valore, valore legato ai titoli che sono in giro sul mercato
americano e globale", dice Dean Baker, co direttore del Center for
Economic and Policy Research di Washington.
E in effetti uno dei punti
indicati con forza dai 228 deputati che hanno votato contro riguarda
i pignoramenti e la necessità di frenarli, consentendo ad esempio
alla magistratura fallimentare di modificare i termini dei mutui. Le
banche naturalmente si oppongono.
Secondo Baker sarebbe
comunque stato meglio seguire una linea come quella adottata per
salvare il gigante assicurativo Aig, dare fondi in cambio di quote
di azioni privilegiate, e non acquistare assets che hanno un valore,
forse, ma non si sa quale. Anche per Simon Johnson, della
Sloan school of management del Mit, a Boston, il cuore del problema
è la casa, ma l'urgenza comunque impone di agire e il piano Paulson
per quanto imperfetto è qualcosa.
I termini della questione sono così riassumibili. Da un lato c'è una
misura, imperfetta, ma che comunque risponde a una urgenza e deve
affrontare anche una realtà tecnica di non facile comprensione.
Dall'altro c'è l'ostilità, il senso di frustrazione e rabbia di chi
è chiamato a saldare il conto. E dimentica magari che spesso il boom
(artificioso) di questi anni lo ha favorito. Da parte di Washington,
di Bush, della leadership del Congresso e dei due candidati è in
atto una forte campagna per spiegare che non si tratta di salvare
Wall Street, ma l'economia americana (e globale). Può darsi che
qualcuno nella grande provincia americana incominci a capire,
attarverso il crollo dello schema 401k di pensione integrativa
legato anche alla Borsa, che anche i propri risparmi oltre che il
posto di lavoro sono a rischio. E non solo la poltrona dei pescecani
di Wall Street.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore |
IMMOBILIARE: SI CHIUDE L'ERA DEL
BOOM A NEW YORK
01 Ottobre 2008 17:55 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il New York Times riporta che la forte espansione del
mercato immobiliare nell’area di New York potrebbe essere
giunta alla conclusione. Dopo sette anni di continui
investimenti in nuove costruzioni, affitti alle stelle,
incrementi esagerati dei prezzi di vendita ed un appetito
irrefrenabile per abitazioni di lusso e penthouse con vista
su Central Park, la crisi del credito e le turbolenze a Wall
Street sembrano destinate a segnare la fine del boom del
real estate nella Grande Mela.
Le societa’ costruttrici hanno iniziato a lamentare
l’improvviso rifiuto dei proprietari a finanziare progetti
considerati certi appena pochi mesi o addirittura solo
alcune settimane fa. A loro volta questi ultimi accusano la
mancanza di fondi da reinvestire dovuta all’assenza di
inquilini di alto livello disposti a sborsare cifre notevoli
per una suite nei grattacieli piu' esclusivi.
Inoltre le aziende sono sempre piu’ restie ad impegnarsi in
nuovi leasing di affitto nell’area di Manhattan perche’
intimorite da un deterioramento delle condizioni economiche
che potrebbe comportare un rallentamento dei guadagni e il
taglio del personale.
Per Scott Singer, executive vice president di Singer &
Bassuk, societa’ di brokeraggio immobiliare, "non esiste il
minimo dubbio sul fatto che assisteremo ad un significativo
rallentamento dei nuovi cantieri edili, a partire da
subito".
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Crisi finanziaria: ormai è già troppo tardi
02 Ottobre 2008 02:32 LUGANO - di
Alfonso Tuor
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È ormai già troppo tardi.
Anche la bocciatura inaspettata del maxipiano da 700 miliardi di
dollari, che è anche un clamoroso schiaffo al presidente Bush da
parte del Congresso, dimostra che pure il sistema politico è
«impazzito» e non è in grado di evitare il tracollo del sistema
finanziario. Questo verdetto era già stato pronunciato dal
vero barometro di questa crisi, ossia dal mercato interbancario e da
quello monetario, dove i tassi erano ulteriormente saliti già in
giornata, nonostante la «certezza» che il Congresso avrebbe dato il
via libera al «Troubled Asset Relief Program (TARP)» proposto
dall’amministrazione Bush.
Questo giudizio è stato
inoltre confermato dalla mole degli interventi delle banche centrali
chiamate a sostituirsi a mercati non più disposti a dare un soldo
alle banche. Così
ieri la Federal Reserve ha dovuto iniettare 620 miliardi di dollari
e la Banca centrale europea 240 miliardi di dollari.
Sono cifre enormi, che mettono a dura prova anche i bilanci delle
stesse banche centrali.
La crisi sta precipitando sia negli Stati Uniti sia in Europa. I
governi di Olanda, Belgio e Lussemburgo hanno dovuto parzialmente
nazionalizzare il gruppo bancario-assicurativo Fortis, per evitarne
il fallimento. Il governo tedesco e alcune banche germaniche sono
dovuti intervenire per salvare la banca Hypo Real Estate; il governo
inglese ha dovuto nazionalizzare la banca Bradford & Bingley, di cui
continuerà a detenere il portafoglio crediti, mentre il resto delle
attività è stato venduto alla spagnola Santander. Negli Stati Uniti
lo Stato federale si è assunto parte delle sofferenze del colosso
bancario Wachovia, che poi è stato inglobato da Citigroup.
Insomma le banche continuano
a cadere come birilli, poiché non vi è alcun segnale di riapertura
dei mercati interbancario e monetario, da cui traggono la linfa per
poter vivere. L’impressionante accelerazione del collasso è stata
determinata dal clamoroso errore storico di lasciar fallire la
Lehman Brothers, senza capire le ripercussioni sistemiche di quella
bancarotta. Da
allora, più esattamente dallo scorso 14 settembre (due settimane
fa), la crisi è diventata ingestibile, poiché la sfiducia nei
confronti del sistema bancario si è via via trasformata in panico.
In queste condizioni il maxipiano di Henry Paulson, che mirava a
ricostruire la fiducia degli investitori, era già stato superato dai
fatti e risultava quindi inutile.
Ora si tratta di limitare i
danni di questo collasso del sistema bancario e del clima di crisi
politica creato dal voto di sfiducia nei confronti
dell’amministrazione espresso dal Congresso. Bisogna
innanzitutto impedire con tutti i mezzi che questa crisi sfoci in
una nuova Grande Depressione. Quindi,
occorre nazionalizzare le
banche sull’orlo della bancarotta, come si è già cominciato a
fare in Europa, sperando che grazie alla garanzia dello Stato i
risparmiatori e gli investitori riprendano a finanziare il sistema
bancario, risolvendo l’attuale crisi di liquidità. Ciò non basterà,
poiché le banche non sono solo a corto di soldi, ma anche e
soprattutto di capitale. Quindi,
occorrerà ricapitalizzarle,
affinché abbiano la possibilità di continuare a finanziare il
sistema economico e affinché non avvenga una terribile
stretta creditizia, che bloccherebbe le economie europea ed
americana, la cui crescita sta già frenando in modo rapido e brusco.
Bisogna inoltre sperare che
l’inevitabile aumento del debito pubblico americano non si traduca
in una crisi del dollaro.
Infatti, a differenza del
Giappone e dell’Europa, il debito statale statunitense è finanziato
con capitali stranieri, e in particolare dalle banche centrali dei
paesi asiatici ed arabi. Nel 2007 il 57% delle obbligazioni emesse
dal Tesoro era sottoscritto da stranieri, così come un quinto delle
obbligazioni emesse da Fannie Mae e Freddie Mac e un quinto delle
obbligazioni emesse dalle società americane.
Alcuni segnali fanno
sospettare che qualcosa si stia incrinando anche in questo ambito.
Infatti, oggi sul mercato assicurare un’obbligazione dello Stato
americano costa più che assicurare un’obbligazione di Mac Donald’s.
Il rischio per il dollaro non è costituito da uno sciopero degli
investimenti degli Stati asiatici ed arabi, che sarebbe contro i
loro stessi interessi, ma da una fuga degli americani dal dollaro.
Una caduta verticale del
dollaro renderebbe questa crisi assolutamente ingovernabile.
Tutto ciò comunque non
basta. L’effetto combinato della recessione, che si prospetta
severa, e della distruzione di ricchezza provocata dal crollo del
sistema bancario, dalla caduta dei valori immobiliari e di quelli
azionari portano dritti dritti ad una severa deflazione.
Per evitare di cadere in una
spirale deflazionistica, è necessario varare pacchetti di rilancio
economico basati su grandi investimenti pubblici. Questa svolta non
può comunque attuarla un’amministrazione Bush pubblicamente
sconfessata in primo luogo dagli stessi deputati repubblicani.
Tutte queste misure hanno carattere d’urgenza e possono raggiungere
unicamente l’obiettivo di evitare il peggio. Occorre
contemporaneamente ricominciare a costruire il futuro sulle macerie
del tracollo del sistema finanziario. Ciò significa
indire una conferenza
internazionale, sullo stile di quella tenuta a Bretton Woods nel
1944, per creare il quadro istituzionale di un nuovo sistema
finanziario, monetario e commerciale che ci permetta di imboccare di
nuovo un periodo di crescita e di prosperità. In tal caso,
questa crisi si rivelerà utile, poiché almeno sarebbe servita a
spazzar via le politiche che ci hanno portato al disastro attuale.
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Fonte
- Corriere del Ticino |
La tigre di carta chiamata Banca Centrale Europea
02 Ottobre 2008 02:23 ROMA - di Federico Rampini
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Dopo Fortis, Dexia: ora a
chi tocca il prossimo panico da bancarotta? Quale nome avrà il
successivo crac da scongiurare scaricandolo sui contribuenti
europei?
In quale capitale del Vecchio continente si terrà il prossimo
meeting notturno per sanare un disastro finanziario prima delle luci
dell´alba e dell´apertura dei mercati? Dall´ultimo weekend i tempi
della crisi si sono accelerati in Europa: almeno una grande banca al
giorno sfiora il crollo, imponendo affannosi salvataggi pubblici. Il
metodo seguito fin qui, improvvisato e frammentario, non regge più.
S´impone con urgenza una
politica europea della vigilanza bancaria, nuovi strumenti, nuove
istituzioni, nuove risorse. È tutta l´architettura dei mercati
finanziari europei che va ridisegnata, superando per sempre
l´attuale mosaico di competenze suddivise tra staterelli impotenti,
nani lillipuziani rispetto alle dimensioni globali dei Moloch
bancari che loro stessi hanno amorevolmente incoraggiato a crescere.
Il caso Dexia dà la misura
dei rischi che stiamo correndo. Ancora una volta per salvare questo
colosso pericolante si sono dovuti unire ben tre Stati ? Francia
Belgio e Lussemburgo ? che hanno precipitosamente versato 9 miliardi
di euro nelle casse dell´istituto. Nicholas Sarkozy,
formatosi nell´ammirazione del modello neoliberista americano, oggi
è costretto a nazionalizzare seguendo suo malgrado l´esempio del
socialista François Mitterrand un quarto di secolo fa. Perché
Sarkozy sia con le spalle al muro lo ha spiegato lui stesso, dopo il
summit notturno con il governatore della Banque de France: se
falliva Dexia erano in pericolo «il finanziamento degli enti locali,
la sicurezza e la stabilità dei sistemi finanziari in Francia e in
Europa».
Dexia, frutto di fusioni tra
casse di risparmio locali (prevalentemente francesi e belghe), è il
più grosso erogatore di finanziamenti ai Comuni d´Europa. Questo dà
la dimensione del rischio: va ben al di là della platea degli
investitori di Borsa. Ma l´intervento in extremis concordato
fra Parigi e Bruxelles ? seguito da misure assicurative prese in
Irlanda, dove si era aperta un´altra "falla" sistemica sulla
sicurezza di tutti i depositi ? getta un´ombra di dubbio sulla
credibilità degli appelli alla calma.
«Non c´è nessuna ragione di essere impauriti e di cedere al panico»,
garantiva ieri il governatore della Banque de France, Christian
Noyer. Per mesi lui e altri banchieri centrali del continente hanno
continuato a vantare la solidità del nostro sistema bancario,
teorizzando che fosse meno esposto di quello americano. Dopo i fatti
degli ultimi giorni l´impressione è che le banche europee siano
ancora meno trasparenti di quelle americane.
Lo stesso Noyer è stato costretto ad ammettere che non si possono
escludere sorprese "quando saranno pubblicati i bilanci bancari
nelle prossime settimane o nei prossimi mesi". Ma i risparmiatori, i
clienti, gli azionisti, avrebbero diritto di saperne di più nelle
prossime ore, senza aspettare settimane o mesi.
Seguendo le cronache di
questo tracollo di fiducia nel sistema creditizio, il cittadino
europeo ha scoperto di colpo che la Banca centrale europea è una
tigre di carta. Fu a lungo dipinta come un´istituzione onnipotente e
perfino prepotente; oggi è additata per la sua impotenza: ed è una
pessima notizia. In
realtà sta tutto scritto nei trattati e negli statuti. Nessuno ha
mai voluto trasferire alla Bce i poteri di vigilanza, che sono
rimasti gelosamente in mano alle autorità nazionali. L´istituto di
Francoforte può fissare i tassi d´interesse sull´euro e provvedere
liquidità, ma non ha gli strumenti per intervenire sulla crisi di
solvibilità di un colosso bancario italiano o francese o tedesco.
Non ha neppure l´accesso alle informazioni più rilevanti custodite
(o sepolte) nei conti delle aziende di credito.
Dopo anni di crescente euroscetticismo, o anti-europeismo, in cui la
destra italiana si è distinta con un ruolo di punta, questa crisi
mondiale ci dimostra che abbiamo un terribile bisogno di Europa.
Tutto ciò che non è stato fatto per rafforzare l´Unione negli anni
passati, in queste ore si ritorce contro di noi.
Oggi a Bruxelles il commissario europeo Charlie McCreevy,
responsabile per il mercato unico, presenterà una serie di proposte
importanti: una grande riforma delle regole di vigilanza e controllo
sulle banche. Per la prima volta si affaccia un piano organico,
perché gli arbitri e i poliziotti che devono disciplinare il credito
abbiano la stessa dimensione sovranazionale dei giganti bancari.
Il progetto McCreevy include requisiti più severi sulle riserve di
capitale che le banche devono accantonare, e sui comportamenti
prudenziali nell´erogazione del credito. Meglio tardi che mai. È
essenziale che queste innovazioni siano approvate e varate in tempi
rapidi. Guai se venissero sabotate da ottusi nazionalismi, o
congelate nei tempi geologici dei negoziati che in passato hanno
seppellito tanti trattati europei. Stavolta incombe un´emergenza
mondiale, chi intralcia la protezione dell´economia europea si
assume responsabilità gravissime.
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Fonte
- La
Repubblica |
CARTE DI CREDITO: SARANNO LA
PROSSIMA TEMPESTA
02 Ottobre 2008 02:46 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
I debiti degli americani sulle carte di credito sono sul
punto di esplodere e saranno il prossimo uragano a colpire
il gia' fragile settore finanziario degli Stati Uniti. Lo
sostiene una societa' di ricerca americana, Innovest
StrategicValue Advisors, in un rapporto appena pubblicato.
Le banche saranno costrette a svalutare ben $18.6 miliardi
in conti di carte di credito insolventi nel primo trimestre
del 2009 e $96 miliardi in tutto il 2009, piu' del doppio
rispetto alle stime relative al 2008.
Per tutto il 2007, i "charge-off" sono ammontati a $26.6
miliardi, mentre la stima per quest'anno arriva a $41.5
miliardi. Da queste proiezioni, gli analisti di Innovest
ritengono che si tratti di una cifra complessiva tale da
poter creare danni non indifferenti ai bilanci delle
maggiori societa' emittenti di carte di credito, e cioe'
Visa, MasterCard e American Express.
Le svalutazioni del debito "tossico" sulle carte di credito
per adesso stanno "sfidando la gravita'" se il paragone
viene fatto con quel che sta accadendo sul mercato dei
mutui, secondo Gregory Larkin, senior banking analyst di
Innovest. Ma questo scenario e' destinato rapidamente a
mutare. "Se la storia e' un indicatore da seguire - spiega
l'analista - ci sara' per le carte di credito un'impennata
di insolvenze pari a quella che si e' vista per i mutui,
dove l'aumento e' stato pari di otto volte".
Fonte
- WallStreetItalia.com
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APOCALYPSE FINANZIARIA: LIBOR ALLE
STELLE, CROLLO DEI COMMERCIAL PAPER, CREDITO CONGELATO
03 Ottobre 2008 01:29 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
E' veramente la peggiore crisi dal 1929, dalla finanza si
passera' tra poco all'economia reale, ovunque nel mondo. I
tassi di interesse sui prestiti a tre mesi in dollari -
scrive Bloomberg - sono al massimo di 9 mesi, il ricorso al
debito da parte delle aziende e' crollato al record negativo
di sempre, mentre i junk bond sono collassati, esacerbando
il fenomeno di congelamento del credito che sta paralizzando
tutte le aziende, piccole e grandi, in tutto il mondo.
Il tasso interbancario di Londra (Libor) che le banche
applicano l'un l'altra per i prestiti interbancari e' salito
per il quarto giorno consecutivo, portando quest'indicatore
sulla scarsita' di cash disponibile tra le banche a un nuovo
record. Si e' verificato quindi - secondo Bloomberg - il
piu' forte crollo di strumenti di debito a breve termine
delle aziende almeno dal 2000, il che ha causato un calo del
5.6% sul mercato americano dei commercial paper, stando ai
dati della Federal Reserve.
La crisi si aggrava, dopo che settembre e' stato il peggior
mese in assoluto per il debito corporate. Le emissioni di
junk bonds sono crollate ad un minimo assoluto, gli
strumenti a breve termine sono totalmente prosciugati e
perfino i titoli obbligazionari delle aziende piu' solide e
piu' sane hanno sofferto le peggiori perdite degli ultimi 20
anni: gli investitori infatti abbandonano qualsiasi
strumento che non sia il Titolo del Tesoro degli Stati
Uniti, considerato l'unico sicuro in questo scenario di
terribile crisi finanziaria.
Scrive Bloomberg che il mercato del credito e' congelato e i
tassi del money-market continuano a salire anche dopo che le
banche centrali hanno pompato una cifra senza precedenti -
$1 trilione di dollari, cioe' 1000 miliardi - nel sistema
finanziario. "La finestra del credito e' chiusa", ha detto
Jim Press, presidente della Chrysler, terza casa
automobilistica americana, in gravi difficolta' industriali
e finanzarie. Insomma se il sangue non scorre piu' nelle
vene dell'economia americana, il malato va in catelessi,
anche se non muore. Qualcosa deve essere fatto.
