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05
Ottobre 2008 |
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07
Ottobre 2008 |
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Mercoledì
08
Ottobre 2008 |
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CRISI MUTUI:
I GIORNI NERI DELLE BORSE A CONFRONTO /SCHEDA
06 Ottobre 2008 21:32 MILANO
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - MILANO, 6 OTT - Il crollo odierno è il peggiore
registrato dai mercati europei e mondiali in una singola
seduta dal lunedì nero del 1987, superiore in diversi casi
anche ai ribassi dell'11 settembre a seguito dell'attacco
terroristico alle torri gemelle di New York. Nella tabella
un confronto dei ribassi dei principali mercati azionari
mondiali nelle tre occasioni: Borsa 19/ott/1987 11/sett/2001
oggi
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Londra -10,80 -5,21 -7,85 Parigi -9,60 -7,39 -9,04
Francoforte -9,30 -8,49 -7,07 Milano -6,20 -7,42 -8,24
Amsterdam -12,00 -6,95 -9,14 Stoccolma -6,37 -8,59 -7,24
Tokyo (20 ottobre)-14,50 (12 set) -6,60 -4,25 San Paolo
-8,26 -9,18 (in corso) -12,3 New York -22,00% (17 set) -7,13
(in corso) -5,66 (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Come evitare gli attacchi di panico
07/10/2008 15.31
-
di MorningStar.it ______________________________________________
Sono in molti a chiedere cosa
fare dei propri investimenti in questa fase di mercato e cosa
succede a un fondo se la banca fallisce. Ecco alcune regole per
decidere con razionalità.
“Ho fondi azionari internazionali, acquistati nel 2002. Vista la
situazione internazionale non so cosa fare”. “Considerato il
momentaccio dei mercati, non è più conveniente tenere i soldi
sotto il materasso?” “Data la situazione critica dei mercati
mondiali non mi sento più sicura di niente anche perché sono tra
quelle che avevano investito nelle obbligazioni della famosa
Lehman”. Sono alcune delle numerose e-mail arrivate in redazione
in questi giorni, insieme a tante telefonate. La preoccupazione
è giustificabile, dal momento che i risparmi stanno rapidamente
perdendo di valore.
Gli investitori si trovano di fronte a due possibilità. La prima
è placare l’ansia vendendo tutto, pagando il prezzo di una
perdita, più o meno cospicua, che ci potranno volere anni per
recuperare. E’ bene ricordare che se lo strumento in portafoglio
ha perso il 20 o 30% del suo valore, non basterà che risalga
della stessa entità, ma, rispettivamente del 25 e 43%. Se
immaginiamo di comprare un titolo di Stato con un rendimento
intorno al 4%, potrebbero volerci oltre cinque anni.
La seconda possibilità è mantenere i nervi saldi e non farsi
dominare dal panico. In questo caso, si potrebbe andare incontro
a periodi ancora più neri prima di vedere una risalita. Però non
si vive nell’ansia di cogliere il momento giusto per rientrare e
soprattutto non si cade nell’errore più frequente tra gli
investitori di uscire nelle fasi di peggior ribasso e rientrare
quando i mercati sono in stato avanzato di rialzo.
Nessuno sa se i piani di aiuti governativi riusciranno ad
impedire una recessione economica globale, se gli interventi
delle autorità monetarie serviranno a ridurre la sete di
liquidità, se i mercati ripartiranno nelle prossime settimane o
impiegheranno anni a risollevarsi. Per combattere contro
l’incertezza esiste solo un’arma: operare con metodo e
razionalità.
Christine Benz, direttore della finanza personale di Morningstar
negli Stati Uniti, suggerisce innanzitutto di “avere un piano”,
ossia costruire un mix di strumenti azionari e obbligazionari (asset
allocation), coerente con la propria età, la tolleranza al
rischio e gli anni che mancano alla pensione. E’ il portafoglio
nel suo insieme che determina i risultati di lungo termine, non
i singoli prodotti che lo compongono. Se in passato si è fatta
questa pianificazione e oggi si riesce a rimanere coerenti, si
riduce l’esposizione alla turbolenza. “Le decisioni che appagano
psicologicamente sono spesso le meno redditizie”, ricorda Benz.
E’ meglio rivedere la propria asset allocation periodicamente in
modo regolare, senza farsi condizionare dallo stato delle Borse.
Un’altra via per tenere le emozioni fuori dalle decisioni di
investimento è quella di scegliere un piano di accumulo (Pac),
una formula che permette di versare ogni mese una somma per
sottoscrivere un fondo per un certo periodo di tempo. Nelle fasi
di ribasso, questa strategia consente di accumulare più quote
(perché i prezzi sono bassi) e viceversa in quelle di rialzo,
annullando così i picchi delle Borse.
Spesso l’ansia non deriva solo dalle notizie di mercato, ma
anche dalla scarsa conoscenza degli strumenti di investimento e
dalla confusione sul loro funzionamento. Molti si domandano: “Se
la banca va in default, fallisce anche il mio fondo?”. In
realtà, il patrimonio di quest’ultimo (come quello degli Etf e
dei fondi pensione) è separato da quello della società che lo
gestisce e dell’eventuale gruppo bancario di riferimento, per
cui non viene intaccato. Esso, infatti, è custodito presso la
banca depositaria e resta di proprietà collettiva dei
sottoscrittori. Se il fondo viene liquidato, il capitale sarà
restituito al risparmiatore al valore di mercato.
Fonte
- MorningStar.it
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ARMAGEDDON NEWS: IL CROLLO E'
APPENA A META'
08 Ottobre 2008 17:43 NEW YORK
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di WSI ______________________________________________
Il bagno di sangue non e' finito qui, anzi il crolo di borsa
e' a meta' del tragitto, dice John Bogle, il fondatore di
Vanguard Group, una delle maggiori societa' di gestione di
fondi di investimento americani. Ma gli investitori che non
ce la fanno, psicologicamente e finanziariamente, dovrebbero
mettersi in cash oggi.
"Sfortutamente, penso che il timing sia pessimo, ma se non
potete permettervi di perdere un altro penny, allora dovete
uscire dal mercato", ha detto Bogle in un'intervista al
programma Squawk Box di CNBC Usa.
Secondo il mitico fondatore del gruppo Vanguard, se gli
investitori fossero rimasti ancorati ad un formula di
investimento legata alla propria pensione, nella quale la
percentuale investita in bond equivale alla propria eta',
allora gli investitori avrebbero potuto evitato gran parte
della sofferenza di queste settimane.
"Quel tipo di conti sono colpiti appena di striscio da
questo crollo del mercato" ha detto Bogle. "Forse il calo e'
del 3-4%, invece del 30%. Per cui se chi investe ha fatto un
buon lavoro nell'allocazione e diversificazione dei propri
investimenti, non dovrebbe trovarsi in quella situazione".
"Bisogna calcolare non solo le probabilita' di cio' che ci
aspetta in futuro - e penso che siamo a meta' del calo nel
mercato azionario - ma anche che guardando ai prossimi mesi
potremo vedere finalmente qualche segno di miglioramento".
"Ma qui si parla di probabilita' - ha detto Bogle - e io non
sono un esperto come non lo e' nessuno sull'esattezza delle
probabilita'. Probabilmente le chance sono due su tre, che
questo possa essere lo scenario".
"Questo e' il mercato piu' speculativo della storia della
finanza americana - ha concluso il fondatore del gruppo
Vanguard - gli speculatori stanno scommettendo che le cose
continueranno a peggiorare".
Fonte
- WallStreetItalia.com
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Serve uno shock brutale, così potremo ripartire
09 Ottobre 2008 04:54 ROMA - di Anais Ginori
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«La recessione è
inevitabile, anzi è auspicabile». Senza temere l´impopolarità,
Charles Morris vede in una brusca contrazione dell´economia
americana l´unica soluzione alla crisi dei mercati finanziari. Il
ruolo di Cassandra si addice a questo finanziere pentito che da anni
si dedica a denunciare i pericoli di «un sistema fondato su bilanci
fittizi, derivati sempre più astratti e nessuna valutazione del
rischio», ricorda parlando al telefono da New York. Dopo aver
guidato per anni una società che offriva software finanziari alle
banche, Morris si è convinto che il tracollo era imminente. Il suo
saggio-inchiesta pubblicato a primavera negli Usa ("Crac!" ora in
uscita in Italia per Elliott edizioni) è stato un bestseller.
«Profetico» come ha scritto l´Economist.
Il titolo originale è "Trilion Dollar": lei quantificava in un
trilione di dollari il costo del grande crac. La cifra
effettivamente è questa? «Era una stima al ribasso perché nessuno è
in grado di sapere quanto pesano swap, prodotti derivati e di credit
default. Ormai sembra appurato che il tracollo ha già bruciato 2
trilioni di dollari. I cosiddetti "credit default swaps", il
derivato creditizio più utilizzato, hanno innescato una caduta
vertiginosa. Per colpa loro, l´interconnessione tra banche è
diventata più stretta e implacabile».>P> Il Piano Paulson basterà?
«Assolutamente no. Le cause
del collasso rimangono intatte. Dal 2000, l´America ha speso più del
5% del suo Pil, basandosi sull´aspettativa di crescita del mercato
immobiliare. Tra il 2000 e il 2007, l´incremento dei prezzi delle
case ha rappresentato circa il 6% del reddito degli americani. Oggi
che il mercato immobiliare è crollato, gli americani sono indebitati
fin sopra la testa. L´unica via d´uscita è tagliare drasticamente i
consumi».
L´abbassamento dei tassi può essere una misura efficace?
«L´Amministrazione Bush sembra determinata a fare tutto il possibile
per impedire la recessione. Se continuerà, rischiamo di avere una
lunga stagnazione, come in Giappone. E questa è senza dubbio la
soluzione peggiore. Gli
eccessi di spesa sono stati così sproporzionati rispetto alla
ricchezza del paese che il solo modo di ritrovare un equilibrio è
passare attraverso una recessione. Il prezzo dei beni mobili e
immobili deve tornare al valore reale. E prima accadrà, meglio sarà
per l´America e per il mondo».
L´Europa è nella stessa situazione?
«Le banche europee sono
esposte almeno quanto quelle americane: in parte perché hanno
acquistato i derivati da noi, in parte perché hanno imparato a
crearseli. Ma i consumatori europei sono in una situazione migliore
degli americani, per questo mi aspetto nel vostro continente un
trend meno profondo e spietato che in America».
Ci sono dei vincitori in questa crisi?
«E´ ancora presto per dirlo. Certamente gli investitori che hanno
scommesso contro il trend prima che la crisi scoppiasse hanno
guadagnato parecchio, così come i "vulture funds", i fondi-avvoltoio
specializzati nel ricomprare società fallite o in bancarotta».
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Fonte
- La
Repubblica |
Hedge Funds: strumenti di distruzione di massa
12 Ottobre 2008 22:22 LUGANO
- di
Corriere del Ticino
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Sono gli hedge che hanno
smobilizzato tutto, per far fronte ai riscatti. E' l’ultimo tassello
del processo di implosione del sistema finanziario. Si rischia di
sfociare in una spirale deflazionistica. E in recessione.
Ora l’obiettivo prioritario
deve essere evitare una nuova Grande Depressione. Infatti i ripetuti
interventi di governi e banche centrali non stanno riuscendo nemmeno
ad arginare l’incendio che sta bruciando il sistema bancario né ad
impedire che le fiamme avvolgano anche l’economia reale, che non sta
rallentando, ma letteralmente bloccandosi.
Il crollo delle borse degli ultimi giorni è solo l’ultimo tassello
del processo di implosione del sistema finanziario e della presa
d’atto che l’economia globale sta cadendo in una recessione
profonda, che rischia di sfociare in una spirale deflazionistica e
in una depressione.
L’epicentro della crisi – è bene ripetere – risiede nel mercato
interbancario, in quello monetario e in quello dei capitali, che
sono di fatto chiusi. Uno dei mercati in cui vi è ancora un po’ di
liquidità è quello azionario. La caduta delle borse di questi giorni
è dovuta a due fattori.
Inanzitutto, fondi di investimento e soprattutto Hedge Funds, che
stanno accusando pesanti perdite e si trovano a dover far fronte ad
un’impennata di richieste di riscatto da parte degli investitori,
che si stanno finalmente accorgendo in quali perversi strumenti di
distruzione di ricchezza e dell’intera economia si sono infilati,
stanno liberandosi di tutto ciò che è ancora possibile vendere per
fare cassa.
Tra queste attività primeggiano le azioni. I titoli più penalizzati
sono infatti quelli definiti difensivi (alimentare, farmaceutico,
utlities, ecc.), meno sensibili all’andamento congiunturale, e
quelli a maggiore capitalizzazione, meno colpiti dalla chiusura
delle vie di rifinanziamento. Gli altri titoli in forte ribasso sono
quelli ciclici (auto, distribuzione, ecc.), a conferma che la borsa
ritiene che l’economia stia cadendo in una severa recessione.
La borsa sta agendo come un
notaio che prende atto della drammaticità della situazione
esasperata dagli scarsi risultati finora ottenuti dai continui
interventi di governi e banche centrali.
Ora l’obiettivo non può più essere limitato al salvataggio del
sistema bancario: occorre impedire che l’incendio della carta
straccia prodotta dalla finanza non bruci anche l’economia reale,
ossia che non si traduca in una catena di fallimenti di imprese e
quindi in una drammatica distruzione di posti di lavoro. In altre
parole, bisogna evitare che la recessione già iniziata sia negli
Stati Uniti sia nella maggior parte dei paesi europei sfoci in una
spirale deflazionistica e in una nuova Grande Depressione.
I meccanismi che portano a
questo sbocco sono già in azione. L’attuale forte contrazione del
credito concesso a famiglie e imprese sta producendo, da una parte,
una forte diminuzione dei consumi (si veda, ad esempio, il crollo
delle vendite di automobili negli Stati Uniti e in alcuni paesi
europei) e dall’altra la riduzione della produzione e la
cancellazione dei piani di investimento da parte delle imprese.
