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  Mercoledì 01 Ottobre 2008   Venerdì 03 Ottobre 2008   Sabato 04 Ottobre 2008  
       
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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Sentiment Mercati

Serve uno shock brutale, così potremo ripartire

Cisi creditizia e Fondi Hedge

Hedge Funds: strumenti di distruzione di massa

Sentiment Mercati

Borsa, l'illusione di aver toccato il fondo

Crisi Borse e investitori

Crisi: il mondo crolla ma il "value" compra

Crisi Borse - Storia

Il 24 Ottobre della Grande Depressione

Sentiment Mercati

Crisi: avete calcolato i danni collaterali?

Crisi Borse e tecniche di investimento

Le 5 regole d'oro dell'investitore "value"

   

Finanza italiana - Investimenti a rischio

Crisi: ecco le Index Linked congelate dall'Islanda

Finanza italiana - Investimenti a rischio

Pronti contro termine: rischiosi e non garantiti

Finanza italiana - Investimenti a rischio

Bond bancari, un approfondimento necessario

Finanza italiana - Investimenti a rischio

Obbligazioni, l’ora delle sorprese

   
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ANSA   +++   03 Ottobre 2008 20:10 MILANO   +++   CRISI MUTUI:BORSE BRINDANO A PIANO USA,ORA OCCHI SU BCE   +++   BORSA: L'approvazione del piano Paulson non dà slancio a WALL STREET.  PER S&P 500 SETTIMANA PEGGIORE 2001   +++   06 Ottobre 2008 08:51 MILANO   +++   BORSA: SFIDUCIA ASIA A PIANO USA, TOKYO CROLLA -4,25%   +++   Borsa: dal crollo asiatico a quello europeo   +++   CRISI MUTUI: IL LUNEDI' NERO DELLE BORSE DELL'87   +++   ANSA
 
  Domenica 05 Ottobre 2008   Martedì 07 Ottobre 2008   Mercoledì 08 Ottobre 2008  
       
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CRISI MUTUI: I GIORNI NERI DELLE BORSE A CONFRONTO /SCHEDA

06 Ottobre 2008 21:32 MILANO - di ANSA
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(ANSA) - MILANO, 6 OTT - Il crollo odierno è il peggiore registrato dai mercati europei e mondiali in una singola seduta dal lunedì nero del 1987, superiore in diversi casi anche ai ribassi dell'11 settembre a seguito dell'attacco terroristico alle torri gemelle di New York. Nella tabella un confronto dei ribassi dei principali mercati azionari mondiali nelle tre occasioni: Borsa 19/ott/1987 11/sett/2001 oggi ---------------------------------------------------------------- Londra -10,80 -5,21 -7,85 Parigi -9,60 -7,39 -9,04 Francoforte -9,30 -8,49 -7,07 Milano -6,20 -7,42 -8,24 Amsterdam -12,00 -6,95 -9,14 Stoccolma -6,37 -8,59 -7,24 Tokyo (20 ottobre)-14,50 (12 set) -6,60 -4,25 San Paolo -8,26 -9,18 (in corso) -12,3 New York -22,00% (17 set) -7,13 (in corso) -5,66 (ANSA).
 

Fonte - ANSA

 

 

 

Come evitare gli attacchi di panico

07/10/2008 15.31 - di MorningStar.it
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Sono in molti a chiedere cosa fare dei propri investimenti in questa fase di mercato e cosa succede a un fondo se la banca fallisce. Ecco alcune regole per decidere con razionalità.
“Ho fondi azionari internazionali, acquistati nel 2002. Vista la situazione internazionale non so cosa fare”. “Considerato il momentaccio dei mercati, non è più conveniente tenere i soldi sotto il materasso?” “Data la situazione critica dei mercati mondiali non mi sento più sicura di niente anche perché sono tra quelle che avevano investito nelle obbligazioni della famosa Lehman”. Sono alcune delle numerose e-mail arrivate in redazione in questi giorni, insieme a tante telefonate. La preoccupazione è giustificabile, dal momento che i risparmi stanno rapidamente perdendo di valore.
Gli investitori si trovano di fronte a due possibilità. La prima è placare l’ansia vendendo tutto, pagando il prezzo di una perdita, più o meno cospicua, che ci potranno volere anni per recuperare. E’ bene ricordare che se lo strumento in portafoglio ha perso il 20 o 30% del suo valore, non basterà che risalga della stessa entità, ma, rispettivamente del 25 e 43%. Se immaginiamo di comprare un titolo di Stato con un rendimento intorno al 4%, potrebbero volerci oltre cinque anni.

La seconda possibilità è mantenere i nervi saldi e non farsi dominare dal panico. In questo caso, si potrebbe andare incontro a periodi ancora più neri prima di vedere una risalita. Però non si vive nell’ansia di cogliere il momento giusto per rientrare e soprattutto non si cade nell’errore più frequente tra gli investitori di uscire nelle fasi di peggior ribasso e rientrare quando i mercati sono in stato avanzato di rialzo.
Nessuno sa se i piani di aiuti governativi riusciranno ad impedire una recessione economica globale, se gli interventi delle autorità monetarie serviranno a ridurre la sete di liquidità, se i mercati ripartiranno nelle prossime settimane o impiegheranno anni a risollevarsi. Per combattere contro l’incertezza esiste solo un’arma: operare con metodo e razionalità.
Christine Benz, direttore della finanza personale di Morningstar negli Stati Uniti, suggerisce innanzitutto di “avere un piano”, ossia costruire un mix di strumenti azionari e obbligazionari (asset allocation), coerente con la propria età, la tolleranza al rischio e gli anni che mancano alla pensione. E’ il portafoglio nel suo insieme che determina i risultati di lungo termine, non i singoli prodotti che lo compongono. Se in passato si è fatta questa pianificazione e oggi si riesce a rimanere coerenti, si riduce l’esposizione alla turbolenza. “Le decisioni che appagano psicologicamente sono spesso le meno redditizie”, ricorda Benz. E’ meglio rivedere la propria asset allocation periodicamente in modo regolare, senza farsi condizionare dallo stato delle Borse.
Un’altra via per tenere le emozioni fuori dalle decisioni di investimento è quella di scegliere un piano di accumulo (Pac), una formula che permette di versare ogni mese una somma per sottoscrivere un fondo per un certo periodo di tempo. Nelle fasi di ribasso, questa strategia consente di accumulare più quote (perché i prezzi sono bassi) e viceversa in quelle di rialzo, annullando così i picchi delle Borse.
Spesso l’ansia non deriva solo dalle notizie di mercato, ma anche dalla scarsa conoscenza degli strumenti di investimento e dalla confusione sul loro funzionamento. Molti si domandano: “Se la banca va in default, fallisce anche il mio fondo?”. In realtà, il patrimonio di quest’ultimo (come quello degli Etf e dei fondi pensione) è separato da quello della società che lo gestisce e dell’eventuale gruppo bancario di riferimento, per cui non viene intaccato. Esso, infatti, è custodito presso la banca depositaria e resta di proprietà collettiva dei sottoscrittori. Se il fondo viene liquidato, il capitale sarà restituito al risparmiatore al valore di mercato.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

ARMAGEDDON NEWS: IL CROLLO E' APPENA A META'

08 Ottobre 2008 17:43 NEW YORK - di WSI
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Il bagno di sangue non e' finito qui, anzi il crolo di borsa e' a meta' del tragitto, dice John Bogle, il fondatore di Vanguard Group, una delle maggiori societa' di gestione di fondi di investimento americani. Ma gli investitori che non ce la fanno, psicologicamente e finanziariamente, dovrebbero mettersi in cash oggi.
"Sfortutamente, penso che il timing sia pessimo, ma se non potete permettervi di perdere un altro penny, allora dovete uscire dal mercato", ha detto Bogle in un'intervista al programma Squawk Box di CNBC Usa.
Secondo il mitico fondatore del gruppo Vanguard, se gli investitori fossero rimasti ancorati ad un formula di investimento legata alla propria pensione, nella quale la percentuale investita in bond equivale alla propria eta', allora gli investitori avrebbero potuto evitato gran parte della sofferenza di queste settimane.
"Quel tipo di conti sono colpiti appena di striscio da questo crollo del mercato" ha detto Bogle. "Forse il calo e' del 3-4%, invece del 30%. Per cui se chi investe ha fatto un buon lavoro nell'allocazione e diversificazione dei propri investimenti, non dovrebbe trovarsi in quella situazione".
"Bisogna calcolare non solo le probabilita' di cio' che ci aspetta in futuro - e penso che siamo a meta' del calo nel mercato azionario - ma anche che guardando ai prossimi mesi potremo vedere finalmente qualche segno di miglioramento". "Ma qui si parla di probabilita' - ha detto Bogle - e io non sono un esperto come non lo e' nessuno sull'esattezza delle probabilita'. Probabilmente le chance sono due su tre, che questo possa essere lo scenario".
"Questo e' il mercato piu' speculativo della storia della finanza americana - ha concluso il fondatore del gruppo Vanguard - gli speculatori stanno scommettendo che le cose continueranno a peggiorare".

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Serve uno shock brutale, così potremo ripartire

09 Ottobre 2008 04:54 ROMA - di Anais Ginori

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«La recessione è inevitabile, anzi è auspicabile». Senza temere l´impopolarità, Charles Morris vede in una brusca contrazione dell´economia americana l´unica soluzione alla crisi dei mercati finanziari. Il ruolo di Cassandra si addice a questo finanziere pentito che da anni si dedica a denunciare i pericoli di «un sistema fondato su bilanci fittizi, derivati sempre più astratti e nessuna valutazione del rischio», ricorda parlando al telefono da New York. Dopo aver guidato per anni una società che offriva software finanziari alle banche, Morris si è convinto che il tracollo era imminente. Il suo saggio-inchiesta pubblicato a primavera negli Usa ("Crac!" ora in uscita in Italia per Elliott edizioni) è stato un bestseller. «Profetico» come ha scritto l´Economist.
Il titolo originale è "Trilion Dollar": lei quantificava in un trilione di dollari il costo del grande crac. La cifra effettivamente è questa? «Era una stima al ribasso perché nessuno è in grado di sapere quanto pesano swap, prodotti derivati e di credit default. Ormai sembra appurato che il tracollo ha già bruciato 2 trilioni di dollari. I cosiddetti "credit default swaps", il derivato creditizio più utilizzato, hanno innescato una caduta vertiginosa. Per colpa loro, l´interconnessione tra banche è diventata più stretta e implacabile».>P> Il Piano Paulson basterà?
«Assolutamente no. Le cause del collasso rimangono intatte. Dal 2000, l´America ha speso più del 5% del suo Pil, basandosi sull´aspettativa di crescita del mercato immobiliare. Tra il 2000 e il 2007, l´incremento dei prezzi delle case ha rappresentato circa il 6% del reddito degli americani. Oggi che il mercato immobiliare è crollato, gli americani sono indebitati fin sopra la testa. L´unica via d´uscita è tagliare drasticamente i consumi».
L´abbassamento dei tassi può essere una misura efficace?
«L´Amministrazione Bush sembra determinata a fare tutto il possibile per impedire la recessione. Se continuerà, rischiamo di avere una lunga stagnazione, come in Giappone. E questa è senza dubbio la soluzione peggiore. Gli eccessi di spesa sono stati così sproporzionati rispetto alla ricchezza del paese che il solo modo di ritrovare un equilibrio è passare attraverso una recessione. Il prezzo dei beni mobili e immobili deve tornare al valore reale. E prima accadrà, meglio sarà per l´America e per il mondo».
L´Europa è nella stessa situazione?
«Le banche europee sono esposte almeno quanto quelle americane: in parte perché hanno acquistato i derivati da noi, in parte perché hanno imparato a crearseli. Ma i consumatori europei sono in una situazione migliore degli americani, per questo mi aspetto nel vostro continente un trend meno profondo e spietato che in America».
Ci sono dei vincitori in questa crisi?
«E´ ancora presto per dirlo. Certamente gli investitori che hanno scommesso contro il trend prima che la crisi scoppiasse hanno guadagnato parecchio, così come i "vulture funds", i fondi-avvoltoio specializzati nel ricomprare società fallite o in bancarotta».
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Hedge Funds: strumenti di distruzione di massa