Che banche e banche commerciali continuino ad essere
affamate di liquidità lo dimostra il fatto che nella
settimana che si è appena chiusa i prestiti dalla finestra
di tasso di sconto della Fedral Reserve sono saliti del 60%
rispetto ai sette giorni precedenti, attestandosi a 348,2
miliardi di dollari.
Fonte
- WallStreetItalia.com
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Hedge fund azionari, fine di un
mito
03 Ottobre 2008 11:29 -
di
Macromonitor ______________________________________________
Maverick Capital Ltd., Greenlight Capital LLC e The
Children’s Investment Fund Management LLP hanno segnato a
settembre ribassi di oltre il 12 percento, nel mese che ha
visto gli hedge fund azionari registrare la peggiore perdita
mensile di sempre, oltre a pesanti riscatti da parte della
clientela.
Maverick Capital di Lee Ainslie ha perso il 19,5 per cento,
mentre Greenlight Capital, gestito da David Einhorn, ha
lasciato sul terreno il 12,8 percento. Children’s Investment,
guidato da Chris Hohn a Londra, ha perso il 15 percento, in
base a stime preliminari.
In media gli hedge fund azionari hanno perso l’8,6 percento
a settembre, la flessione mensile più pesante da quando
Hedge Fund Research Inc. ha cominciato a raccogliere questi
dati, nel 1990. Sebbene tale performance sia migliore del
declino del 12 percento segnato dall’indice MSCI World Index,
benchmark per
l’azionario mondiale, questo non consolerà molto gli
investitori, che secondo gli analisti potrebbero aumentare
gli smobilizzi.
La scarsa performance di alcuni hedge fund avrà delle
ripercussioni sul processo di asset allocation, e potrebbe
condurre a modifiche sostanziali delle strategie. Altri
gestori che hanno registrato perdite superiori alla media a
settembre includono Stephen Mandel, il cui fondo Lone Cyprus
di Greenwich, nel Connecticut, ha ceduto il 14,7 percento, e
Third Point LLC, amministrato da Daniel Loeb a New York, che
ha perso l’11 percento.
Gli hedge fund di tutte le categorie hanno perso mediamente
il 6,9 percento a settembre, secondo l’indice Global Hedge
Fund Index di Hedge Fund Research. Si tratta del mese
peggiore per questo settore da 1.900 miliardi di dollari
dall’agosto 1998, quando la Russia risultò insolvente sul
proprio debito, innescando il crollo di Long-Term Capital
Management LP.
Nel frattempo, alcune stime ipotizzano che i fondi di fondi
hedge dovranno effettuare smobilizzi per oltre 100 miliardi
di dollari prima della fine dell’anno per far fronte ai
riscatti, esacerbando il ribasso delle borse. Alcuni fondi
di fondi hedge in Europa temono di vedere riscatti pari
anche al 25 per cento del loro patrimonio entro la fine del
quarto trimestre. Per molti fondi, la scadenza per i
riscatti da effettuarsi entro fine anno era il 30 settembre.
Il fallimento di Lehman Brothers Holdings Inc. crea
complicazioni nel far fronte alle richieste di riscatto in
quanto fondi quali GLG Partners Inc. e RAB Capital PLC hanno
parte del loro patrimonio congelato nelle procedure
fallimentari.
Fonte
- Macromonitor
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Wells Fargo o del capitalismo vero
03 Ottobre 2008 15:22 -
di Macromonitor ______________________________________________
Il matrimonio forzato di Wachovia con Citigroup è sfumato.
L´acquirente è invece Wells Fargo, che ha acquisito la banca
di Charlotte pagando con azioni proprie per un valore di 15
miliardi di dollari e ha lanciato un segnale importantissimo
al mercato e al Congresso: lasciateci lavorare e possiamo
farcela da soli.
Wells Fargo non ha chiesto nulla alla Fed, all’ente di
tutela dei depositi o al governo federale, al contrario di
quanto aveva fatto Citigroup; ha offerto un prezzo minore,
ma si è accollata ogni rischio dell’operazione.
L’operazione è importante per un motivo : dimostra quanto
fallace sia l’idea che soltanto un intervento statale possa
salvare il sistema, di quanto potrebbe addirittura ritardare
la ristrutturazione del sistema, fornendo incentivi distorti
e false speranze.
In realtà, i compratori esistono, ma sorge il sospetto che
la tentazione di scroccare qualche soldo al governo sia, per
molte banche, troppo forte. E quindi ecco da parte dei
compratori la richiesta di fondi, ecco le operazioni
complicate con prestiti a basso costo, la richiesta di
garanzie sulle perdite ed altri sussidi.
Per la banca in difficoltà, il “venditore”, è più semplice
sostenere che non sia stata l’imprudenza, ma la congiuntura
a farla finire nei guai e che l’assenza di un compratore è
colpa del “mercato”, non del fatto che si richieda un prezzo
troppo elevato.
Per fortuna, Wells Fargo non ricade in nessna delle due
categorie e Wachovia ha preferito la soluzione decente. Ci
hanno dato un bell’esempio.
Fonte
- Macromonitor
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Fallimenti vichinghi
04 Ottobre 2008 23:27 - di J Christian Falkenberg
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L’Islanda sarà il prossimo
salvataggio? Il caso islandese offre una rara coccasione per una
dimostrazione drammaticamente efficace dei problemi derivanti da un
salvataggio bancario.
La corona islandese ha perso il 14% in due giorni e il CDS, ossia
l’assicurazione contro il fallimento della nazione, adesso richiede
un pagamento anticipato del 15% del valore assicurato ed il 5% di
commissione all’anno.
Cosa è successo? Un incrocio
fra espansionismo vichingo, follia statolatrica ed abile
sfruttamento della bolla creditizia scatenata dagli eccessi di
liquidità di altre nazioni.
L’isola nordica è decisamente particolare: è una nazione molto
piccola sia in termini di popolazione che di PIL , 300 mila abitanti
per 19 miliardi di dollari, la cui storia economica recente ha visto
notevoli episodi inflazionistici , lasciando tassi d’interesse
relativamente elevati in termini nominali rispetto ai rendimenti di
titoli di stato in euro ed in dollari.
Questo differenziale è stato particolarmente rilevante negli anni
dal 2003 al 2006, quando le ingenti iniezioni di liquidità da parte
delle banche centrali e, poi, la bolla del credito hanno ridotto al
lumicino i rendimenti di qualsiasi attività anche rischiosa.
Molti investitori cominciarono in quegli anni ad investire in corone
islandesi: la nazione è da sempre politicamente stabile, prospera,
socialmente tranquilla. L’inflazione, in rapido calo, poneva
problemi sempre minori ed il debito pubblico era quasi inesistente.
I tassi a due cifre pagati dalle banche di Reykjavik erano ormai una
rarità per una nazione del “primo mondo” .
Le tre maggiori banche
islandesi e alcuni imprenditori locali hanno sfruttato gli elevati
tassi d’interesse per lanciarsi in una spettacolare espansione
oltremare, soprattutto in Gran Bretagna; i fondi necessari sono
arrivati dalla platea degli investitori istituzionali, felice per la
elevata remunerazione ed hanno permesso alla piccola nazione di
ammassare attività estere equivalenti a circa nove volte il proprio
PIL.
Di fatto, queste operazioni
hanno trasformato la corona islandese in qualcosa più simile ad una
cambiale emessa da un hedge fund che ad una moneta “normale”: i
flussi relativi all’indebitamento dall’estero e successivo
investimento, sempre all’estero, dominano non soltanto quelli
relativi al commercio internazionale, ma persino quelli interni.
In Islanda, la prima banca
ad andare in crisi è stata Glitnir, la più piccola fra gli istituti
maggiori e quella con la struttura finanziaria più precaria: Glitnir
ha infatti una base di depositi molto ridotta, che copre a malapena
un terzo degli impieghi; il resto viene finanziato sul mercato
monetario e con emissioni obbligazionarie, che ultimamente
non hanno trovato compratori. Lo stato islandese è prontamente
intervenuto per salvare la banca, iniettando 600 milioni di dollari
in cambio di un aumento di capitale che lo porta a possedere i tre
quarti del capitale. Un caso di fallimento di mercato brillantemente
risolto da un audace intervento statale, quindi? Al contrario.
L’ennesima dimostrazione del fallimento delle politiche socialiste,
per due motivi.
Innanzitutto, il tentativo
di salvataggio ha semplicemente trasferito il problema dal sistema
bancario al rischio paese. L’Islanda non ha le risorse per gestire
da sola la crisi: è vero che il debito è soltanto il 20% del
GDP, ma la sola Glitnir ha un fabbisogno di liquidità di alcune
centinaia di milioni di euro soltanto nelle prossime settimane e di
tre miliardi (ossia il 10% del PIL islandese) nel 2009.
La banca centrale islandese
non può stampare Euro o dollari, ma soltanto corone islandesi con
cui poi acquistare altre divise. Ecco spiegato il crollo della
divisa islandese e l’impennata del rischio di credito: il
debito non può che esplodere al rialzo. Il Tesoro islandese sta già
cercando di ottenere dai governi amici una linea di credito da dieci
miliardi, con cui staiblizzare la situazione.
In secondo luogo abbiamo i
rischi legati ai falsi sensi di sicurezza derivanti dalla garanzia
statale, più o meno implicita. Nessuno si è preoccupato di
verificare quanto solvibili fossero le banche o lo Stato islandese,
almeno all’inizio: i governi
europei salvano sempre le proprie banche, vero? Vero. Ci provano
almeno, ma cosa succede se la banca in questione è troppo grande?
Succede che l’illusione dello Stato onnipotente viene smascherata
brutalmente. Per una volta, il Leviatano era soltanto un pesce
piccolo. Il caso
islandese offre uno scorcio interessante sulle conseguenze dei
salvataggi bancari proprio perché la ridotta dimensione del bilancio
governativo pone in drammatica evidenza i costi da sopportare, senza
le cortine fumogene possibili per una grande nazione;
altrove, grazie a maggiori risorse e debito denominato nella propria
divisa, questa dinamica viene mascherata e dilazionata, anche se
rimane invariata ed è altrettanto perniciosa.
Ricordiamocelo, quando
invochiamo la mano santa governativa, l’impiego sociale delle
risorse: qualcuno deve pagare, sempre, per errori spesso ingigantiti
dalle illusioni fornite dall’apparato statale.
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Fonte
- Macromonitor |
La crisi dei mercati vista dalla Cina: "gli americani ci hanno rovinato"
07 Ottobre 2008 02:45 NEW
YORK - di Il Sole 24 Ore
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"Maledetti americani",
impreca l'uomo del borsino. "Sì, maledetti americani, ci hanno
proprio rovinato", gli fa eco un altro a fianco a lui. Xu e
Zhang fumano nervosamente davanti all'ingresso di una casa di
brokeraggio, mentre sparano sentenze al veleno su Wall Street, la
politica e l'alta finanza Usa. I due uomini sulla cinquantina, alla
stregua di decine di migliaia di investitori cinesi con il debole
per l'azzardo di Borsa, non hanno dubbi: se oggi sono più poveri e
inguaiati, è tutta colpa dei loro dirimpettai sulla sponda opposta
del Pacifico. È da là che, negli ultimi dodici mesi, è iniziato a
soffiare sempre più forte quel vento di sfiducia che ha finito per
travolgere il listino di Shanghai, facendolo piombare dai massimi
storici a livelli che nessuno, oltre la Grande Muraglia, avrebbe mai
più pensato di rivedere. "Gli americani ci hanno rovinato", ripete
Zhang sfilando dai pantaloni le tasche vuote. "Un anno fa, avevo
circa 180mila yuan sul mio conto azionario. Oggi, me ne restano a
malapena 20mila", aggiunge l'uomo del borsino con un amaro sorriso
di sconforto.
La storia dirà se il crollo
della Borsa Rossa, il listino che nel biennio 2006-2007 aveva messo
a segno le migliori performance mondiali, è stata davvero tutta
colpa degli americani. O se i cinesi non ci abbiano messo molto del
loro. "È una
questione che non mi riguarda", dice un giovane impiegato di banca.
"Chi ha investito i propri quattrini in Borsa sapeva benissimo che
poteva perdere tutto. Era già successo, e neanche tanto tempo
prima".
Due diverse percezioni della
crisi. Il terremoto finanziario che sta sconvolgendo il capitalismo
mondiale vede la Cina spaccata in due. Da un lato, c'è l'enorme
parco buoi (una cinquantina di milioni di persone) che piange, si
pente e maledice pensando ai quei 1.700 miliardi di dollari andati
in fumo nel giro di un anno. Dall'altro, c'è la stragrande
maggioranza dei cinesi, per la quale la crisi finanziaria globale è
un affare lontano e remoto. Qualcosa che non li riguarda,
ordinarie notizie di sventure altrui da ascoltare distrattamente al
telegiornale della sera.
Ma per quanto tempo ancora
la crisi dei mutui subprime sarà un mal di testa solo per i cinesi
del borsino? Probabilmente, non per molto.
È vero, l'esposizione delle banche del Dragone verso la disastrata
finanza Usa è molto contenuta, come hanno tenuto a sottolineare più
volte in questi giorni le autorità monetarie di Pechino. Ed è
altrettanto vero che, sebbene la Cina sia dopo il Giappone la
maggiore finanziatrice del debito americano (il paese detiene 520
miliardi di dollari di Treasury Bond, mentre Tokio ne ha in
portafoglio quasi 600),
l'unica cosa che oggi
potrebbe mettere in ginocchio il gigante asiatico è una
dichiarazione di default degli Stati Uniti.
Ma questo, nonostante
Washington sia alle prese con la peggiore crisi degli ultimi 80
anni, allo stato dei fatti è ancora un rischio improbabile.
Rischio fuga di capitali: la stagione delle Ipo miliardarie è finita
Ciò premesso, la coda del ciclone partito da Wall Street nell'estate
2007, e poi via via cresciuto d'intensità sino ad assumere
dimensioni devastanti, sembra destinata a colpire molto presto anche
sul mondo della finanza cinese. "L'eccesso di liquidità globale che
negli Stati Uniti ha generato una montagna di sofferenze bancarie,
di prodotti finanziari a rischio e di investimenti sbagliati alla
fine è arrivata anche in Cina – spiega Manu Bhaskaran, economista di
Centennial Group Singapore – Negli ultimi anni, infatti, le
aspettative di rivalutazione dello yuan hanno catalizzato una parte
consistente di questa liquidità nel paese, creando una bolla
speculativa sia in Borsa che nel settore immobiliare. Ora è evidente
che un ritiro massiccio di questi capitali potrebbe avere effetti
destabilizzanti sul sistema finanziario cinese".
Un sistema finanziario che, nell'ultimo biennio, sfruttando
abilmente l'arma del renminbi forte e l'insaziabile appetito degli
investitori internazionali per tutto quanto fosse marchiato made in
China, ha cavalcato alla grande il momento propizio scaricando sui
mercati internazionali una quantità di carta senza precedenti. Dalla
primavera 2006 a oggi, Pechino ha lanciato quasi duecento Offerte
Pubbliche di Vendita societarie per un controvalore complessivo di
circa 100 miliardi di dollari. Ma ora, con questi chiari di luna, la
grande stagione delle Ipo è finita.
La crisi finanziaria
contagerà l'economia reale Quel che è peggio, e che ancora sfugge ai
cinesi della strada, è che il botto della finanza americana avrà
ripercussioni negative anche sull'economia reale del Dragone. È solo
una questione di tempo, assicurano gli esperti, sempre più
indaffarati a rivedere al ribasso le stime di crescita del prodotto
interno lordo cinese. "La congiuntura sta rallentando più
rapidamente del previsto", avverte Dong Tao, economista di
Credit Suisse. I segnali della frenata sono molteplici: il calo
delle vendite di auto, la contrazione dei consumi energetici, la
gelata delle transazioni immobiliari, la flessione dei prezzi
interni dell'acciaio.
Ma il pericolo maggiore
viene dal principale motore dell'economia cinese, cioè dal commercio
estero. "Finora le esportazioni hanno tenuto testa alla recessione
mondiale, ma già tra qualche mese la crisi finanziaria americana e
la rivalutazione dello yuan, soprattutto quella nei confronti
dell'euro, si faranno sentire", sostiene l'economista indipendente,
Andy Xie. Nonostante gli sforzi prodotti dal Governo negli
ultimi anni, le esportazioni contribuiscono ancora per un terzo alla
formazione del prodotto interno lordo del Dragone.
L'attesa frenata del made in
China, dunque, avrà certamente un impatto depressivo sull'intera
economia. "Quando l'economia di un paese dipende in misura rilevante
dal commercio estero, e non può contare su un mercato domestico
sufficientemente dinamico per compensare il rallentamento
dell'export, è normale che il rischio per la crescita economica sia
maggiore che altrove", osserva Stephen Roach, presidente di Morgan
Stanley Asia.
Il vecchio modello di sviluppo export oriented deve cambiare al di
là degli effetti negativi che il grande crollo di Wall Street
produrrà nei mesi a venire sulla finanza cinese, la lezione
principale per il Dragone è proprio questa: le sorti dell'economia
di una superpotenza non possono essere legate a doppio filo al ciclo
economico internazionale. "Questa crisi deve spingere la Cina a
cambiare il proprio modello di sviluppo", dicono ora in coro gli
esperti, suggerendo a Pechino la ricetta per affrontare il nuovo
corso: rivalutare lo yuan e varare riforme fiscali per stimolare i
consumi interni.
La tanto biasimata invasione del made in China nel mondo volge
dunque al termine? È prematuro per dirlo. Per ora, Pechino ne gode i
benefici: 1.800 miliardi di dollari di riserve valutarie accumulate
in meno di cinque anni. Ma, al tempo stesso, fa tutti gli scongiuri
del caso. Quasi un terzo di quel tesoretto, infatti, è andato a
finanziare il paese più indebitato del pianeta: non sia mai che ai
"maledetti americani" salti in mente di combinare qualche altro
brutto scherzo.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore |
FMI: PER RESTITUIRE FIDUCIA RICETTA
IN CINQUE PUNTI/SCHEDA
07 Ottobre 2008 15:06 WASHINGTON -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - WASHINGTON, 7 OTT - Per restituire fiducia e
stabilità al sistema finanziario "in circostanze
eccezionali" come quelle attuali si può trarre "insegnamento
- afferma il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) - dalle
esperienze passate che ci indicano i cinque principi base da
seguire: misure globali, tempestive e chiaramente
comunicate; assicurare che gli interventi governativi siano
temporanei e gli interessi dei consumatori protetti; puntare
a politiche organiche fra i diversi paesi per stabilizzare i
mercati così da massimizzare l'impatto; assicurare una
rapida risposta in base alla scoperta tempestiva di
tensioni; perseguire obiettivi di medio termine per un
sistema finanziario più efficiente, solido e competitivo".