Il conseguente aumento della disoccupazione e la distruzione di
ricchezza prodotta dal calo dei prezzi delle case e
dall’evaporazione di miliardi e miliardi nell’incendio dei mercati
finanziari non fanno che accelerare questo processo.
Occorre pertanto risolvere
rapidamente due problemi: la contrazione dei consumi e degli
investimenti e la difficoltà di accesso al credito di famiglie e
imprese. Nel primo caso le banche centrali dovrebbero ridurre
drasticamente il costo del denaro, facendolo scendere poco al di
sopra dello zero, e i governi dovrebbero immediatamente varare
grandi pacchetti di rilancio economico basati su investimenti
pubblici e non tanto sul taglio delle tasse (che in questa
situazione di panico si tradurebbe più in un aumento del risparmio
che in un aumento dei consumi).
Ciò non basta. Occorre in
qualche modo riaprire il mercato del credito. Gli scarsi risultati
degli interventi susseguitisi nelle ultime settimane dimostrano che
questo è il problema più difficile da risolvere. In tale ottica non
bisognerebbe nemmeno escludere la trasformazione delle banche
centrali in banche commerciali, come già sta facendo la Federal
Reserve, che non solo fornisce liquidità alle banche, ma sostiene
quello che resta del mercato monetario e ora sta anche finanziando a
breve termine le imprese americane, cercando in tal modo di tenere
aperto il mercato dei commercial papers.
Purtroppo banche centrali e
governo sembrano ancora lontani dal prendere in considerazione
iniziative del genere: infatti continuano ad impegnare moltissime
risorse pubbliche per salvare le case (ossia le banche e il sistema
finanziario) e a non prestare attenzione agli inquilini (famiglie ed
imprese).
Salvare le case sembra essere l’unico obiettivo del segretario al
Tesoro Henry Paulson, che ha ufficialmente dichiarato che il governo
sta studiando seriamente l’ipotesi di una ricapitalizzazione del
sistema bancario americano da parte dello Stato federale. L’ex
numero uno della Goldman Sachs ammette così implicitamente che il
maxipiano è già fallito e che è meglio investire i 700 miliardi
dollari nella nazionalizzazione delle banche.
In pratica l’amministrazione Bush sta cominciando a pensare di
copiare il piano del governo britannico, che si ripromette di usare
i fondi pubblici per ricapitalizzare le maggiori banche inglesi.
Questa virata dimostra che a guidare i pompieri del mondo non vi è
solo l’uomo che ha diretto la maggiore banca di investimento, ossia
uno dei maggiori responsabili dell’attuale marasma, ma anche che la
strategia di Paulson è confusa e pericolosa.
La precedente decisione di lasciar fallire la Lehman Brothers ha del
resto fatto precipitare la crisi ed era stata quindi un segnale
premonitore. Anche per questi motivi è più che giustificata la paura
che questa crisi si trasformi in un dramma che potrebbe condizionare
la nostra vita e quella dei nostri figli per parecchi anni.
.gif) |
Fonte
- Corriere del Ticino |
Come si dice
piano paulson in Svizzera?
12 Ottobre 2008 01:20
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di Macromonitor ______________________________________________
La Confederazione svizzera ha raggiunto un accordo con UBS,
la banca europea che ha finora subito le maggiori perdite
dalla crisi dei mutui. In base all’accordo UBS emetterà
obbligazioni convertibili (mandatory convertible) per 6
miliardi di franchi, interamente sottoscritte dalla
Confederazione, e conferirà fino a 60 miliardi di dollari di
attivi rischiosi ad un fondo sostenuto dalla Banca Nazionale
Svizzera. Il governo svizzero, inoltre, procederà ad
aumentare la garanzia sui depositi ed a sostenere i prestiti
interbancari delle banche del paese. Le misure adottate
determinano il riallineamento della Svizzera alle iniziative
adottate dall’Eurogruppo lo scorso fine settimana.
Tecnicamente, UBS venderà 6 miliardi di franchi di mandatory
convertible notes al governo svizzero. Dopo la conversione
obbligatoria Berna avrà il 9,3 per cento della banca. La
Banca Nazionale Svizzera, poi, presterà 54 miliardi di
dollari per finanziare il fondo di attivi tossici,
ricevendone in cambio un interesse e la compartecipazione ad
eventuali utili.
Da inizio 2007 UBS ha contabilizzato 44,2 miliardi di
dollari di perdite e svalutazioni su crediti relative a
cartolarizzazioni di mutui, ed ha raccolto circa 27 miliardi
di dollari in aumenti di capitale. L’operazione servirà alle
banche per far fronte alle più strette regole sul capitale
di vigilanza che la Confederazione sta per introdurre. UBS
conferirà al fondo circa 31 miliardi di dollari di attivi
statunitensi, inclusi subprime ed Alt-A, ed altri 18
miliardi di dollari di titoli di debito non statunitensi, e
resterà praticamente priva di rischi legati a subprime,
Alt-A, cartolarizzazioni su mutui residenziali e
commerciali. La banca resterà con circa 4,3 miliardi di
dollari di rischi legati alle assicurazioni monoline, e 4,7
miliardi impegnati in leveraged buyout. Il trasferimento
degli attivi tossici al fondo pubblico determinerà
l’emersione di un’ulteriore minusvalenza di 4 miliardi di
franchi. A conferma del fatto che la Banca Nazionale
Svizzera non è un organismo di beneficenza, basti pensare
che UBS, dopo aver sottoscritto il capitale del fondo con 6
miliardi di dollari, cederà la partecipazione alla banca
centrale svizzera per 1 dollaro, ed avrà l’opzione di
riacquistarla (ma solo quando il prestito sarà stato
rimborsato) per 1 miliardo di dollari oltre a metà del
valore della partecipazione che eccede il miliardo di
dollari. Di fatto, UBS assorbirà eventuali ulteriori perdite
sul portafoglio crediti fino al dieci per cento del loro
valore di cessione. Very smart.
“L’operazione ridurrà significativamente l’incertezza per
azionisti e clienti di UBS e contribuirà alla stabilità del
sistema finanziario assicurando l’ordinata vendita di questi
attivi”. Almeno secondo il comunicato stampa, s’intende. In
realtà si tratta dell’opzione minima per evitare
l’avvitamento di UBS. La Banca Nazionale Svizzera ritiene
che il prezzo di trasferimento di tali attivi sia tale da
limitare il rischio di ulteriori perdite. La banca centrale
finanzierà la posizione in dollari attraverso una linea di
swap con la Fed. Interessante notare che l’operazione,
proprio perché in dollari, non avrà impatto sugli aggregati
monetari svizzeri.
E’ in atto quello che ci aspettavamo: una gigantesca
operazione di riduzione della leva finanziaria, nota anche
come deflazione del debito. Secondo uno studio di JPMorgan,
le prime 29 banche europee hanno oggi un rapporto tra
patrimonio netto ed attivi del 3,75 per cento. Per portare
il quoziente ad un più accettabile (ma certo non elevato)
4,5 per cento, occorre che le banche si liberino di 5800
miliardi di euro di attività.
Nessun piano Paulson sul pianeta può arrivare a tanto. Forse
conviene allacciare le cinture di sicurezza.
Fonte
-
Macromonitor |
Crisi: McCreevy, limiteremo il
rischio dei mercati derivati
17 Ottobre 2008 14:58 BRUXELLES
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - BRUXELLES, 17 OTT - La Commissione Ue intende
proporre entro l'anno nuove regole per limitare i rischi
legati al mercato dei derivati.I derivati sono basati sul
valore di altre azioni. Si tratta di un mercato il cui
valore ammonta a circa 600 trilioni di dollari. ''Entro la
fine dell'anno ci saranno delle proposte concrete su come i
rischi riguardanti i crediti derivati possono essere
mitigati'', ha detto il commissario Ue al mercato interno,
Charlie McCreevy.
Fonte
- ANSA
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BORSA: WARREN BUFFETT, E' ORA DI
COMPRARE AZIONI AMERICANE
17 Ottobre 2008 15:37 ROMA
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 17 OTT - Warren Buffett va ancora una volta
controcorrente e nel bel mezzo della tormenta che continua
ad abbattersi sui mercati azionari mondiali, Borsa di New
York compresa, consiglia adesso di comprare titoli azionari
della Corporate America. Il 'guru' della finanza
statunitense ha espresso questa convinzione al New York
Times e fa presente che é pronto ad investire le sue risorse
personali (distinte dalla partecipazione che detiene in
Berkshire Hathaway, il suo braccio finanziario) in azioni
statunitensi, se i prezzi continueranno ad essere attraenti.
Buffett ha enunciato il principio in base al quale "occorre
avere paura quando tutti sono troppo ottimisti, mentre
bisogna essere ottimisti quanto gli altri hanno paura".
Secondo Buffett, è "folle" nutrire preoccupazioni esagerate
circa le prospettive di molte società statunitensi; molte
aziende probabilmente cominceranno a riportare utili-record
negli anni a venire. Il 'guru' della finanza - che ha
superato di recente Bill Gates nella classifica degli uomini
più ricchi d' America - ha detto ancora che mentre non è
possibile prevedere i movimenti della Borsa sul breve
periodo, con ogni probabilità il mercato azionario in ogni
caso si riprenderà prima ancora che lo facciano l' economia
reale o la fiducia degli investitori. "Se si aspettano i
pettirossi - ha sottolineato - il rischio é che la primavera
sia già finita". Le cattive notizie - ha concluso - sono il
miglior amico di uno che voglia investire, in quanto gli
consentono di comprare "un pezzo del futuro dell' America ad
un prezzo di sconto". (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Domenica 12
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Martedì 14
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Borsa, l'illusione di aver toccato il fondo
18 Ottobre 2008 16:12 MILANO
- di Walter Riolfi
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Giovedì, quando Wall Street
perdeva oltre il 4%, Warren Buffett stava comprando azioni. Ma nel
tardo pomeriggio, quando l'S&P era tornato in pareggio e si avviava
a chiudere in rialzo, l'oracolo di Omaha aveva già rinunciato ad
acquistare. Perché mai, si sono domandati gli operatori, Buffett
s'era fermato, se ha una visione di lungo periodo per i suoi
investimenti? S'è saputo solo che l'"oracolo" non stava comprando
per Berkshire, quanto per sè stesso e, forse, più che i panni
dell'investitore, aveva assunto quelli del trader.
L'aneddoto non è così
insignificante sapendo quanta attenzione ripongono i piccoli e
grandi investitori sulle operazioni di Buffett. Insomma, si tratta
di capire se questo è il momento giusto per entrare in Borsa o è
meglio pazientare ancora. In altre parole: hanno gli indici toccato
il fondo venerdì 10 ottobre, dopo aver perso il 43% l'S&P e il 49%
lo Stoxx dai massimi dello scorso anno?
Qualcosa è cambiato
In settimana i mercati sono risaliti, ma grazie al rimbalzo dei
primi due giorni originato dagli acquisti di chi aveva chiuso le
posizioni al ribasso. Mercoledì e giovedì sono ritornati a scendere
ed è difficile capire quanto abbia pesato la crisi del credito e
quanto la consapevolezza della recessione. In ogni caso qualcosa di
profondamente diverso è avvenuto: perché con i piani di intervento
orchestrati dai principali Paesi per salvare le banche e assicurare
loro la necessaria liquidità, la crisi del credito ha cambiato
faccia.
È finita in secondo piano la
paura di un crollo del sistema finanziario, ma sono riemerse le
conseguenze di una bolla del credito che si sgonfia per la forzata
restituzione dei debiti. Allo stesso tempo, smorzatasi la paura di
una catastrofe come dopo il 1929, si è ritornati a considerare con
maggiore razionalità le conseguenze di una recessione che, più che
inevitabile, appare certa e presente.
Sul mercato del credito le cose sembrano migliorare, ma assai
lentamente. Se è mutata la psicologia degli operatori, resta la
tensione sui tassi d'interesse, come dimostra l'Euribor (a tre mesi)
sceso dal 5,38% al 5,02% di ieri e il Libor Usa limato di 40 punti
al 4,42%: in ogni caso restando entrambi ben più elevati dei tassi
ufficiali della Bce e della Fed. Sono calati anche i tassi delle
commercial paper e s'è notato un piccolo risveglio nell'emissione
dei bond societari. Se davvero non si può dire che funzioni il
mercato interbancario, c'è tuttavia l'attenuante che le banche
riescono ad approvigionarsi di denaro a breve grazie alla
disponibilità degli istituti centrali.
Vendite forzate
Le nuove conseguenze della
crisi sono invece evidenti nei flussi di vendite, in gran parte
forzati. È la conseguenza del debito che si sgonfia a ritmi sempre
più rapidi. E siccome le banche devono ridurre il proprio e ridurre
i rischi, pretendono adesso la restituzione dei prestiti concessi
agli investitori: in particolare agli hedge fund, già gravati dalla
pressione dei riscatti e costretti parecchi a chiudere i battenti.
E siccome le azioni e le materie prime sono le poche attività
rimaste liquide, le vendite s'abbattono impietose sulle Borse e sui
future delle commodity.
Se si considera che il
sistema degli hedge fund gestisce un patrimonio di circa 2mila
miliardi di dollari e che nelle stime di molti investitori ci
ritroveremo con il 25-30% di hedge fund in meno fra un anno, si
intuisce come questo flusso di vendite sia destinato a durare.
Basta guardare al rapido sgonfiarsi dei prezzi delle materie prime
per immaginare che questo processo non dipende solo dalle peggiorate
condizioni economiche mondiali. Le quotazioni del petrolio sono più
che dimezzate rispetto a giugno, quelle del rame sono calate del
46%. E il costo dei noli marittimi è sceso dell'88%, a livelli che
non si vedevano dalla recessione del 2001-02.
Siamo in recessione
È la recessione si dirà. Non
c'è dubbio. E il peggio non s'è ancora visto a giudicare dai dati
macroeconomici americani comunicati in settimana, quasi tutti
disastrosi. Cosicchè gli economisti non hanno dubbi nel sostenere
che gli Stati Uniti e l'Europa sono entrati in recessione in questo
trimestre e buona parte sostiene addirittura nel terzo trimestre.