12 Ottobre 2008 22:22 LUGANO - di Corriere del Ticino

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Sono gli hedge che hanno smobilizzato tutto, per far fronte ai riscatti. E' l’ultimo tassello del processo di implosione del sistema finanziario. Si rischia di sfociare in una spirale deflazionistica. E in recessione.
Ora l’obiettivo prioritario deve essere evitare una nuova Grande Depressione. Infatti i ripetuti interventi di governi e banche centrali non stanno riuscendo nemmeno ad arginare l’incendio che sta bruciando il sistema bancario né ad impedire che le fiamme avvolgano anche l’economia reale, che non sta rallentando, ma letteralmente bloccandosi.
Il crollo delle borse degli ultimi giorni è solo l’ultimo tassello del processo di implosione del sistema finanziario e della presa d’atto che l’economia globale sta cadendo in una recessione profonda, che rischia di sfociare in una spirale deflazionistica e in una depressione.
L’epicentro della crisi – è bene ripetere – risiede nel mercato interbancario, in quello monetario e in quello dei capitali, che sono di fatto chiusi. Uno dei mercati in cui vi è ancora un po’ di liquidità è quello azionario. La caduta delle borse di questi giorni è dovuta a due fattori.
Inanzitutto, fondi di investimento e soprattutto Hedge Funds, che stanno accusando pesanti perdite e si trovano a dover far fronte ad un’impennata di richieste di riscatto da parte degli investitori, che si stanno finalmente accorgendo in quali perversi strumenti di distruzione di ricchezza e dell’intera economia si sono infilati, stanno liberandosi di tutto ciò che è ancora possibile vendere per fare cassa.
Tra queste attività primeggiano le azioni. I titoli più penalizzati sono infatti quelli definiti difensivi (alimentare, farmaceutico, utlities, ecc.), meno sensibili all’andamento congiunturale, e quelli a maggiore capitalizzazione, meno colpiti dalla chiusura delle vie di rifinanziamento. Gli altri titoli in forte ribasso sono quelli ciclici (auto, distribuzione, ecc.), a conferma che la borsa ritiene che l’economia stia cadendo in una severa recessione.
La borsa sta agendo come un notaio che prende atto della drammaticità della situazione esasperata dagli scarsi risultati finora ottenuti dai continui interventi di governi e banche centrali.
Ora l’obiettivo non può più essere limitato al salvataggio del sistema bancario: occorre impedire che l’incendio della carta straccia prodotta dalla finanza non bruci anche l’economia reale, ossia che non si traduca in una catena di fallimenti di imprese e quindi in una drammatica distruzione di posti di lavoro. In altre parole, bisogna evitare che la recessione già iniziata sia negli Stati Uniti sia nella maggior parte dei paesi europei sfoci in una spirale deflazionistica e in una nuova Grande Depressione.

I meccanismi che portano a questo sbocco sono già in azione. L’attuale forte contrazione del credito concesso a famiglie e imprese sta producendo, da una parte, una forte diminuzione dei consumi (si veda, ad esempio, il crollo delle vendite di automobili negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei) e dall’altra la riduzione della produzione e la cancellazione dei piani di investimento da parte delle imprese.
Il conseguente aumento della disoccupazione e la distruzione di ricchezza prodotta dal calo dei prezzi delle case e dall’evaporazione di miliardi e miliardi nell’incendio dei mercati finanziari non fanno che accelerare questo processo.
Occorre pertanto risolvere rapidamente due problemi: la contrazione dei consumi e degli investimenti e la difficoltà di accesso al credito di famiglie e imprese. Nel primo caso le banche centrali dovrebbero ridurre drasticamente il costo del denaro, facendolo scendere poco al di sopra dello zero, e i governi dovrebbero immediatamente varare grandi pacchetti di rilancio economico basati su investimenti pubblici e non tanto sul taglio delle tasse (che in questa situazione di panico si tradurebbe più in un aumento del risparmio che in un aumento dei consumi).
Ciò non basta. Occorre in qualche modo riaprire il mercato del credito. Gli scarsi risultati degli interventi susseguitisi nelle ultime settimane dimostrano che questo è il problema più difficile da risolvere. In tale ottica non bisognerebbe nemmeno escludere la trasformazione delle banche centrali in banche commerciali, come già sta facendo la Federal Reserve, che non solo fornisce liquidità alle banche, ma sostiene quello che resta del mercato monetario e ora sta anche finanziando a breve termine le imprese americane, cercando in tal modo di tenere aperto il mercato dei commercial papers.
Purtroppo banche centrali e governo sembrano ancora lontani dal prendere in considerazione iniziative del genere: infatti continuano ad impegnare moltissime risorse pubbliche per salvare le case (ossia le banche e il sistema finanziario) e a non prestare attenzione agli inquilini (famiglie ed imprese).
Salvare le case sembra essere l’unico obiettivo del segretario al Tesoro Henry Paulson, che ha ufficialmente dichiarato che il governo sta studiando seriamente l’ipotesi di una ricapitalizzazione del sistema bancario americano da parte dello Stato federale. L’ex numero uno della Goldman Sachs ammette così implicitamente che il maxipiano è già fallito e che è meglio investire i 700 miliardi dollari nella nazionalizzazione delle banche.

In pratica l’amministrazione Bush sta cominciando a pensare di copiare il piano del governo britannico, che si ripromette di usare i fondi pubblici per ricapitalizzare le maggiori banche inglesi. Questa virata dimostra che a guidare i pompieri del mondo non vi è solo l’uomo che ha diretto la maggiore banca di investimento, ossia uno dei maggiori responsabili dell’attuale marasma, ma anche che la strategia di Paulson è confusa e pericolosa.
La precedente decisione di lasciar fallire la Lehman Brothers ha del resto fatto precipitare la crisi ed era stata quindi un segnale premonitore. Anche per questi motivi è più che giustificata la paura che questa crisi si trasformi in un dramma che potrebbe condizionare la nostra vita e quella dei nostri figli per parecchi anni.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

 

Come si dice piano paulson in Svizzera?

12 Ottobre 2008 01:20 - di Macromonitor
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La Confederazione svizzera ha raggiunto un accordo con UBS, la banca europea che ha finora subito le maggiori perdite dalla crisi dei mutui. In base all’accordo UBS emetterà obbligazioni convertibili (mandatory convertible) per 6 miliardi di franchi, interamente sottoscritte dalla Confederazione, e conferirà fino a 60 miliardi di dollari di attivi rischiosi ad un fondo sostenuto dalla Banca Nazionale Svizzera. Il governo svizzero, inoltre, procederà ad aumentare la garanzia sui depositi ed a sostenere i prestiti interbancari delle banche del paese. Le misure adottate determinano il riallineamento della Svizzera alle iniziative adottate dall’Eurogruppo lo scorso fine settimana. Tecnicamente, UBS venderà 6 miliardi di franchi di mandatory convertible notes al governo svizzero. Dopo la conversione obbligatoria Berna avrà il 9,3 per cento della banca. La Banca Nazionale Svizzera, poi, presterà 54 miliardi di dollari per finanziare il fondo di attivi tossici, ricevendone in cambio un interesse e la compartecipazione ad eventuali utili.
Da inizio 2007 UBS ha contabilizzato 44,2 miliardi di dollari di perdite e svalutazioni su crediti relative a cartolarizzazioni di mutui, ed ha raccolto circa 27 miliardi di dollari in aumenti di capitale. L’operazione servirà alle banche per far fronte alle più strette regole sul capitale di vigilanza che la Confederazione sta per introdurre. UBS conferirà al fondo circa 31 miliardi di dollari di attivi statunitensi, inclusi subprime ed Alt-A, ed altri 18 miliardi di dollari di titoli di debito non statunitensi, e resterà praticamente priva di rischi legati a subprime, Alt-A, cartolarizzazioni su mutui residenziali e commerciali. La banca resterà con circa 4,3 miliardi di dollari di rischi legati alle assicurazioni monoline, e 4,7 miliardi impegnati in leveraged buyout. Il trasferimento degli attivi tossici al fondo pubblico determinerà l’emersione di un’ulteriore minusvalenza di 4 miliardi di franchi. A conferma del fatto che la Banca Nazionale Svizzera non è un organismo di beneficenza, basti pensare che UBS, dopo aver sottoscritto il capitale del fondo con 6 miliardi di dollari, cederà la partecipazione alla banca centrale svizzera per 1 dollaro, ed avrà l’opzione di riacquistarla (ma solo quando il prestito sarà stato rimborsato) per 1 miliardo di dollari oltre a metà del valore della partecipazione che eccede il miliardo di dollari. Di fatto, UBS assorbirà eventuali ulteriori perdite sul portafoglio crediti fino al dieci per cento del loro valore di cessione. Very smart.
“L’operazione ridurrà significativamente l’incertezza per azionisti e clienti di UBS e contribuirà alla stabilità del sistema finanziario assicurando l’ordinata vendita di questi attivi”. Almeno secondo il comunicato stampa, s’intende. In realtà si tratta dell’opzione minima per evitare l’avvitamento di UBS. La Banca Nazionale Svizzera ritiene che il prezzo di trasferimento di tali attivi sia tale da limitare il rischio di ulteriori perdite. La banca centrale finanzierà la posizione in dollari attraverso una linea di swap con la Fed. Interessante notare che l’operazione, proprio perché in dollari, non avrà impatto sugli aggregati monetari svizzeri.
E’ in atto quello che ci aspettavamo: una gigantesca operazione di riduzione della leva finanziaria, nota anche come deflazione del debito. Secondo uno studio di JPMorgan, le prime 29 banche europee hanno oggi un rapporto tra patrimonio netto ed attivi del 3,75 per cento. Per portare il quoziente ad un più accettabile (ma certo non elevato) 4,5 per cento, occorre che le banche si liberino di 5800 miliardi di euro di attività.
Nessun piano Paulson sul pianeta può arrivare a tanto. Forse conviene allacciare le cinture di sicurezza.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

Crisi: McCreevy, limiteremo il rischio dei mercati derivati

17 Ottobre 2008 14:58 BRUXELLES - di ANSA
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(ANSA) - BRUXELLES, 17 OTT - La Commissione Ue intende proporre entro l'anno nuove regole per limitare i rischi legati al mercato dei derivati.I derivati sono basati sul valore di altre azioni. Si tratta di un mercato il cui valore ammonta a circa 600 trilioni di dollari. ''Entro la fine dell'anno ci saranno delle proposte concrete su come i rischi riguardanti i crediti derivati possono essere mitigati'', ha detto il commissario Ue al mercato interno, Charlie McCreevy.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