"Nell'applicare questi principi, azioni concrete sono
necessarie per smarcare tre aree di problemi legati al
deleverage: capitali insufficienti, valutazione incerta
degli asset e disfunzioni nel mercato del finanziamento",
aggiunge il Fmi nel Global Financial Stability Report,
ribadendo che 'il ripristino della stabilita' finanziaria
beneficerebbe ora di un impegno pubblico delle autorità dei
paesi colpiti dalla crisi". Ecco di seguito i cinque
principi base da tenere in considerazione: - MISURE GLOBALI,
TEMPESTIVE E CHIARAMENTE COMUNICATE: "Dovrebbero includere
le principali sfide offerte dalle tensioni che si sono
create con il deleveraging: e cioé migliorare la
disponibilità di finanziamenti per stabilizzare i conti;
iniettare capitale per supportare le istituzioni con basi
solide che però non sono momentaneamente in grado di
rifornirsi di adeguato capitale; promuovere un deleverage
ordinato rafforzando gli asset in difficioltà attraverso il
potere pubblico, stando comunque attenti a evitare di
esacerbare effetti prociclici". - POLITICHE ORGANICHE FRA
PAESI: "Puntare a una serie di politiche coerenti fra i
paesi per stabilizzare il sistema finanziario massimizzando
l'impatto ed evitando effetti avversi". - RISPOSTE RAPIDE
SULLA BASE DELLA SCOPERTA TEMPESTIVA DELLE TENSIONI: "Questo
richiede un elevato grado di coordinamento fra ogni paese e
in molti casi un coordinamento cross border, e una rete che
consenta di intraprendere azioni risolutive anche da una
serie di autorità diverse". - INTERVENTI GOVERNATIVI
TEMPORANEI: "Assicurare che gli interventi di emergenza dei
governi siano temporanei e gli interessi dei contribuenti
protetti: i meccanismi di intervento dovrebbero minimizzare
il moral hazard, riconoscendo che le esigenze della
situazione in atto richiedono un evidente supporto
pubblico". Nell'intervenire è importante che si includa la
partecipazione dei privati ai rischi al ribasso e dei
contribuenti ai benefici. - PERSEGUIRE OBIETTIVI DI MEDIO
TERMINE PER SISTEMA SOLIDO: Per raggiungere l'obiettivo di
un "sistema finanziario più efficiente, solido e
competitivo" è necessario un rafforzamento della rete
internazionale per aiutare a migliorare la supervisione e la
normativa a livello domestico e internazionale , così come
la messa a punto di meccanismi per aumentare l'efficacia
della disciplina di mercato. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Per superare crisi la Fed snobba
le banche e si affida ai mercati
07 Ottobre 2008 15:09 -
di Macromonitor ______________________________________________
La Fed, con l’assistenza del Tesoro, ha annunciato un
massiccio programma di acquisto di commercial paper, ossia
di cambiali a breve termine emesse direttamente dalle
aziende.
Questo mercato è il principale metodo di finanziamento a
breve termine per le grandi aziende USA, mentre in Italia,
come in gran parte d’Europa, si preferiscono strumenti
bancari, come lo scoperto di conto corrente.
La Fed insomma si prepara a prestare direttamente alle
aziende. In questo modo spera di poter svolgere il compito
per cui è stata creata, ossia impedire il blocco
dell’economia reale causato dal panico finanziario, senza
dover sovvenzionare in maniera ancora piu massiccia, e
sinora inutile, una serie di banche commerciali troppo
ossessionate dai propri investimenti andati a male per
continuare a fare il proprio lavoro.
La soluzione adottata potrebbe ridurre anche il problema
dell’effetto asimmetrico della fornitura di liquidità: se le
banche commerciali non sono intenzionate a prestare alle
aziende ed a lavorare l’una con l’altra, le iniezioni di
liquidità servono a poco o nulla perché non vengono
trasmesse all’economia reale.
La maggiore controindicazione è che adesso sarà la Fed,
ossia una burocrazia statale, a decidere l’allocazione del
credito. Questo genere di intervento e si è sempre rivelato
totalmente disastroso, generando distorsioni e favoritismi
giganteschi e spesso frenando lo svilpuppo nel lungo
periodo; la speranza è di poter gestire con prudenza l’applicazoine
di un proigramma solo temporaneo e diretto all’acquisto
esclusivo di crediti con durata di poche settimane o mesi,
emessi dalle maggiori aziende americane.
Il paradosso e l’amara ironia è che non soltanto il sistema
parabancario non regolamentato per ora sopravvive meglio di
quello regolamentato, ma che persino la Fed, con questa
mossa, lo riconosce implicitamente, scavalcando le “proprie”
banche, sino ad ora protette e coccolate come indispensabili
e rivolgendo le proprie attenzioni direttamente ad un
mercato mobiliare.
In gran parte d’Europa l’architettura finanziaria è stata
distorta e compressa sino a pochi anni fa, in modo da
incentrare sulle banche commerciali ogni tipo di
intermediazione finanziaria, impedendo per anni la nascita
di mercati come quello della carta commerciale.
Se fossimo nella stessa situazione, insomma, non avremmo un
sistema “in presa diretta” per lo scambio di denaro, ma
saremmo impantanati nei medesimi drammi descritti da Keynes
e visti recentemente in Giappone. Alla faccia della
“sicurezza” della regolamentazione.
Fonte
- Macromonitor
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Crisi, la fine del modello americano
08 Ottobre 2008 16:32 NEW
YORK - di Francis Fukuyama
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Le dimensioni del crac di
Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre
gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così
impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di
un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli
Stati Uniti: il danno al «brand» America.
Le idee sono una delle
nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare
hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald
Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del
capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un
governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica.
La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia
liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine
internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza
dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri
dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava
attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la
sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la
definizione del politologo Joseph Nye.
E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand»
americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il
mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile
ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani
che denunciavano il modello capitalistico americano come
«capitalismo da cowboy».
Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è
deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo.
Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il
mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il
settore finanziario.
Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta
assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di
massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra
all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»;
improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale
nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica
americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire
l’egemonia degli Stati Uniti.
La scelta che dobbiamo fare
ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna
presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato
dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli -
come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti.
Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del
nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo
finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali
aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati,
quali completamente da scartare.
Molti commentatori hanno
sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era
Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca
storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il
reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal
New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il
mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati
assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano
rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione
Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando
molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi
o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e
l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le
biotecnologie.
Sul piano internazionale la
rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con
il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come
il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i
Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto
da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le
sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80,
quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e
l’Argentina. Simili
politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India
nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre
prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie
centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati
comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali
capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la
caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo
cieco.
Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la
rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci,
era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta
pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti
erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati
finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano
conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto
incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di
tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il
governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori:
se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel
disavanzo.
La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli
stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere
dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit
godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe
stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.
Il secondo articolo di fede
reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia
alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street.
E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici,
certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e
minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation
produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che
sono all’origine della crisi attuale.
Lo scandalo della Enron, il
deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della
società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta
inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan
sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in
parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati
convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa
votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra
repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la
religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto
alla promozione della democrazia non è mai stata messa in
discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la
guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per
«intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente
- compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita
- non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».
La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo
dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo
bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello
americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.
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Fonte
- Newsweek |
Crisi finanziaria: fate qualcosa (di più) per spegnere l'incendio
09 Ottobre 2008 13:28 LUGANO - di
Corriere del Ticino
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Quello che tutti si
aspettavano è capitato ieri pomeriggio. Per fermare la caduta delle
borse e soprattutto per contrastare l’ulteriore diffusione del
panico creato dall’enorme incendio che sta bruciando il settore
finanziario e con una mossa senza precedenti le banche centrali di
sei paesi (tra cui anche la Svizzera e la Cina) hanno
simultaneamente tagliato di mezzo punto i tassi di interesse.
In Europa il risultato è stato solo momentaneo: gli indici azionari
si sono ripresi, restando comunque in territorio negativo, e poi
hanno ripreso a cadere, chiudendo con ribassi superiori al 5%. I
mercati hanno dunque letto la decisione di ridurre il costo del
denaro come una mossa positiva, ma non sufficiente a ricreare un
clima di fiducia.
Sorprendentemente la lettura
più negativa è stata quella delle borse europee, che avrebbero
dovuto invece felicitarsi della svolta di una Bce, ancora poco tempo
fa contraria ad un allentamento della politica monetaria.
Questa reazione non è però del tutto stupefacente, poiché oggi il
problema non sono i tassi guida delle banche centrali, anche se
quelli europei sono certamente troppo alti per un’economia che si
sta avviando a passi veloci verso una dura recessione, ma la
chiusura di fatto del mercato interbancario, del mercato monetario e
di quello dei capitali. Il taglio del costo del denaro non cambia
sostanzialmente la situazione di questi mercati.
Infatti la sfiducia, che
oggi tocca anche il piccolo risparmiatore, risiede prima di tutto
nelle banche stesse, che non si prestano più i soldi tra di loro,
poiché non si fidano della bontà dei bilanci dei concorrenti, dato
che sanno perfettamente che anche i loro nascondono enormi buchi.
Quindi, il settore finanziario, che ha sempre invocato la
trasparenza, è giustamente vittima dell’opacità dei propri conti.
Quando una banca non si fida di un’altra, non si capisce per quali
motivi dovrebbe fidarsi il risparmiatore. Quindi le stesse banche
potrebbero contrastare il panico, se cominciassero a giocare a carte
scoperte, presentando conti chiari e credibili.
La sfiducia del
risparmiatore cresce ulteriormente al moltiplicarsi delle iniziative
di autorità politiche e monetarie. Questi interventi, che si
susseguono a ritmo frenetico, rendono palpabile il dato di fatto
sempre più chiaro che vi è un crescente panico anche tra i pompieri
che dovrebbero invece spegnere l’incendio che sta divampando nei
mercati finanziari. E infatti mentre si spendono miliardi come se
fossero bruscolini, si moltiplicano le iniziative senza precedenti.
Martedì sera il governo britannico ha deciso di creare un fondo di
100 miliardi di franchi per ricapitalizzare, attraverso una parziale
nazionalizzazione, le otto maggiori banche inglesi. Sempre martedì
scorso la Federal Reserve ha deciso di acquistare direttamente i
debiti a breve termine delle imprese per sostituirsi ad un mercato
monetario che non è più disposto ad acquistare i commercial papers
(ossia le cambiali commerciali). Ciò sta provocando la rapida
contrazione di un mercato (che si aggirava attorno ai 1’600 miliardi
di dollari) che serviva per finanziare a breve termine le aziende.
L’intento della Fed è totalmente condivisibile: evitare una crisi di
liquidità delle imprese che metterebbe in ginocchio un apparato
produttivo che già deve fare i conti con una brusca frenata
dell’economia. Ma con questo passo la banca centrale americana, che
è già diventata il principale prestatore di prima istanza del
sistema bancario, si sta rapidamente trasformando anche in una banca
commerciale.
La crescente frenesia degli
interventi e i loro scarsi risultati dovrebbero cominciare a
spingere autorità monetarie e politriche a interrogarsi se questo
incendio può essere ancora spento e in secondo luogo se
l’intestardirsi a salvare un settore finanziario, che non è in crisi
per i prestiti concessi a famiglie ed imprese, ma per la carta
straccia che esso stesso ha prodotto, non rischia di dilapidare i
soldi dei contribuenti e alla lunga anche la fiducia dei
risparmiatori nella stessa solvibilità degli Stati.
Ciò deve preoccupare anche
perché questo capitale di fiducia sarà indispensabile per attutire i
dolori di una recessione economica che si prospetta molto dura e per
finanziare i pacchetti di rilancio di un’economia devastata dalle
follie della nuova ingegneria finanziaria.
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Fonte
- Corriere del Ticino |
I governi del G7 mettono in gioco
2000 miliardi
12 OTTOBRE 2008 WASHINGTON -
di Mario Platero ______________________________________________
Dopo un comunicato del G7 che gli analisti
hanno giudicato in prima battuta "blando" e non
sufficientemente aggressivo di fronte alla crisi finanziaria
sistemica con cui si confronta il Pianeta, i singoli paesi
del G7 cercheranno di passare dalle parole ai fatti. A
Washington in ambienti vicini al Gruppo dei Sette, si da
certo che Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania metteranno
in pratica tra questa sera e domani mattina misure
straordinarie che potrebbero mobilitare, una volta erogati i
fondi, una disponibilita' di danaro complessiva superiore ai
2000 miliardi di dollari. C'e' intanto il pacchetto
americano da 700 miliardi di dollari che potrebbe essere
gia' in parte mobilitato per rafforzare il capitale di
Morgan Stanley, la prestigiosa banca d'affari che versa in
gravi difficolta' e ha disperato bisogno di un aumento di
capitali o di un accesso a importanti quantitativi di
liquidita'. Fonti autorevoli raccolta a Washington inoltre
danno per certo che oggi a Parigi, alle riunioni dei 14
leader europei, il Cancelliere tedesco Angela Merkel
presentera' un pacchetto da circa 400 miliardi di euro
(circa 536 miliardi di dollari). Il pacchetto includera'
garanzie dello stato e l'opzione per la partecipazione
diretta nel capitale delle istituzioni in difficolta'.
L'erogazione sara' condizionata a certi impegni che dovranno
essere sottoscritti dalle banche e il pacchetto potrebbe
essere discusso e approvato gia' domani mattina a Berlino.
La gran Bretagna mettera' sul tavolo il suo piano da 400
miliardi di sterline, circa 682 miliardi di dollari gia'
annunciato la settimana scorsa, con l'autorizzazione
all'acquisto di titoli fino a 50 miliardi di sterline e
garanzie a breve e medio termine per altri circa 100
miliardi di sterline. Ma il fatto nuovo e' che alcune delle
banche inglesi hanno annunciato che entro le sette del
mattino di lunedi' presenteranno i dettagli della loro
partecipazione al piano di salvataggio messo a punto dal
governo inglese. Il piano prevede l'annuncio delle
dimissioni di alcuni dei manager delle banche in difficolta'
ad esempio Fred Goodwin, l'amministratore delegato di Royal
Bank of Scotland. Ma secondo le indiscrezioni che circolano
a Washington le autorita' potrebbero anche richiedere la
chiusura temporanea di alcune attivita' di borsa per
consentire agli investitori di analizzare nel dettaglio il
progetto, che dovrebbe portare liquidita' al sistema e
consentire ai mercati del credito di riprendere a
funzionare.
Questi dettagli sono certamente piu' concreti di quelli che
avevamo appreso venerdi' sera. Danno corpo al comunicato in
cinque punti del G7 che diventa una sorta di ombrello guida
al di sotto del quale i paesi cercano lo stesso di
coordinare, pur con diverse politiche fiscali, gli
interventi per poter rispondere alle sfide del mercato
globale.
Proprio quello che aveva chiesto mattina il Presidente
George W. Bush quando e' apparso coi ministri finanziari del
G7 nel Giardino delle Rose della Casa Bianca.
"I mercati in agitazione richiedono una seria risposta
globale" ha detto il Presidente. E subito dopo ha
aggiunto:"la crisi e diffusa a livello mondiale e non potra'
essere risolta in tempi brevissimi… Useremo tutti gli
strumenti a nostra disposizione per risolvere i problemi di
liquidita', ci troviamo nel mezzo di questa crisi insieme e
ne usciremo insieme" ha detto il Presidente nel suo terzo
discorso do questa settimana.
Poi, in serata, i ministri del G7 si sono riuniti con altri
12 paesi membri del G20 piu' il rappresentante dell'Unione
Europea. Il G7 ha cercato cosi' di estendere anche a un
gruppo maggiormente rappresentativo dell'economia globale il
pacchetto di aiuti perche' potesse essere sottoscritto con
entusiasmo analogo a quello manifestato venerdi' dai sette
grandi in occasione delle rispettive conferenze stampa.
Fonte
- La Stampa
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Venerdì 10
Ottobre 2008 |
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Lunedì 13
Ottobre 2008 |
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Giovedì 16
Ottobre 2008 |
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Crisi: l'Unione Europea non si scioglie
12 Ottobre 2008 14:01 MILANO - di Alessandro Fugnoli
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L’Europa, quando soffre,
soffre al quadrato per via dell’euro. A nessuno viene in mente che
Florida, California e Nevada, in pesante recessione da mesi per la
crisi immobiliare e (California) altamente indebitati, potrebbero
utilmente abbandonare il dollaro e creare una loro valuta statale
per svalutare e vivere felici.
In Eurolandia, invece, a
ogni crisi si levano voci in tal senso. Il risultato è che una parte
del mercato, a ogni crisi, si mette a puntare sullo scioglimento di
Eurolandia e fa aumentare gli spread dei paesi deboli rispetto ai
titoli tedeschi. Al limite dei limiti, lo scioglimento
avrebbe avuto più senso, per l’Italia, nella crisi precedente,
quella del 2005, quando la competitività italiana, al contrario di
quella tedesca, stava effettivamente attraversando una fase molto
difficile. Oggi, per contro, non si può certo dire che le banche
tedesche siano messe meglio delle nostre.
In ogni caso, la volontà
politica di sciogliersi non esiste al momento né tra i forti né tra
i deboli. Per prevenire attacchi, quindi, in tempi di crisi
Eurolandia svaluta tutta insieme con grande aggressività. Per
questo, nei prossimi mesi, il dollaro si manterrà sostenuto (e
indicizzato al livello di crisi globale) e ritraccerà parzialmente
solo a ripresa avviata.
I mercati hanno ormai capito che c’è una lunga teoria di bombe da
disinnescare una dopo l’altra da qui a fine 2009. Per questo le
reazioni alle misure ormai quotidiane dei policy maker sono accolte
con freddezza. E’ possibile però, già a partire dai prossimi giorni,
che la massa critica delle misure di policy (e l’avvio ultrarapido
della loro implementazione) raggiunga un livello tale da provocare
un recupero. Si tratterebbe però di un bear market rally senza
grandi potenzialità, più che altro un’occasione per realizzare di
corsa aumenti di capitale.