Ma questo ritornare dei mercati all'economia reale ha qualcosa di
positivo, poiché le analisi e le previsioni ricominciano ad essere
più razionali e più attendibili: quando quelle sulla crisi del
credito erano spesso inaffidabili e suscettibili agli eccessi della
paura. Certo, se si guarda al passato, l'inizio di una recessione
coincide spesso con un minimo delle Borse. E se si dovesse ricalcare
acriticamente i grafici storici, si sarebbe tentati di acquistare
fin da ora. Ecco perché interessa tanto spiare le mosse di Warren
Buffett.
Ma non è detto che l'oracolo
possa avere sempre ragione. Lui stesso ha dichiarato ieri che è
«duro» indovinare i tempi di un mercato. Ma ha anche lasciato
intendere che i fondamentali dell'economia sono probabilmente
migliori di quanto pensi la gente. Ma nessuna crisi è davvero uguale
alle altre e l'intensità e la durata di questa recessione, la prima
vera nell'era della globalizzazione, dipenderanno molto da quello
che succederà nei Paesi emergenti e dalla condizioni nel mondo
credito, squassato da eventi paragonabili solo a quelli degli anni
30.
In settimana l'S&P ha guadagnato il 4,92%, il Nasdaq il 3,85% e lo
Stoxx il 4,5% (+4,8% Parigi, +5,2% Francoforte, +3,3% Londra, +6,6%
Milano). Ma i mercati emergenti hanno perso il 3%.
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Fonte
- Il Sole 24Ore |
Il mercato ha sempre ragione. Forse
Tuesday, 21 October,
2008 at 10:30 -
di
Phastidio ______________________________________________
Uno degli indicatori maggiormente seguiti dalle banche
centrali nella determinazione delle attese inflazionistiche
di lungo periodo è il cosiddetto breakeven inflation rate,
cioè il tasso d’inflazione implicito che si ottiene
sottraendo dal rendimento nominale di un titolo di stato il
rendimento reale implicito in un titolo governativo di pari
scadenza indicizzato all’inflazione. Nelle ultime settimane,
in parallelo all’aggravarsi della crisi finanziaria, si è
assistito ad un forte ribasso nei prezzi dei titoli di stato
inflation-linked. Ciò ha determinato un abbattimento
dell’inflazione di breakeven, ed un parallelo aumento dei
tassi d’interesse reali. Da cosa potrebbe derivare questo
movimento?
La riduzione nel tasso d’inflazione implicito in questi
strumenti potrebbe trovare giustificazione nel marcato
rallentamento congiunturale atteso per i prossimi mesi. Ma
un ambiente recessivo non giustifica un tasso d’interesse
reale che, ad esempio, sul BTP scadenza 2014 è del 2,8 per
cento, mentre alla fine di febbraio era solo dell’1,6 per
cento.
Una spiegazione legata a flussi di mercato anziché ai
fondamentali economici ipotizza che questi titoli siano
stati brutalmente scaricati da investitori istituzionali,
come gli hedge funds, in queste settimane alle prese con
imponenti richieste di riscatto e con le chiamate-margine
causate da andamenti di mercato avversi alle strategie da
essi perseguite. Si tratterebbe, quindi, di vere e proprie
fire-sales.
Possiamo quindi considerare un “affare” acquistare ai prezzi
odierni un titolo di stato indicizzato all’inflazione? Pur
premettendo che non sappiamo ancora quanto durerà la fase di
dumping da parte degli hedge funds e degli altri investitori
a leva, e pur dovendo fare i conti con un rischio-deflazione
che potrebbe materializzarsi nei prossimi mesi (quando
saranno visibili gli effetti della stretta creditizia oggi
in atto), occorre ammettere che un tasso d’inflazione
implicito dell’1,3 per cento sul BTP 2014 appare
sufficientemente protettivo.
Qualcosa su cui riflettere anche per le banche centrali, ad
evitare di trarre eccessive inferenze da prezzi di attività
finanziarie che il mercato sta fortemente sacrificando per
motivi non direttamente legati alla congiuntura economica.
Fonte
- Macromonitor
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DERIVATI, UNA BOMBA DA 700 TRILIONI
DI DOLLARI
22 Ottobre 2008 00:02 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Mario Draghi ha dato l'allarme, seguendo dopo 5 anni il
warning di Warren Buffett: i derivati (sul credito, sulle
valute e sui tassi d'interesse) sono arrivati a numeri da
far paura. E i rischi sono senza precedenti.
Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha dato
l'allarme, ieri, con un ritardo di ben 5 anni e mezzo
rispetto al warning di Warren Buffett: i derivati (sul
credito, sulle valute, sui tassi d'interesse e su
quant'altro) sono diventati un pericolo troppo serio per i
mercati finanziari perche' non siano d'ora in poi sottoposti
a controlli. "Se adoperati senza adeguata considerazione dei
rischi consentono una moltiplicazione senza controllo della
leva finanziaria" ha detto Draghi. Warren Buffett, l'uomo
piu' ricco del mondo, in tempi non sospetti, il 4 marzo
2003, defini' i derivati "un'arma di distruzione di massa
che pone rischi mega-catastrofici per i mercati finanziari"
(leggere l'articolo [Buffett warns on investment 'time bomb']).
Diamo i dettagli e le cifre ufficiali aggiornate sul mercato
dei derivati esclusivamente agli abbonati a Insider, che
possono leggerli cliccando su Insider. Non si parla di
miliardi, ma di trilioni, per l'esattezza circa $700
trilioni di derivati relativi a strumenti di credito (gli
ormai famosi Credit Default Swaps, o CDS), valute, tassi e
ad altri strumenti finanziari. Un ammontare difficile da
scrivere in cifre perche' ha troppi zeri. Una montagna di
denaro a rischio, che fa paura.
Fonte
-
WallStreetItalia
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ROUBINI: PANICO E FALLIMENTI HEDGE
FUNDS ALERT CHIUSURA MERCATI
23 Ottobre 2008 15:51 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Allarme dall'economista Nouriel Roubini. Centinaia di fondi
falliranno e i governi saranno costretti a chiudere i
mercati per almeno una settimana. Gli operatori fuggiranno
da qualsiasi...
Centinaia di fondi hedge falliranno e i governi saranno
costretti a chiudere i mercati per almeno una settimana a
causa della crisi finanziaria che spingera’ gli operatori a
stare lontani da qualsiasi forma d’investimento. Ad
affermarlo e’ l’economista Nouriel Roubini, professore alla
New York University.
"Abbiamo raggiunto una situazione di puro panico" ha
affermato Roubini, che aveva previsto correttamente la crisi
finanziaria 2006, durante una conferenza a Londra. "Ci sara’
una massiccia fuga dagli investimenti, salteranno centinia
di hedge funds".
Nelle scorse settimane si e’ assistito ad un taglio
coordinato dei tassi d’interesse da parte dei governi a
livello globale, sono stati varati piani di salvataggio
sulle banche nel tentativo di contenere l’impatto della
crisi. "Il rischio sistemico sta divenendo sempre piu’
grande. Non stupitevi se i governi decideranno di chiudere i
mercati per una o due settimane nei prossimi giorni" ha
continuato Roubini.
Roubini ha sottolineato, secondo quanto riferisce Bloomberg,
che la situazione sta peggiorando sopratutto per i mercati
emergenti. "Ci sono una dozzina di mercati emergenti che si
trovano in guai finanziari molto severi", ha precisato
Roubini, sottolineando che "anche un Paese piccolo può avere
un effetto sistemico sull' economia globale". Proprio oggi i
tassi interbancari nei Paesi emergenti sono saliti ai
massimi da sei anni per via del fatto che la Bielorussia si
è aggiunta all' Ungheria, all' Ucraina ed al Pakistan nel
chiedere aiuti al FMI.
Fonte
-
WallStreetItalia
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Domenica 19
Ottobre 2008 |
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Martedì 21
Ottobre 2008 |
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Venerdì 23
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Crisi: il mondo crolla ma il "value" compra
23 Ottobre 2008 00:35 MILANO
- di Elena Bonanni
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La recessione è dietro
l’angolo. E sui listini è corsa a scaricare titoli: il timore è che
il crollo degli utili possa essere più grave del previsto. Ma non
solo: è pieno di vendite forzate prodotte dai riscatti. E così c’è
chi va controcorrente: apre il portafoglio e compra. La
storia dei mercati dice infatti che è nei momenti più bui che si
creano le opportunità migliori. Lo sanno bene i 31mila azionisti di
Berkshire Hathaway che ogni anno affollano l’arena di basketball di
Omaha per l’assemblea della società del guru Warren Buffett. E lo
sanno bene anche i fondi sovrani. L’ultima mossa? La Banca centrale
di Libia è salita al 4,2% di Unicredit ed è pronta a mettere
un’altra fiches da 500 milioni. E il discorso vale anche per chi è
molto liquido, come Francesco Gaetano Caltagirone, che nelle ultime
settimane ha acquistato titoli Generali per circa 19 milioni di
euro.
LARGE CAP. E i money manager
che fanno? Secondo quanto emerge da un sondaggio di Borsa&Finanza,
diversi hanno riaperto la borsa. Come Valerio Salvati, responsabile
europeo fondi di fondi di Jp Morgan Am, dopo essere rimasto
sottopesato per diversi mesi. «Nell’ultima settimana - afferma -
siamo tornati a comprare, in particolare large cap Usa, area su cui
ora sono sovrappesato. Ma in settori non ciclici come i
consumer staple, eccetto gli alimentari, oppure in società
farmaceutiche medio-piccole». Un approccio che, comunque, si
mantiene prudente evitando i titoli più sensibili alla congiuntura.
Salvo guardare anche ai finanziari quando si tratta di situazioni
meno incerte e a realtà con vaste reti commerciali. Salvati è
tornato a riaccumulare qualcosa anche in Europa e sui mercati
emergenti. Per il momento
niente Cina, però. «Non siamo ancora convinti - afferma - Le
valutazioni erano arrivate alle stelle e il momento negativo
potrebbe continuare». Anche perché, afferma categorico, «la logica
del decoupling non esiste, sostanzialmente non è mai esistita».
Certo, l’area asiatica ha il vantaggio di essere la prima
beneficiaria di un calo del petrolio che è un forte elemento di
allentamento delle pressioni sui consumi. «Ma allora - dice -
preferiamo Hong Kong e Singapore. Qui però l’approccio deve essere
fatto nome per nome».
GRANDE SELETTIVITÀ. Insomma,
tranne alcune indicazioni di massima, la regola è: stock picking e
ancora stock picking. Come fa anche Carlo Gentili, fondatore di
Nextam Partners, che sta sfruttando i ribassi per tornare a
investire su quelle storie che da tempo giudica interessanti:
«Singole società che conosco e che mi piacciono, dove le quotazioni
permettono di entrare a prezzi convenienti», dichiara. Da Enel,
comprata in settimana a 5,01 euro, alle banche italiane, al pharma
inglese Shire. «La selezione dei titoli - afferma - deve essere
mirata: oggi è importante vedere se hanno debito, obbligazioni in
scadenza o necessità di funding a breve». Perché, si sa, nel lungo
periodo ci sono vincitori e vinti.
Non è un caso che tanto i
fondi comuni quanto i singoli investitori seguano con religiosa
meticolosità le scelte di Warren Buffett. L’obiettivo è replicare il
successo: uno studio calcola che aver usato questa strategia per 31
anni avrebbe voluto dire avere un il 25% di ritorno annuale.
D’altra parte Buffett, famoso per scovare società sottovalutate con
vantaggi duraturi sui concorrenti, ha aperto il portafoglio anche
nella bufera delle ultime settimane, comprando Goldman Sachs e Ge.
«È in un contesto come questo che un abile processo di stock picking
può dare buoni frutti - commenta Giles Worthington, gestore del
fondo M&G Paneuropean Fund - Le opportunità saranno offerte da una
volatilità che continuerà a rimanere alta e da prezzi azionari che
oscilleranno significativamente».
Di fronte a crolli del 10% la selettività può però essere
accantonata, anche se solo per un momento. «Nella fase di crolli
così pronunciati la selettività è meno importante e si cerca di
comprare in maniera allargata», afferma Giordano Martinelli,
responsabile investimenti azionari di Anima, che sta accumulando con
calma, senza euforia, ma con disarmante sistematicità su tutti i
fondi. «Questa - dice - diventa più importante nelle fasi successive
al rimbalzo».
STRATEGIA BOTTOM UP. Non
solo. Martinelli segue un approccio bottom up comprando quello che
gli piace in giro per il mondo, senza vincoli settoriali o
geografici. Criterio di scelta? Scovare situazioni controverse.
«Vale la pena di comprare dove ci sono problemi - afferma - se il
prezzo sconta la presenza di storie più interessanti rispetto a
quelle dove i nodi sono già stati risolti».
Non sorprendetevi, quindi, se afferma che è proprio in questi
momenti come questi che si trova a suo agio. «È un modello di lavoro
che funziona meglio nei periodi di crisi - afferma - È più difficile
trovare opportunità differenziali dopo che il mercato è salito per
diversi anni».
Attenzione, però, ci tiene a ribadire, l’ottica di un portafoglio
totalmente azionario è di almeno dieci anni. Poi, al contrario di
quanto si potrebbe pensare, dal sondaggio emerge che i titoli
finanziari sono ora ben comprati dai gestori value. «Nel fondo che
gestisco, il New Star European Value Fund - afferma Nick Sheridan
della società inglese indipendente New Star - non ci sono settori o
Paesi preferiti ma la scelta avviene sui singoli titoli. In questo
momento sto comprando proprio i finanziari, Bnp e Ubs». Al riguardo,
il gestore Worthington sottolinea con lucidità che «le banche
continueranno a registrare perdite legate al credito che ridurranno
la loro capacità di generare profitti», ma non rinuncia a
individuare alcune storie come Turkiye Vakiflar, Credit Suisse,
Vienna Insurance e April.
È chiaro, però, non tutti amano le sfide.