BORSA: WARREN BUFFETT, E' ORA DI COMPRARE AZIONI AMERICANE

17 Ottobre 2008 15:37 ROMA - di ANSA
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(ANSA) - ROMA, 17 OTT - Warren Buffett va ancora una volta controcorrente e nel bel mezzo della tormenta che continua ad abbattersi sui mercati azionari mondiali, Borsa di New York compresa, consiglia adesso di comprare titoli azionari della Corporate America. Il 'guru' della finanza statunitense ha espresso questa convinzione al New York Times e fa presente che é pronto ad investire le sue risorse personali (distinte dalla partecipazione che detiene in Berkshire Hathaway, il suo braccio finanziario) in azioni statunitensi, se i prezzi continueranno ad essere attraenti. Buffett ha enunciato il principio in base al quale "occorre avere paura quando tutti sono troppo ottimisti, mentre bisogna essere ottimisti quanto gli altri hanno paura". Secondo Buffett, è "folle" nutrire preoccupazioni esagerate circa le prospettive di molte società statunitensi; molte aziende probabilmente cominceranno a riportare utili-record negli anni a venire. Il 'guru' della finanza - che ha superato di recente Bill Gates nella classifica degli uomini più ricchi d' America - ha detto ancora che mentre non è possibile prevedere i movimenti della Borsa sul breve periodo, con ogni probabilità il mercato azionario in ogni caso si riprenderà prima ancora che lo facciano l' economia reale o la fiducia degli investitori. "Se si aspettano i pettirossi - ha sottolineato - il rischio é che la primavera sia già finita". Le cattive notizie - ha concluso - sono il miglior amico di uno che voglia investire, in quanto gli consentono di comprare "un pezzo del futuro dell' America ad un prezzo di sconto". (ANSA).
 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Venerdì 10 Ottobre 2008   Domenica 12 Ottobre 2008   Martedì 14 Ottobre 2008  
       
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  Borsa, l'illusione di aver toccato il fondo

18 Ottobre 2008 16:12 MILANO - di Walter Riolfi

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Giovedì, quando Wall Street perdeva oltre il 4%, Warren Buffett stava comprando azioni. Ma nel tardo pomeriggio, quando l'S&P era tornato in pareggio e si avviava a chiudere in rialzo, l'oracolo di Omaha aveva già rinunciato ad acquistare. Perché mai, si sono domandati gli operatori, Buffett s'era fermato, se ha una visione di lungo periodo per i suoi investimenti? S'è saputo solo che l'"oracolo" non stava comprando per Berkshire, quanto per sè stesso e, forse, più che i panni dell'investitore, aveva assunto quelli del trader.
L'aneddoto non è così insignificante sapendo quanta attenzione ripongono i piccoli e grandi investitori sulle operazioni di Buffett. Insomma, si tratta di capire se questo è il momento giusto per entrare in Borsa o è meglio pazientare ancora. In altre parole: hanno gli indici toccato il fondo venerdì 10 ottobre, dopo aver perso il 43% l'S&P e il 49% lo Stoxx dai massimi dello scorso anno?
Qualcosa è cambiato
In settimana i mercati sono risaliti, ma grazie al rimbalzo dei primi due giorni originato dagli acquisti di chi aveva chiuso le posizioni al ribasso. Mercoledì e giovedì sono ritornati a scendere ed è difficile capire quanto abbia pesato la crisi del credito e quanto la consapevolezza della recessione. In ogni caso qualcosa di profondamente diverso è avvenuto: perché con i piani di intervento orchestrati dai principali Paesi per salvare le banche e assicurare loro la necessaria liquidità, la crisi del credito ha cambiato faccia.
È finita in secondo piano la paura di un crollo del sistema finanziario, ma sono riemerse le conseguenze di una bolla del credito che si sgonfia per la forzata restituzione dei debiti. Allo stesso tempo, smorzatasi la paura di una catastrofe come dopo il 1929, si è ritornati a considerare con maggiore razionalità le conseguenze di una recessione che, più che inevitabile, appare certa e presente.
Sul mercato del credito le cose sembrano migliorare, ma assai lentamente. Se è mutata la psicologia degli operatori, resta la tensione sui tassi d'interesse, come dimostra l'Euribor (a tre mesi) sceso dal 5,38% al 5,02% di ieri e il Libor Usa limato di 40 punti al 4,42%: in ogni caso restando entrambi ben più elevati dei tassi ufficiali della Bce e della Fed. Sono calati anche i tassi delle commercial paper e s'è notato un piccolo risveglio nell'emissione dei bond societari. Se davvero non si può dire che funzioni il mercato interbancario, c'è tuttavia l'attenuante che le banche riescono ad approvigionarsi di denaro a breve grazie alla disponibilità degli istituti centrali.
Vendite forzate
Le nuove conseguenze della crisi sono invece evidenti nei flussi di vendite, in gran parte forzati. È la conseguenza del debito che si sgonfia a ritmi sempre più rapidi. E siccome le banche devono ridurre il proprio e ridurre i rischi, pretendono adesso la restituzione dei prestiti concessi agli investitori: in particolare agli hedge fund, già gravati dalla pressione dei riscatti e costretti parecchi a chiudere i battenti. E siccome le azioni e le materie prime sono le poche attività rimaste liquide, le vendite s'abbattono impietose sulle Borse e sui future delle commodity.
Se si considera che il sistema degli hedge fund gestisce un patrimonio di circa 2mila miliardi di dollari e che nelle stime di molti investitori ci ritroveremo con il 25-30% di hedge fund in meno fra un anno, si intuisce come questo flusso di vendite sia destinato a durare. Basta guardare al rapido sgonfiarsi dei prezzi delle materie prime per immaginare che questo processo non dipende solo dalle peggiorate condizioni economiche mondiali. Le quotazioni del petrolio sono più che dimezzate rispetto a giugno, quelle del rame sono calate del 46%. E il costo dei noli marittimi è sceso dell'88%, a livelli che non si vedevano dalla recessione del 2001-02.
Siamo in recessione
È la recessione si dirà. Non c'è dubbio. E il peggio non s'è ancora visto a giudicare dai dati macroeconomici americani comunicati in settimana, quasi tutti disastrosi. Cosicchè gli economisti non hanno dubbi nel sostenere che gli Stati Uniti e l'Europa sono entrati in recessione in questo trimestre e buona parte sostiene addirittura nel terzo trimestre.
Ma questo ritornare dei mercati all'economia reale ha qualcosa di positivo, poiché le analisi e le previsioni ricominciano ad essere più razionali e più attendibili: quando quelle sulla crisi del credito erano spesso inaffidabili e suscettibili agli eccessi della paura. Certo, se si guarda al passato, l'inizio di una recessione coincide spesso con un minimo delle Borse. E se si dovesse ricalcare acriticamente i grafici storici, si sarebbe tentati di acquistare fin da ora. Ecco perché interessa tanto spiare le mosse di Warren Buffett.
Ma non è detto che l'oracolo possa avere sempre ragione. Lui stesso ha dichiarato ieri che è «duro» indovinare i tempi di un mercato. Ma ha anche lasciato intendere che i fondamentali dell'economia sono probabilmente migliori di quanto pensi la gente. Ma nessuna crisi è davvero uguale alle altre e l'intensità e la durata di questa recessione, la prima vera nell'era della globalizzazione, dipenderanno molto da quello che succederà nei Paesi emergenti e dalla condizioni nel mondo credito, squassato da eventi paragonabili solo a quelli degli anni 30.
In settimana l'S&P ha guadagnato il 4,92%, il Nasdaq il 3,85% e lo Stoxx il 4,5% (+4,8% Parigi, +5,2% Francoforte, +3,3% Londra, +6,6% Milano). Ma i mercati emergenti hanno perso il 3%.
 

Fonte - Il Sole 24Ore

 

 

 

 

 

 

Il mercato ha sempre ragione. Forse

Tuesday, 21 October, 2008 at 10:30 - di Phastidio
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Uno degli indicatori maggiormente seguiti dalle banche centrali nella determinazione delle attese inflazionistiche di lungo periodo è il cosiddetto breakeven inflation rate, cioè il tasso d’inflazione implicito che si ottiene sottraendo dal rendimento nominale di un titolo di stato il rendimento reale implicito in un titolo governativo di pari scadenza indicizzato all’inflazione. Nelle ultime settimane, in parallelo all’aggravarsi della crisi finanziaria, si è assistito ad un forte ribasso nei prezzi dei titoli di stato inflation-linked. Ciò ha determinato un abbattimento dell’inflazione di breakeven, ed un parallelo aumento dei tassi d’interesse reali. Da cosa potrebbe derivare questo movimento?
La riduzione nel tasso d’inflazione implicito in questi strumenti potrebbe trovare giustificazione nel marcato rallentamento congiunturale atteso per i prossimi mesi. Ma un ambiente recessivo non giustifica un tasso d’interesse reale che, ad esempio, sul BTP scadenza 2014 è del 2,8 per cento, mentre alla fine di febbraio era solo dell’1,6 per cento.
Una spiegazione legata a flussi di mercato anziché ai fondamentali economici ipotizza che questi titoli siano stati brutalmente scaricati da investitori istituzionali, come gli hedge funds, in queste settimane alle prese con imponenti richieste di riscatto e con le chiamate-margine causate da andamenti di mercato avversi alle strategie da essi perseguite. Si tratterebbe, quindi, di vere e proprie fire-sales.
Possiamo quindi considerare un “affare” acquistare ai prezzi odierni un titolo di stato indicizzato all’inflazione? Pur premettendo che non sappiamo ancora quanto durerà la fase di dumping da parte degli hedge funds e degli altri investitori a leva, e pur dovendo fare i conti con un rischio-deflazione che potrebbe materializzarsi nei prossimi mesi (quando saranno visibili gli effetti della stretta creditizia oggi in atto), occorre ammettere che un tasso d’inflazione implicito dell’1,3 per cento sul BTP 2014 appare sufficientemente protettivo.
Qualcosa su cui riflettere anche per le banche centrali, ad evitare di trarre eccessive inferenze da prezzi di attività finanziarie che il mercato sta fortemente sacrificando per motivi non direttamente legati alla congiuntura economica.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

DERIVATI, UNA BOMBA DA 700 TRILIONI DI DOLLARI

22 Ottobre 2008 00:02 NEW YORK - di WSI
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Mario Draghi ha dato l'allarme, seguendo dopo 5 anni il warning di Warren Buffett: i derivati (sul credito, sulle valute e sui tassi d'interesse) sono arrivati a numeri da far paura. E i rischi sono senza precedenti.
Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha dato l'allarme, ieri, con un ritardo di ben 5 anni e mezzo rispetto al warning di Warren Buffett: i derivati (sul credito, sulle valute, sui tassi d'interesse e su quant'altro) sono diventati un pericolo troppo serio per i mercati finanziari perche' non siano d'ora in poi sottoposti a controlli. "Se adoperati senza adeguata considerazione dei rischi consentono una moltiplicazione senza controllo della leva finanziaria" ha detto Draghi. Warren Buffett, l'uomo piu' ricco del mondo, in tempi non sospetti, il 4 marzo 2003, defini' i derivati "un'arma di distruzione di massa che pone rischi mega-catastrofici per i mercati finanziari" (leggere l'articolo [Buffett warns on investment 'time bomb']). Diamo i dettagli e le cifre ufficiali aggiornate sul mercato dei derivati esclusivamente agli abbonati a Insider, che possono leggerli cliccando su Insider. Non si parla di miliardi, ma di trilioni, per l'esattezza circa $700 trilioni di derivati relativi a strumenti di credito (gli ormai famosi Credit Default Swaps, o CDS), valute, tassi e ad altri strumenti finanziari. Un ammontare difficile da scrivere in cifre perche' ha troppi zeri. Una montagna di denaro a rischio, che fa paura.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