La gigantesca operazione di pulizia in corso sta già avendo effetti
recessivi e deflazionistici su tutta la linea. Verrà quindi il
momento in cui una linea espansiva dovrà essere adottata non solo
sul piano monetario, ma anche su quello fiscale.
Il nuovo establishment americano che si insedierà a fine gennaio
alla Casa Bianca e in Congresso adotterà subito misure di
rifinanziamento volontario dei mutui, secondo le linee dei piani già
elaborati da Feldstein, Hubbard e Shiller. Ci sarà un costo per il
Tesoro, ma verranno frenati i pignoramenti e la caduta dei prezzi
delle case. Il piano Paulson verrà rivisto e potenziato, con altre
iniezioni di centinaia di miliardi. Si daranno soldi agli stati e
alle municipalità in piena crisi fiscale. Si spenderà in opere
pubbliche.
Prima di allora, nel lungo intervallo da qui a febbraio, si
prenderanno altre misure per sostenere le banche (e non solo). Come
dice l’ex Fomc McTeer, nel paese del Bill of Rights è più facile, in
caso di emergenza nazionale, sospendere l’habeas corpus che il mark
to market. Alla fine il mark to market salterà a furore di popolo.
Chi teme che in questo modo il mercato non avrà più fiducia nelle
banche (e le banche non l’avranno più tra di loro) deve essere stato
in viaggio su Marte in queste ultime settimane. Chi è rimasto sulla
Terra ha avuto modo di notare che questa fiducia è già scomparsa.
Il mark to market, insieme alle ratio di Basilea e al VaR, è
incompatibile con la sopravvivenza del sistema nei momenti di stress
a meno che non esista e non si usi la facoltà di dichiarare lo stato
d’eccezione e di sospenderlo. Questo non significa adagiarsi alla
giapponese e nascondere la polvere sotto il tappeto per anni e anni.
Significa trovare un compromesso. Si può ad esempio concedere la
sospensione a chi si impegna a ricapitalizzare e ridurre la leva in
tempi concordati e definiti. Quanto a Basilea e al VaR, la loro
natura prociclica (e quindi potenzialmente distruttiva) emerse in
tutta evidenza già nell’agosto del 1998. Una loro revisione radicale
è già in discussione da tempo e verrà accelerata dalla crisi.
Per chi investe non c’è fretta. Chi torna ora da Marte perfettamente
liquido non deve sentire urgenza di aumentare il profilo di rischio.
C’è un 80 per cento di probabilità che i policy maker riescano a
riprendere il controllo della situazione, ma il 20 rimanente fa
molta paura. Ci sono in giro occasioni della vita, ma ce ne saranno
altre fra sei mesi.
Gli investitori dedicati, dal canto loro, faranno bene a uniformarsi
al nuovo clima culturale da anni Cinquanta che per qualche tempo
prenderà il posto del canone degli anni 1983-2007. Le società
tranquille, con molta cassa e poca finanza, quelle stesse che erano
dai mercati e dagli analisti (più leva, più debito, sfruttate al
massimo il capitale che avete o ridatelo indietro, si diceva)
saranno un porto sicuro e apprezzato, come in generale i
farmaceutici, le utilities e le telecom. Nei crediti occorrerà fare
attenzione ai ciclici, che potranno dare brutte sorprese. Nel debito
emergente sarà bene ripiegare sui sovrani in valuta.
Chiudiamo, per completezza, con una voce contrarian, quella di
Greenspan che dice che usciremo dalla crisi "presto piuttosto che
tardi". I maligni pensano che voglia seminare ottimismo per
attenuare l’impatto di una crisi di cui molti lo ritengono
corresponsabile. A essere più magnanimi si ricorderà però che
Greenspan fu il primo (a parte i permabear) a prevedere già nel
febbraio 2007 una vasta crisi. Ebbe ragione allora e speriamo che ce
l’abbia anche questa volta.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero |
Crisi:
l'arma nucleare
13 Ottobre 2008 05:20 ROMA - di La Repubblica
________________________________________
Sotto una pressione inaudita, nell´attesa snervante del
verdetto dei mercati di oggi, il vertice europeo ha partorito
finalmente un piano. Per scongiurare nuove catastrofi nelle Borse si
doveva voltare pagina rispetto alla cacofonia con cui l´Unione aveva
affrontato le prime ondate dello tsunami finanziario.
Bisognava cancellare il ricordo dell´insulso G-4 che una settimana
prima a Parigi aveva prodotto solo retorica. Ma in una settimana
molto è cambiato, dopo cinque sedute di Borsa segnate dal più grave
tracollo storico dopo il 1929. La minaccia di un "collasso sistemico
dell´economia mondiale", agitata dal Fondo monetario, ha agito come
un elettrochoc sui governi europei. Il vertice di ieri sera ha fatto
meglio del G-7, che a Washington si era chiuso sabato con frasi
generiche. Il documento europeo è più specifico. Imita, come
anticipato ieri da Repubblica, il piano già operativo in Gran
Bretagna.
L´arma "nucleare", nelle speranze di governi e banche centrali, è il
vasto ombrello protettivo che deve rianimare i flussi del credito.
E´ un´assicurazione degli Stati contro le insolvenze, che va a
garantire i prestiti fra banche, le emissioni obbligazionarie degli
istituti di credito, tutto quel mercato interbancario che si è
paralizzato con gravi conseguenze per il finanziamento dell´economia
reale. Nessuna grande banca sarà lasciata fallire: c´è il via libera
alla ricapitalizzazione da parte degli Stati.
Saranno estese le nazionalizzazioni parziali per salvare gli
istituti di credito in difficoltà con poderose iniezioni di denaro
pubblico. E´ implicita una sospensione – o una interpretazione molto
elastica – delle regole di Bruxelles contro gli aiuti di Stato.
Anche il rigore di bilancio imposto dal Patto di stabilità sarà
messo fra parentesi.
Quanto costerà questa immensa operazione anti-crisi ai cittadini
contribuenti? Poiché l´applicazione di questi interventi resta una
prerogativa dei governi nazionali, il costo totale ieri sera è
rimasto nel vago. Entro mercoledì ogni governo dovrebbe annunciare
quanto stanzierà. Alcuni ordini di grandezza: la Gran Bretagna ha
già messo in conto di spendere almeno 250 miliardi di sterline per
la garanzia sui crediti interbancari, e 50 miliardi per le
nazionalizzazioni; in Germania stamattina il governo dovrebbe varare
interventi analoghi per un costo stimato a 400 miliardi di euro; la
piccola Norvegia ha stanziato 41 miliardi di euro. Siamo ben oltre i
20 miliardi di euro che il governo italiano aveva indicato per i
suoi interventi di emergenza.
Un primo problema è questo: il vero onere dell´ombrello "nucleare"
di garanzia e delle nazionalizzazioni al momento non lo conosce
nessuno. Rischia di essere molto elevato. Non tutti gli Stati
europei hanno gli stessi mezzi per affrontarlo. La situazione delle
finanze pubbliche in Italia è tra le peggiori.
Un´altra zona d´ombra nel piano europeo riguarda le nuove regole
contabili promesse alle banche, perché non debbano scaricare subito
sui loro bilanci le voragini di perdite create dai "titoli tossici".
Se questo sarà un regalo ai banchieri, un "liberi tutti",
un´indulgenza plenaria per attribuire a quei titoli dei valori
generosi, sarebbe un grave errore foriero di nuovi abusi.
In questa fase in cui la priorità è rianimare un sistema creditizio
che ha subito un vero e proprio infarto, bisogna evitare di
offrirgli al tempo stesso una stecca di sigarette e una bottiglia di
grappa perché ricominci la vita di prima. Nell´economia di mercato
le crisi devono servire anche ad eliminare i soggetti più
inefficienti, possibilmente limitando i danni inflitti a vittime
innocenti: questa regola andrà tenuta ferma nell´applicazione del
piano europeo.
Nella migliore delle ipotesi il vertice di Parigi sarà stato utile
per tappare la falla immediata, l´emergenza acuta che attanaglia il
sistema finanziario, diffonde panico, raziona i fondi a tutte le
attività economiche. Ma anche se si riesce ad arrestare questa
calamità, dietro incombe una tempesta altrettanto grave.
E´ la recessione mondiale, un calo pesante dei consumi, interi
settori industriali e di servizi colpiti duramente, emorragie di
posti di lavoro. La recessione sarà sofferta dalla maggioranza delle
popolazioni. Il vertice dell´Eurogruppo ieri si è concentrato a
spegnere l´incendio vicino, e non ha affrontato l´altro problema che
incombe. L´attenzione va riequilibrata rapidamente.
I cittadini non accetteranno che i loro disagi economici non abbiano
la stessa priorità dei crac bancari. Ieri alcuni leader avrebbero
voluto che dal summit di Parigi uscisse una cifra tonda, un totale
dello sforzo finanziario messo in campo dall´Europa. Da un lato quel
numero poteva servire a "impressionare" i mercati; dall´altro doveva
rassicurare i contribuenti indicando che il soccorso alle banche
avrà dei limiti. Nelle prossime ore ogni governo dovrà rispondere
per la sua parte, rivelando i costi nazionali dell´operazione. E´
essenziale che non ricominci in quella fase la cacofonia, che
aprirebbe la strada a giochi concorrenziali e fughe di capitali da
un paese all´altro.
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Fonte
- La
Repubblica |
CRISI MUTUI: BRETTON WOODS, NEL '44
DA MACERIE GUERRA/SCHEDA
13 Ottobre 2008 19:48 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
ROMA, 13 OTT - La conferenza di Bretton Woods,
apice dell'attuazione della politica keynesiana, si tenne
nel luglio del 1944, mentre la seconda guerra volgeva al
termine, nella cittadina del New Hampshire e stabilì le
regole per le future relazioni commerciali e finanziarie
internazionali. Un codice valido tuttora nonostante le
ripetute crisi di sistema e le critiche sempre più numerose,
fino alla contestazione no-global di Seattle nel '99 e
durata in modo vistoso per alcuni anni. Per giungere agli
accordi furono necessarie tre settimane di lavori e i
risultati costituirono il primo ordine monetario concordato
tra Stati sovrani e destinato a regolare i rapporti monetari
nel secondo dopoguerra. Si riunirono 730 delegati
provenienti dalle 44 nazioni alleate contro l'Asse. Gli
accordi erano incardinati in un sistema di regole e
procedure per disciplinare la politica monetaria
internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton
Woods erano due: l'obbligo per ogni Paese di adottare una
politica monetaria per stabilizzare il tasso di cambio ad un
valore fisso rispetto al dollaro, che diventava così la
valuta principale (erano consentite solo lievi oscillazioni
delle altre valute); il compito di equilibrare i pagamenti
internazionali attraverso la costituzione del Fondo
Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Successivamente fu istituito il Gatt, poi trasformato nella
Wto, l'organizzazione per il commercio internazionale. Un
primo colpo al sistema di Bretton Woods fu dato dalla
decisione presa a Ferragosto del 1971 da Nixon di abolire la
convertibilità del dollaro. Il sistema è invece
sopravvissuto a quella decisione e alle ripetute crisi
internazionali negli anni Novanta, da quella delle tigri
asiatiche a quella della Russia tra il 1997 e il 1998. Dopo
il crac argentino del 2002 si iniziò a parlare di riforma
della governance di Fmi e della Banca Mondiale, i due
pilastri di Bretton Woods. Nel corso degli anni hanno
contribuito alla crisi del sistema anche gli scandali che
portarono nel 2000 alle dimissioni di Michel Camdessus dal
Fmi, a causa delle accuse per i suoi rapporti con la Russia,
e nel 2007 alle dimissioni di Paul Wolfowitz dalla Banca
Mondiale dopo le accuse di nepotismo. Ora, la crisi
finanziaria più dura dal 1929, la prima veramente globale,
almeno per i Paesi più industrializzati, rischia di mandare
in pensione definitivamente Bretton Woods, come ormai
chiesto apertamente da molti governi, dal premier britannico
Gordon Brown al presidente francese Sarkozy al ministro
Tremonti, che intendono promuovere una nuova Bretton Woods,
più rispondente alle sfide del nuovo millennio. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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SHILLER: «MA I CITTADINI NON SONO
SUDDITI»
13 Ottobre 2008 12:27 WASHINGTON -
di Federico Fubini ______________________________________________
Da sempre, uno dei sintomi di una crisi è la folla
di coloro che sostengono di averla prevista. Ma Bob Shiller
è diverso, e non solo perché da vivo dà il nome a una
moderna istituzione americana: l'indice Case-Shiller sui
prezzi delle case, da lui stesso messo a punto. No: Shiller,
docente a Yale, fa categoria a sé perché aveva (davvero)
messo in guardia per tempo sugli scoppi delle bolle di
Internet e degli immobili. Lui le chiama «epidemie sociali»,
attacchi della peste del ventunesimo secolo scatenati da un
«residuo feudale».
Crede che il G7 di Washington rassicurerà le Borse? «Il
vertice ha elencato ciò che i vari Paesi pensano di fare o
fanno. Non è stata certo una risposta creativa,
spumeggiante. I punti del G7 suonano come una lista di prime
cose ragionevoli da fare ma non c'è una proposta di lungo
periodo, sistemica. Non mi stupisce. E immagino che non
possa avere molto impatto sui mercati, perché è tutto così
prevedibile ».
Dunque lei è pessimista su come reagiranno i mercati? «I
mercati immobiliari non credo proprio che reagiscano. Quanto
alle Borse, cosa faranno è un mistero e sinceramente sono
preoccupato. Il G7 di questo week-end è un segnale che i
governi stanno facendo qualcosa per riportare la fiducia, ma
credo anche che sia un fattore secondario».
Lei propone di democratizzare la finanza. Che significa? «Si
tratta di mettere gli strumenti finanziari a disposizione
della gente comune. Cent'anni fa solo i più ricchi avevano
accesso a forme di gestione del loro rischio finanziario.
Ora invece abbiamo forme di partecipazione ai mercati per
buona parte della popolazione. Ma non c'è ancora un
illuminismo finanziario diffuso, e questa crisi ne è
l'esempio: è una crisi immobiliare, deriva dalla cattiva
diversificazione degli investimenti e dell'indebitamento
della gente comune».
Le banche hanno sfruttato l'ignoranza delle famiglie? «La
gente è consigliata a indebitarsi in un portafoglio di
investimenti non diversificato. È stupefacente che simili
fenomeni sopravvivano nel 21esimo secolo».
Vuole dire che le banche trattano i cittadini da sudditi?
«Curioso: parlare di sudditi, richiama un'eredità feudale da
cui stiamo gradualmente liberandoci. Abbiamo ancora un bel
po' di strada da fare in questo senso».
Ma ormai Wall Street è così odiata che i governi esitano a
agire per salvare il sistema finanziario. «E ciò è
preoccupante. Ricordiamoci sempre che la finanza è il plasma
vitale dell'economia moderna, dobbiamo cercare di far sì che
continui a progredire. Il mio timore è che questa crisi
spinga la popolazione ad accusare le istituzioni
finanziarie, invece di concentrarsi sugli errori commessi
nella gestione del rischio».
Teme la caccia all'untore, come nelle epidemie medievali?
«Mi fa pensare alla crisi nel '98 del maxi- fondo
speculativo Ltcm: allora tutti incolparono i due premi Nobel
che vi furono coinvolti, Robert Merton e Myron Scholes. Ma
Ltcm fallì perché non aveva una buona gestione del rischio,
non perché le loro teorie erano sbagliate».
Sarebbe opportuno che lo Stato comprasse le case o i mutui
insolventi in America? «Parte del piano di salvataggio deve
andare alle famiglie. Non sembra giusto che vada tutto alle
banche e la gente comune debba dipendere dai benefici che
filtrano giù giù dall'alto. In America diecimila famiglie
vengono buttate fuori dalle loro case ogni giorno. Ciò sta
creando un risentimento tremendo, radicato, che porta
sfiducia fra gli individui, nei confronti del governo e
verso le istituzioni. Dobbiamo fare qualcosa».
Comprare case aiuterebbe anche l'economia? «Come misura
tampone, sì. Ma anziché provare misure improvvisate,
dovremmo farlo in modo strutturale».
Fonte
-
Corriere della Sera
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AL GRANDE CONTESTATORE DI BUSH
IL PREMIO NOBEL IN ECONOMIA
13 Ottobre 2008 19:08 STOCCOLMA -
di La Repubblica ______________________________________________
Il premio Nobel per l'Economia è stato assegnato
quest'anno allo statunitense Paul Krugman, storico
oppositore della politica economica ed estera di Bush e noto
come economista neo-keynesiano, teorico cioè dell'intervento
dello Stato per regolare il mercato. Il riconoscimento, ha
reso noto l'Accademia Reale Svedese delle scienze, è stato
attribuito all'economista per i suoi lavori sugli scambi
commerciali internazionali. ''Credo molto nel proseguimento
del mio lavoro. Spero che questo non cambi troppo le cose'',
è stato il commento a caldo di Krugman all'assegnazione del
prestigioso premio, istituito nel 1969.
Nato nel 1953 a Long Island, Krugman è professore
all'università di Princeton (ma per molti anni ha insegnato
al Mit) ed editorialista del New York Times. Krugman è anche
uno dei pochi studiosi che aveva osservato con largo
anticipo i rischi che hanno poi generato la crisi
finanziaria. Profetico il suo libro scritto nel 2001 "Il
ritorno dell'economia della depressione. Stiamo andando
verso un nuovo '29?'. Nel 1991 ha ottenuto il prestigioso
riconoscimento John Bates Clark Medal dall'Associazione
americana per l'economia. E' diventato molto popolare, molto
conosciuto al grande pubblico, soprattutto per i suoi
attacchi a Bush, in particolare in occasione del taglio
delle tasse (inutilmente gravoso per il bilancio pubblico, a
detta di Krugman) e della guerra in Iraq.
Ma non bisogna confondere l'assegnazione del Nobel con una
'discesa in campo' contro il presidente americano e a favore
di un intervento statale nell'economia da parte
dell'Accademia delle scienze svedese, afferma Francesco
Daveri, professore ordinario di Politica Economica presso la
Facoltà di Economia dell'Università di Parma e redattore del
sito economico Lavoce.info.