Così dal sondaggio emerge
che chi nei mesi passati si è orientato su settori prudenti ha
continuato sulla stessa strada, sfruttando i ribassi per continuare
a comprare i titoli che avevano accumulato in precedenza. È il caso
di Patrick Moonen, senior strategist di Ing, che ha continuato a
investire in healthcare, settore giudicato economico rispetto ai
livelli storici e dai bilanci solidi, poi energetici, utility e
telecom. Attenzione, però, a farsi ingannare da settori
genericamente «difensivi». Lo strategist, infatti, non ha voluto
indicare i titoli scelti ma, è chiaro, anche qui è fondamentale lo
stock picking.
Martinelli, per esempio,
ritiene che commodity e petroliferi siano aree meno interessanti,
perché hanno appena iniziato a smaltire un quinquennio di
super-crescita e preferisce attendere prima di comprare. «Il settore
dell’energia - commenta anche Salvati - è una value trap: presenta
valutazioni basse su bilanci con forte crescita ma alla luce dei
dati macroeconomici le nostre valutazioni ci inducono a pensare che
rallenterà».
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Fonte
- Borsa&Finanza |
Il
24 Ottobre della Grande Depressione
24 Ottobre 2008 18:08 MILANO
- di Matteo Mediola
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Quel giorno del 1929 iniziò
la caduta del listino di Wall Street. Il Dow Jones perse l’11,73%
fino al «sell-off» che si concluse soltanto nel 1932.
«Non mi risulta ci sia nulla di negativo nei fondamentali del
mercato azionario, delle imprese e della struttura creditizia a esso
relativa». Così parlò Charles E. Mitchell, presidente della National
City Bank, martedì 22 ottobre 1929. Il giovedì successivo sul New
York Stock Exchange vennero scambiate 12,9 milioni di azioni.
L’ondata di panico tra gli
investitori non si fermò e il Dow Jones inaugurò la settimana
successiva con un calo del 12,82 per cento. Il giorno dopo, 24
ottobre 1929, l’indice perse un altro 11,73. Era il «martedì nero»
di Wall Street, devastante esplosione di una bolla speculativa che
ha trovato paragoni solo in questi mesi, con il terremoto che ha
sconvolto i listini internazionali in seguito alla crisi dei mutui
americani.
Il crac che diede il via alla Grande Depressione (se ne sia stato la
causa o il sintomo è un argomento ancora al centro di un acceso
dibattito tra gli economisti) giunse al termine di un boom
speculativo senza precedenti che vide i prezzi delle azioni crescere
apparentemente senza freni per tutta la seconda metà dei «ruggenti
Anni 20». Incoraggiati dal trend rialzista e attratti dal miraggio
di facili guadagni, migliaia di comuni cittadini iniziarono a
investire in borsa, arrivando persino a indebitarsi per poter
acquistare nuove azioni.
Nell’agosto del 1929 il
valore complessivo di prestiti e mutui era arrivato a 8,5 miliardi
di dollari, una cifra che superava l’ammontare della moneta in
circolazione negli Stati Uniti all’epoca. E per chi non aveva molta
liquidità a disposizione, c’erano sempre i «derivati», che
consentivano un investimento limitato al momento dell’acquisto con
prospettive di redditività allettanti. I tassi di interesse
arrivavano al 12%, e, con il Dow Jones che dal 1924 al 1929 aveva
quintuplicato il suo valore, nessuno riusciva a immaginare di
poterci perdere. «Persino il lustrascarpe o il ragazzo
dell’ascensore elargivano consigli sulle quotazioni delle azioni
Ford e General Motors - ricorda Paul A. Samuelson, Nobel per
l’economia nel 1970 -. Si trattava di capitalismo allo stato puro,
che praticamente agiva senza regole governative».
Intanto, il ritorno della Gran Bretagna al gold standard faceva
sbarcare nuovi capitali sui lidi di Manhattan. Ma la
sopravvalutazione delle azioni e la bolla creditizia avevano ormai
toccato livelli insostenibili. Nel mese precedente il «giovedì nero»
del 24 ottobre, data d’inizio della crisi, i mercati avevano già
dato forti segnali di instabilità. All'inizio di settembre del 1929
la media del rapporto tra prezzi e utili delle azioni di S&P
Composite aveva raggiunto quota 32,6. Nel mese successivo il valore
dei titoli calò del 17%, per poi recuperare metà delle perdite e
calare di nuovo.
La spirale ribassista non si fermò, e il 24 ottobre si scatenò il
panico tra gli investitori. In una sola seduta vennero vendute 12,9
milioni di azioni. Il giorno successivo alcuni tra i più grandi
banchieri d’America si riunirono per cercare di trovare una
soluzione alla crisi, un po’ com’è avvenuto nei giorni scorsi tra
Washington e New York.
Col capitale messo a disposizione dai colossi della finanza di
allora, come il numero uno della Chase National Bank, Albert Wiggin,
e il presidente della Morgan Bank Thomas W. Lamont, il
vicepresidente della Borsa, Richard Witney comprò titoli di alcune
tra le principali blue chip a un prezzo che ne sopravvalutava
nettamente il valore. Ma la mossa non riuscì, come sperato, a
spingere gli investitori ad acquistare di nuovo, ed ebbe come unico
effetto una chiusura di sessione piatta. Ma il peggio doveva ancora
arrivare. Lunedì 28 ottobre l’ondata di vendite continua, e il Dow
Jones perde il 12,82 per cento.
Il giorno successivo è il caos. Il principale indice della borsa
della Grande Mela lascia sul terreno altri 11,73 punti percentuali.
Solo in quella sessione vengono bruciati 14 miliardi di dollari. È
il «martedì nero ». Il crollo si arresterà solo l’8 luglio del 1932,
con il Dow Jones che chiude a quota 41,22 punti. Il 3 settembre 1929
era a 381,17 punti, il record di allora. In meno di due anni
l’indice aveva perso l’89% e dovette attendere fino al 1954 per
recuperare le perdite. Nelle
parole dell’economista Richard M. Salsman «chi comprò azioni nella
metà del 1929 e le tenne vide passare la maggior parte della vita da
adulto prima di ritornare in pareggio».
Il panico si diffuse presto
a tutte le piazze statunitensi ed estere. Si parla di numerosi
suicidi di squali della finanza che in poche ore avevano visto
svanire nel nulla tutte le loro ricchezze, un fenomeno
successivamente ridimensionato da John Kenneth Galbraith in quello
che è forse il libro più famoso sull’argomento: The Great Crash,
1929. I mercati finanziari di tutto il mondo vararono misure per
sospendere i titoli che registravano ribassi eccessivi. Nel
1933 il Glass-Steagall Act introdusse la distinzione tra banche
commerciali e banche d’affari, quegli istituti che, oltre a gestire
depositi e fornire prestiti, si occupano del mercato dei titoli.
Nel frattempo lo Smooth-
Hawley Tariff Act del 1930 aveva bruscamente aumentato i dazi
doganali sulle importazioni, spingendo i partner commerciali
dell’America a reazioni dello stesso segno e alimentando la sfiducia
dei mercati e, con essa, le tendenze al ribasso. Era iniziata
la Grande Depressione, le cui conseguenze inizieranno ad avvertirsi
presto anche oltreoceano. E che, come uno scenario da incubo,
rischiano di ripetersi oggi: siglando come un incubo la fine
dell’era di George W. Bush.
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Fonte
- Finanza&Mercati |
Deutsche Bank: il patrimonio non
esiste più
26 Ottobre 2008 18:41 MILANO
-
di La
Repubblica ______________________________________________
Fra non molto si riuniranno i
capi dei 20 maggiori paesi del mondo per cercare di avviare
qualche cambiamento nella finanza, per rassicurare la gente e
per impedire che l´economia mondiale conosca altri momenti come
questo. In termini sintetici il compito che hanno davanti è
molto semplice: devono riportare dentro i corretti binari
l´attività delle banche. Ma non sarà tanto semplice perché gli
interessi in gioco sono tanti e sono molti corposi. Proviamo a
fare un esempio.
Può stupire che una banca ritenuta seria come la Deutsche Bank
abbia in portafoglio impegni (insomma, soldi prestati) di classe
3 per una cifra che è 3-4 volte il suo patrimonio. E fa ancora
più impressione il fatto che la roba di classe 3 vale di fatto
zero o quasi. Dal che si arriva alla conclusione che il
patrimonio di Deutsche Bank di fatto non esiste più.
Ma come si è arrivati a tanto? A combinare un disastro così
grande? Una volta le banche avevano dei limiti molto stretti per
la loro azione: se un istituto aveva otto miliardi di capitale,
poteva prestare al massimo 100 miliardi (o assumere impegni per
100 miliardi). Si può discutere se questo rapporto è alto o
basso, ma ha funzionato. Poi è arrivata la riforma di Basilea 2,
cioè un nuovo insieme di regole. La trovata delle banche quale è
stata? Questa: non tutti gli impegni sono uguali, non tutti
presentano lo stesso rischio. Bisogna ragionare.
E sono stati assunti rapidamente matematici di valore, e anche
fisici, che si sono messi a fare i conti. E alla fine i 100
miliardi di impegni consentiti si sono dilatati, grazie al fatto
che ogni banca era in grado di dimostrare che aveva assunto
impegni molto a rischio, ma che questi rientravano in un rischio
complessivamente sostenibile.
Per quegli impegni che erano rappresentati da titoli fuori
mercato (e quindi non valutabili oggettivamente), insomma il
materiale di classe 3, si sono avvalsi dei giudizi (amichevoli)
delle agenzie di rating (un disastro planetario) o di
valutazioni interne basate sui complicati algoritmi elaborati
dai soliti matematici e fisici.
Il perché di tutto questo è abbastanza ovvio. Se io vendo
scarpe, voglio allargare il mio mercato e, in teoria, voglio che
tutto il mondo abbia dieci paia di scarpe. Se vendo denaro
voglio che tutti vengano a prendere del denaro da me: in questo
modo allargo il mio giro d´affari, aumento i miei profitti, e
posso anche aumentare il mio stipendio (e i miei bonus) perché
ho lavorato bene.
E allora, grazie ai matematici, dimostro che ogni dieci prestiti
"buoni" ne posso fare altrettanti (o di più) che magari proprio
buoni non sono. Gioco sul fatto che non tutti questi impegni
andranno male insieme. Lavoro sul calcolo delle probabilità,
gioco al lotto. E, nell´attesa, incasso commissioni e
provvigioni.
Adesso, per evitare altri disastri, bisognerà trovare la forza
di riportare le banche a fare le banche oculate, quindi a non
prestare più soldi di quello che consente loro il patrimonio di
cui dispongono. In sostanza, bisogna tornare a prima di Basilea
2, e forse sarà utile mandare a casa un po´ di matematici e di
fisici. Fine dei giochi di azzardo.
Il denaro, come doveva essere ovvio da alcuni secoli, va
prestato con grande attenzione e grande prudenza. Ma le banche,
è ovvio, faranno resistenza. Perché questo ritorno alla ragione
significa ridimensionarsi, ridiventare più piccole e meno
importanti.
Fonte
- La Repubblica |
Crisi: avete calcolato i danni collaterali?
26 Ottobre 2008 21:36 MILANO - di
Alessandro Fugnoli
________________________________________
Il mondo dei gestori (che siano grandi istituzioni o piccoli
privati, che ne siano consapevoli o meno) può essere grosso modo
diviso in due gruppi. Al primo appartengono gli investitori
orientati al valore, al secondo quelli che cercano di individuare il
momento giusto per comprare (o vendere) indipendentemente dal
valore.
In realtà, nel secondo gruppo, solo i momentum player (quelli che
comprano quando il mercato sale e vendono quando sta scendendo) non
badano al valore. Gli altri, probabilmente la maggioranza, cercano
di conciliare il momento migliore per agire con un valore
accettabile. Un obiettivo ambizioso.
Tra gli investitori orientati al valore il più celebre è Warren
Buffett, che nei giorni scorsi, sul New York Times, ha fatto una
pubblica dichiarazione di fiducia sull’esistenza di valore
nell’azionario in questo momento. Come è noto, negli ultimi due mesi
Buffett ha acquistato parecchio. Il suo appello "adesso comprate
anche voi" non è dunque un armiamoci e partite.
A sostegno della tesi che in questi mercati c’è del valore citiamo
alcuni numeri. L’S&P500 è oggi più o meno sugli stessi livelli di
altri due periodi che oggi sembrano appartenere ad altre epoche
storiche, eppure sono vicini nel tempo. Il primo è la seconda metà
del 1997, nei tempi felici della bolla nascente di Internet, quando
comunque le quotazioni avevano ancora i piedi per terra. Il secondo
periodo con uno S&P500 al livello medio di 900 va da metà 2002 alla
primavera del 2003, nella fase finale del bear market iniziato tre
anni prima.
Se andiamo a vedere gli utili per azione (operativi) dei 500 titoli
dell’indice di questi due periodi (i numeri li prendiamo da Morgan
Stanley), vediamo che erano di 44 dollari a fine 1997 e di 48 a fine
2002 (utili trailing, per i pignoli).
Se adesso guardiamo alle stime degli utili 2009 e prendiamo non
quelle di consenso ma quelle più pessimistiche che abbiamo trovato
(proposte da Rosenberg di Merrill Lynch e da Nouriel Roubini)
vediamo un valore di 60 dollari. Ricordiamo che Rosenberg parte da
un’ipotesi di recessione profonda (con una velocità annualizzata di
decrescita del Pil tra meno tre e meno quattro per cento per la
prima metà del 2009). Quanto a Roubini, la sua idea è che la
recessione sarà severa e durerà due anni.
Con utili per azione a 60 dollari e lo stesso multiplo di 1997 e
2002, l’S&P500 dovrebbe stare oggi tra 1150 e 1250. Che ci sia
valore nell’azionario, quanto meno rispetto ai due periodi che
stiamo considerando, lo dice anche il valore di libro dei 500
titoli.