ROUBINI: PANICO E FALLIMENTI HEDGE FUNDS ALERT CHIUSURA MERCATI

23 Ottobre 2008 15:51 NEW YORK - di WSI
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Allarme dall'economista Nouriel Roubini. Centinaia di fondi falliranno e i governi saranno costretti a chiudere i mercati per almeno una settimana. Gli operatori fuggiranno da qualsiasi...
Centinaia di fondi hedge falliranno e i governi saranno costretti a chiudere i mercati per almeno una settimana a causa della crisi finanziaria che spingera’ gli operatori a stare lontani da qualsiasi forma d’investimento. Ad affermarlo e’ l’economista Nouriel Roubini, professore alla New York University.
"Abbiamo raggiunto una situazione di puro panico" ha affermato Roubini, che aveva previsto correttamente la crisi finanziaria 2006, durante una conferenza a Londra. "Ci sara’ una massiccia fuga dagli investimenti, salteranno centinia di hedge funds".
Nelle scorse settimane si e’ assistito ad un taglio coordinato dei tassi d’interesse da parte dei governi a livello globale, sono stati varati piani di salvataggio sulle banche nel tentativo di contenere l’impatto della crisi. "Il rischio sistemico sta divenendo sempre piu’ grande. Non stupitevi se i governi decideranno di chiudere i mercati per una o due settimane nei prossimi giorni" ha continuato Roubini.
Roubini ha sottolineato, secondo quanto riferisce Bloomberg, che la situazione sta peggiorando sopratutto per i mercati emergenti. "Ci sono una dozzina di mercati emergenti che si trovano in guai finanziari molto severi", ha precisato Roubini, sottolineando che "anche un Paese piccolo può avere un effetto sistemico sull' economia globale". Proprio oggi i tassi interbancari nei Paesi emergenti sono saliti ai massimi da sei anni per via del fatto che la Bielorussia si è aggiunta all' Ungheria, all' Ucraina ed al Pakistan nel chiedere aiuti al FMI.

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

 

  Domenica 19 Ottobre 2008   Martedì 21 Ottobre 2008   Venerdì 23 Ottobre 2008  
       
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  Crisi: il mondo crolla ma il "value" compra

23 Ottobre 2008 00:35 MILANO - di Elena Bonanni

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La recessione è dietro l’angolo. E sui listini è corsa a scaricare titoli: il timore è che il crollo degli utili possa essere più grave del previsto. Ma non solo: è pieno di vendite forzate prodotte dai riscatti. E così c’è chi va controcorrente: apre il portafoglio e compra. La storia dei mercati dice infatti che è nei momenti più bui che si creano le opportunità migliori. Lo sanno bene i 31mila azionisti di Berkshire Hathaway che ogni anno affollano l’arena di basketball di Omaha per l’assemblea della società del guru Warren Buffett. E lo sanno bene anche i fondi sovrani. L’ultima mossa? La Banca centrale di Libia è salita al 4,2% di Unicredit ed è pronta a mettere un’altra fiches da 500 milioni. E il discorso vale anche per chi è molto liquido, come Francesco Gaetano Caltagirone, che nelle ultime settimane ha acquistato titoli Generali per circa 19 milioni di euro.
LARGE CAP. E i money manager che fanno? Secondo quanto emerge da un sondaggio di Borsa&Finanza, diversi hanno riaperto la borsa. Come Valerio Salvati, responsabile europeo fondi di fondi di Jp Morgan Am, dopo essere rimasto sottopesato per diversi mesi. «Nell’ultima settimana - afferma - siamo tornati a comprare, in particolare large cap Usa, area su cui ora sono sovrappesato. Ma in settori non ciclici come i consumer staple, eccetto gli alimentari, oppure in società farmaceutiche medio-piccole». Un approccio che, comunque, si mantiene prudente evitando i titoli più sensibili alla congiuntura. Salvo guardare anche ai finanziari quando si tratta di situazioni meno incerte e a realtà con vaste reti commerciali. Salvati è tornato a riaccumulare qualcosa anche in Europa e sui mercati emergenti. Per il momento niente Cina, però. «Non siamo ancora convinti - afferma - Le valutazioni erano arrivate alle stelle e il momento negativo potrebbe continuare». Anche perché, afferma categorico, «la logica del decoupling non esiste, sostanzialmente non è mai esistita».
Certo, l’area asiatica ha il vantaggio di essere la prima beneficiaria di un calo del petrolio che è un forte elemento di allentamento delle pressioni sui consumi. «Ma allora - dice - preferiamo Hong Kong e Singapore. Qui però l’approccio deve essere fatto nome per nome».
GRANDE SELETTIVITÀ. Insomma, tranne alcune indicazioni di massima, la regola è: stock picking e ancora stock picking. Come fa anche Carlo Gentili, fondatore di Nextam Partners, che sta sfruttando i ribassi per tornare a investire su quelle storie che da tempo giudica interessanti: «Singole società che conosco e che mi piacciono, dove le quotazioni permettono di entrare a prezzi convenienti», dichiara. Da Enel, comprata in settimana a 5,01 euro, alle banche italiane, al pharma inglese Shire. «La selezione dei titoli - afferma - deve essere mirata: oggi è importante vedere se hanno debito, obbligazioni in scadenza o necessità di funding a breve». Perché, si sa, nel lungo periodo ci sono vincitori e vinti.
Non è un caso che tanto i fondi comuni quanto i singoli investitori seguano con religiosa meticolosità le scelte di Warren Buffett. L’obiettivo è replicare il successo: uno studio calcola che aver usato questa strategia per 31 anni avrebbe voluto dire avere un il 25% di ritorno annuale. D’altra parte Buffett, famoso per scovare società sottovalutate con vantaggi duraturi sui concorrenti, ha aperto il portafoglio anche nella bufera delle ultime settimane, comprando Goldman Sachs e Ge. «È in un contesto come questo che un abile processo di stock picking può dare buoni frutti - commenta Giles Worthington, gestore del fondo M&G Paneuropean Fund - Le opportunità saranno offerte da una volatilità che continuerà a rimanere alta e da prezzi azionari che oscilleranno significativamente».
Di fronte a crolli del 10% la selettività può però essere accantonata, anche se solo per un momento. «Nella fase di crolli così pronunciati la selettività è meno importante e si cerca di comprare in maniera allargata», afferma Giordano Martinelli, responsabile investimenti azionari di Anima, che sta accumulando con calma, senza euforia, ma con disarmante sistematicità su tutti i fondi. «Questa - dice - diventa più importante nelle fasi successive al rimbalzo».
STRATEGIA BOTTOM UP. Non solo. Martinelli segue un approccio bottom up comprando quello che gli piace in giro per il mondo, senza vincoli settoriali o geografici. Criterio di scelta? Scovare situazioni controverse. «Vale la pena di comprare dove ci sono problemi - afferma - se il prezzo sconta la presenza di storie più interessanti rispetto a quelle dove i nodi sono già stati risolti». Non sorprendetevi, quindi, se afferma che è proprio in questi momenti come questi che si trova a suo agio. «È un modello di lavoro che funziona meglio nei periodi di crisi - afferma - È più difficile trovare opportunità differenziali dopo che il mercato è salito per diversi anni».
Attenzione, però, ci tiene a ribadire, l’ottica di un portafoglio totalmente azionario è di almeno dieci anni. Poi, al contrario di quanto si potrebbe pensare, dal sondaggio emerge che i titoli finanziari sono ora ben comprati dai gestori value. «Nel fondo che gestisco, il New Star European Value Fund - afferma Nick Sheridan della società inglese indipendente New Star - non ci sono settori o Paesi preferiti ma la scelta avviene sui singoli titoli. In questo momento sto comprando proprio i finanziari, Bnp e Ubs». Al riguardo, il gestore Worthington sottolinea con lucidità che «le banche continueranno a registrare perdite legate al credito che ridurranno la loro capacità di generare profitti», ma non rinuncia a individuare alcune storie come Turkiye Vakiflar, Credit Suisse, Vienna Insurance e April.
È chiaro, però, non tutti amano le sfide. Così dal sondaggio emerge che chi nei mesi passati si è orientato su settori prudenti ha continuato sulla stessa strada, sfruttando i ribassi per continuare a comprare i titoli che avevano accumulato in precedenza. È il caso di Patrick Moonen, senior strategist di Ing, che ha continuato a investire in healthcare, settore giudicato economico rispetto ai livelli storici e dai bilanci solidi, poi energetici, utility e telecom. Attenzione, però, a farsi ingannare da settori genericamente «difensivi». Lo strategist, infatti, non ha voluto indicare i titoli scelti ma, è chiaro, anche qui è fondamentale lo stock picking.
Martinelli, per esempio, ritiene che commodity e petroliferi siano aree meno interessanti, perché hanno appena iniziato a smaltire un quinquennio di super-crescita e preferisce attendere prima di comprare. «Il settore dell’energia - commenta anche Salvati - è una value trap: presenta valutazioni basse su bilanci con forte crescita ma alla luce dei dati macroeconomici le nostre valutazioni ci inducono a pensare che rallenterà».
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  Il 24 Ottobre della Grande Depressione