"Non credo che l'Accademia delle Scienze faccia scelte di
campo, - osserva Daveri - semplicemente ha dato il premio
Nobel a chi ha cambiato il modo in cui gli economisti
pensavano alla globalizzazione. Dopo le sue pubblicazioni,
lo studio dell'economia internazionale non è stato più lo
stesso. Nel momento in cui lui ha iniziato a studiarla,
molti avevano sfiducia nella globalizzazione e nelle sue
conseguenze. Lui non l'ha certo presa come oro colato, i
suoi studi dimostrano anche che il mondo globale è molto più
soggetto alle crisi. Ma è riuscito a valutarlo in tutta la
sua complessità.
Scoprendo, per esempio, che non valeva più la teoria dei
rendimenti costanti di scala, in base alla quale che
un'azienda fosse piccola o grande non faceva differenza ai
fini della competizione. Invece quelle che riescono a
esportare meglio delle altre, e quindi a competere, sono
proprio le grandi aziende che diventano multinazionali. Una
considerazione che sembra banale, però prima di lui per
qualche strana ragione gli economisti non ci avevano
pensato, e se ci avevano pensato non avevano superato le
difficoltà di ordine tecnico che impedivano di sviluppare
dei modelli".
Teorico della globalizzazione, e del commercio
internazionale, ma non paladino delle barriere doganali, a
differenza di quanto qualcuno per un certo tempo ha
interpretato. "Le sue teorie economiche erano state
interpretate erroneamente come un modo per fornire un
supporto a politiche protezioniste, - ricorda Daveri - si
diceva che se quello che conta è avere aziende grandi,
allora occorre proteggerle finché non sono grandi, è la
teoria dell'infant industry. Però lui ha anche spiegato che
si trattava di una vecchia tesi degli anni '50, non più
valida. Un'efficienza protetta produrrà Alitalia, non certo
Wal-Mart o Nokia".
Altra scoperta fondamentale della teoria economica di
Krugman è quella relativa alla concorrenza nei mercati
globali: "Prima dei suoi studi - spiega Daveri - l'ipotesi
era che tutti i mercati fossero in concorrenza perfetta.
Krugman ha dimostrato che molto spesso sono invece
oligopoli, ognuno vende un prodotto un po' differente dagli
altri e questo lo rende oligopolista, anche perché i
consumatori si affezionano ad alcuni beni, che comprano più
volentieri. E allora come fanno le imprese a commerciare?
Questa teoria dimostra che pertanto esistono buone ragioni
per specializzarsi e per commerciare con molti Paesi, e per
avere economie aperte, non difese dai dazi. I gusti delle
persone sono variegati, ecco perché conviene il commercio
internazionale".
Fonte
- La Repubblica
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TRUMP: E' COME IL SOCIALISMO... MA
MI PIACE
14 Ottobre 2008 16:54 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
L'immobiliarista americano, icona del peggior capitalismo
Usa, dice che gli Stati Uniti "stavano per sprofondare nella
Grande Depressione n. 2". Ma il piano di salvataggio, pur
non avendo nulla del "libero mercato", e' forse l'unica
strada percorribile.
Il miliardario americano Donald Trump, icona del peggior
capitalismo Usa, con il suo sbandierato stile di vita
ispirato al lusso, dice che gli Stati Uniti "stavano per
avviarsi verso la Grande Depressione n. 2". Eppure
nell'attuale scenario il piano di ricapitalizzazione delle
banche organizzato dai governi di tutto il mondo e in
particolare dall'amministrazione Bush, pur non avendo
proprio nulla dei principi del "libero mercato", e' forse
l'unica strada percorribile per non far precipitare la crisi
sistemica.
Mentre il piano globale per ricapitalizzare le banche sara'
probabilmente negativo per il suo business - ha detto -
facendo salire i prezzi in un momento in cui lui ha denaro
in cassa per acquistare, e' tuttavia un piano "intelligente
e necessario", ha detto l'immobiliarista di New York.
"Stavamo per andare verso la Grande Depressione n. 2", ha
detto Trump in un'intervista.
Come figura chiave del capitalismo da "libero mercato" (il
che non e' nemmeno vero, perche' anche lui fini' in
bancarotta e fu salvato da dalle banche alla fine degli anni
Ottanta) Trump ammette di sentirsi non del tutto a proprio
agio davanti all'iniezione "artificiale" di capitali nelle
banche. Ma nello stesso tempo dice che e' un'idea
decisamente migliore rispetto al piano originale presentato
dal ministro del Tesoro Henry Paulson, puntato al riacquisto
degli asset "tossici". "Adesso e' praticamente un piano
socialista.... ma mi piace, mi piace davvero", ha detto il
Donald.
Secondo Trump il piano dei governi fa fronte al problema del
capitale per le banche, ma la vera radice della questione -
e cioe' il mercato immobiliare - non e' stata ancora
affrontata. "Qualcosa deve eseere fatto per tutti quelli che
non riescono a pagare il mutuo o devono rifinanziarlo", ha
detto Trump. "La piu' grossa industria del mondo e' il
mercato delle case, e accidenti se siamo stati colpiti".
Secondo l'immobiliarista, infine, il mercato del credito non
potra' mai recuperare completamente se il prezzo del
petrolio in futuro salira' di nuovo. "Il greggio dovrebbe
quotare tra i $40 e i $50 al barile".
Fonte
- WallStreetItalia.com
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VOLCKER (EX N.1 FED): SI VA VERSO
LA RECESSIONE
14 Ottobre 2008 17:51 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
"Ho visto molte crisi, ma mai nessuna come l'attuale" dice
Paul Volcker, ex chairman della Federal Reserve. "Penso che
non riusciremo a sfuggire ai danni per l'economia reale. E'
quasi inevitabile: dovremo fronteggiare una notevole
recessione".
"Ho visto molte crisi, ma mai nessuna come l'attuale" dice
Paul Volcker, ex chairman (predecessore di Alan Greenspan)
della Federal Reserve dal 1979 al 1987 in un discorso a
Singapore. "Penso che non riusciremo a sfuggire ai danni per
l'economia reale. E' quasi inevitabile: dovremo fronteggiare
una notevole recessione".
"Questo tipo di misure - ha detto Volcker - e cioe' gli
interventi e le garanzie dei governi, sono veramente
sgradevoli". "Ma per quanto sgradevoli, temo fossero
necessari, in quest'emergenza, per restaurare un minimo di
stabilita' e fiducia sui mercati".
"Queste banche sono state di fatto nazionalizzate,
apertamente o non apertamente - ha detto l'ex presidente
della Banca Centrale degli Stati Uniti - e cio' non e' mai
accaduto prima nella storia dei paesi sviluppati. Come
libereremo poi le banche dal controllo (supporto) del
governo? Questa e' la sfida per il futuro".
Wall Street Italia ha tratto le frasi citate da Paul Volcker
da un articolo pubblicato dall'edizione online
dell'International Herald Tribune, che a sua volta ha
utilizzato un'agenzia dell'Associated Press (vedi l'articolo
nella versione inglese).
Fonte
- WallStreetItalia.com
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ROUBINI
PREVEDE LA PEGGIORE
RECESSIONE DEGLI ULTIMI 40 ANNI
15 Ottobre 2008 03:09 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
"Saremo sopresi dalla severita' della contrazione economica
(che durera' tra i 18 e i 24 mesi) e dalla severita' delle
perdite finanziarie", dice il professore di economia di New
York. I tassi d'interesse scenderanno a zero.
Nouriel Roubini, super-gufo n.1 tra gli esperti di economia,
il professore che aveva predetto con largo anticipo (nel
2006) l'attuale crisi finanziaria, ha detto oggi che gli
Stati Uniti soffriranno la peggiore recessione degli ultimi
40 anni, il che portera' ancora piu' in basso i prezzi in
borsa.
"Ci sono rischi significativi al ribasso per il mercato e
per l'economia", ha detto Roubini, 50 anni, professore di
economia alla New York University in un'intervista a
Bloomberg Television. "Saremo sorpresi dalla severita' della
recessione e dalla severita' delle perdite finanziarie".
L'economista ha affermato che la recessione durera' tra i 18
e i 24 mesi, il tasso di disoccupazione salira' al 9%, le
perdite sul mercato creditizio supereranno in totale i $3
trilioni (3000 miliardi) mentre i prezzi delle case, gia'
depressi, scenderanno di un ulteriore 15% oltre al 25% gia'
perso dal picco (quindi in totale -40%) e "non sarei
sorpreso che i tassi di interesse scendano a zero", ha
aggiunto. Il governo degli Stati Uniti dovra' raddoppiare
gli acquisti di azioni nelle banche perche' l'attuale piano
sara' insufficinete; il governo sara' costretto a forzare
gli istituti di credito a sospendere i dividendi per evitare
che troppe banche finiscano in bancarotta, ha concluso
Roubini.
Fonte
- ANSA
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Domenica 19
Ottobre 2008 |
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Martedì 21
Ottobre 2008 |
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Venerdì 23
Ottobre 2008 |
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Più frugali siamo già meglio di prima
17 Ottobre 2008 14:27 MILANO - di Alessandro Fugnoli
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La crisi bancaria globale è finita, o quanto meno arginata,
ma ora comincia la recessione. Le misure adottate nel mondo sulle
banche sono robuste e vanno al di là di quanto chiesto dai mercati.
L’iniezione più o meno obbligatoria di capitale pubblico nelle
banche copre in larga misura le perdite ancora inespresse e rende
possibile l’arresto del processo di riduzione della leva del
credito. Non rende ancora possibile l’inversione di tendenza (ovvero
l’aumento di credito disponibile) ma ferma l’emorragia.
Il cuore del
sistema, che aveva già subito un infarto in primavera ai tempi di
Bear Stearns, era sul punto di fermarsi, ma è stato salvato in
tempo.
La riabilitazione sarà lenta. Per qualche tempo le banche dovranno
stare a riposo e nutrirsi con la flebo del carry di curva
(finanziandosi a breve e investendo in titoli del Tesoro a lungo),
con un aumento delle commissioni e con uno spread tra tassi attivi e
passivi molto elevato. Nei prossimi mesi le banche non avranno la
forza di salvare da sole il sistema, ma smetteranno di metterne in
pericolo la vita.
Durante la convalescenza le banche centrali assumeranno
aggressivamente molte delle funzioni delle banche ordinarie.
Rifinanzieranno il debito a brevissimo delle imprese sottoscrivendo
carta commerciale. Daranno loro liquidità a medio termine scontando
altra carta o beni reali in mano alle imprese. Quanto al fornire
capitale, questo sarà compito dei governi e dei parlamenti, ma la
formula sarà simile a quella utilizzata per le banche. Il Tesoro sottosciverà azioni privilegiate di grandi imprese di rilevanza
sistemica.
I vari piani Paulson nazionali verranno ingranditi, sia per dare
altri soldi alle banche (ma questa volta a condizione che li
prestino) sia per finanziare direttamente l’economia reale. Le
dimensioni delle banche centrali aumenteranno considerevolmente. La
Banca del Giappone negli anni Novanta portò il suo stato
patrimoniale dal 10 al 30 per cento del Pil. In questi mesi la Fed
ha portato il suo dal 6 all’11 e ha davanti a sé tutto lo spazio che
vuole senza che questo generi inflazione (come dimostra l’esperienza
stessa giapponese). Lo stesso, ovviamente, per la Bce.
Per i policy maker e per i mercati si tratta ora di prendere le
misure alla recessione che è iniziata due mesi fa in tutto il mondo,
Cina esclusa. Il dibattito è tra chi sostiene l’idea di una
recessione superficiale e chi parla di recessione profonda.
Con una recessione superficiale i risky asset sarebbero tutti da
comprare già adesso. Molte borse sono vicine ai livelli dei minimi
del 2002 e a quelli del 1997 che precedettero la bolla di Internet.
Il Pil nominale di tutti i paesi, nel frattempo, è però enormemente
cresciuto e anche gli utili, verosimilmente, attraverseranno la
recessione restando su livelli più alti di quelli del 1997 e del
2002. Anche i crediti, paragonati ai precedenti episodi di
recessione, sono molto attraenti.
Questa, però, non si presenta come una recessione di routine che
conclude un ciclo di espansione di qualche anno (otto-nove anni
quelle degli anni Ottanta e Novanta, cinque anni, ma
straordinariamente intensi, in questi anni Duemila). Questa ha
piuttosto l’aria della recessione che conclude un megaciclo di tre
decenni, quello seguito alla stagflazione degli anni Settanta.
Dobbiamo quindi espiare non solo i peccati commessi dopo l’ultima
penitenza del 2002, ma tutti i peccati della nostra vita, così come
previsto dalle procedure del Giudizio Universale. Nelle penitenze
precedenti, infatti, è ben vero che abbiamo recitato i Pater e i
Gloria richiesti, settimana!! ma è altrettanto vero che non abbiamo
rimediato alle distorsioni che si andavano creando anno dopo anno.
Le penitenze ordinarie, infatti, non comportavano un ritorno al
livello di partenza della leva delle banche e dell’indebitamento dei
privati. Al punto che, durante l’ultima penitenza del 2002, la leva
delle banche d’investimento aumentò a livelli mai più raggiunti in
seguito (contrariamente all’opinione comune che ritiene che il
record appartenga ai giorni nostri) e l’indebitamento dei privati,
grazie ai mutui a basso prezzo, non fu per nulla scalfito dalla
recessione.
L’iconografia del Giudizio Universale raffigura ignudi i mortali e
ignudi dobbiamo tornare tutti quanti questa volta, spogliandoci
degli eccessi di leva e di indebitamento. Per fortuna la leva delle
banche è già in veloce riduzione da più di un anno. Quanto ai
privati, i pignoramenti sono una forma brutale ma efficace di
risoluzione dei debiti, mentre il ritorno globale alla frugalità è
già evidente.
Parte della pena, dunque, è già stata espiata, ma altrettanto resta
da fare. Non da parte delle banche, come abbiamo visto, ma da parte
di altri soggetti, come gli hedge funds, la leva va ancora ridotta.
Quanto alle famiglie, il processo sarà più lento ma ancora lungo.
In queste circostanze è facile prevedere che la recessione non sarà
superficiale. Prepariamoci a numeri grossi, resi tali anche dal
meccanismo di annualizzazione che si usa in America (e non in
Europa). In pratica, un Pil che in un trimestre passa da 100 a 99.50
diminuisce in assoluto dello 0.50 per cento, ma a una velocità
annualizzata scende del 2 per cento. E potrebbe andare anche peggio,
anche se non di molto e solo, probabilmente, per due trimestri.
Per quanto molto sia già nei prezzi, non si può pensare che
l’azionario riesca a salire con di fronte a sé mesi e mesi di dieta
quotidiana di dati macro sgradevoli e di dati societari,
inevitabilmente, in ripiegamento. Il massimo che si può chiedere è
di galleggiare su questi livelli e di ottenere dal cielo qualche
bear market rally.
Un elemento di conforto è che i policy maker hanno piena
consapevolezza della situazione e sono pronti, come hanno
dimostrato, a dare risposte forti. Negli Stati Uniti si lavora a un
secondo pacchetto fiscale. Sarà più grande di quello di luglio (che
pure ha tenuto in piedi il Pil per un trimestre) e sarà disegnato in
modo che entri tutto quanto in circolazione (senza cioè essere usato
per ripagare debiti).
In Europa si permetterà un piccolo aumento dei disavanzi pubblici.
Il Fondo Monetario, molto liquido, aiuterà i paesi emergenti. I
tassi scenderanno ancora ovunque. Già il 29 ottobre potrebbe esserci
un nuovo taglio da parte della Fed, ma quello che più conta, in
questo momento, è che scenda il megaspread tra i tassi di policy e i
tassi interbancari. Questa discesa sarà lenta ma avverrà a tutti i
costi.
Il petrolio a prezzo pieno (i 147 dollari di tre mesi fa) era per
tre quarti un problema e per un quarto un’opportunità (l’export
europeo in Russia e nel Golfo). Il petrolio di oggi, esattamente a
metà prezzo (74 dollari), è per tre quarti un’opportunità e per un
quarto un problema (produttori in grande affanno, caduta del nostro
export).
Chi investe trova oggi una situazione diversa da quella di una
settimana fa. Azioni e debito delle banche appaiono più difendibili
di prima, mentre il resto dell’economia, su cui è adesso puntata
l’attenzione, appare in termini relativi più vulnerabile. Questo
anche se il mondo, nel suo complesso, è oggi messo meglio di sette
giorni fa.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero |
BUFALE: JOE L'IDRAULICO HA BEFFATO
IL MONDO
18 Ottobre 2008 17:01 MILANO -
di Giuseppe De Bellis ______________________________________________
Joe non si chiama Joe. Joe l’idraulico non fa l’idraulico.
Joe l’idraulico di Toledo, non si chiama Joe, non fa
l’idraulico, non è di Toledo. Spegnete i riflettori dal suo
giardino, lo show è finito.
Joe non si chiama Joe. Joe l’idraulico non fa l’idraulico.
Joe l’idraulico di Toledo, non si chiama Joe, non fa
l’idraulico, non è di Toledo. Spegnete i riflettori dal suo
giardino, lo show è finito. Ora può diventare solo una
puntata dei Simpson. Questo è Homer: l’americano medio che
appare in tv e racconta la sua storia, i suoi problemi, le
sue ansie, il suo portafoglio, le sue tasse. Vero di sicuro.
Falso per forza.
Joe ha preso in giro l’America, il mondo, poi se stesso:
l’hanno intervistato tutti, lui ha parlato sotto un
canestro, lui è diventato un simbolo: l’icona della classe
media, la faccia della campagna elettorale, il baluardo no
tax. Ventiquattro citazioni nel dibattito presidenziale tra
Barack Obama e John McCain valgono le bugie. Quanto s’è
divertito a sentire il candidato repubblicano parlare di
lui? «Sono le persone come Joe che creano ricchezza e vanno
lasciate libere di farlo, non colpite con le tasse». E
quando Obama si è rivolto a lui? «Stai tranquillo, Joe».
Forse s’è tranquillizzato Obama: se ne farà una ragione di
essere stato preso in giro, di essere rimasto intrappolato
nelle domande di quello che lui credeva un idraulico. Soffre
di più McCain: l’ha preso come testimonial improvvisato
della sua campagna, la faccia di un americano vero che l’ha
aiutato a mettere in difficoltà il suo avversario. Così ieri
l’ha tirato fuori ancora: «Ho licenziato tutti i miei
consiglieri e ho assunto Joe l’idraulico».