Era di 247 dollari a fine 1997 e di 338 a fine 2002. A fine 2007 (il
dato più recente che abbiamo trovato) era di 528. Da allora sarà
anche sceso, ma è difficile credere che si sia dimezzato. Il valore
di libro, per inciso, era una metrica molto in voga alla fine
dell’estenuante bear market degli anni Settanta e non a caso. Si
tratta infatti del criterio di valutazione più prudenziale.
Naturalmente si può discutere sui multipli da applicare agli utili.
I multipli, per lo meno nel mondo ovattato della teoria, dovrebbero
essere funzione soprattutto dei tassi. Bene, i Fed Funds a fine 1997
erano al 5.50 per cento e a fine 2002 stavano all’1 per cento. A
metà 2009 staranno verosimilmente all’1 o sotto. Anche da qui,
quindi, una segnalazione di possibile valore.
Facciamo quindi gli auguri a Buffett e a tutti i value player. In
particolare Buffett, che è diventato una metrica lui stesso, ha
giocato perfettamente tutte le grandi tendenze a partire dalla fine
degli anni Settanta, ma con un anticipo medio di tre-sei mesi (se
aspettate le rondini la primavera sarà finita, ha scritto). Non
possiamo però non pensare che quelli fatti finora siano solo
l’inizio di una serie di acquisti che proseguirà nei prossimi mesi.
Poi ci sono altri problemi. Il processo di riduzione della leva in
corso a livello globale è a dir poco imponente ed è ben lontano
dall’essere terminato. Quando è in gioco il valore più grande della
sopravvivenza come soggetto investitore si può ben sacrificare il
valore più piccolo dei titoli che si liquidano forzatamente con
l’acqua alla gola per pagare i margini e rientrare nelle linee di
credito ridotte dalle banche a loro volta nel panico.
Certo, alla riduzione della leva da parte degli operatori privati
corrisponde l’aumento da parte delle banche centrali. La leva della
Fed, stabile da anni, è raddoppiata nell’ultimo mese e può
raddoppiare ancora in tempi brevi. Tutte le banche centrali, più o
meno direttamente, prestano ormai soldi ai privati per i mutui, alle
banche, ai fondi monetari e alle imprese. Sul prestare ai fondi
hedge c’è riluttanza, perché non sta bene, ma si troverà qualche
sistema indiretto per aggirare l’ostacolo.
Se le cose dovessero continuare a deteriorarsi si arriverà a un
targeting della parte lunga della curva governativa, con acquisti
infiniti fino al raggiungimento del tasso obiettivo. Secondo fonti
di stampa ci sono già stati interventi di sostegno alle borse con
acquisti diretti. Se è vero, altri ne seguiranno.
Se tutti vendono tutto, le banche centrali (previa sterilizzazione)
possono comprare il mondo senza creare per questo inflazione. Chi
parla a sproposito del rischio d’inflazione di questa pratica
dovrebbe anche parlare del rischio di deflazione, uguale e
contrario, creato da chi vende alle banche centrali. Il Giappone
degli anni Novanta, dove si è arrivati a un debito interno del 160
per cento del Pil e a una banca centrale allargatasi a un terzo del
Pil, è lì a dimostrare che si possono prendere misure estreme senza
produrre nemmeno l’ombra dell’inflazione.
Detto questo, registriamo che gli interventi delle banche centrali,
per quanto coraggiosi, mantengono la loro natura reattiva. Vengono
decisi, in altre parole, un minuto dopo la creazione del buco, non
un minuto prima. Per questo è ben possibile che l’erosione del
valore degli asset continui.
La ferocia del processo in corso conferma una tesi cara a Greenspan,
per cui i processi di aggiustamento dei mercati sono veloci e molto
efficienti. Il petrolio dimezzato in tre mesi e l’euro passato da
1.60 a 1.26 nello stesso arco di tempo fanno pensare che
l’aggiustamento che in Giappone ha richiesto più di 10 anni questa
volta sarà molto più rapido. La rapidità, però, continuerà a
produrre danni collaterali rilevanti in luoghi non sempre facilmente
prevedibili.
Per quanto si voglia essere ottimisti sulla durata della recessione,
due fatti vanno tenuti presenti.
1) Non ci sono precedenti storici di minimi di mercato realizzati a
inizio recessione. Nassim Taleb e i suoi cigni neri ci insegnano che
ci può essere sempre una prima volta, ma è rischioso contarci
troppo. Al momento la stessa Fed parla di forti venti contrari (il
suo modo di parlare di recessione) almeno fino a metà 2009.
2) Anche nell’ipotesi che questi fossero i minimi, fra sei-nove mesi
difficilmente saremmo molto più in alto. In compenso la visibilità
sarà sicuramente maggiore. Alcuni dei soggetti oggi in circolazione
fra sei-nove mesi avranno fatto default, altri saranno stati
acquisiti per un piatto di lenticchie. A dire il vero, la massima
concentrazione di default non è nemmeno a fine recessione, ma
addirittura nel primo anno di ripresa.
Chi deciderà di aspettare, ovviamente, dovrà rinunciare ai bear
market rally che riusciranno a infilarsi in questo quadro così
grigio da qui a fine 2009. I pretesti potranno essere numerosi.
1) Fine anno. Con mercati a meno 40 (per adesso) da gennaio non è
impossibile un certo recupero.
2) Tagli dei tassi di policy. Il primo, da parte della Fed e forse
anche di altre banche centrali, potrebbe già essere il 29 ottobre.
3) Un avvicinamento ulteriore alla normalità negli spread tra tassi
di policy e tassi interbancari.
4) Il secondo pacchetto fiscale americano, che sarà di dimensioni
più ampie di quello dell’estate scorsa. Sarà varato probabilmente in
febbraio, ma sarà annunciato nella sua struttura già in
novembre/dicembre, in modo da fornire un supporto ai mercati e alle
attese degli operatori dell’economia reale. Il primo pacchetto ha
impedito la recessione tra giugno e agosto, il secondo mitigherà la
recessione del primo e del secondo trimestre 2009.
5) Un momentaneo allentamento del processo di riduzione della leva,
che procede più a ondate che in modo lineare.
Pur con tutta questa varietà di possibili temporanei rialzi facciamo
nostro un commento di un gestore che abbiamo ascoltato sulla Cnbc.
Con una situazione come questa è meglio essere fuori dal mercato e
desiderare di esserci dentro piuttosto che essere dentro e invidiare
quelli che ne sono fuori.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero |
Le
5 regole d'oro dell'investitore "value"
27 Ottobre 2008 20:39 MILANO - di Massimiliano Malandra
________________________________________
Compra e tieni. Anche per anni. È la filosofia di base
dell’investitore «value», che vanta illustri predecessori. Dal
precursore Ben Graham negli anni ’30 fino a Warren Buffett. Ma in
concreto come si agisce? Buffett ama ripetere di «non investire un
dollaro se non si pensa di guadagnarne almeno un altro». Non solo:
al value piacciono le fasi di Borsa discendente perché si compra a
sconto. E ancora Buffett: «Le società è meglio se sono brutte e
noiose». E con multipli contenuti: otto-nove volte gli utili, Roe
elevato e possibilmente una capitalizzazione inferiore ai mezzi
propri.
Insomma non devono essere di moda o promettere di far arricchire in
fretta l’investitore. Meglio poi se sono trascurate da analisti e
gestori e proprio per questo hanno multipli bassi. Almeno finché non
vengono scoperte dagli operatori, e a quel punto l’investitore value
è quasi pronto a vendere.
Quanti bilanci occorre osservare prima di acquistare i titoli? E per
quanto conservarli? Alla prima domanda molti gestori value
rispondono: «almeno tre-cinque anni», un lasso di tempo per valutare
la forza del business, la capacità del management e la continuità
dei risultati. Più difficile il timing, poiché non esiste un momento
specifico in cui abbandonare l’investimento, se non le variazioni
dei multipli.
PRICE/EARNING: il rapporto fra prezzo e utili è il primo indicatore
che si consulta e quello di più facile lettura. In realtà preso a sé
stante, il ratio significa poco. Occorre contestualizzarlo,
confrontandolo ad esempio con Roe, utili attesi per gli esercizi
successivi e flussi di cassa. Ancora meglio è utilizzare il
cosiddetto trailing p/e, in cui l’utile (normalizzato, vale a dire
quello delle attività correnti, escludendo pertanto le poste
straordinarie) è quello degli ultimi quattro trimestri disponibili,
in modo da avere un quadro sempre aggiornato della situazione. Un
p/e costantemente inferiore alla redditività (espressa dal Roe)
rappresenta già un primo segnale di una società di cui vale la pena
approfondire l’analisi. Anche se in genere si tende a non comprare a
oltre le 16-17 volte gli utili.
PRICE/FREE CASH FLOW: è un indicatore più efficace del p/e. La
maggior parte delle immobilizzazioni materiali presenti nei bilanci,
infatti, tende a perdere valore nel tempo. Le norme contabili
fissano piani di deprezzamento specifici per i vari asset, ma nel
mondo reale questi beni si deprezzano a ritmi diversi da quelli
decisi dai principi contabili. Valutare le azioni sulla base dei
flussi di cassa risulta quindi preferibile, visto che sono una
misura delle entrate e uscite monetarie di una società. Per il
calcolo del cash flow si parte dai profitti realizzati da una
società, si aggiungono i deprezzamenti, gli ammortamenti e altri
costi non monetari e, infine, per il calcolo del free cash flow, si
procede poi con ulteriori aggiustamenti sottraendo, per esempio, gli
investimenti in nuovi stabilimenti.
PRICE/BOOK VALUE: scovare società che capitalizzano meno del proprio
patrimonio non è ora difficile. E anche questo indicatore può
rappresentare un filtro per un investitore value. Prezzare una
società meno dei mezzi propri significa non assegnarle alcuna
redditività o prospettiva reddituale, ma se fa utili con continuità,
ha un regolare dividendo, un indebitamento finanziario contenuto e
conserva buone prospettive, il titolo ha buone possibilità di essere
sottovalutato.
DEBITO/EBITDA: è il rapporto fra indebitamento finanziario netto e
margine operativo lordo e segnala di quante volte il primo supera la
capacità dell’azienda di generare reddito attraverso la gestione
caratteristica: in pratica indica se e in quanti anni l’azienda è in
grado di ripagare il debito con il Mol. Quanto più tale valore è
elevato, tanto più si allontana nel tempo la capacità per l’azienda
di ridurre i debiti. In genere un valore inferiore alle tre volte è
preferibile, se superiore a cinque è meglio stare alla larga.
DIVIDEND YIELD E PAYOUT RATIO: il primo indica il rendimento del
dividendo (rapporto fra cedola e prezzo in percentuale). Più è alto,
più la cedola staccata è elevata rispetto al prezzo, ma non
necessariamente questo è un bene. A volte può implicare una certa
sottovalutazione del titolo, a volte l’indicatore è fallace (Telecom
Italia, ad esempio, per anni ha erogato cedole generose, ma la
discesa del titolo ha sempre affossato il rendimento complessivo).
Un utile filtro aggiuntivo (i prezzi fluttuano ma la volatilità dei
dividendi è senz’altro inferiore) è così rappresentato dal payout
(rapporto fra monte dividendi e utile netto): valori contenuti -
sotto il 50% - sono un viatico alla stabilità delle cedole anche in
caso di discesa dei profitti.
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Fonte
- Borsa&Finanza |
GM:
Hummer(ed) down
Wednesday, 29 October, 2008 at 15:04 -
di Charles Dexter Ward ______________________________________________
General Motors ha riportato oggi i risultati trimestrali che
sanciscono di fatto la fine di un’era in cui l’azienda di
Detroit è stato il più grande produttore di auto del mondo.
Anche in questo trimestre Toyota ha allungato il passo e
difficilmente GM riuscirà nell’impresa di riguadagnare il
terreno perduto. Gia l’anno scorso il margine era molto
esiguo ma la drammatica crisi in cui versa il settore auto
americano ha giocato a favore della casa nipponica che ha
pagato un pegno minore in termini di diminuzione di volumi
sulle vendite auto.
Le obbligazioni General Motors (Caa3/B-) scambiano ormai da
diversi mesi a livelli pienamente distressed: GM 7.25% 2013
passa di mano a quota 35, poco più di un terzo del suo
valore nominale, mentre il bond GM 8.375% 2033 è scambiato
in area 30. Chiaramente a questi livelli ha poco senso
parlare di spread mentre evidentemente i bond scambiano a
prezzi che incorporano una elevata probabilità di default.
Va altresi notato come in situazioni del genere si assiste
ad una convergenza dei prezzi dei bond verso un teorico
valore di recovery, indipendentemente dalla cedola e dalla
scadenza. All’inversione della curva dei credit default swap
fa quindi normalmente seguito una sovra performance dei bond
con un prezzo più basso, in questo caso rappresentati
dall’emissione trentennale.
L’attuale range di prezzo si colloca comunque al di sopra o
comunque nella parte alta delle stime di recovery rate: di
fatto quindi il mercato assegna ancora un piccolo premio
all’opzione “non default” su questi titoli: mentre è
difficile sperare che questi bond non saranno oggetto di una
qualche forma di ristrutturazione, il fattore temporale qui
gioca un ruolo determinante visto l’elevatissimo livello di
rendimento corrente offerto da questi titoli.
Ad oggi General Motors può contare su una riserva di
liquidità che appare sufficientemente ampia per poter far
fronte a tutti gli impegni fino a metà del prossimo anno:
rimane il problema dell’elevatissimo livello di cash burn,
quantificabile approssimativamente in un miliardo di dollari
al mese.
Il 27 ottobre Moody’s ha declassato di un notch il proprio
giudizio su General Motors portandolo a livello di Caa2 con
out look negativo: anche lo Speculative Grade Liquidity
rating è stato rivisto al ribasso fino ad un livello di
SGL-4.
Anche con riferimento ai commenti dell’agenzia di rating è
possibile individuare alcune areee di criticità:
Debole contesto economico che minaccia di avere un forte
impatto sul livello assoluto di vendite di auto;
I tempi lunghi (18-24 mesi) necessari per adeguare l’offerta
produttiva allo shift della domanda dei consumatori che si
stanno allontanando dal segmento dei SUVs preferendo veicoli
di più modeste dimensioni;
• L’ormai compromesso pricing power dell’azienda;
• Le problematiche connesse alle difficoltà in cui versa
GMAC, la divisione finanziaria che fornisce l’indispensabile
supporto alle vendite di GM.