24 Ottobre 2008 18:08 MILANO - di Matteo Mediola

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Quel giorno del 1929 iniziò la caduta del listino di Wall Street. Il Dow Jones perse l’11,73% fino al «sell-off» che si concluse soltanto nel 1932.
«Non mi risulta ci sia nulla di negativo nei fondamentali del mercato azionario, delle imprese e della struttura creditizia a esso relativa». Così parlò Charles E. Mitchell, presidente della National City Bank, martedì 22 ottobre 1929. Il giovedì successivo sul New York Stock Exchange vennero scambiate 12,9 milioni di azioni.
L’ondata di panico tra gli investitori non si fermò e il Dow Jones inaugurò la settimana successiva con un calo del 12,82 per cento. Il giorno dopo, 24 ottobre 1929, l’indice perse un altro 11,73. Era il «martedì nero» di Wall Street, devastante esplosione di una bolla speculativa che ha trovato paragoni solo in questi mesi, con il terremoto che ha sconvolto i listini internazionali in seguito alla crisi dei mutui americani.
Il crac che diede il via alla Grande Depressione (se ne sia stato la causa o il sintomo è un argomento ancora al centro di un acceso dibattito tra gli economisti) giunse al termine di un boom speculativo senza precedenti che vide i prezzi delle azioni crescere apparentemente senza freni per tutta la seconda metà dei «ruggenti Anni 20». Incoraggiati dal trend rialzista e attratti dal miraggio di facili guadagni, migliaia di comuni cittadini iniziarono a investire in borsa, arrivando persino a indebitarsi per poter acquistare nuove azioni.
Nell’agosto del 1929 il valore complessivo di prestiti e mutui era arrivato a 8,5 miliardi di dollari, una cifra che superava l’ammontare della moneta in circolazione negli Stati Uniti all’epoca. E per chi non aveva molta liquidità a disposizione, c’erano sempre i «derivati», che consentivano un investimento limitato al momento dell’acquisto con prospettive di redditività allettanti. I tassi di interesse arrivavano al 12%, e, con il Dow Jones che dal 1924 al 1929 aveva quintuplicato il suo valore, nessuno riusciva a immaginare di poterci perdere. «Persino il lustrascarpe o il ragazzo dell’ascensore elargivano consigli sulle quotazioni delle azioni Ford e General Motors - ricorda Paul A. Samuelson, Nobel per l’economia nel 1970 -. Si trattava di capitalismo allo stato puro, che praticamente agiva senza regole governative».
Intanto, il ritorno della Gran Bretagna al gold standard faceva sbarcare nuovi capitali sui lidi di Manhattan. Ma la sopravvalutazione delle azioni e la bolla creditizia avevano ormai toccato livelli insostenibili. Nel mese precedente il «giovedì nero» del 24 ottobre, data d’inizio della crisi, i mercati avevano già dato forti segnali di instabilità. All'inizio di settembre del 1929 la media del rapporto tra prezzi e utili delle azioni di S&P Composite aveva raggiunto quota 32,6. Nel mese successivo il valore dei titoli calò del 17%, per poi recuperare metà delle perdite e calare di nuovo.
La spirale ribassista non si fermò, e il 24 ottobre si scatenò il panico tra gli investitori. In una sola seduta vennero vendute 12,9 milioni di azioni. Il giorno successivo alcuni tra i più grandi banchieri d’America si riunirono per cercare di trovare una soluzione alla crisi, un po’ com’è avvenuto nei giorni scorsi tra Washington e New York.
Col capitale messo a disposizione dai colossi della finanza di allora, come il numero uno della Chase National Bank, Albert Wiggin, e il presidente della Morgan Bank Thomas W. Lamont, il vicepresidente della Borsa, Richard Witney comprò titoli di alcune tra le principali blue chip a un prezzo che ne sopravvalutava nettamente il valore. Ma la mossa non riuscì, come sperato, a spingere gli investitori ad acquistare di nuovo, ed ebbe come unico effetto una chiusura di sessione piatta. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Lunedì 28 ottobre l’ondata di vendite continua, e il Dow Jones perde il 12,82 per cento.
Il giorno successivo è il caos. Il principale indice della borsa della Grande Mela lascia sul terreno altri 11,73 punti percentuali. Solo in quella sessione vengono bruciati 14 miliardi di dollari. È il «martedì nero ». Il crollo si arresterà solo l’8 luglio del 1932, con il Dow Jones che chiude a quota 41,22 punti. Il 3 settembre 1929 era a 381,17 punti, il record di allora. In meno di due anni l’indice aveva perso l’89% e dovette attendere fino al 1954 per recuperare le perdite. Nelle parole dell’economista Richard M. Salsman «chi comprò azioni nella metà del 1929 e le tenne vide passare la maggior parte della vita da adulto prima di ritornare in pareggio».
Il panico si diffuse presto a tutte le piazze statunitensi ed estere. Si parla di numerosi suicidi di squali della finanza che in poche ore avevano visto svanire nel nulla tutte le loro ricchezze, un fenomeno successivamente ridimensionato da John Kenneth Galbraith in quello che è forse il libro più famoso sull’argomento: The Great Crash, 1929. I mercati finanziari di tutto il mondo vararono misure per sospendere i titoli che registravano ribassi eccessivi. Nel 1933 il Glass-Steagall Act introdusse la distinzione tra banche commerciali e banche d’affari, quegli istituti che, oltre a gestire depositi e fornire prestiti, si occupano del mercato dei titoli.
Nel frattempo lo Smooth- Hawley Tariff Act del 1930 aveva bruscamente aumentato i dazi doganali sulle importazioni, spingendo i partner commerciali dell’America a reazioni dello stesso segno e alimentando la sfiducia dei mercati e, con essa, le tendenze al ribasso. Era iniziata la Grande Depressione, le cui conseguenze inizieranno ad avvertirsi presto anche oltreoceano. E che, come uno scenario da incubo, rischiano di ripetersi oggi: siglando come un incubo la fine dell’era di George W. Bush.

 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

 

 

 

Deutsche Bank: il patrimonio non esiste più

26 Ottobre 2008 18:41 MILANO - di La Repubblica
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Fra non molto si riuniranno i capi dei 20 maggiori paesi del mondo per cercare di avviare qualche cambiamento nella finanza, per rassicurare la gente e per impedire che l´economia mondiale conosca altri momenti come questo. In termini sintetici il compito che hanno davanti è molto semplice: devono riportare dentro i corretti binari l´attività delle banche. Ma non sarà tanto semplice perché gli interessi in gioco sono tanti e sono molti corposi. Proviamo a fare un esempio.
Può stupire che una banca ritenuta seria come la Deutsche Bank abbia in portafoglio impegni (insomma, soldi prestati) di classe 3 per una cifra che è 3-4 volte il suo patrimonio. E fa ancora più impressione il fatto che la roba di classe 3 vale di fatto zero o quasi. Dal che si arriva alla conclusione che il patrimonio di Deutsche Bank di fatto non esiste più.
Ma come si è arrivati a tanto? A combinare un disastro così grande? Una volta le banche avevano dei limiti molto stretti per la loro azione: se un istituto aveva otto miliardi di capitale, poteva prestare al massimo 100 miliardi (o assumere impegni per 100 miliardi). Si può discutere se questo rapporto è alto o basso, ma ha funzionato. Poi è arrivata la riforma di Basilea 2, cioè un nuovo insieme di regole. La trovata delle banche quale è stata? Questa: non tutti gli impegni sono uguali, non tutti presentano lo stesso rischio. Bisogna ragionare.
E sono stati assunti rapidamente matematici di valore, e anche fisici, che si sono messi a fare i conti. E alla fine i 100 miliardi di impegni consentiti si sono dilatati, grazie al fatto che ogni banca era in grado di dimostrare che aveva assunto impegni molto a rischio, ma che questi rientravano in un rischio complessivamente sostenibile.
Per quegli impegni che erano rappresentati da titoli fuori mercato (e quindi non valutabili oggettivamente), insomma il materiale di classe 3, si sono avvalsi dei giudizi (amichevoli) delle agenzie di rating (un disastro planetario) o di valutazioni interne basate sui complicati algoritmi elaborati dai soliti matematici e fisici.
Il perché di tutto questo è abbastanza ovvio. Se io vendo scarpe, voglio allargare il mio mercato e, in teoria, voglio che tutto il mondo abbia dieci paia di scarpe. Se vendo denaro voglio che tutti vengano a prendere del denaro da me: in questo modo allargo il mio giro d´affari, aumento i miei profitti, e posso anche aumentare il mio stipendio (e i miei bonus) perché ho lavorato bene.
E allora, grazie ai matematici, dimostro che ogni dieci prestiti "buoni" ne posso fare altrettanti (o di più) che magari proprio buoni non sono. Gioco sul fatto che non tutti questi impegni andranno male insieme. Lavoro sul calcolo delle probabilità, gioco al lotto. E, nell´attesa, incasso commissioni e provvigioni.
Adesso, per evitare altri disastri, bisognerà trovare la forza di riportare le banche a fare le banche oculate, quindi a non prestare più soldi di quello che consente loro il patrimonio di cui dispongono. In sostanza, bisogna tornare a prima di Basilea 2, e forse sarà utile mandare a casa un po´ di matematici e di fisici. Fine dei giochi di azzardo.
Il denaro, come doveva essere ovvio da alcuni secoli, va prestato con grande attenzione e grande prudenza. Ma le banche, è ovvio, faranno resistenza. Perché questo ritorno alla ragione significa ridimensionarsi, ridiventare più piccole e meno importanti.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

  Crisi: avete calcolato i danni collaterali?