La prima parte della battuta non era poi così ironica. Si
sarà chiesto quello che si chiedono gli altri: gli staff
elettorali controllano tutto, certificano ogni parola, ogni
smorfia, spendono milioni in spot dove ciascun termine è
studiato, ma non riescono a sapere che Joe l’idraulico,
l’uomo che i suoi consulenti hanno detto di citare a
raffica, in realtà è un po’ un cialtrone e adesso lo mette
in imbarazzo, lo danneggia, lo fa apparire un credulone o un
manovratore.
Perché Joe Wurzelbacher, in realtà è Samuel J. Wurzelbacher,
dove J. sta per Joseph, cioè Joe, ma a quanto pare nessuno
lo chiama così. Poi non è un idraulico: è in attesa di avere
una licenza da plumber e senza quella in Ohio non si può
lavorare. Non ha neanche completato l’apprendistato, né
appartiene al sindacato degli idraulici. Poi guadagna 40mila
dollari, cioè un quarto meno di quanto abbia detto per
mettere in difficoltà Obama: Joe, cioè Sam, aveva chiesto al
candidato democratico se era vero che lui, con un reddito
potenziale di 250mila dollari, sarebbe stato penalizzato dal
caro-tasse voluto da Barack sui redditi più alti.
Una domanda scomoda, una risposta zoppicante, Obama il
comunicatore improvvisamente senza parole, sconfitto da un
essere umano normale. Grande Joe, mitico Joe, straordinario
Joe. Tutta una vita davanti: l’americano e il suo sogno, la
possibilità di parlare all’uomo che può comandare il pianeta
e dirgli che a lui non piace. Era lui che parlava, ma in
realtà non era lui.
Buona o cattiva fede, non importa nemmeno: il problema è che
ci sono cascati tutti, traditi dalla voglia di raccontare a
se stessi e al mondo una storia vera in una campagna
mediatica, internettiana, virtuale. Tutti immediatamente
pronti a dire che nei tre miliardi di dollari spesi per
arrivare alla Casa Bianca, l’unica cosa reale, concreta e
importante era la vita di Joe, la sua voglia di comprare
l’azienda che lo faceva lavorare.
Fregati di nuovo: la storia vera è una storia falsa. Bella,
giusta, perfetta. Però falsa. E lui, Joe-Sam, è l’eroe che
non sarà nessuno, prima usato volontariamente o
involontariamente, poi dimenticato perché bugiardo. Di più:
adesso scatta la corsa a sapere se qualcuno l’ha pagato. E
ovviamente il complotto è duplice: lo ha usato McCain, ma
poi la situazione gli è sfuggita di mano; oppure l’ha usato
Obama che ha fatto finta di andare in difficoltà per poi
tornare alla grande dimostrando che l’avversario usa tutti i
mezzi pur di sconfiggerlo. Vale tutto. Tanto alla fine
Samuel J. Wurzelbacher non voterà neppure perché sulla
domanda di registrazione all’anagrafe elettorale il cognome
è scritto sbagliato: Worzelbacher.
Fonte
- Il Giornale
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BERNANKE: LA CRISI SARA' LUNGA, SI'
AD AIUTI DI STATO
20 Ottobre 2008 16:33 NEW YORK -
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Le prospettive dell'economia americana restano
«incredibilmente incerte» e in quest'ottica l'idea di un
nuovo intervento da parte del governo federale con un
secondo pacchetto di stimoli fiscali può essere considerata
«appropriata».
Le prospettive dell'economia americana restano
«incredibilmente incerte» e in quest'ottica l'idea di un
nuovo intervento da parte del governo federale con un
secondo pacchetto di stimoli fiscali può essere considerata
«appropriata». Lo ha detto il governatore della Federal
Reserve Ben Bernanke nel corso della sua audizione di fronte
alla commissione bilancio della Camera. Secondo il
governatore della banca centrale americana l'economia
resterà debole per «diversi trimestri».
Intanto però, per l'economia americana arriva una boccata
d'ossigeno. Negli Stati Uniti il superindice dell'attività
economica ha registrato un incremento dello 0,3% nel mese di
settembre. È il primo rialzo dallo scorso aprile. L'attesa
degli analisti era per una lettura invariata rispetto al
mese precedente. Tuttavia è stata rivista al ribasso la
rilevazione di agosto (-0,9%) rispetto al precedente -0,5
per cento.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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CRISI MUTUI: BERNANKE, APPROPRIATI
NUOVI STIMOLI FISCALI
20 Ottobre 2008 16:47 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 20 OTT - Bernanke dunque appoggia l'ipotesi
di un nuovo pacchetto di stimoli fiscali prendendo le
distanze dalla posizione assunta dalla Casa Bianca, e ha
anche esortato il governo a prendere in considerazione
misure che possano "aiutare l'accesso al credito da parte di
consumatori, proprietari di case e imprese". Interventi in
questa direzione - ha aggiunto il numero uno della Fed -
"potrebbero essere particolarmente efficaci per promuovere
la crescita economica e la creazione di posti di lavoro".
Per Bernanke, in vista della "probabile debolezza
dell'economia nei prossimi trimestri" e dei "rischi di un
rallentamento prolungato" appare "appropriato" che "a questo
punto il Congresso prenda in esame un pacchetto fiscale". In
particolare, Bernanke ha evidenziato il rischio di un calo
degli investimenti nei mesi a venire e di una ulteriore
contrazione nell'edilizia residenziale nel 2009, aggiungendo
che il ribasso dei prezzi delle materie prime e il
rallentamento dell'economia "potrebbero far scendere
l'inflazione su livelli compatibili con la stabilità dei
prezzi". Il presidente della Fed si è anche detto
"fiducioso" che i recenti interventi varati dal governo
"aiuteranno a normalizzare il mercato del credito" anche se
è "troppo presto per vederne gli effetti", precisando
tuttavia che una "stabilizzazione del credito non riuscirà a
far ripartire l'economia in tempi rapidi". (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Cina -
La crescita rallenta
20 Ottobre 2008 16:47 ROMA -
di
Macromonitor ______________________________________________
L’economia cinese, il maggior contributore alla crescita
globale, si è espansa nel terzo trimestre al passo più lento
da cinque anni, dopo che la crisi finanziaria ha tagliato la
domanda per l’export. Il prodotto interno lordo è cresciuto
del 9 per cento tendenziale, a fronte di un più 10,1 per
cento del secondo trimestre e di stime di consenso che
ipotizzavano una crescita del 9,7 per cento. Si tratta del
quinto trimestre consecutivo di crescita in rallentamento, e
potrebbe esacerbare i cali nei prezzi di ferro, rame, e
petrolio, frenando la domanda di export interna all’Asia,
dove le economie stanno già contraendosi.
Il governo di Pechino ha annunciato ieri un’accresciuta
spesa per infrastrutture e tagli d’imposta per gli
esportatori, mentre la banca centrale potrebbe tagliare i
tassi per la terza volta quest’anno. In settembre
l’inflazione cinese è rallentata al 4,6 per cento, il passo
più lento da giugno 2007, sul raffreddamento dei prezzi
delle materie prime.
La crescita del pil cinese nel terzo trimestre è stata la
più debole dallo scoppio della SARS, nel secondo trimestre
2003. Il contributo del commercio estero alla crescita si è
dimezzato nei primi 9 mesi rispetto all’anno precedente. Tra
gli altri dati, la produzione industriale è cresciuta in
settembre dell’11,4 per cento, il passo più lento da oltre
sei anni, per effetto dell’indebolimento degli ordini
all’export e delle chiusure di impianti per ridurre
l’inquinamento durante i Giochi Olimpici. La crescita
nell’investimento fisso urbano nei primi nove mesi del 2008
è accelerata al 27,6 per cento, da 27,4 per cento di agosto.
Le infrastrutture ferroviarie ed il programma di
ricostruzione post-terremoto sono destinati a sostenere il
passo dell’investimento.
Le vendite al dettaglio sono cresciute in settembre del 23,2
per cento, prossime al passo più rapido degli ultimi nove
anni, mentre i prezzi alla produzione, nello stesso mese,
hanno rallentato la propria corsa al 9,1 per cento
tendenziale, da 10,1 per cento di agosto. Il reddito
disponibile per le aree urbane nei primi nove mesi dell’anno
è cresciuto del 14,7 per cento, a 11.865 yuan (circa 1740
dollari), mentre il reddito delle aree rurali è cresciuto
del 19,6 per cento, a 3971 yuan. Si tratta di un passo verso
la riduzione della diseguaglianza reddituale tra città e
campagne, che rappresenta il maggiore rischio per la
stabilità politica e sociale del paese. I dati sono
naturalmente espressi in valore nominale, e sono quindi
gonfiati dall’inflazione.
La banca centrale, dalla metà di luglio, ha frenato la
tendenza all’apprezzamento dello yuan, nel tentativo di
proteggere l’occupazione nelle imprese esportatrici. Secondo
alcune analisi, la crescita dell’export cinese potrebbe
crollare quest’anno dal 22 per cento registrato nei primi
nove mesi dell’anno, a zero o anche ad un valore negativo.
Oltre al peggioramento delle prospettive per l’export, la
debolezza nel mercato immobiliare rappresenta una minaccia
per la quarta economia mondiale: nei primi otto mesi del
2008 le vendite di case in volume sono crollati del 55,5 per
cento a Pechino e del 38,5 per cento a Shanghai, secondo
dati dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua. Il Consiglio
di Stato ha comunicato che aumenterà l’offerta di abitazioni
a basso costo e ridurrà i costi delle transazioni
immobiliari.
La situazione di avanzo di bilancio e la presenza di riserve
valutarie al record mondiale di 1900 miliardi di dollari
consentiranno poi alla Cina di spingere la spesa pubblica,
contribuendo all’evoluzione del modello di sviluppo, da uno
centrato sull’export ad uno a maggiore incidenza di consumi
ed investimenti.
Fonte
- Macromonitor
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GREENSPAN: CRISI FINANZIARIA, UNO
'TSUNAMI' CHE LASCERA' IL SEGNO
23 Ottobre 2008 16:31 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
L’ex capo della Fed Alan Greenspan, intervenuto di fronte al
Congresso Usa, nell'ambito delle audizioni sulle origini
della crisi finanziaria, ha parlato della crisi come "uno
tsunami che si verifica una volta ogni secolo", lanciando un
allarme sul forte impatto che ci sara' sull’economia e sul
livello dell’occupazione. "Sono rimasto choccato" dalla
crisi creditizia.
Greenspan ha confermato che alla radice del problema ci sia
stata l’elevata domanda per gli asset legati ai mutui
subprime da parte di quegli investitori e speculatori
incuranti della qualita' dei prestatari e del fatto che la
bolla del mercato immobiliare sarebbe potuta prima o poi
esplodere.
"Considerato il danno prodotto fino ad oggi, non riesco a
pensare ad un modo per evitare un significativo incremento
dei licenziamenti e del tasso di disoccupazione. Le famiglie
americane si dovranno adeguare, come meglio possibile, ad
una contrazione della disponibilita’ del credito e ad una
maggiore insicurezza sul posto di lavoro".
Greenspan ha sottolineato che la condizione necessaria per
la fine della crisi sia una stabilizzazione dei prezzi delle
case che purtroppo non si verifichera’ ancora "per diversi
mesi".
Dunque l'ex presidente della Federal Reserve protagonista
dell'economia americana fino al gennaio 2006, e da molti
considerato tra i massimi responsabili delle bolle
creditizia e immobiliare gonfiate dal 2001 in poi da tassi
d'interesse all'1%, ha decisamente cambiato idea sulla
finanza e i mercati.
Dopo essere stato uno strenuo difensore del libero mercato
applicato ai servizi finanziari e della capacità della
finanza di autodisciplinarsi, l'ex banchiere centrale più
potente della terra oggi ha detto che la finanza deve essere
sottoposta a controlli più rigidi. E ha auspicato che le
banche d'investimento che impacchettano i crediti (come i
mutui) all'interno di titoli strutturati (come nel caso
delle cartolarizzazioni) sia obbligate a mantenere una parte
di questi titoli.
"Preferirei fosse altrimenti, ma in questa situazione
finanziaria non vedo altra scelta che obbligare tutti gli
istituti che fanno cartolarizzazioni di mantenere una parte
significativa dei titoli che emettono", ha detto Greenspan
nel suo intervento alla Camera a Washington.
Una soluzione che secondo l'ex presidente della Fed darebbe
alle banche un incentivo a valutare gli attivi che vengono
'impacchettati' in maniera più aderente alla loro
rischiosità. Nel maggio 2005 Greenspan - fino a poco tempo
fa considerato un 'guru' finanziario quasi infallibile -
disse che "l'autodisciplina in genere sui è dimostrata molto
più efficace della regolamentazione governativa nel limitare
l'assunzione dei rischi".
Fonte
- ANSA
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CRISI MUTUI: RECORD PIGNORAMENTI
CASE IN USA
23 Ottobre 2008 19:31 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
Sale vertiginosamente il numero degli americani che perdono
la propria casa, mentre i prezzi delle abitazioni crollano,
la disoccupazione e' in aumento e vengono programmati
migliaia di licenziamenti.
Sale a livelli record il numero degli americani che perde la
propria casa perché vittima dei pignoramenti; mentre i
prezzi delle abitazioni crollano, la disoccupazione è in
aumento e altre migliaia di licenziamenti vengono
programmati da un colosso bancario come Goldman Sachs e dal
gigante dell'auto General Motors. Sono queste alcune delle
cattive notizie giunte oggi da Oltreoceano, che mostrano
come gli Stati Uniti stiano facendo i conti con l'imminente
recessione.
Il mercato immobiliare americano è ancora nel pieno della
crisi, tanto che proprio oggi il governo Usa ha fatto sapere
che sono allo studio misure per aiutare chi è in difficoltà
con il pagamento delle rate del mutuo. I pignoramenti
immobiliari hanno raggiunto un nuovo massimo storico, con un
aumento del 71% nel terzo trimestre rispetto allo stesso
periodo dell'anno precedente, al livello-record di 765.558
unità.
Così, il governo federale americano sta pensando di
utilizzare parte del pacchetto di aiuti da 700 miliardi di
dollari varato dal Congresso nei giorni scorsi, per offrire
garanzie sui prestiti in modo da aiutare chi è in difficoltà
con le rate a non perdere la propria casa. Ma intanto
proprio il boom dei pignoramenti spinge ancora più giù i
prezzi delle abitazioni rendendo gli americani più poveri,
senza contare che continua l'emorragia di posti lavoro.
L'indice dei prezzi delle case - rilevato dall'Office of
Federal Housing Enterprise Oversight (OFHEO) - ha segnato ad
agosto un crollo del 5,9% su base annua (-0,6% mensile dopo
il -0,8% di luglio), mentre le richieste di sussidio di
disoccupazione sono salite la scorsa settimana di 15.000
unità, più del doppio di quanto previsto dagli economisti.
Le domande di sussidio hanno toccato quota 478.000, ma
potrebbero presto raggiungere la soglia psicologica delle
500.000 unità, se si tiene conto delle migliaia di tagli
occupazionali annunciati nelle ultime ore. Goldman Sachs
sarebbe pronta a eliminare 3.260 dipendenti, il 10% del
totale della forza lavoro. Il taglio farebbe salire a oltre
130.000 il numero dei licenziamenti totalizzati nella sola
industria finanziaria da metà 2007, offuscando quelli che
seguirono lo scoppio della bolla tecnologica.
E la cifra potrebbe diventare ancora più alta se si dà
credito allo scenario prefigurato da oggi Nouriel Roubini,
l'economista che due anni fa predisse la crisi: la
situazione di "panico" dei mercati - ha spiegato Roubini a
un convegno a Londra - porterà a una "massiccia svendita di
asset" e alla chiusura di centinaia di hedge fund con il
rischio che i mercati finanziari globali possano sospendere
l' attività per una settimana o due.
Quanto a General Motors, fa i conti con la pesante crisi del
mercato dell'auto e sta pensando di eliminare altri
cinquemila posti di lavoro entro il primo novembre
attraverso un piano di incentivi all'esodo. E per tagliare
ulteriormente i costi, la casa automobilistica ha deciso di
sospendere già da novembre il versamento dei contributi a
carico dell' azienda per il piano pensionistico.
Fonte
- ANSA
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Meglio uno scrollone da choc o una crisi stentata, lunga e noiosa?
20 Ottobre 2008 01:30 MILANO - di Giuseppe Turani
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Il mondo si sta fermando? Per fortuna non ancora, e forse
non succederà. Quello che è sicuro è che sta rallentando, e anche di
parecchio. Secondo molti economisti (da quelli di Morgan Stanley a
quelli di Global Insight, passando per quelli di Goldman Sachs) non
dovremmo nemmeno arrivare a vedere dei numeri negativi nelle cifre
che, anno dopo anno, misurano la crescita dei vari paesi. Ma gli
economisti si sono già sbagliati molte volte e quindi possono
sbagliare anche questa volta.
L´aria che si respira nel mondo degli affari è infatti molto diversa
e, anche senza arrivare a sparare delle cifre, circola una specie di
mantra: questa crisi non sarà pesantissima, ma sarà molto lunga. Il
che significa che non dovremmo vedere arretramenti spaventosi, ma
che dovremo viaggiare con crescite molto stentate (vicine allo zero)
per parecchio tempo.
Il ragionamento che sta alla base del mantra che abbiamo appena
indicato è piuttosto semplice. Questa, si dice, non è una crisi da
choc (tipo rialzo brusco del prezzo del petrolio). Non è cioè una
crisi dove, superato lo choc, poi tutto riprende abbastanza
normalmente. Questa una crisi, come si usa dire, di tipo sistemico.
Il maledetto "affaire" dei prestiti subprime e dei derivati di varia
natura ha terremotato tutto il sistema del credito. È un po´ come se
una serie di esplosioni avesse fatto saltare l´intero sistema
idraulico di un grattacielo. È evidente che prima di poter tornare a
abitare normalmente in quell´edificio bisogna revisionare tutto
l´impianto: scavare sotto i pavimenti, riparare tubature rotte,
mettere raccordi nuovi, ecc. Al sistema del credito è successo
esattamente questo: è saltato tutto. E il sistema del credito (ormai
interamente integrato a livello mondiale) è essenziale per il buon
funzionamento del resto dell´economia. Ma oggi questo sistema è
bloccato, avariato.
Qualcuno, con una bella immagine, ha detto che il sistema del
credito, dopo i corposi interventi dei vari governi e delle banche
centrali, non è più in grado di fare del male a se stesso (perché
sono arrivati i pompieri con le scorte di acqua e i medicinali), ma
non è nemmeno in grado di aiutare le aziende dell´economia reale che
si trovano nei guai. E gli interventi sul mondo del credito sono
stati pesanti.