Di seguito vengono evidenziati i fattori positivi che
possono invece contribuire a superare il momento di estrema
difficoltà in cui versa l’azienda di Detroit e l’intero
settore auto:
• Le drastiche misure prese da General Motors per preservare
la liquidità e contenere i costi;
• Il supporto del governo americano al settore: sono
molteplici le forme attraverso cui questo sostegno potrebbe
concretizzarsi, a partire dal finanziamento straordinario
gia annunciato e di cui si attendono i dettagli, passando
per l’ammissione delle divisioni finanziarie dei grandi
produttori auto alla cosidetta Tarp.
Last but not least la benedizione di Wahington appare la
“condicio sine qua non“ affinché possa concretizzarsi la
fusione con Chrysler, allo studio in queste ultime
settimane.
Fonte
- Macromonitor
|
HEDGE FUNDS: CANTIAMOGLI IL DE
PROFUNDIS DICE SOROS
29 Ottobre 2008 17:42
NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La crisi finanziaria globale provochera' un drastico
ridimensionamento del settore degli hedge funds, che
caleranno dalla meta' a 2/3 rispetto ai numeri attuali.
La crisi finanziaria globale provochera' un drastico
ridimensionamento del settore degli hedge funds, che
caleranno dalla meta' a 2/3 rispetto ai numeri attuali, ha
detto l'investitore miliardario George Soros.
"Il comparto degli hedge funds subira' un terremoto" ha
spiegato in un discorso ieri al Massachusetts Institute of
Technology di Boston colui che e' tra i pioneri, e forse il
piu' conosciuto personaggio del settore, avendo Soros
fondato negli anni Settanta Quantus Funs, uno dei primi
hedge fund del mondo. "Secondo le mie stime - ha detto
l'investitore - il comparto sara' ridotto in dimensioni in
una misura compresa tra la meta' e 2/3". Soros pero' non ha
spiegato se intendesse riferirsi al numero degli hedge funds
oggi presenti sul mercato finanziario globale (circa 10.000
secondo alcune stime) oppure al totale del patrimonio
investito nei fondi.
Molti dei grandi ricchi del mondo stanno ritirando in massa
i propri capitali dagli hedge funds, notori nel mondo
finanziario per la quasi totale assenza di regolamentazione
da parte delle autorita' di controllo. Compatibilmente con
le regole relative ai riscatti (minimo 90 giorni, di solito
un quadrimestre) gli hedge funds sono stati indicati come i
veri responsabili delle vendite "forzate" che hanno piagato
le borse nell'ultimo mese (proprio per far fronte ai
riscatti) il che ha provocato ribassi record superiori a
-30% degli indici di borsa.
Gli hedge funds, che avevano visto raddoppiare negli ultimi
anni scorsi il loro patrimonio totale a circa $1.9 trilioni,
dovrebbero essere regolamentati, ha detto Soros. Il
miliardario fu uno dei primi a lanciare l'allarme sulla
gravita' e profondita' della crisi globale. Per stabilizzare
l'economia, gli enti di controllo governativi dovrebbero
monitorare il mercato del credito, il che rendera' alcuni
aspetti del business dei servizi finanziari meno redditizio,
ha concluso l'investitore di origine ungherese.
Fonte
-
WallStreetItalia |
Quanto si può resistere prima di
vendere
30/10/2008 15.30 -
di Sara
Silano ______________________________________________
Ci hanno sempre detto che quando investiamo il nostro
orizzonte deve essere di lungo termine. Chi ha comprato un
fondo azionario cinque anni fa oggi perde in media il 3,8%.
Eppure non si può dire che questo periodo sia breve ed è
difficile accettare l’idea di aver tenuto i soldi in un
fondo per tutto questo tempo senza aver guadagnato. Anche
perché se fossimo entrati nell’ottobre del 2003 e usciti a
fine 2007 avremmo potuto ottenere un incremento del capitale
del 78% (media aritmetica dei rendimenti di tutti i fondi
azionari distribuiti in Italia).
Ha senso, dunque, parlare di lungo periodo? I mercati
alternano fasi di rialzo e ribasso e sono imprevedibili.
Alcuni cicli di Borsa durano di più, altri meno. Alcuni sono
molto volatili, altri più tranquilli. L’esperienza passata
insegna che non sempre le perdite sono state ripianate alla
fine di un ciclo. Secondo uno studio di Ibbotson, tra il
1929 e il 2000, in media i periodi negativi sono durati due
semestri, cui ne sono seguiti otto di crescita (in tutto
cinque anni), per un guadagno complessivo del 34%.
L’analisi, presentata al convegno sulle nuove sfide per i
promotori finanziari, organizzato da Morningstar e Il Sole
24 Ore lo scorso 29 ottobre, mostra anche che gli anni più
neri sono stati quelli della crisi del 1929: in un triennio
i listini persero oltre l’80% e non bastò il +373% dei nove
semestri successivi per cancellare i ribassi.
La prima lezione da trarre è che un quinquennio può
rappresentare un periodo sufficientemente lungo per ottenere
un guadagno dall’investimento in un fondo azionario.
Infatti, se guardiamo ai rendimenti rolling (ossia a scalare
in avanti di mese in mese) dal 2000 ad oggi su intervalli di
60 mesi, nel 76% dei casi le performance sono positive. Se
si estende l’orizzonte temporale, inoltre, la probabilità di
conseguire perdite con le azioni si riduce sensibilmente.
Non solo, le azioni rendono più delle obbligazioni, anche se
queste ultime sono un buon strumento di diversificazione
nelle fasi di declino, quando la correlazione tra le Borse
cresce.
Applicando questo metodo al proprio portafoglio, qualcuno
potrà scoprire che i conti non tornano. Due sono le
possibili spiegazioni. La prima è che il ciclo dei propri
investimenti, cioè il momento dell’acquisto del fondo, è
cominciato in una fase di picco dei mercati. Un tipico
errore consiste nel comprare ai massimi e vendere ai minimi.
Come ha spiegato il professor Ruggero Bertelli nel corso del
convegno di Morningstar e Il Sole 24 Ore, tra il 1997 e il
2007, gli italiani hanno prima guadagnato investendo in
azioni tra il 1997 e il ’99, poi hanno perso in seguito alla
bolla speculativa del 2000 e successivamente non sono più
rientrati nonostante la fase di rialzo cominciata nel 2003.
In pratica, il guadagno è stato nullo. Al contrario, se
avessero accumulato azioni tutte le volte che l’emotività li
spingeva a vendere, avrebbero ottenuto un discreto profitto.
La seconda spiegazione è legata alla qualità dei fondi in
portafoglio. Su oltre 1.500 prodotti azionari venduti in
Italia che hanno il Rating Morningstar a cinque anni, solo
il 25% ha quattro o più stelle, ossia presenta un profilo di
rischio/rendimento superiore alla media dei prodotti
concorrenti. Si tratta anche dei comparti con una
performance che da inizio anno è generalmente migliore
rispetto alle categorie di appartenenza. Se il fondo va
peggio dei concorrenti e si è sempre comportato in questo
modo nella sua vita, l’investitore ha tutte le ragioni per
infrangere la regola del lungo termine.
Fonte
- MorningStar
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HEDGE FUNDS: DERIVATI: SI' DELLA
FED ALLA CLEARING HOUSE
31 Ottobre 2008 14:01
NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La Federal Reserve di New York annuncia che nelle prossime
settimane dara' il via alla costituzione di una nuova
"borsa" per prezzare equamente e compra-vendere i famigerati
CDS, credit default swaps, il cui ammontare netto e' di $24
trilioni.
La Federal Reserve di New York ha annunciato in una lettera
che nelle prossime settimane dara' il via alla costituzione
di una nuova "borsa", tecnicamente una "clearing house", per
prezzare equamente e poter sia comprare che vendere i
famigerati CDS, credit default swaps, gli strumenti
creditizi responsabili, secondo alcuni critici, di rischi
sistemici per un mercato finanziario gia' scosso dalla crisi
globale. Stando alla lettera della Fed di New York
l'ammontare netto dei credit default swaps in circolazione
e' attualmente di $24 trilioni, una cifra che sarebbe meno
della meta' rispetto alla stima di $55 trilioni (leggi in
Situation Room) circolata fino a qualche giorno fa.
Fonte
-
WallStreetItalia |
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Sabato 25
Ottobre 2008 |
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Mercoledì 29
Ottobre 2008 |
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Venerdì 31
Ottobre 2008 |
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Crisi:
ecco le Index Linked congelate dall'Islanda
14 Ottobre 2008 18:19 MILANO
- di Marco lo Conte
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Danni collaterali del crack finanziario islandese sugli assicurati
italiani che hanno sottoscritto polizze di Carige Vita, Quadrifoglio
Vita (gruppo Mps), Sasa Vita (gruppo Fondiaria-Sai), Ubi Vita e Ergo
Previdenza. E' come il caso Lehman.
L'ultimo avviso è di ieri sera: due polizze index linked di Ergo
Previdenza, «Pura Energia» e «Swing per Te», si aggiungono alle
altre che non riescono più ad indicare il valore della quota
sottostante. La causa? Il crack finanziario dell'Islanda e in
particolare di Glitnir.
La recente decisione del governo islandese e dell'autorità di
vigilanza sui mercati di mettere sotto amministrazione controllata
le principali banche del Paese si ripercuote ora sugli assicurati
italiani che hanno sottoscritto polizze di Carige Vita ,
Quadrifoglio Vita (gruppo Mps), Sasa Vita (gruppo Fondiaria-Sai),
Ubi Vita e, come detto di Ergo Previdenza. Trascinandoli – per ora –
in un tunnel analogo a quello che sta vivendo chi ha sottoscritto le
polizze agganciate ai titoli Lehman: un tunnel fatto di quote non
pubblicate e di attesa per le decisioni delle compagnia nei
confronti dei clienti: che in rarissimi casi avevano sottoscritto
quei prodotti consci del valore e dei rischi dei titoli sottostanti.
Le polizze index linked sono, infatti, contratti di assicurazione
sulla vita il cui valore delle prestazioni è collegato all'andamento
di un paniere o ad un solo titolo; offrendo talvolta un rendimento
minimo oppure la garanzia (talvolta parziale) del capitale.
Un'ingegneria che per i prodotti in tabella è stata declinata in
vario modo: nel caso di Quadrifoglio Vita, si era scelto
Islandinbank (ora Glitnir Banki HF) come emittente
dell'obbligazione, su cui poggia un'opzione di Credit Suisse First
Boston International per «migliorare la redditività dei prodotti
index-linked» di quattro polizze, tra cui «Memory Coupon».
Diverso il discorso per le due polizze di Ubi Vita: sono contratti
strutturati nell'ottobre del 2007 da Aviva , che oggi detiene la
maggioranza dei Ubi Vita e distribuito in gran parte presso gli
sportelli Bpu tra poco meno di 4mila sottoscrittori per un totale di
alcune decine di milioni di euro; al momento del lancio Moody's
giudicava la banca islandese Kaupting Bank Aa3. La compagnia sta
ancora svolgendo i controlli per definire l'ammontare del collocato
e definire eventualmente una strategia con Aviva.
Sasa Vita, compagnia del gruppo Fondiaria-Sai, aveva scelto a fine
2005 (quando il Pil viaggiava a +7,5% e il rating pubblico era
tripla A) la già citata Glitnir come broker della index «Metal &
Oil», agganciata ad un paniere di titoli energetici. Sollecitata da
Consob, la compagnia è chiamata ad emettere oggi un comunicato sulla
polizza. Chi si è già mosso sul fronte legale è Carige Vita, che ha
dato incarico allo studio Clifford Chance di tutelare nelle sedi
internazionali i suoi interessi (e di conseguenza quelli dei suoi
clienti).
Anche in questo caso il contratto è collegato al valore del titolo
della banca islandese Glitnir ed è stato strutturato in una fase in
cui l'Islanda era considerato tra i Paesi più virtuosi dal punto di
visto finanziario. Il contratto originariamente doveva scadere
nell'aprile 2012 e portare a scadenza circa 20 milioni di euro. Come
negli altri casi anche la compagnia genovese sta effettuando le sue
valutazioni sulle mosse da prendere nel prossimo futuro.
I sottoscrittori di tutti questi prodotti saranno innanzitutto
informati dalle loro compagnie, come accaduto nel caso Lehman. Ma
rispetto a loro possono contare su un'opportunità in più:
l'intervento del Fmi e la possibile garanzia dello Stato islandese
sulle proprie banche e sulle loro obbligazioni potrebbe dare
certezze anche all'assicurato italiano. Per chi ha scelto gli
strumenti penalizzati dalle agenzie di rating (vedi tabella), si
registrano invece ribassi che superano anche l'80%.
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Fonte
- Il Sole24Ore |
Pronti
contro termine: rischiosi e non
garantiti
16 Ottobre 2008 13:51 MILANO
- di Nicola Borzi
________________________________________
Sono tra gli strumenti preferiti dalle famiglie italiane che li
hanno riscoperti dopo un periodo di oblìo (anche per l'aggressiva –
e tutt'altro che disinteressata – campagna di marketing del sistema
bancario), che li prediligono per la loro semplicità, l'aliquota
fiscale ridotta e il breve orizzonte temporale. Tanto che, negli
ultimi mesi, complice anche la crisi finanziaria che ha scatenato la
corsa agli investimenti liquidi, hanno messo a segno una crescita a
doppia cifra. Ma i pronti contro termine non sono esenti da rischi
(peraltro sinora solo ipotetici), non sono garantiti, non sono
vigilati e soprattutto da mesi non tutelano il capitale dal
l'inflazione.