26 Ottobre 2008 21:36 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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Il mondo dei gestori (che siano grandi istituzioni o piccoli privati, che ne siano consapevoli o meno) può essere grosso modo diviso in due gruppi. Al primo appartengono gli investitori orientati al valore, al secondo quelli che cercano di individuare il momento giusto per comprare (o vendere) indipendentemente dal valore.
In realtà, nel secondo gruppo, solo i momentum player (quelli che comprano quando il mercato sale e vendono quando sta scendendo) non badano al valore. Gli altri, probabilmente la maggioranza, cercano di conciliare il momento migliore per agire con un valore accettabile. Un obiettivo ambizioso.
Tra gli investitori orientati al valore il più celebre è Warren Buffett, che nei giorni scorsi, sul New York Times, ha fatto una pubblica dichiarazione di fiducia sull’esistenza di valore nell’azionario in questo momento. Come è noto, negli ultimi due mesi Buffett ha acquistato parecchio. Il suo appello "adesso comprate anche voi" non è dunque un armiamoci e partite.
A sostegno della tesi che in questi mercati c’è del valore citiamo alcuni numeri. L’S&P500 è oggi più o meno sugli stessi livelli di altri due periodi che oggi sembrano appartenere ad altre epoche storiche, eppure sono vicini nel tempo. Il primo è la seconda metà del 1997, nei tempi felici della bolla nascente di Internet, quando comunque le quotazioni avevano ancora i piedi per terra. Il secondo periodo con uno S&P500 al livello medio di 900 va da metà 2002 alla primavera del 2003, nella fase finale del bear market iniziato tre anni prima.
Se andiamo a vedere gli utili per azione (operativi) dei 500 titoli dell’indice di questi due periodi (i numeri li prendiamo da Morgan Stanley), vediamo che erano di 44 dollari a fine 1997 e di 48 a fine 2002 (utili trailing, per i pignoli).
Se adesso guardiamo alle stime degli utili 2009 e prendiamo non quelle di consenso ma quelle più pessimistiche che abbiamo trovato (proposte da Rosenberg di Merrill Lynch e da Nouriel Roubini) vediamo un valore di 60 dollari. Ricordiamo che Rosenberg parte da un’ipotesi di recessione profonda (con una velocità annualizzata di decrescita del Pil tra meno tre e meno quattro per cento per la prima metà del 2009). Quanto a Roubini, la sua idea è che la recessione sarà severa e durerà due anni.
Con utili per azione a 60 dollari e lo stesso multiplo di 1997 e 2002, l’S&P500 dovrebbe stare oggi tra 1150 e 1250. Che ci sia valore nell’azionario, quanto meno rispetto ai due periodi che stiamo considerando, lo dice anche il valore di libro dei 500 titoli.
Era di 247 dollari a fine 1997 e di 338 a fine 2002. A fine 2007 (il dato più recente che abbiamo trovato) era di 528. Da allora sarà anche sceso, ma è difficile credere che si sia dimezzato. Il valore di libro, per inciso, era una metrica molto in voga alla fine dell’estenuante bear market degli anni Settanta e non a caso. Si tratta infatti del criterio di valutazione più prudenziale.
Naturalmente si può discutere sui multipli da applicare agli utili. I multipli, per lo meno nel mondo ovattato della teoria, dovrebbero essere funzione soprattutto dei tassi. Bene, i Fed Funds a fine 1997 erano al 5.50 per cento e a fine 2002 stavano all’1 per cento. A metà 2009 staranno verosimilmente all’1 o sotto. Anche da qui, quindi, una segnalazione di possibile valore.
Facciamo quindi gli auguri a Buffett e a tutti i value player. In particolare Buffett, che è diventato una metrica lui stesso, ha giocato perfettamente tutte le grandi tendenze a partire dalla fine degli anni Settanta, ma con un anticipo medio di tre-sei mesi (se aspettate le rondini la primavera sarà finita, ha scritto). Non possiamo però non pensare che quelli fatti finora siano solo l’inizio di una serie di acquisti che proseguirà nei prossimi mesi.
Poi ci sono altri problemi. Il processo di riduzione della leva in corso a livello globale è a dir poco imponente ed è ben lontano dall’essere terminato. Quando è in gioco il valore più grande della sopravvivenza come soggetto investitore si può ben sacrificare il valore più piccolo dei titoli che si liquidano forzatamente con l’acqua alla gola per pagare i margini e rientrare nelle linee di credito ridotte dalle banche a loro volta nel panico.
Certo, alla riduzione della leva da parte degli operatori privati corrisponde l’aumento da parte delle banche centrali. La leva della Fed, stabile da anni, è raddoppiata nell’ultimo mese e può raddoppiare ancora in tempi brevi. Tutte le banche centrali, più o meno direttamente, prestano ormai soldi ai privati per i mutui, alle banche, ai fondi monetari e alle imprese. Sul prestare ai fondi hedge c’è riluttanza, perché non sta bene, ma si troverà qualche sistema indiretto per aggirare l’ostacolo.
Se le cose dovessero continuare a deteriorarsi si arriverà a un targeting della parte lunga della curva governativa, con acquisti infiniti fino al raggiungimento del tasso obiettivo. Secondo fonti di stampa ci sono già stati interventi di sostegno alle borse con acquisti diretti. Se è vero, altri ne seguiranno.
Se tutti vendono tutto, le banche centrali (previa sterilizzazione) possono comprare il mondo senza creare per questo inflazione. Chi parla a sproposito del rischio d’inflazione di questa pratica dovrebbe anche parlare del rischio di deflazione, uguale e contrario, creato da chi vende alle banche centrali. Il Giappone degli anni Novanta, dove si è arrivati a un debito interno del 160 per cento del Pil e a una banca centrale allargatasi a un terzo del Pil, è lì a dimostrare che si possono prendere misure estreme senza produrre nemmeno l’ombra dell’inflazione.
Detto questo, registriamo che gli interventi delle banche centrali, per quanto coraggiosi, mantengono la loro natura reattiva. Vengono decisi, in altre parole, un minuto dopo la creazione del buco, non un minuto prima. Per questo è ben possibile che l’erosione del valore degli asset continui.
La ferocia del processo in corso conferma una tesi cara a Greenspan, per cui i processi di aggiustamento dei mercati sono veloci e molto efficienti. Il petrolio dimezzato in tre mesi e l’euro passato da 1.60 a 1.26 nello stesso arco di tempo fanno pensare che l’aggiustamento che in Giappone ha richiesto più di 10 anni questa volta sarà molto più rapido. La rapidità, però, continuerà a produrre danni collaterali rilevanti in luoghi non sempre facilmente prevedibili.
Per quanto si voglia essere ottimisti sulla durata della recessione, due fatti vanno tenuti presenti.
1) Non ci sono precedenti storici di minimi di mercato realizzati a inizio recessione. Nassim Taleb e i suoi cigni neri ci insegnano che ci può essere sempre una prima volta, ma è rischioso contarci troppo. Al momento la stessa Fed parla di forti venti contrari (il suo modo di parlare di recessione) almeno fino a metà 2009.
2) Anche nell’ipotesi che questi fossero i minimi, fra sei-nove mesi difficilmente saremmo molto più in alto. In compenso la visibilità sarà sicuramente maggiore. Alcuni dei soggetti oggi in circolazione fra sei-nove mesi avranno fatto default, altri saranno stati acquisiti per un piatto di lenticchie. A dire il vero, la massima concentrazione di default non è nemmeno a fine recessione, ma addirittura nel primo anno di ripresa.
Chi deciderà di aspettare, ovviamente, dovrà rinunciare ai bear market rally che riusciranno a infilarsi in questo quadro così grigio da qui a fine 2009. I pretesti potranno essere numerosi.
1) Fine anno. Con mercati a meno 40 (per adesso) da gennaio non è impossibile un certo recupero.
2) Tagli dei tassi di policy. Il primo, da parte della Fed e forse anche di altre banche centrali, potrebbe già essere il 29 ottobre.
3) Un avvicinamento ulteriore alla normalità negli spread tra tassi di policy e tassi interbancari.
4) Il secondo pacchetto fiscale americano, che sarà di dimensioni più ampie di quello dell’estate scorsa. Sarà varato probabilmente in febbraio, ma sarà annunciato nella sua struttura già in novembre/dicembre, in modo da fornire un supporto ai mercati e alle attese degli operatori dell’economia reale. Il primo pacchetto ha impedito la recessione tra giugno e agosto, il secondo mitigherà la recessione del primo e del secondo trimestre 2009.
5) Un momentaneo allentamento del processo di riduzione della leva, che procede più a ondate che in modo lineare.
Pur con tutta questa varietà di possibili temporanei rialzi facciamo nostro un commento di un gestore che abbiamo ascoltato sulla Cnbc. Con una situazione come questa è meglio essere fuori dal mercato e desiderare di esserci dentro piuttosto che essere dentro e invidiare quelli che ne sono fuori.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

  Le 5 regole d'oro dell'investitore "value"

27 Ottobre 2008 20:39 MILANO - di Massimiliano Malandra

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Compra e tieni. Anche per anni. È la filosofia di base dell’investitore «value», che vanta illustri predecessori. Dal precursore Ben Graham negli anni ’30 fino a Warren Buffett. Ma in concreto come si agisce? Buffett ama ripetere di «non investire un dollaro se non si pensa di guadagnarne almeno un altro». Non solo: al value piacciono le fasi di Borsa discendente perché si compra a sconto. E ancora Buffett: «Le società è meglio se sono brutte e noiose». E con multipli contenuti: otto-nove volte gli utili, Roe elevato e possibilmente una capitalizzazione inferiore ai mezzi propri.
Insomma non devono essere di moda o promettere di far arricchire in fretta l’investitore. Meglio poi se sono trascurate da analisti e gestori e proprio per questo hanno multipli bassi. Almeno finché non vengono scoperte dagli operatori, e a quel punto l’investitore value è quasi pronto a vendere.
Quanti bilanci occorre osservare prima di acquistare i titoli? E per quanto conservarli? Alla prima domanda molti gestori value rispondono: «almeno tre-cinque anni», un lasso di tempo per valutare la forza del business, la capacità del management e la continuità dei risultati. Più difficile il timing, poiché non esiste un momento specifico in cui abbandonare l’investimento, se non le variazioni dei multipli.
PRICE/EARNING: il rapporto fra prezzo e utili è il primo indicatore che si consulta e quello di più facile lettura. In realtà preso a sé stante, il ratio significa poco. Occorre contestualizzarlo, confrontandolo ad esempio con Roe, utili attesi per gli esercizi successivi e flussi di cassa. Ancora meglio è utilizzare il cosiddetto trailing p/e, in cui l’utile (normalizzato, vale a dire quello delle attività correnti, escludendo pertanto le poste straordinarie) è quello degli ultimi quattro trimestri disponibili, in modo da avere un quadro sempre aggiornato della situazione. Un p/e costantemente inferiore alla redditività (espressa dal Roe) rappresenta già un primo segnale di una società di cui vale la pena approfondire l’analisi. Anche se in genere si tende a non comprare a oltre le 16-17 volte gli utili.
PRICE/FREE CASH FLOW: è un indicatore più efficace del p/e. La maggior parte delle immobilizzazioni materiali presenti nei bilanci, infatti, tende a perdere valore nel tempo. Le norme contabili fissano piani di deprezzamento specifici per i vari asset, ma nel mondo reale questi beni si deprezzano a ritmi diversi da quelli decisi dai principi contabili. Valutare le azioni sulla base dei flussi di cassa risulta quindi preferibile, visto che sono una misura delle entrate e uscite monetarie di una società. Per il calcolo del cash flow si parte dai profitti realizzati da una società, si aggiungono i deprezzamenti, gli ammortamenti e altri costi non monetari e, infine, per il calcolo del free cash flow, si procede poi con ulteriori aggiustamenti sottraendo, per esempio, gli investimenti in nuovi stabilimenti.
PRICE/BOOK VALUE: scovare società che capitalizzano meno del proprio patrimonio non è ora difficile. E anche questo indicatore può rappresentare un filtro per un investitore value. Prezzare una società meno dei mezzi propri significa non assegnarle alcuna redditività o prospettiva reddituale, ma se fa utili con continuità, ha un regolare dividendo, un indebitamento finanziario contenuto e conserva buone prospettive, il titolo ha buone possibilità di essere sottovalutato.
DEBITO/EBITDA: è il rapporto fra indebitamento finanziario netto e margine operativo lordo e segnala di quante volte il primo supera la capacità dell’azienda di generare reddito attraverso la gestione caratteristica: in pratica indica se e in quanti anni l’azienda è in grado di ripagare il debito con il Mol. Quanto più tale valore è elevato, tanto più si allontana nel tempo la capacità per l’azienda di ridurre i debiti. In genere un valore inferiore alle tre volte è preferibile, se superiore a cinque è meglio stare alla larga.
DIVIDEND YIELD E PAYOUT RATIO: il primo indica il rendimento del dividendo (rapporto fra cedola e prezzo in percentuale). Più è alto, più la cedola staccata è elevata rispetto al prezzo, ma non necessariamente questo è un bene. A volte può implicare una certa sottovalutazione del titolo, a volte l’indicatore è fallace (Telecom Italia, ad esempio, per anni ha erogato cedole generose, ma la discesa del titolo ha sempre affossato il rendimento complessivo). Un utile filtro aggiuntivo (i prezzi fluttuano ma la volatilità dei dividendi è senz’altro inferiore) è così rappresentato dal payout (rapporto fra monte dividendi e utile netto): valori contenuti - sotto il 50% - sono un viatico alla stabilità delle cedole anche in caso di discesa dei profitti.

 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

 