Il governo svizzero, ad esempio, ha rilevato da Ubs attività
(titoli, obbligazioni, ecc.) pari a 60 miliardi di dollari per un
dollaro. E l´Ubs è stata ben felice di fare questa transazione
"suicida" perché quei 60 miliardi di roba erano marci per una quota
molto rilevante, erano cioè fonte di perdite devastanti che adesso
sono sulle spalle del governo svizzero. Ma è evidente che l´Ubs, che
tutto sommato sta meglio di altre banche adesso, avrà in futuro i
movimenti un po´ rallentati.
Il sistema del credito, insomma, è come un malato al cui capezzale
sono arrivati i necessari soccorsi, e che quindi è fuori pericolo,
ma che certo non è in condizioni di dare una mano agli altri che
soffrono nella stessa corsia.
E quello che succede nell´economia reale è ben descritto in questo
brano (che riporto integralmente dal report di una banca italiana)
sui risultati di un´indagine della Federal Reserve di Philadelphia:
«L´indagine della Philadelphia Fed sottolinea gli effetti negativi
del blocco del credito: circa il 14 per cento delle imprese riporta
difficoltà nell´ottenere credito per finanziare l´attività corrente
nell´ultimo mese e circa il 30 per cento riporta problemi analoghi
fronteggiati dai loro clienti. Circa il 18 per cento delle imprese
indica che la restrizione del credito ha avuto un impatto sul
proprio livello di produzione e il 15 per cento delle imprese ha
rivisto significativamente verso il basso la spesa in conto capitale
programmata per i prossimi sei mesi. L´indagine conferma che in
assenza di un miglioramento delle condizioni e della disponibilità
del credito la recessione potrebbe essere molto più profonda e
duratura di quanto visto negli ultimi due cicli».
A conclusioni analoghe (o addirittura peggiori) arriverebbe
qualunque indagine del genere che venisse fatta in Italia o in
Europa. Il denaro, questa è la conclusione, c´è, ma non circola. E
l´economia reale, quella delle fabbriche e degli uffici, si trova
nei guai. Ma non è finita qui.
Il problema vero consiste nel fatto
che non si tratta, a questo punto, di rimettere semplicemente in
sesto i vecchi circuiti finanziari. Quelli sono saltati perché
avevano dentro una sorta di errore genetico: forse troppa libertà e
troppa avidità. E quindi bisogna provvedere a una revisione completa
del processo di erogazione del credito.
Ma su questo punto, la revisione del sistema del credito, non
abbiamo nemmeno cominciato a pensare, probabilmente perché nessuno
sa ancora da che parte andare. Una cosa, comunque, è certa. Nei
prossimi anni ci sarà meno credito (per le imprese e per la gente) e
costerà di più. Meno soldi, ma più cari. In queste condizioni la
frenata dell´economia, o comunque la si voglia chiamare, è destinata
a essere lunga, molto lunga.
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Fonte
- La
Repubblica |
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Sabato 25
Ottobre 2008 |
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Mercoledì 29
Ottobre 2008 |
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Giovedì 30
Ottobre 2008 |
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Addio al mito dei Mercati Emergenti
28 Ottobre 2008 02:46 ROMA - di Marcello De Cecco
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Nominare William Rhodes a un banchiere centrale o un alto
burocrate di un paese dell’America latina causa il tramonto
immediato del suo buonumore: in un trentennio questo manager della
Citibank è stato il protagonista di tutte le crisi del debito di
quei paesi, e il suo arrivo in una delle capitali produceva
costernazione e la realizzazione che la ricreazione era finita.
Fa una certa impressione, per questi motivi, leggere sul Financial
Times del 23 ottobre, queste sue parole: «La crisi finanziaria di
oggi è diversa dalle altre degli ultimi trent’anni. La turbolenza è
stata esportata dagli Stati Uniti e poi dall’Europa ai mercati
emergenti. Dopo la risoluzione delle crisi degli anni 80 e 90, molti
mercati emergenti introdussero riforme chiave, seguirono politiche
macroeconomiche prudenti, rafforzarono le istituzioni finanziarie e
le banche centrali e accumularono considerevoli riserve bancarie».
Malgrado ciò, prosegue il banchiere, «molti di questi paesi sono
stati coinvolti nella caduta di questa crisi creditizia. Essi sono
le vittime di uno stress finanziario che non hanno causato loro e
che è aldilà delle loro possibilità di controllo. Ciò potrebbe
colpire le loro economie reali. La situazione si sta deteriorando:
questi paesi non dovrebbero essere lasciati al loro destino».
Le parole del banchiere americano rispecchiano fedelmente quel che
si legge nei dati e nei grafici degli andamenti delle borse dei
paesi emergenti e degli spread dei loro titoli a reddito fisso:
entrambi gli indici mostrano una resistenza veramente notevole fino
all’estate scorsa, su livelli storicamente assai elevati. Poi, in
tutti i paesi allo stesso tempo, alla fine dell’estate inizia una
corsa al ribasso che si trasforma rapidamente in una caduta
precipitosa.
Guardando all’intera serie dei dati dell’Emerging Market Bond Index
tenuto dalla Morgan Bank per più di dieci anni, tuttavia, si legge
con chiarezza la portentosa convergenza degli spread verso quelli
dei paesi sviluppati che inizia nel 2003 e che si è solo da qualche
mese interrotta e invertita. Da uno spread medio del 12% nel 2001 si
arriva a uno del 2% nel 2006. Dopo un tratto orizzontale di un anno
a quel miracoloso livello, l’indice riprende a salire, quando
scoppia la crisi creditizia in America e si diffonde ai paesi
europei, ma è ancora solo al 4% prima dell’estate 2008, e arriva in
un balzo all’8% in pochissimi giorni. Siamo ancora lontani dal 12%,
ma estrapolando da quel che è successo in un paio di settimane, non
è affatto certo che non si raggiungano velocemente livelli mai prima
toccati nei prossimi giorni.
Possiamo chiederci se il crollo degli spread che si è verificato a
partire dal 2003 con la violenza che abbiamo notato sia dovuto ai
comportamenti virtuosi dei paesi emergenti in quegli anni, ai quali
allude Rhodes, oppure sia la conseguenza di una attività gigantesca
di carry trade condotta negli stessi anni da speculatori grandi e
piccoli.
La politica monetaria del Giappone, infatti, è in quel periodo
estremamente espansiva e tiene i tassi sui prestiti in Yen a livelli
bassissimi. Ne approfitta una congerie assai composita di
arbitraggisti, che va dalle massaie giapponesi ai grandi banchieri
occidentali, ai gestori dei diecimila hedge fund esistenti, per
prendere a prestito in Giappone e comprare titoli ad alto rendimento
nei paesi emergenti, naturalmente senza coprire il rischio di
cambio, perché facendolo il rendimento di queste operazioni
diverrebbe troppo basso o si annullerebbe.
Perché tanta sicurezza? Perché in quegli anni è noto che il
Giappone, afflitto dalla stagnazione interna e da prezzi addirittura
calanti, vuole rimediare ai suoi problemi di domanda interna
esportando e fa di tutto, con le ben note arti del suo ministero
delle Finanze, per tenere basso il cambio dello yen.
Una riprova ulteriore della mancanza di colpe dei paesi emergenti
nel determinare la recente inversione degli spread viene dalla
coincidenza di questo fenomeno con l’inversione dell’andamento dello
yen nei confronti delle principali monete, in particolare di euro e
dollaro. La corsa dello yen è divenuta precipitosa negli ultimi
giorni, ma è iniziata anch’essa quest’estate, mettendo fine, ad
esempio, ad un ribasso verso l’euro che ha fortemente preoccupato
gli europei per qualche anno, aggiungendosi alla sottovalutazione
della moneta cinese, con conseguenze perniciose per le bilancia
commerciale della zona euro.
Certo il rialzo dello yen non è dipeso dai comportamenti dei paesi
emergenti. Quasi sicuramente esso si deve al precipitare della crisi
bancaria americana e al subitaneo interrompersi del Carry Trade,
dovuto alla paura improvvisa che ha investito i prestatori
giapponesi. Questi non solo impiegavano le loro risorse comprando
titoli ad alto rendimento dei paesi emergenti, ma anche azioni
quotate a Wall Street e lì la festa è finita anch’essa allo stesso
tempo.
In un articolo della primavera scorsa, lo stesso Rhodes metteva in
berlina il mito del "disaccoppiamento" delle fortune dei paesi
asiatici e in generale di tutti i paesi emergenti da quelle del
centro del mondo. Il collegamento, naturalmente, che non si era
interrotto affatto, era quello tra domanda e prezzi delle materie
prime e esportazioni dei paesi emergenti, oltre al deflusso di
capitale dai mercati finanziari del centro e quelli della periferia
che abbiamo già ricordato. Non è stato il solo a farlo, ma vale la
pena ricordare, in questa età della dimenticanza rapida, quanti
sostenevano, fino a pochissimo tempo fa, esattamente il contrario.
Non tutti i paesi emergenti sono uguali, naturalmente. La Cina, ad
esempio, potrebbe in teoria mobilitare la domanda interna se quella
estera viene meno, assai meglio di qualsiasi paese dell’ America
Latina o della zona di influenza della Unione Europea. Ma, anche nel
suo caso, no è affatto sicuro che riesca a farlo. Stiamo invece
vedendo in questi giorni, quanto il legame con i paesi centro resti
forte per le aree che abbiamo appena richiamato.
I casi della Turchia e quello dell’Ucraina e Bielorussia, così come
quelli dei paesi baltici e dell’Ungheria sono dimostrazione
eclatante di questa dipendenza. Il riverbero verso l’Europa
sviluppata, e verso i paesi più fragili di essa, come l’Italia, di
quanto sta accadendo in questi giorni in quei paesi a noi vicini e
anche in Russia, minaccia di essere assai maggiore dei quello che
promana dai paesi dell’America Latina verso gli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, anche oggi, si trovano nella posizione di dipendere
essenzialmente solo da se stessi. Piaccia o no, il mondo si trova
ancora su un "dollar standard" e, malgrado il loro enorme debito sia
in gran parte in mani straniere, gli americani possono ancora trarsi
dalle peste stampando moneta. L’altra faccia di questa medaglia è
che nessuno, tranne gli Stati Uniti, può trarre gli stessi Stati
Uniti fuori da una buca nella quale sono volontariamente caduti.
Speriamo che ciò accada nei prossimi mesi, anche se molti cominciano
a disperare delle capacità della classe dirigente americana.
Ma torniamo ai paesi emergenti, che si trovano nella situazione
opposta a quella degli Stati Uniti. Quel che accade altrove
condiziona potentemente la loro vita economica. Come ha notato
Rhodes, se ne poteva dubitare nei decenni scorsi, quando il
malessere latino americano era anche di origine interna. Ma nella
crisi attuale l’ America Latina è stata in maniera patente alla
mercè dei prezzi delle materie prime e delle condizioni del credito
nel centro del mondo. I suoi tentativi di seguire regole macro e
micro economiche considerate virtuose secondo l’etica del Consenso
di Washington sono stati applauditi coralmente al centro del mondo,
ma tutto è stato dimenticato in pochi giorni, quando è cominciato il
rimpatrio accelerato dei capitali verso i mercati finanziari di
provenienza e l’abbandono della speculazione al rialzo sul mercato
delle materie prime.
Questa disordinata fuga mette in ombra anche alcune indubbie
responsabilità nazionali, che sono certo presenti , ad esempio, in
Ucraina, in Argentina, in Turchia, in Ungheria, nei paesi baltici.
Esse sono importanti e senza il rimpatrio disordinato dei capitali,
il crollo delle esportazioni, il collasso delle quotazioni delle
materie prime, tali responsabilità sarebbero venuto in rilievo e si
sarebbe potuto attribuirle e punirle politicamente in ciascun paese.
Ora invece, la tempesta venuta da fuori assolve le classi di governo
dalle loro responsabilità e permette loro di continuare a guidare i
propri paesi senza alcuna censura politica.
Anzi, se dobbiamo estrapolare da quel che vediamo in questi giorni
in Argentina, è partita una corsa da parte di tutte le parti
politiche nazionali a reintrodurre strumenti di protezione del
mercato interno che sembravano andate fuori moda da decenni,
risuscitando tendenze nazionalizzatrici che anch’esse parevano
appartenere ad una tradizione ormai desueta. Istruttivo è a questo
proposito il caso di Aerolinas Argentinas.
Notiamo in fine che allo stesso tempo anche i paesi dell’Africa
stanno precipitando, coi capitali che fuggono e titoli e monete che
affondano. Ma di loro, come sempre, non si occupa nessuno.
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Fonte
- La
Repubblica |
TASSI USA: LA FED LI ABBASSA
ALL’1.00%
29 Ottobre 2008 19:17 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Come ampiamente atteso dal mercato, la Banca Centrale
americana ha tagliato di 50 punti base il costo del denaro.
I tassi d’interesse scendono all’1.00%, minimo dal 2004.
Decisione unanime.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della
Federal Reserve, ha abbassato il costo del denaro degli
Stati Uniti all’1.00%. Si tratta dell'ottavo taglio
consecutivo nella serie di ribassi iniziata nell'ottobre
2007. La decisione segue il taglio di emergenza di mezzo
punto percentuale deciso lo scorso 8 ottobre in accordo con
la BCE, la Banca di Inghilterra e le banche centrali di
Canada, Svizzera e Svezia. Abbassato di mezzo punto
percentuale anche il tasso di sconto all'1.25%.
Intervenuto solo pochi giorni fa all’Economic Club di New
York, il presidente Bernanke aveva dichiarato: "non
abbasseremo la guardia finche’ non avremo raggiunto i nostri
obiettivi di riparare e riformare il sistema finanziario e
riportare prosperita’".
Il mercato si era adattato dunque all’idea di un forte
taglio dei tassi. "La Fed assumera’ un atteggiamento
particolarmente aggressivo" aveva affermato poco prima della
comunicazione l’economista e professore della New York
University Mark Gertler. "Al momento i rischi
inflazionistici non hanno alcun peso, il problema e’
contenere l’impatto della recessione".
Domani sara’ rilasciato il dato sul Pil del terzo trimestre,
le attese sono per una contrazione dello 0.5%. "L’inadeguata
crescita costituira’ un problema fondamentale nei prossimi
mesi" ha dichiarato l’ex governatore Fed Lyle Gramley. "Se
l’economia dara’ nuovi segnali di rallentamento, la Fed
potrebbe decidere di tagliare ancora nei prossimi meeting,
fino a livelli che non si vedono dal lontano 1958". "Un
tasso neutro non e’ da escludere".
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di abbassare
di 50 punti base il target sui fed funds all’1.00%.
L’attivita’ economica sembra essere rallentata
considerevolmente, causando un calo della spesa dei
consumatori. La spesa per le attrezzature aziendali e la
produzione industriale hanno subito un indebolimento negli
ultimi mesi, e il rallentamento dell’attivita’ economica
all’estero sta riducendo le prospettive sulle esportazioni.
Inoltre, l’intensificazione delle turbolenze sui mercati
finanziari potrebbe contenere ulteriormente la spesa, in
parte riducendo la capacita’ delle famiglie e delle aziende
nell’ottenere nuovi prestiti.
Alla luce del calo dei prezzi dell’energia e di altre
commodities e delle deboli prospettive per l’attivita’
economica, il Comitato si aspetta una moderazione
dell’inflazione nei prossimi trimestri ad un livello
coerente con la stabilita’ dei prezzi.
Le recenti azioni politiche, incluso l’odierno abbassamento
del costo del denaro, il taglio coordinato ai tassi
d’interesse delle Banche Centrali, le straordinarie misure
di liquidita’, e le azioni governative mirate al
rafforzamento dei sistemi finanziari, dovrebbero
gradualmente migliorare le condizioni del credito e
promuovere un ritorno ad una crescita economica moderata.
Tuttavia, i tischi al ribasso restano. Il Comitato
continuera’ a monitorare attentamente gli sviluppi economici
e finanziari ed agira’ come necessario per promuovere una
crescita economica sostenibile e la stabilita’ dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner,
Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald
L. Kohn; Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I.
Plosser; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh.
In un’azione collegata, Il Consiglio dei Governatori ha
approvato all’unanimita’ l’abbassamento di 50 punti base del
tasso di sconto all’1.25%. In tale azione, il Consiglio ha
approvato le richieste presentate da Board of Directors
delle Federal Reserve Bank di Boston, New York, Cleveland, e
San Francisco.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di ridurre il tasso
interbancario all’1.00%:
The Federal Open Market Committee decided today to lower its
target for the federal funds rate 50 basis points to 1
percent.
The pace of economic activity appears to have slowed
markedly, owing importantly to a decline in consumer
expenditures. Business equipment spending and industrial
production have weakened in recent months, and slowing
economic activity in many foreign economies is damping the
prospects for U.S. exports. Moreover, the intensification of
financial market turmoil is likely to exert additional
restraint on spending, partly by further reducing the
ability of households and businesses to obtain credit.
In light of the declines in the prices of energy and other
commodities and the weaker prospects for economic activity,
the Committee expects inflation to moderate in coming
quarters to levels consistent with price stability.
Recent policy actions, including today’s rate reduction,
coordinated interest rate cuts by central banks,
extraordinary liquidity measures, and official steps to
strengthen financial systems, should help over time to
improve credit conditions and promote a return to moderate
economic growth. Nevertheless, downside risks to growth
remain. The Committee will monitor economic and financial
developments carefully and will act as needed to promote
sustainable economic growth and price stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Elizabeth A. Duke; Richard W. Fisher; Donald L. Kohn;
Randall S. Kroszner; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser;
Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh.
In a related action, the Board of Governors unanimously
approved a 50-basis-point decrease in the discount rate to
1-1/4 percent. In taking this action, the Board approved the
requests submitted by the Boards of Directors of the Federal
Reserve Banks of Boston, New York, Cleveland, and San
Francisco.
Fonte
- WallStreetItalia.com |
FEDERAL RESERVE OFFRE LIQUIDITA' UN
PO' A TUTTI
30 Ottobre 2008 12:33 SIENA -
di MPS Capital Services ______________________________________________
La banca centrale Usa ha annunciato nuove linee swap
temporanee in dollari ($30 miliardi ciascuna fino al 30
aprile 2009) nei confronti delle banche centrali di Brasile,
Messico, Corea del Sud e Singapore.