I pronti contro termine sono contratti (tradizionalmente della
durata da uno a sei mesi, massimo un anno) in cui una banca riceve
liquidità contro la vendita di titoli (di solito di Stato),
impegnandosi al contempo con il cliente al loro riacquisto a termine
e a un prezzo prefissato, che incorpora un rendimento. Secondo gli
ultimi dati trasmessi dall'Associazione bancaria italiana, da
gennaio del 2007 al giugno scorso la massa di liquidità allocata in
p/t è aumentata quasi di un quarto, passando da poco meno di 97,5 a
oltre 118,7 miliardi di euro. Un tasso di crescita più che doppio
rispetto a quello medio della raccolta bancaria a breve che ha
portato il "peso" di questi strumenti a un settimo del totale.
Ma nelle ultime settimane, secondo numerosi operatori, i p/t hanno
vissuto un boom che solo tra qualche giorno sarà nei radar delle
statistiche del Centro studi Abi che elaborano i dati della Banca
d'Italia. Da un lato, il crollo delle Borse ha scatenato tra i
risparmiatori la ricerca di investimenti liquidi a breve termine:
esattamente l'identikit dei p/t. Dall'altro, la crisi di fiducia tra
gli operatori del credito ha esposto le banche all'"infarto" del
mercato interbancario: l'esaurimento della liquidità ha sparato alle
stelle il tasso Euribor, aumentando in modo esponenziale i costi di
raccolta. Così gli istituti hanno potenziato una poderosa campagna
di marketing che, tra p/t tradizionali, proposti allo sportello, e
la loro versione hi-tech, presentata sui conti online, ha riportato
in alto la raccolta.
Un'operazione win-win, dunque? Non proprio. Come si può osservare
dalla tabella in basso, che riporta dati Istat e Abi, i rendimenti
dei pronti contro termine, pur situandosi nella fascia alta di
quelli offerti dagli strumenti di liquidità, sono comunque inferiori
all'andamento medio dell'Euribor (quello, per intenderci, ai quali
sono agganciate le rate dei mutui a tasso variabile). Insomma, se il
risparmiatore riceve un rendimento allettante, gli istituti di
credito hanno una convenienza ancora maggiore, perché i p/t
consentono loro di finanziarsi a tassi più bassi di quelli del
mercato interbancario.
Ma sul fronte dei tassi c'è anche un altro problema: da maggio in
avanti i rendimenti dei pronti contro termine, al netto
dell'aliquota fiscale ridotta (al 12,5% invece del 27% di altre
forme di investimento, come i libretti postali ordinari), hanno
perso regolarmente la gara con l'inflazione. Il capitale, quindi,
non è garantito dall'erosione del carovita. Un'area, quella delle
garanzie, che presenta altre note dolenti. Se la Banca d'Italia
vigila le banche e dunque l'uso dei pronti contro termine come
strumenti di raccolta, questi contratti però non passano sotto la
lente della Consob perché, in base alle norme sulla Mifid, non
rientrano tra gli investimenti dotati di un prospetto. Inoltre,
siccome non si tratta di depositi bancari ma di forme di
investimento, non godono delle tutele del Fondo interbancario di
garanzia.
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Fonte
- Il Sole24Ore |
CASA,
GELATA SU MUTUI E COMPRAVENDITE
20 Ottobre 2008 01:24
ROMA -
di Rosa Serrano ______________________________________________
Mutui per la casa, il dato è in picchiata. Nomisma stima che
i "nuovi" finanziamenti immobiliari registreranno una
riduzione di circa il 25%, quest´anno rispetto al 2007. E´
la prima volta che succede da dieci anni ad oggi.
Inevitabile anche l´impatto di questa tendenza sulle
compravendite di case. In netta crescita infine le famiglie
che non riescono a sopportare la rata del mutuo.
La battuta d´arresto della domanda di mutui è dovuta a più
fattori. Incide il forte aumento dei tassi d´interesse sui
mutui, che sono dunque più cari; e pesa anche la scarsa
liquidità delle famiglie (che non comprano l´abitazione allo
stesso ritmo degli anni scorsi). Terzo fattore decisivo è la
maggiore selettività delle banche che, in risposta alle
tensioni finanziarie, sono tornate prudenti quando devono
concedere un credito. Applicano, in pratica, il vecchio
criterio per cui la rata mensile del mutuo non deve superare
un terzo netto del reddito di chi compra la casa.
Non solo: gli istituti bancari stanno anche attenti al
rapporto tra l´ammontare del mutuo e il valore
dell´immobile, mentre tendono a rifiutare finanziamenti di
lunga o lunghissima durata. «A indurre le banche ad una
maggiore selettività – dice spiega Luca Dondi, economista di
Nomisma – ha contribuito il continuo peggioramento degli
indici sulla rischiosità del credito».
I mutui più cari e le banche più prudenti fanno sì che le
compravendite sono andate giù in picchiata nel 2008. Si
prevede un calo di circa il 15% delle compravendite per il
solo comparto residenziale (casa per famiglie). Quest´anno,
le case vendute potrebbero essere 100 mila in meno rispetto
al 2007. La diminuzione delle compravendite sarà più
consistente nelle grandi città, con cali dal 5 all´8%. Per
incoraggiare gli italiani all´acquisto servirebbe un calo
dell´Euribor (il tasso di riferimento dei mutui a tasso
variabile). Peraltro, il tasso che la banca ci pratica non
sempre si abbassa subito all´abbassarsi dell´Euribor, ed
anche questo è un problema.
Da Nomisma arriva un´ulteriore segnalazione: molte famiglie
non riescono ad onorare il mutuo oppure devono chiedere
tempi più lunghi per pagarlo. Ne consegue che le sofferenze
immobiliari supereranno, sembra, i 7 miliardi di euro. Il
centro studi definisce quindi «sottodimensionato» il dato di
5,6 miliardi di sofferenze che ha elaborato la Banca
d´Italia. Questa situazione allarma le banche. In caso di
mancato pagamento del mutuo, gli istituti bancari impiegano
fino a 6 anni per prendersi la casa attraverso il meccanismo
delle esecuzioni immobiliari (i tempi lunghi sono effetto
delle pastoie della giustizia civile).
Lo scenario di Nomisma viene confermato dall´Osservatorio di
MutuiOnline, che racconta di migliaia di persone a caccia di
un mutuo più leggero rispetto a quello inizialmente
sottoscritto. Le sostituzioni del mutuo sono passate dal
2,2% del secondo semestre del 2005 al 21,9% del primo
semestre di quest´anno, per attestarsi a quota 32,3% nel
periodo luglio-settembre.
Fonte
- La Repubblica
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MEDIOLANUM: DORIS E FININVEST
RIMBORSANO PERDITE LEHMAN/ANSA
21 Ottobre 2008 19:05 MILANO -
di WSI ______________________________________________
(ANSA) - MILANO, 22 OTT - La famiglia Doris e la famiglia
Berlusconi, i due maggiori azionisti di Mediolanum si fanno
carico, di tasca loro, delle perdite delle polizze 'Lehman'
con un onere previsto previsto di 120 milioni di euro. E' la
soluzione con cui il gruppo Doris e Fininvest vogliono
tutelare risparmiatori e piccoli azionisti dal default della
banca d'affari americana. Le polizze Index Linked con
sottostanti obbligazioni Lehman Brothers sono 31 (21 a
capitale protetto e 10 a capitale non protetto) e sono state
sottoscritte da circa 10 mila clienti Mediolanum con un
esposizione media di circa il 15% del patrimonio investito.
In totale le polizze hanno un valore nominale di 213 milioni
di euro. "Il default di Lehman - dichiara Ennio Doris,
amministratore delegato di Mediolanum spiegando - ha colto
di sorpresa i mercati di tutto il mondo" e "le conseguenze
di questo evento tanto straordinario non devono ricadere sui
nostri clienti perché sono essi il nostro primo patrimonio".
"In questo momento difficile, in cui i governi stanno
prendendo importanti decisioni sulle banche, forse per la
prima volta due grandi famiglie - sottolinea
l'amministratore delegato di Fininvest Pasquale Cannatelli -
mettono mano al portafoglio per tutelare i risparmiatori".
Hanno dichiarato che rimborseranno alla scadenza i
risparmiatori coinvolti anche Unipol e Bcc Vita,
quest'ultima garantirà anche le cedole. "Un'iniziativa di
natura commerciale, di marketing - è il commento di Fabio
Cerchiai, presidente dell'Ania - Sono iniziative singole che
non sono in contraddizione con il principio di totale
assenza di responsabilità contrattuale e giuridica". Secondo
il presidente Ania (che ha già annunciato di fornire la sua
assistenza ai clienti) infatti la "regola fondamentale" è
che il rischio, in caso di prodotti non garantiti come le
polizze index con sottostante le obbligazioni Lehman
Brothers, "é a carico del sottoscrittore". Una precisazione
che peraltro gli stessi Doris e Cannatelli, rimarcano,
sottolineando che si tratta di 'una tantum' a fronte di un
evento fortemente straordinario ma che nella documentazione
contrattuale delle polizze, pur avendo a quel tempo Lehman
Brothers un rating A+, era indicato che il rischio di
default è interamente a carico dell'assicurato. Intorno ai
portatori diretti delle obbligazioni Lehman si stringe anche
il cordone protettivo dell'Abi, l'associazione bancaria
italiana, che si attiverà, ha annunciato il presidente
Corrado Faissola, per "assicurare loro la massima efficienza
e tempestività nell'insinuazione al passivo". Un'assistenza
che si estenderà "eventualmente anche in una fase successivà
Per quanto riguarda Mediolanum le polizze verranno
trasformate sostituendo gli strumenti finanziari sottostanti
con nuovi titoli obbligazionari di una banca italiana e di
una spagnola (la trattativa è ancora in corso, ha precisato
Doris) mi titoli Lehman rimarranno nel patrimonio libero di
Mediolanum Vita e Mediolanum International Life a cui fanno
capo le polizze in attesa del successivo realizzo. Il costo
netto di questa operazione, in caso di default totale e
coupon zero, ammonta a un massimo di 120 milioni di euro e
sarà coperto pro quota dai soci Doris (52,92%) e Fininvest
(47,08%) che rinunciano all'acconto dividendi (0,85 euro
l'anno scorso mentre quello 2008 verrà proposto al prossimo
cda del 12 novembre) e per la restante parte concedono un
finanziamento subordinato infruttifero che andrà a
rafforzare il patrimonio di Mediolanum.(ANSA).
Fonte
- ANSA
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Bond bancari, un approfondimento necessario
Tuesday, 21 October, 2008 at
8:30 - di
Charles Dexter Ward
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Le recenti turbolenze dei mercati, la larga esposizione delle
famiglie italiane alle obbligazioni bancarie e la prospettiva di una
garanzia governativa più o meno esplicita su questa tipologia di
strumenti hanno acceso l’interesse della stampa (specializzata e
non) su questo segmento del mercato. Come spesso accade, sotto la
spinta emozionale della stringente attualità se ne è scritto molto,
colpevolmente in ritardo e con numerose imprecisioni. Cerchiamo
dunque di fare un po’ di chiarezza sia a livello terminologico che
pratico.
Tanto per sgombrare il campo da dubbi iniziamo quindi con il dire
che vanno fatte due macro distinzioni nel mondo dei bond bancari: la
prima riguarda il mercato presso cui sono stati collocati questi
titoli e la seconda il grado di seniority/subordinazione.
Come
abbiamo anticipato in un recente post, bisogna dire apertamente che
mentre il rischio di credito è un fattore oggettivo ed è legato alla
capacita di puntuale rimborso degli interessi e del capitale, il pricing di questo rischio è molto meno oggettivo ed è
sostanzialmente frutto della domanda e dell’offerta del mercato.
Questo è sicuramente vero oggi, in cui il grande bisogno di capitali
delle banche e al contrario la scarsa domanda per questi titoli da
parte degli operatori ha portato ad un violento allargamento degli
spread e quindi dei rendimenti offerti da questi titoli.
Ma è altresì vero che fino a pochissimo tempo fa il mercato di
questi titoli è stato di fatto segmentato in due grossi
sottoinsiemi: il mercato riservato agli investitori istituzionali e
il mercato retail. Il secondo è stato utilizzato dagli istituti
bancari per raccogliere finanziamenti a tassi ben lontani da quelli
che lo stesso emittente avrebbe dovuto pagare sul mercato
istituzionale: ciò è stato possibile sfruttando la scarsa cultura
finanziaria media del risparmiatore italiano, che continua a
ritenere il prodotto obbligazionario come uno strumento sicuro in
sé, alla stregua di un titolo di Stato.
E’ sicuramente vero che i gruppi bancari italiani si sono dimostrati
solidi, ma è altrettanto vero che i rendimenti offerti ai
risparmiatori erano ben inferiori a quelli a cui girava il debito
delle banche sul mercato istituzionale: non è necessario perder
soldi affinché un investimento possa esser classificato come un
cattivo investimento. I bond bancari sottoscritti a spread risibili
erano ex ante dei cattivi investimenti, semplicemente perché non
offrivano la corretta remunerazione: corretta è un termine in realtà
non esatto. La corretta remunerazione ex-ante per il rischio di
credito infatti non esiste: di certo altri operatori ricevevano
rendimenti più generosi per assumersi lo stesso grado di rischio.
Mercati segmentati quindi, in cui il signor Mario Rossi molto spesso
non ha ricevuto una remunerazione per il proprio investimento
allineata agli standard di mercato.
Riconoscere questa anomalia è il passo indispensabile per procedere
con l’analisi dello strumento e arrivare a scelte di investimento
consapevoli e razionali: sperando che si possa imparare qualcosa
dalla recente crisi, è evidentemente inopportuno correre a vendere
questi titoli oggi. Anzi, diciamo che come segmento quello dei bond
finanziari appare tra i più interessanti in questo momento. Ma per
non commettere errori bisogna conoscere bene le regole del gioco o
in alternativa può esser opportuno rivolgersi a prodotti di
risparmio gestito specializzati.
Per quanti decidessero di non
fermarsi qui e fossero curiosi di sapere qualche dettaglio in più,
bisogna arrivare ad analizzare la seconda macro-distinzione, che
riguarda il livello di subordinazione. Parafrasando Orwell si
potrebbe dire infatti che “Tutti i bond (bancari) sono uguali, ma
alcuni sono più uguali di altri”.