GM: Hummer(ed) down

Wednesday, 29 October, 2008 at 15:04 - di Charles Dexter Ward
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General Motors ha riportato oggi i risultati trimestrali che sanciscono di fatto la fine di un’era in cui l’azienda di Detroit è stato il più grande produttore di auto del mondo. Anche in questo trimestre Toyota ha allungato il passo e difficilmente GM riuscirà nell’impresa di riguadagnare il terreno perduto. Gia l’anno scorso il margine era molto esiguo ma la drammatica crisi in cui versa il settore auto americano ha giocato a favore della casa nipponica che ha pagato un pegno minore in termini di diminuzione di volumi sulle vendite auto.
Le obbligazioni General Motors (Caa3/B-) scambiano ormai da diversi mesi a livelli pienamente distressed: GM 7.25% 2013 passa di mano a quota 35, poco più di un terzo del suo valore nominale, mentre il bond GM 8.375% 2033 è scambiato in area 30. Chiaramente a questi livelli ha poco senso parlare di spread mentre evidentemente i bond scambiano a prezzi che incorporano una elevata probabilità di default. Va altresi notato come in situazioni del genere si assiste ad una convergenza dei prezzi dei bond verso un teorico valore di recovery, indipendentemente dalla cedola e dalla scadenza. All’inversione della curva dei credit default swap fa quindi normalmente seguito una sovra performance dei bond con un prezzo più basso, in questo caso rappresentati dall’emissione trentennale.
L’attuale range di prezzo si colloca comunque al di sopra o comunque nella parte alta delle stime di recovery rate: di fatto quindi il mercato assegna ancora un piccolo premio all’opzione “non default” su questi titoli: mentre è difficile sperare che questi bond non saranno oggetto di una qualche forma di ristrutturazione, il fattore temporale qui gioca un ruolo determinante visto l’elevatissimo livello di rendimento corrente offerto da questi titoli.
Ad oggi General Motors può contare su una riserva di liquidità che appare sufficientemente ampia per poter far fronte a tutti gli impegni fino a metà del prossimo anno: rimane il problema dell’elevatissimo livello di cash burn, quantificabile approssimativamente in un miliardo di dollari al mese.
Il 27 ottobre Moody’s ha declassato di un notch il proprio giudizio su General Motors portandolo a livello di Caa2 con out look negativo: anche lo Speculative Grade Liquidity rating è stato rivisto al ribasso fino ad un livello di SGL-4.
Anche con riferimento ai commenti dell’agenzia di rating è possibile individuare alcune areee di criticità:
Debole contesto economico che minaccia di avere un forte impatto sul livello assoluto di vendite di auto;
I tempi lunghi (18-24 mesi) necessari per adeguare l’offerta produttiva allo shift della domanda dei consumatori che si stanno allontanando dal segmento dei SUVs preferendo veicoli di più modeste dimensioni;
• L’ormai compromesso pricing power dell’azienda;
• Le problematiche connesse alle difficoltà in cui versa GMAC, la divisione finanziaria che fornisce l’indispensabile supporto alle vendite di GM.
Di seguito vengono evidenziati i fattori positivi che possono invece contribuire a superare il momento di estrema difficoltà in cui versa l’azienda di Detroit e l’intero settore auto:
• Le drastiche misure prese da General Motors per preservare la liquidità e contenere i costi;
• Il supporto del governo americano al settore: sono molteplici le forme attraverso cui questo sostegno potrebbe concretizzarsi, a partire dal finanziamento straordinario gia annunciato e di cui si attendono i dettagli, passando per l’ammissione delle divisioni finanziarie dei grandi produttori auto alla cosidetta Tarp.
Last but not least la benedizione di Wahington appare la “condicio sine qua non“ affinché possa concretizzarsi la fusione con Chrysler, allo studio in queste ultime settimane.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

HEDGE FUNDS: CANTIAMOGLI IL DE PROFUNDIS DICE SOROS

29 Ottobre 2008 17:42 NEW YORK - di WSI
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La crisi finanziaria globale provochera' un drastico ridimensionamento del settore degli hedge funds, che caleranno dalla meta' a 2/3 rispetto ai numeri attuali.
La crisi finanziaria globale provochera' un drastico ridimensionamento del settore degli hedge funds, che caleranno dalla meta' a 2/3 rispetto ai numeri attuali, ha detto l'investitore miliardario George Soros.
"Il comparto degli hedge funds subira' un terremoto" ha spiegato in un discorso ieri al Massachusetts Institute of Technology di Boston colui che e' tra i pioneri, e forse il piu' conosciuto personaggio del settore, avendo Soros fondato negli anni Settanta Quantus Funs, uno dei primi hedge fund del mondo. "Secondo le mie stime - ha detto l'investitore - il comparto sara' ridotto in dimensioni in una misura compresa tra la meta' e 2/3". Soros pero' non ha spiegato se intendesse riferirsi al numero degli hedge funds oggi presenti sul mercato finanziario globale (circa 10.000 secondo alcune stime) oppure al totale del patrimonio investito nei fondi.
Molti dei grandi ricchi del mondo stanno ritirando in massa i propri capitali dagli hedge funds, notori nel mondo finanziario per la quasi totale assenza di regolamentazione da parte delle autorita' di controllo. Compatibilmente con le regole relative ai riscatti (minimo 90 giorni, di solito un quadrimestre) gli hedge funds sono stati indicati come i veri responsabili delle vendite "forzate" che hanno piagato le borse nell'ultimo mese (proprio per far fronte ai riscatti) il che ha provocato ribassi record superiori a -30% degli indici di borsa.
Gli hedge funds, che avevano visto raddoppiare negli ultimi anni scorsi il loro patrimonio totale a circa $1.9 trilioni, dovrebbero essere regolamentati, ha detto Soros. Il miliardario fu uno dei primi a lanciare l'allarme sulla gravita' e profondita' della crisi globale. Per stabilizzare l'economia, gli enti di controllo governativi dovrebbero monitorare il mercato del credito, il che rendera' alcuni aspetti del business dei servizi finanziari meno redditizio, ha concluso l'investitore di origine ungherese.

 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

Quanto si può resistere prima di vendere

30/10/2008 15.30 - di Sara Silano
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Ci hanno sempre detto che quando investiamo il nostro orizzonte deve essere di lungo termine. Chi ha comprato un fondo azionario cinque anni fa oggi perde in media il 3,8%. Eppure non si può dire che questo periodo sia breve ed è difficile accettare l’idea di aver tenuto i soldi in un fondo per tutto questo tempo senza aver guadagnato. Anche perché se fossimo entrati nell’ottobre del 2003 e usciti a fine 2007 avremmo potuto ottenere un incremento del capitale del 78% (media aritmetica dei rendimenti di tutti i fondi azionari distribuiti in Italia).
Ha senso, dunque, parlare di lungo periodo? I mercati alternano fasi di rialzo e ribasso e sono imprevedibili. Alcuni cicli di Borsa durano di più, altri meno. Alcuni sono molto volatili, altri più tranquilli. L’esperienza passata insegna che non sempre le perdite sono state ripianate alla fine di un ciclo. Secondo uno studio di Ibbotson, tra il 1929 e il 2000, in media i periodi negativi sono durati due semestri, cui ne sono seguiti otto di crescita (in tutto cinque anni), per un guadagno complessivo del 34%. L’analisi, presentata al convegno sulle nuove sfide per i promotori finanziari, organizzato da Morningstar e Il Sole 24 Ore lo scorso 29 ottobre, mostra anche che gli anni più neri sono stati quelli della crisi del 1929: in un triennio i listini persero oltre l’80% e non bastò il +373% dei nove semestri successivi per cancellare i ribassi.
La prima lezione da trarre è che un quinquennio può rappresentare un periodo sufficientemente lungo per ottenere un guadagno dall’investimento in un fondo azionario. Infatti, se guardiamo ai rendimenti rolling (ossia a scalare in avanti di mese in mese) dal 2000 ad oggi su intervalli di 60 mesi, nel 76% dei casi le performance sono positive. Se si estende l’orizzonte temporale, inoltre, la probabilità di conseguire perdite con le azioni si riduce sensibilmente. Non solo, le azioni rendono più delle obbligazioni, anche se queste ultime sono un buon strumento di diversificazione nelle fasi di declino, quando la correlazione tra le Borse cresce.
Applicando questo metodo al proprio portafoglio, qualcuno potrà scoprire che i conti non tornano. Due sono le possibili spiegazioni. La prima è che il ciclo dei propri investimenti, cioè il momento dell’acquisto del fondo, è cominciato in una fase di picco dei mercati. Un tipico errore consiste nel comprare ai massimi e vendere ai minimi. Come ha spiegato il professor Ruggero Bertelli nel corso del convegno di Morningstar e Il Sole 24 Ore, tra il 1997 e il 2007, gli italiani hanno prima guadagnato investendo in azioni tra il 1997 e il ’99, poi hanno perso in seguito alla bolla speculativa del 2000 e successivamente non sono più rientrati nonostante la fase di rialzo cominciata nel 2003. In pratica, il guadagno è stato nullo. Al contrario, se avessero accumulato azioni tutte le volte che l’emotività li spingeva a vendere, avrebbero ottenuto un discreto profitto.
La seconda spiegazione è legata alla qualità dei fondi in portafoglio. Su oltre 1.500 prodotti azionari venduti in Italia che hanno il Rating Morningstar a cinque anni, solo il 25% ha quattro o più stelle, ossia presenta un profilo di rischio/rendimento superiore alla media dei prodotti concorrenti. Si tratta anche dei comparti con una performance che da inizio anno è generalmente migliore rispetto alle categorie di appartenenza. Se il fondo va peggio dei concorrenti e si è sempre comportato in questo modo nella sua vita, l’investitore ha tutte le ragioni per infrangere la regola del lungo termine.
 
 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

HEDGE FUNDS: DERIVATI: SI' DELLA FED ALLA CLEARING HOUSE

31 Ottobre 2008 14:01 NEW YORK - di WSI
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La Federal Reserve di New York annuncia che nelle prossime settimane dara' il via alla costituzione di una nuova "borsa" per prezzare equamente e compra-vendere i famigerati CDS, credit default swaps, il cui ammontare netto e' di $24 trilioni.
La Federal Reserve di New York ha annunciato in una lettera che nelle prossime settimane dara' il via alla costituzione di una nuova "borsa", tecnicamente una "clearing house", per prezzare equamente e poter sia comprare che vendere i famigerati CDS, credit default swaps, gli strumenti creditizi responsabili, secondo alcuni critici, di rischi sistemici per un mercato finanziario gia' scosso dalla crisi globale. Stando alla lettera della Fed di New York l'ammontare netto dei credit default swaps in circolazione e' attualmente di $24 trilioni, una cifra che sarebbe meno della meta' rispetto alla stima di $55 trilioni (leggi in Situation Room) circolata fino a qualche giorno fa.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

 

  Sabato 25 Ottobre 2008   Mercoledì 29 Ottobre 2008   Venerdì 31 Ottobre 2008  
       
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  Crisi: ecco le Index Linked congelate dall'Islanda

14 Ottobre 2008 18:19 MILANO - di Marco lo Conte

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Danni collaterali del crack finanziario islandese sugli assicurati italiani che hanno sottoscritto polizze di Carige Vita, Quadrifoglio Vita (gruppo Mps), Sasa Vita (gruppo Fondiaria-Sai), Ubi Vita e Ergo Previdenza. E' come il caso Lehman.
L'ultimo avviso è di ieri sera: due polizze index linked di Ergo Previdenza, «Pura Energia» e «Swing per Te», si aggiungono alle altre che non riescono più ad indicare il valore della quota sottostante. La causa? Il crack finanziario dell'Islanda e in particolare di Glitnir.
La recente decisione del governo islandese e dell'autorità di vigilanza sui mercati di mettere sotto amministrazione controllata le principali banche del Paese si ripercuote ora sugli assicurati italiani che hanno sottoscritto polizze di Carige Vita , Quadrifoglio Vita (gruppo Mps), Sasa Vita (gruppo Fondiaria-Sai), Ubi Vita e, come detto di Ergo Previdenza. Trascinandoli – per ora – in un tunnel analogo a quello che sta vivendo chi ha sottoscritto le polizze agganciate ai titoli Lehman: un tunnel fatto di quote non pubblicate e di attesa per le decisioni delle compagnia nei confronti dei clienti: che in rarissimi casi avevano sottoscritto quei prodotti consci del valore e dei rischi dei titoli sottostanti.
Le polizze index linked sono, infatti, contratti di assicurazione sulla vita il cui valore delle prestazioni è collegato all'andamento di un paniere o ad un solo titolo; offrendo talvolta un rendimento minimo oppure la garanzia (talvolta parziale) del capitale. Un'ingegneria che per i prodotti in tabella è stata declinata in vario modo: nel caso di Quadrifoglio Vita, si era scelto Islandinbank (ora Glitnir Banki HF) come emittente dell'obbligazione, su cui poggia un'opzione di Credit Suisse First Boston International per «migliorare la redditività dei prodotti index-linked» di quattro polizze, tra cui «Memory Coupon».
Diverso il discorso per le due polizze di Ubi Vita: sono contratti strutturati nell'ottobre del 2007 da Aviva , che oggi detiene la maggioranza dei Ubi Vita e distribuito in gran parte presso gli sportelli Bpu tra poco meno di 4mila sottoscrittori per un totale di alcune decine di milioni di euro; al momento del lancio Moody's giudicava la banca islandese Kaupting Bank Aa3. La compagnia sta ancora svolgendo i controlli per definire l'ammontare del collocato e definire eventualmente una strategia con Aviva.
Sasa Vita, compagnia del gruppo Fondiaria-Sai, aveva scelto a fine 2005 (quando il Pil viaggiava a +7,5% e il rating pubblico era tripla A) la già citata Glitnir come broker della index «Metal & Oil», agganciata ad un paniere di titoli energetici. Sollecitata da Consob, la compagnia è chiamata ad emettere oggi un comunicato sulla polizza. Chi si è già mosso sul fronte legale è Carige Vita, che ha dato incarico allo studio Clifford Chance di tutelare nelle sedi internazionali i suoi interessi (e di conseguenza quelli dei suoi clienti).
Anche in questo caso il contratto è collegato al valore del titolo della banca islandese Glitnir ed è stato strutturato in una fase in cui l'Islanda era considerato tra i Paesi più virtuosi dal punto di visto finanziario. Il contratto originariamente doveva scadere nell'aprile 2012 e portare a scadenza circa 20 milioni di euro. Come negli altri casi anche la compagnia genovese sta effettuando le sue valutazioni sulle mosse da prendere nel prossimo futuro.
I sottoscrittori di tutti questi prodotti saranno innanzitutto informati dalle loro compagnie, come accaduto nel caso Lehman. Ma rispetto a loro possono contare su un'opportunità in più: l'intervento del Fmi e la possibile garanzia dello Stato islandese sulle proprie banche e sulle loro obbligazioni potrebbe dare certezze anche all'assicurato italiano. Per chi ha scelto gli strumenti penalizzati dalle agenzie di rating (vedi tabella), si registrano invece ribassi che superano anche l'80%.
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