Tassi di interesse: in area Euro ieri si è assistito alla
seconda giornata consecutiva di forte rialzo dei listini
azionari dopo le perdite della scorsa settimana. I tassi di
mercato sono saliti sulla parte lunga della curva mentre
sono calati sul breve comportando un aumento dello spread
2-10 anni da 120 a 126pb.
Al centro dell’attenzione è stato l’andamento dei titoli
governativi periferici con lo spread Italia-Germania salito
al nuovo livello record di 112pb sul tratto decennale.
L’allargamento degli spread non coinvolge solo il nostro
paese, ma anche altri paesi dell’area. Tale situazione ha
portato Almunia, commissario Ue agli affari economici, a
dichiarare che i livelli degli spread tra la Germania e gli
altri paesi dell’Euro area sono attualmente eccessivamente
alti.
Continua nel frattempo la discesa dei tassi monetari.
L’Euribor a 3 mesi è calato ai minimi da circa 6 mesi al
4,827%. Questa mattina segnaliamo l’inatteso utile nel terzo
trimestre (435Mln€) da parte di Deutsche Bank grazie alle
nuove regole contabili che hanno ridotto le svalutazioni
legate agli asset in portafoglio. Oggi sono attesi una serie
di dati relativi alla fiducia in ottobre di vari settori
all’interno dell’area, ma l’attenzione sarà soprattutto
focalizzata ai dati Usa del pomeriggio. Sul decennale il
supporto si colloca a 3,68% e la resistenza a 3,85%.
Anche negli Usa i tassi sono calati sul breve e saliti
leggermente sul lungo comportando un aumento dello spread
2-10 anni da 226 a 232pb. I principali listini azionari
hanno chiuso in calo ad eccezione del Nasdaq. Confermando le
attese del mercato, con decisione unanime la Fed ha tagliato
i tassi di 50pb portando il tasso di riferimento all’1%, ai
livelli del giugno 2003.
Nel comunicato la Fed ha segnalato che l’attività economica
sembra aver rallentato in modo marcato. Inoltre
l’intensificarsi della crisi finanziaria potrebbe esercitare
ulteriori pressioni negative sui consumi, pertanto i rischi
al ribasso rimangono elevati. Alla luce del declino dei
prezzi dell’energia l’inflazione è attesa in moderazione nei
prossimi trimestri.
Successivamente la banca centrale ha annunciato nuove linee
swap temporanee in Dollari (30Mld$ ciascuna fino al 30
aprile 2009) nei confronti delle banche centrali di Brasile,
Messico, Corea del Sud e Singapore. Si tratta di una
decisione simile a quella già in essere con altre 10 banche
centrali mondiali con lo scopo di migliorare la liquidità
sui mercati e mitigare le difficoltà nel reperire
finanziamenti in Dollari.
Il Fmi ha successivamente annunciato un nuovo programma di
finanziamenti d’emergenza nei confronti dei paesi emergenti.
I prestiti saranno di durata trimestrale ed i paesi che
saranno ammessi potranno prendere a prestito fino al 500%
della loro quota (il capitale per il quale contribuiscono al
fondo). I finanziamenti saranno concessi però solamente a
quei paesi che hanno avuto politiche economiche solide nel
contrastare la crisi. Oggi è atteso il dato relativo alla
crescita nel terzo trimestre che dovrebbe evidenziare una
variazione trimestrale negativa grazie alla marcata
contrazione dei consumi. Sul decennale la resistenza si
colloca in ara 3,90%.
Valute: il taglio dei tassi negli Usa ed il ritorno
dell’euforia sui listini azionari europei ed asiatici ha
comportato un deprezzamento del Dollaro che si è riportato
in prossimità di area 1,32 verso Euro. Per oggi i livelli di
resistenza si collocano a 1,33 ed 1,3410. Il supporto in
prossimità di 1,28. Molto atteso il dato sul Pil nel
pomeriggio che potrebbe portare una certa volatilità. La
ritornata euforia sui listini azionari asiatici ha provocato
un deprezzamento dello Yen. Gli operatori stanno
scommettendo anche su un taglio dei tassi in Giappone domani
notte. Per oggi i livelli di resistenza sono individuabili a
99,70 verso Dollaro e 133,70 verso Euro. Segnaliamo che ieri
anche la banca centrale cinese ha tagliato il tasso di
riferimento per la terza volta negli ultimi due mesi nel
tentativo di supportare la crescita economica.
Materie Prime: ritornano gli acquisti sul settore con tutte
le principali componenti dell’indice GSCI che hanno chiuso
positivi. Gli operatori sperano che la serie di tagli dei
tassi da parte delle principali banche centrali possa
contrastare la crisi economica e dar luogo ad un ritorno
della domanda. Il greggio Wti è tornato in prossimità dei
70$/barili su attese di ulteriore taglio della produzione da
parte dell’Opec ed una crescita minore delle attese delle
scorte Usa. Bene anche i metalli industriali guidati dal
nichel (+14,1%) e rame (+12,7%). Positivi anche i preziosi e
le materie prime agricole.
Fonte
- MPS Capital Services
|
Stati Uniti -
Contrazione nel terzo
trimestre
Thursday, 30 October, 2008 at
14:43 -
di
Macromonitor ______________________________________________
Stati Uniti - Contrazione nel terzo trimestre
L’economia statunitense ha sofferto nel terzo trimestre la
maggior contrazione dal 2001. Il prodotto interno lordo è
diminuito dello 0,3 per cento su base annualizzata, contro
attese poste a meno 0,5 per cento. Ieri, la Federal Reserve
ha tagliato il tasso sui Fed Funds di mezzo punto
percentuale per la seconda volta nel mese di ottobre,
ammonendo su ulteriori rischi al ribasso per la congiuntura.
La flessione del pil segue l’anomala espansione del 2,8 per
cento nel secondo trimestre. Quella di oggi è la prima stima
del pil del terzo trimestre, e sarà seguita da due
revisioni, in novembre e dicembre, quando ulteriori dati
saranno resi disponibili.
Tra le componenti del pil, la spesa dei consumatori è calata
del 3,1 per cento annualizzato, prima flessione dal 1991 e
la maggiore dal 1980: la stima di consenso ipotizzava un
calo del 2,4 per cento. Il calo del 6,4 per cento nella
spesa per beni non-durevoli, quali sono tipicamente
alimentari ed abbigliamento, è la peggiore dal 1950. Anche
il taglio in investimenti aziendali e progetti di
costruzioni residenziali ha contribuito alla contrazione,
mentre il restringimento del deficit commerciale e ed una
minore flessione delle scorte hanno evitato che la flessione
del pil fosse maggiore. Escludendo queste due categorie, il
calo del pil sarebbe infatti stato dell’1,8 per cento
annualizzato, peggior risultato dal 1991. Anche i consumi
governativi hanno contribuito a frenare la contrazione, con
un incremento annualizzato del 5,8 per cento, all’interno
del quale spiccano il più 13,8 per cento di incremento nei
consumi federali e del 18,1 per cento nella difesa
nazionale. Il settore pubblico ha contribuito 1,1 5 punti
percentuali alla crescita del pil, contro lo 0,78 per cento
del secondo trimestre.
Il deflatore del prodotto interno lordo è stato del 4,2 per
cento (contro stime per una crescita del 4 per cento), il
maggiore degli ultimi 17 anni, e su di esso ha
verosimilmente influito il calo dei prezzi all’importazione
(che entrano nel calcolo del deflatore del pil con relazione
sottrattiva) indotto soprattutto da petrolio ed altre
materie prime.
Di rilievo la contrazione del reddito personale disponibile
espresso in termini reali, che è stata pari all’8,7 per
cento contro un aumento dell’11,9 per cento nel secondo
trimestre. La variazione in dollari correnti è stata
negativa per il 3,7 per cento, a fronte di un aumento del
16,7 per cento nel periodo aprile-giugno. Il calo del
reddito personale disponibile nel terzo trimestre riflette
il pattern dei rimborsi fiscali derivanti dall’Economic
Stimulus Act del 2008, che hanno aggiunto 61,5 miliardi di
dollari (a passo annualizzato) al reddito personale
disponibile del terzo trimestre, a fronte di 311,6 miliardi
aggiunti nel secondo trimestre.
Fonte
-
Macromonitor
|
Americani
in fuga da mattone e fondi
30/10/2008 15.16 -
di Marco
Caprotti ______________________________________________
La crisi del mattone piegherà ancora di più la schiena degli
Stati Uniti. Secondo uno studio preparato dall’Università
della California una discesa del 10% del prezzo delle case
si tradurrà in una riduzione delle spese personali dell’1,2%
che toglierà al Pil un 1% secco di crescita potenziale. In
dollari, fanno 105 miliardi che non usciranno dalle tasche
degli americani. Un brutto colpo per un’economia che, al
70%, dipende dagli acquisti delle famiglie.
La situazione è vicina al punto pericoloso: secondo la
National Association of Realtors (l’organizzazione Usa che
rappresenta i proprietari di case) i prezzi a settembre sono
calati del 9% rispetto allo stesso periodo del 2007. Il
mercato se ne è già accorto da tempo: l’indice Msci North
America nell’ultimo mese (fino al 30 ottobre e calcolato in
euro) ha perso l’7,21% portando a -26,52% la performance da
inizio anno.
Sempre secondo lo studio, l’aumento dei prezzi degli
immobili nella prima metà dell’ultimo decennio ha dato
impulso alle spese personali. “L’andamento del mattone
incide profondamente sulle abitudini delle famiglie”, ha
spiegato Gary Painter, uno degli autori dell’analisi in
un’intervista a Bloomberg. “Il crollo del valore delle case
a livello psicologico viene percepito come un elemento
negativo di lunga durata”.
La Federal Reserve, intanto, continua nelle sue manovre di
salvataggio. La Banca centrale Usa ha abbassato di mezzo
punto i tassi di interesse portandoli all’1%. Ha voluto però
sottolineare che i rischi di un rallentamento della crescita
restano e ha fatto intendere che la porta resta aperta per
ulteriori tagli. Secondo gli operatori, se la crisi dovesse
continuare, il presidente della Fed Ben Bernanke sarebbe
pronto a portare a zero il costo del denaro.
Lo scenario, nel frattempo si mostra confuso. Da una parte
c’è Pil che, nel terzo trimestre, ha registrato una
contrazione dello 0,3%. Dall’altra ci sono colossi del
calibro di Colgate che hanno registrato un aumento dei
profitti. Non tutta la corporate America può vantare però
questi risultati: Motorola ha già avvertito che il quarto
trimestre sarà al di sotto delle aspettative degli analisti.
L’attenzione degli operatori nei prossimi giorni sarà
rivolta alle elezioni presidenziali Usa che Morningstar
seguirà in diretta con notizie, analisi, approfondimenti e
commenti degli operatori di mercato a partire dal pomeriggio
di martedì 4 novembre.
Nel tentativo di mettere un po’ di fieno in cascina, nel
frattempo gli americani stanno scappando dai fondi di
investimento. Secondo i dati di Morningstar Market
Intelligence, solo a settembre si sono registrati riscatti
per 49 miliardi di dollari. “E’ il dato peggiore dal 2000”,
commenta Karen Dolan, analista di Morningstar. “E in base
alle indicazioni che abbiamo ora, la situazione potrebbe
essere peggiorata ad ottobre”. Un altro elemento
preoccupante è che i soldi vengono tolti da tutte le
categorie di prodotti, anche quelle considerate più
prudenti.
Fonte
-
MorningStar.it
|
Tempesta valutaria: il cambio
fisso non è una buona idea
30 Ottobre 2008 00:44 MILANO - di
Mario Seminerio
________________________________________
Il movimento di violenta
riduzione della leva finanziaria, che sta colpendo l’intera
architettura finanziaria del pianeta, si è negli ultimi giorni
esteso al mercato dei cambi. Dapprima con la rivalutazione dello
yen, poi con il marcato rafforzamento del dollaro. Cerchiamo di
analizzare il fenomeno. Lo yen giapponese si trova oggi al massimo
degli ultimi 13 anni contro il dollaro, e degli ultimi sei anni
contro l’euro. Alla base del movimento sta soprattutto la chiusura
delle posizioni di "carry trade", in cui gli investitori si
indebitano in divise a basso tasso d’interesse e comprano attivi in
paesi ad alto tasso.
Il tasso d’interesse ufficiale giapponese, pari allo 0,5 per cento,
è inferiore a quelli su dollari australiani ed euro rispettivamente
di 5,5 e 3,25 punti percentuali. La scorsa settimana lo yen si è
rivalutato dell’8,9 per cento contro dollaro, il maggior guadagno da
ottobre 1998, e del 14 per cento contro l’euro, record settimanale
dall’introduzione della moneta unica europea, nel 1999. A sua volta,
l’euro si è deprezzato del 6 per cento contro la valuta
statunitense.
Ma sono state soprattutto le valute dell’Oceania, da sempre
obiettivo preferito dell’investimento in carry trade, ad essere
colpite, anche a causa del crollo dei prezzi delle materie prime: il
dollaro australiano in una settimana ha perso il 15 per cento contro
yen, quello neozelandese il 13 per cento.
Il movimento di
rivalutazione dello yen è da sempre associato a fasi di mercato di
accresciuta avversione al rischio, ma la sua magnitudine nel
contesto attuale è destinata ad abbattersi con particolare violenza
sulle esportazioni del paese, che stavano già scontando il
rallentamento globale.
Il caso dell’apprezzamento
del dollaro è in parte diverso, e segnala drammaticamente l’arrivo
della crisi nei paesi emergenti. Facciamo un passo indietro di un
decennio: dalla crisi del 1997-1998 è uscito un ordine valutario
mondiale basato sul peg al dollaro statunitense da parte di molte
divise di paesi asiatici. E’ quello che, impropriamente, è stato
definito sistema di Bretton Woods II. Il sistema prevedeva che i
paesi emergenti legassero in modo più o meno informale le proprie
valute al dollaro statunitense, ad un cambio molto competitivo.
All’epoca il dollaro era
forte, e ciò permetteva ai paesi asiatici di controllare le
pressioni inflazionistiche, beneficiare di robusti flussi di export
verso l’area del dollaro ed utilizzare il surplus commerciale così
creato per finanziare il deficit delle partite correnti
statunitensi, acquistando importi crescenti di titoli del Tesoro di
Washington. Un meccanismo perfetto di credito di fornitura,
funzionale ad alimentare i consumi statunitensi, ma che è entrato in
crisi all’inizio di quest’anno: i rincari delle materie prime
energetiche hanno creato forti surplus commerciali nei paesi
produttori; questi ultimi, tuttavia, anziché consentire un
apprezzamento delle proprie divise hanno mantenuto il peg al dollaro
ed alla debolezza dell’economia statunitense.
Da qui, tassi reali fortemente negativi e boom di consumi e credito.
In questo contesto si sono poi inserite le speculazioni di hedge
funds e istituzioni finanziarie locali, che si sono indebitate in
dollari a breve termine per comprare titoli ad alto rendimento,
anch’essi espressi nella valuta statunitense. Di fatto il dollaro,
con i suoi bassi tassi e la sua persistente debolezza era diventato
quasi come lo yen, e cioè un veicolo di carry trade.
Per alcuni mesi si è
ritenuto che i paesi emergenti potessero restare relativamente
immuni alla crisi statunitense (lo scenario di decoupling), ma la
realtà alla fine ha preso il sopravvento. La serie di garanzie
statali sul credito, nei paesi occidentali, e l’avvio del processo
di deleveraging hanno indotto e/o costretto molti investitori
istituzionali a vendere gli attivi detenuti presso le banche dei
paesi emergenti.
Queste ultime si sono trovate improvvisamente a corto di dollari per
far fronte ai rimborsi di proprie passività, ed è iniziata la corsa
alla valuta statunitense.
Quindi, mentre le banche
centrali dei paesi emergenti hanno accumulato rilevanti riserve in
dollari (grazie al peg), le istituzioni finanziarie private di quei
paesi hanno vanificato tale accumulazione, indebitandosi
pesantemente in dollari. A ciò si aggiunga che, mentre nelle scorse
settimane la Federal Reserve ha istituito linee di currency swap
illimitato con le altre banche centrali dei paesi sviluppati, nulla
del genere si è ancora verificato con gli istituti di emissione dei
paesi emergenti, che stanno quindi vivendo una replica della
sindrome islandese (il rimborso di passività che eccedono le riserve
valutarie nazionali), su scala infinitamente maggiore.
Nell’Est Europa la
situazione è simile: tassi reali negativi derivanti dal peg all’euro
hanno portato ad un boom di consumi e credito; banche, imprese e
privati si sono indebitati in euro o in altre valute forti e a basso
rendimento (in Ungheria, ad esempio, c’è stato un boom di mutui
denominati in franchi svizzeri e addirittura in yen giapponesi), ed
ora le casse nazionali si stanno drammaticamente prosciugando. La
crisi dei paesi dell’Est Europa pesa anche sul cambio euro-dollaro,
perché le banche europee sono particolarmente esposte a quest’area.
Da qui potrebbe quindi originarsi il secondo epicentro della crisi,
ed avere conseguenze molto pesanti per il sistema creditizio del
nostro continente.
Quali indicazioni trarre
dalle ramificazioni della crisi? Nelle ultime settimane abbiamo
letto ed ascoltato appelli di politici europei che invocano "una
nuova Bretton Woods". Se con questa espressione si intende esprimere
l’esigenza di nuovi accordi di cambi fissi o semifissi, è bene
ricordare che la storia degli ultimi anni ha dimostrato in modo
incontrovertibile che regimi di cambio che non riflettono i
fondamentali economici sono la ricetta sicura per disastri di vasta
portata.
Quindi, nessuna Bretton Woods con riferimento ai cambi, che
dovrebbero invece essere lasciati liberi di fluttuare. Le altre
istituzioni uscite dal meeting del luglio 1944 sono il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, l’entità delle
cifre richieste per soccorrere i paesi emergenti in crisi è
dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari, a fronte di
erogazioni medie del Fmi che storicamente sono sempre ammontate a
poche decine di miliardi. Nel frattempo, nuovi protagonisti sono
comparsi sulla scena finanziaria globale: i fondi sovrani, la Banca
Centrale Europea, lo stesso nuovo ruolo della Fed.
La concertazione mondiale per salvare l’economia richiederà quindi
la presa d’atto di ciò che è cambiato tra il 1944 ed il 2008.
Aspirare ad una regolazione finanziaria globale (per quanto lieve e
non pervasiva) è finora sempre equivalso ad un’utopia: tra poche
settimane sapremo se la gravità della crisi è destinata a
trasformarla in realtà.
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