La conoscenza degli strumenti è presupposto essenziale per poter
effettuare un investimento consapevole: vale quindi la pena dedicare
un breve post alla definizione delle linee guida essenziali del
mondo dei bond finanziari. La prima macro-distinzione, tra titoli
senior e subordinati, infatti aiuta a isolare l’investimento più
semplice e lineare (segmento senior) da quello che richiede una
maggiore attenzione (segmento subordinato): le regole e il
funzionamento delle obbligazioni “senior” sono piuttosto standard e
intuitive anche se lo stesso termine senior rischia di essere in
alcuni casi fuorviante. Basta pensare al caso delle obbligazione
senior di Lehman che oggi si scambiano ad un decimo del loro valore
nominale. Senior non è quindi di per se sinonimo o garanzia di
solvibilità o affidabilità.
La seniority si riferisce piuttosto al grado di privilegio di cui
godono i detentori di questi titoli nell’eventualità dovessero far
valere i propri diritti di fronte ad una eventuale messa in
liquidazione della società emittente. Nel malaugurato caso di una
procedura fallimentare, chi ha titoli senior gode di una precedenza
rispetto a chi ha sottoscritto obbligazioni subordinate. Magra
consolazione se, come visto ad esempio nel caso di Lehman, le
perdite in conto capitale sono comunque molto elevate. La vera forza
di questi titoli è nella loro semplicità strutturale: sono titoli
“binari”, l’emittente paga o non paga, “tertium non datur”. E’
questa la vera garanzia di questi titoli: come abbiamo visto, è
piuttosto raro che una istituzione finanziaria venga lasciata
fallire. Quindi più che sperare in un alto valore di recupero, chi
sottoscrive un’obbligazione senior scommetta sul verificarsi
dell’evento “NON DEFAULT” in una ipotetica scommessa che ha solo due
risultati possibili.
Come vedremo meglio, per alcuni bond subordinati invece la
condizione di “Non Default” è condizione necessaria ma non
sufficiente per esser sicuri di non incorrere in perdite in conto
capitale o in conto interessi.
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Fonte
- Macromonitor |
Obbligazioni, l’ora delle sorprese
23/10/2008 13.08 - di
MariaGrazia Briganti
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Obbligazioni “bancarie”, “strutturate”, “societarie”. Fino a qualche
tempo fa, questa parola era un lasciapassare per convincere i
risparmiatori a investire anziché lasciare i soldi sul conto
corrente. Perché faceva rima con sicurezza, con la benedizione della
Mifid, la direttiva europea che ha imposto agli istituti di credito
e ai promotori di vendere ai clienti solo i prodotti coerenti con il
loro profilo di rischio.
Oggi il castello della sicurezza è crollato, dopo che le più
blasonate banche d’investimento americane, grandi emittenti di
obbligazioni, sono fallite o hanno vacillato pericolosamente prima
di essere soccorse dallo Stato o acquistate dai concorrenti. E le
obbligazioni hanno messo a nudo tutta la loro fragilità di titoli di
credito che, come si legge nella definizione data dalla Banca
d’Italia, “conferiscono all’investitore (obbligazionista) il diritto
a ricevere il rimborso del capitale sottoscritto e una remunerazione
a titolo di interesse”. Un diritto che, tuttavia, può essere
pregiudicato in caso di difficoltà finanziarie dell’emittente.
Dal 1995 al 2007, la quota di bond bancari nei portafogli degli
investitori è aumentata di sei volte, per un patrimonio complessivo
di 355 miliardi di euro (dati Banca d’Italia). Numeri che
testimoniano l’enorme diffusione di questi strumenti tra i
risparmiatori, i quali dopo il fallimento di Lehman Brothers hanno
cominciato ad interrogarsi su cosa realmente gli è stato venduto
allo sportello. E spesso hanno scoperto che non si tratta di
semplici obbligazioni, ma di prodotti di ingegneria finanziaria sui
quali è difficile avere informazioni.
I titoli strutturati, infatti sono costituiti da una obbligazione e
da una o più componenti definite “derivative”, cioè contratti di
acquisto e/o vendita di strumenti finanziari (come indici, azioni,
valute, fondi comuni). Sono obbligazioni bancarie a tutti gli
effetti, per cui l’emittente (una banca) è tenuto alla restituzione
del capitale investito alla scadenza, ma il rendimento può variare e
anche di molto, essendo basato su parametri collegati al verificarsi
o meno di certi eventi previsti nel regolamento di emissione. Di
conseguenza, oltre al rischio emittente, l’investitore deve
sostenere anche quello legato all’andamento dell’indice di
riferimento, che può portare a un azzeramento della cedola.
Esistono altre due insidie per i sottoscrittori di obbligazioni
bancarie (non solo strutturate). La prima riguarda i riflessi della
variazione dei tassi sui prezzi di mercato: un incremento dei saggi
di riferimento, fa scendere i prezzi, mentre una diminuzione li fa
salire. La seconda insidia si riferisce alla facilità con cui si può
vendere il titolo prima della scadenza. In molti casi, i regolamenti
di emissione non prevedono la negoziazione su un mercato
regolamentato per cui l’investitore può trovarsi di fronte
all’impossibilità di vendere prima della scadenza a meno di
accettare una forte riduzione del prezzo pur di trovare una
controparte disposta all’acquisto.
Un ultimo aspetto da non sottovalutare è rappresentato dal costo.
Queste obbligazioni, infatti, sono in genere gravate da una
commissione di collocamento e da spese, che pur avendo natura
implicita, possono arrivare sin al 6% e si riflettono negativamente
in termini di valore del titolo. E’ chiaro quindi che serve un buon
rendimento per ammortizzarle e spesso all’investitore rimane ben
poco in termini di guadagno.
Sul sito di Patti Chiari si legge: “Le obbligazioni strutturate sono
strumenti complessi; uno dei rischi più frequenti è quello di non
comprendere il loro funzionamento e dunque di fare una scelta non
adatta alle proprie esigenze. Il loro acquisto è consigliato solo a
chi ne ha compreso la natura e il grado di rischio”. Il punto però è
questo:“Tutto ciò viene spiegato al cliente?”. Le molte domande che
ci hanno rivolto i lettori in queste settimane e le loro
testimonianze ci fanno pensare che non sia così. Spesso la
presentazione di un prodotto si limita a una scheda sintetica, dove
l’enfasi è posta sul rating, che come ha dimostrato questa crisi non
è sempre una garanzia di affidabilità dell’emittente. Anzi proprio
questa crisi induce a ripensare il meccanismo del rating e a
dubitare dell’efficienza delle società che sono tenute a fornire
“pagelle” agli emittenti la cui affidabilità è indispensabile per
chi investe.
E la Mifid, la direttiva che doveva servire per garantire una
maggior tutela ai risparmiatori? Le possibilità di appellarsi ad
essa sono poche. “La banca ha l’obbligo di rispettare il profilo di
rischio del cliente solo nella fase in cui vende il bond”, spiega
l’avvocato Luca Zitiello. “Successivamente non è tenuta a
verificarne l’appropriatezza, ossia a dare indicazioni al cliente, a
meno che l’investitore non abbia stipulato un contratto di
consulenza di carattere continuativo volto al monitoraggio del
portafoglio (caso assai raro, ndr)”. Insomma, se l’obbligazione
venduta con un rating AAA (massima affidabilità), poi va in default,
diventa illiquida o si deprezza il risparmiatore non ha grandi armi
di difesa.
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Fonte
- MorningStar |
BOND:
L'ITALIA E' TRATTATA DA PAESE EMERGENTE
29 Ottobre 2008 18:58 NEW YORK -
di REUTERS ______________________________________________
Si amplia ancora il differenziale fra i rendimenti offerti
dai Btp decennale e il Bund tedesco: lo spread ha raggiunto
i 112 punti base. Nuovo record negativo dall'introduzione
dell'euro.
Rendimenti in brusco rialzo per i Btp in una seduta che vede
il forte rimbalzo dei listini azionari, con rialzi compresi
tra il 7 e il 10% in chiusura per i principali indici del
Continente.
I titoli del Tesoro italiano continuano a perdere terreno
verso Germania facendo registrare un nuovo record dello
spread di rendimento a dieci anni a 112 punti base, in
allargamento di ben 13 punti base dai livelli di chiusura di
martedì.
Il decennale risulta penalizzato anche rispetto alle altre
scadenze sulla curva dei rendimenti. La prospettiva di un
imminente ribasso dei tassi d'interesse sostiene infatti i
brevi provocando di riflesso un drastico allargamento dello
spread 2-10.
"Sul mercato continua a esserci molta pressione sui
periferici, anche in controtendenza rispetto al movimento di
rimbalzo delle borse che segnala un moderato ritorno della
volontà di assumere rischio", commenta un trader.
I volumi sull'obbligazionario restano in ogni caso
estremamente limitati. Alle 17,20 i volumi scambiati sul
future sul Bund a dicembre non raggiungono i 500.000 lotti.
L'avversione al rischio che spinge gli investitori a
preferire il rating tripla 'A' dei titoli tedeschi non
penalizza solo l'Italia e il Commissario Ue agli Affari
economici e monetari, Joaquin Almunia, ha definito oggi
"eccessivamente alti" i livelli dello spread tra Germania e
gli altri paesi dell'euro.
L'Italia, tuttavia, è zavorrata dal più alto debito pubblico
dell'area e il mercato non esclude un maggiore ricorso
all'indebitamento da parte del governo in un contesto di
grave crisi economica come quello attuale.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto oggi
che il governo è pronto ad aiutare le banche a superare le
difficoltà legate alla crisi procedendo, se necessario, a
sottoscrivere obbligazioni, covertibili e non, e azioni di
risparmio. Per quanto riguarda invece le misure a sostegno
dell'economia reale, Berlusconi ha spiegato che l'esecutivo
ha "in mente diverse cose" sebbene "i fondi siano
naturalmente scarsi".
Domani intanto il Tesoro offrirà in asta un nuovo titolo
decennnale oltre alle riapertura del Btp tre anni e del Cct,
per un totale compreso tra 5,75 e 7 miliardi di euro. La
cedola del nuovo Btp primo marzo 2019 è stata fissata al
4,5%. Sul grey market il nuovo titolo scambia a 95,77.
"Con un rendimento superiore al 5% difficilmente il titolo
non sarà appetibile", commenta un trader.
Fonte
- Reuters
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RISPARMIO:
ACRI; ITALIANI MOLTO
PESSIMISTI, 2/3 IN DIFFICOLTA'
30 Ottobre 2008 12:30 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 30 OTT - La crisi internazionale preoccupa
molto i risparmiatori italiani e nell'ultimo anno due
persone su tre sono andate incontro a disagi o difficoltà.
Dalla consueta indagine annuale realizzata dall'Acri in
collaborazione con Ipsos, in vista della Giornata Mondiale
del Risparmio che si terrà domani, emerge che la percezione
del futuro dell'economia rimane improntata a un forte
pessimismo, ma non è comunque particolarmente peggiore di
quello del 2007, già estremamente diffuso. "E' come se gli
italiani avessero già introiettato la percezione della crisi
e le preoccupazioni degli ultimi giorni non stiano
aggiungendo nuovi elementi di negatività", spiega l'Acri
precisando che la percentuale dei soddisfatti della propria
situazione economica rimane al 51% (molti più al nord che al
centro-sud), "ma ciò non vuol dire che la crisi
internazionale non abbia determinato effetti negativi". Come
lo scorso anno, il tenore di vita è ritenuto peggiorato
negli ultimi anni dal 65% del campione: i 2/3 di italiani
che nel 2008 hanno avuto disagi sono in linea con quelli del
2007, ma sono aumentati del 2% coloro che sono passati da
una situazione di difficoltà a uno stato di difficoltà grave
(il 21%, con circa un pensionato su 4 in difficoltà grave).
Inoltre gli italiani in maggiore difficoltà hanno ridotto
sensibilmente tutti i propri consumi, e anche chi sperimenta
difficoltà più lievi o non le sperimenta affatto, dice di
essere più accorto negli acquisti rispetto al passato.
Pensando al futuro, comunque, rispetto alla propria
situazione personale gli ottimisti (28%) prevalgono sui
pessimisti (21%), mentre c'é pessimismo sulla situazione
economica dell'Italia (49% contro 24% di ottimisti, ma nel
2007 la situazione era peggiore), dell'Europa (33% e 28%),
del mondo (37% e 27%). In generale, gli ottimisti sono
ancora il 34%, mentre il numero dei pessimisti è aumentato
dal 46% al 48%. E in media gli italiani si attendono ancora
tre anni di crisi (per il 54% tre anni o più). In questo
contesto l'italiano sembra confermare la sua tradizionale
prudenza: rimane molto alta la propensione al risparmio (87%
dei casi) anche se solo il 34% degli intervistati é riuscito
a risparmiare (1 punto percentuale in più rispetto al 2007).
Quelli che hanno consumato tutto il reddito sono il 38% (39%
nel 2007), mentre più di una persona su 4 (27%) consuma più
di quanto incassa. Rispetto al 2007 non ci sono sostanziali
differenze, anche se si registra una crescita tendenziale di
famiglie indebitate: in sintesi più di un terzo degli
italiani consuma più di quello che guadagna e non pensa che
riuscirà a invertire il trend nel prossimo futuro. Quasi un
italiano su 10 (9%) è così ricorso ai prestiti, quota
triplicata dal 2001 e più che raddoppiata dal 2004. Si
mantiene elevata la preferenza per la liquidità (60%), con
la speranza di poter investire magari nel mattone (56%) o
quantomeno negli strumenti considerati più sicuri (24%).
Riguardo poi all'impiego del proprio risparmio, metà degli
italiani dice che terrebbe conto solo degli aspetti
economici (rischio, rendimento) e un'altra metà afferma di
essere interessata a sapere in quale ambito verrà investito.
Di fronte ai grossi problemi che stanno avendo gli altri
paesi, infine, è migliorata l'opinione delle persone
riguardo alle regole e ai controlli presenti in Italia ed è
aumentata l fiducia nell'Europa. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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