 

 

  Pronti contro termine: rischiosi e non garantiti

16 Ottobre 2008 13:51 MILANO - di Nicola Borzi

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Sono tra gli strumenti preferiti dalle famiglie italiane che li hanno riscoperti dopo un periodo di oblìo (anche per l'aggressiva – e tutt'altro che disinteressata – campagna di marketing del sistema bancario), che li prediligono per la loro semplicità, l'aliquota fiscale ridotta e il breve orizzonte temporale. Tanto che, negli ultimi mesi, complice anche la crisi finanziaria che ha scatenato la corsa agli investimenti liquidi, hanno messo a segno una crescita a doppia cifra. Ma i pronti contro termine non sono esenti da rischi (peraltro sinora solo ipotetici), non sono garantiti, non sono vigilati e soprattutto da mesi non tutelano il capitale dal l'inflazione.
I pronti contro termine sono contratti (tradizionalmente della durata da uno a sei mesi, massimo un anno) in cui una banca riceve liquidità contro la vendita di titoli (di solito di Stato), impegnandosi al contempo con il cliente al loro riacquisto a termine e a un prezzo prefissato, che incorpora un rendimento. Secondo gli ultimi dati trasmessi dall'Associazione bancaria italiana, da gennaio del 2007 al giugno scorso la massa di liquidità allocata in p/t è aumentata quasi di un quarto, passando da poco meno di 97,5 a oltre 118,7 miliardi di euro. Un tasso di crescita più che doppio rispetto a quello medio della raccolta bancaria a breve che ha portato il "peso" di questi strumenti a un settimo del totale.
Ma nelle ultime settimane, secondo numerosi operatori, i p/t hanno vissuto un boom che solo tra qualche giorno sarà nei radar delle statistiche del Centro studi Abi che elaborano i dati della Banca d'Italia. Da un lato, il crollo delle Borse ha scatenato tra i risparmiatori la ricerca di investimenti liquidi a breve termine: esattamente l'identikit dei p/t. Dall'altro, la crisi di fiducia tra gli operatori del credito ha esposto le banche all'"infarto" del mercato interbancario: l'esaurimento della liquidità ha sparato alle stelle il tasso Euribor, aumentando in modo esponenziale i costi di raccolta. Così gli istituti hanno potenziato una poderosa campagna di marketing che, tra p/t tradizionali, proposti allo sportello, e la loro versione hi-tech, presentata sui conti online, ha riportato in alto la raccolta.
Un'operazione win-win, dunque? Non proprio. Come si può osservare dalla tabella in basso, che riporta dati Istat e Abi, i rendimenti dei pronti contro termine, pur situandosi nella fascia alta di quelli offerti dagli strumenti di liquidità, sono comunque inferiori all'andamento medio dell'Euribor (quello, per intenderci, ai quali sono agganciate le rate dei mutui a tasso variabile). Insomma, se il risparmiatore riceve un rendimento allettante, gli istituti di credito hanno una convenienza ancora maggiore, perché i p/t consentono loro di finanziarsi a tassi più bassi di quelli del mercato interbancario.
Ma sul fronte dei tassi c'è anche un altro problema: da maggio in avanti i rendimenti dei pronti contro termine, al netto dell'aliquota fiscale ridotta (al 12,5% invece del 27% di altre forme di investimento, come i libretti postali ordinari), hanno perso regolarmente la gara con l'inflazione. Il capitale, quindi, non è garantito dall'erosione del carovita. Un'area, quella delle garanzie, che presenta altre note dolenti. Se la Banca d'Italia vigila le banche e dunque l'uso dei pronti contro termine come strumenti di raccolta, questi contratti però non passano sotto la lente della Consob perché, in base alle norme sulla Mifid, non rientrano tra gli investimenti dotati di un prospetto. Inoltre, siccome non si tratta di depositi bancari ma di forme di investimento, non godono delle tutele del Fondo interbancario di garanzia.
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

 

 

 

 

CASA, GELATA SU MUTUI E COMPRAVENDITE

20 Ottobre 2008 01:24 ROMA - di Rosa Serrano
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Mutui per la casa, il dato è in picchiata. Nomisma stima che i "nuovi" finanziamenti immobiliari registreranno una riduzione di circa il 25%, quest´anno rispetto al 2007. E´ la prima volta che succede da dieci anni ad oggi. Inevitabile anche l´impatto di questa tendenza sulle compravendite di case. In netta crescita infine le famiglie che non riescono a sopportare la rata del mutuo.
La battuta d´arresto della domanda di mutui è dovuta a più fattori. Incide il forte aumento dei tassi d´interesse sui mutui, che sono dunque più cari; e pesa anche la scarsa liquidità delle famiglie (che non comprano l´abitazione allo stesso ritmo degli anni scorsi). Terzo fattore decisivo è la maggiore selettività delle banche che, in risposta alle tensioni finanziarie, sono tornate prudenti quando devono concedere un credito. Applicano, in pratica, il vecchio criterio per cui la rata mensile del mutuo non deve superare un terzo netto del reddito di chi compra la casa.
Non solo: gli istituti bancari stanno anche attenti al rapporto tra l´ammontare del mutuo e il valore dell´immobile, mentre tendono a rifiutare finanziamenti di lunga o lunghissima durata. «A indurre le banche ad una maggiore selettività – dice spiega Luca Dondi, economista di Nomisma – ha contribuito il continuo peggioramento degli indici sulla rischiosità del credito».
I mutui più cari e le banche più prudenti fanno sì che le compravendite sono andate giù in picchiata nel 2008. Si prevede un calo di circa il 15% delle compravendite per il solo comparto residenziale (casa per famiglie). Quest´anno, le case vendute potrebbero essere 100 mila in meno rispetto al 2007. La diminuzione delle compravendite sarà più consistente nelle grandi città, con cali dal 5 all´8%. Per incoraggiare gli italiani all´acquisto servirebbe un calo dell´Euribor (il tasso di riferimento dei mutui a tasso variabile). Peraltro, il tasso che la banca ci pratica non sempre si abbassa subito all´abbassarsi dell´Euribor, ed anche questo è un problema.
Da Nomisma arriva un´ulteriore segnalazione: molte famiglie non riescono ad onorare il mutuo oppure devono chiedere tempi più lunghi per pagarlo. Ne consegue che le sofferenze immobiliari supereranno, sembra, i 7 miliardi di euro. Il centro studi definisce quindi «sottodimensionato» il dato di 5,6 miliardi di sofferenze che ha elaborato la Banca d´Italia. Questa situazione allarma le banche. In caso di mancato pagamento del mutuo, gli istituti bancari impiegano fino a 6 anni per prendersi la casa attraverso il meccanismo delle esecuzioni immobiliari (i tempi lunghi sono effetto delle pastoie della giustizia civile).
Lo scenario di Nomisma viene confermato dall´Osservatorio di MutuiOnline, che racconta di migliaia di persone a caccia di un mutuo più leggero rispetto a quello inizialmente sottoscritto. Le sostituzioni del mutuo sono passate dal 2,2% del secondo semestre del 2005 al 21,9% del primo semestre di quest´anno, per attestarsi a quota 32,3% nel periodo luglio-settembre.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

MEDIOLANUM: DORIS E FININVEST RIMBORSANO PERDITE LEHMAN/ANSA

21 Ottobre 2008 19:05 MILANO - di WSI
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(ANSA) - MILANO, 22 OTT - La famiglia Doris e la famiglia Berlusconi, i due maggiori azionisti di Mediolanum si fanno carico, di tasca loro, delle perdite delle polizze 'Lehman' con un onere previsto previsto di 120 milioni di euro. E' la soluzione con cui il gruppo Doris e Fininvest vogliono tutelare risparmiatori e piccoli azionisti dal default della banca d'affari americana. Le polizze Index Linked con sottostanti obbligazioni Lehman Brothers sono 31 (21 a capitale protetto e 10 a capitale non protetto) e sono state sottoscritte da circa 10 mila clienti Mediolanum con un esposizione media di circa il 15% del patrimonio investito. In totale le polizze hanno un valore nominale di 213 milioni di euro. "Il default di Lehman - dichiara Ennio Doris, amministratore delegato di Mediolanum spiegando - ha colto di sorpresa i mercati di tutto il mondo" e "le conseguenze di questo evento tanto straordinario non devono ricadere sui nostri clienti perché sono essi il nostro primo patrimonio". "In questo momento difficile, in cui i governi stanno prendendo importanti decisioni sulle banche, forse per la prima volta due grandi famiglie - sottolinea l'amministratore delegato di Fininvest Pasquale Cannatelli - mettono mano al portafoglio per tutelare i risparmiatori". Hanno dichiarato che rimborseranno alla scadenza i risparmiatori coinvolti anche Unipol e Bcc Vita, quest'ultima garantirà anche le cedole. "Un'iniziativa di natura commerciale, di marketing - è il commento di Fabio Cerchiai, presidente dell'Ania - Sono iniziative singole che non sono in contraddizione con il principio di totale assenza di responsabilità contrattuale e giuridica". Secondo il presidente Ania (che ha già annunciato di fornire la sua assistenza ai clienti) infatti la "regola fondamentale" è che il rischio, in caso di prodotti non garantiti come le polizze index con sottostante le obbligazioni Lehman Brothers, "é a carico del sottoscrittore". Una precisazione che peraltro gli stessi Doris e Cannatelli, rimarcano, sottolineando che si tratta di 'una tantum' a fronte di un evento fortemente straordinario ma che nella documentazione contrattuale delle polizze, pur avendo a quel tempo Lehman Brothers un rating A+, era indicato che il rischio di default è interamente a carico dell'assicurato. Intorno ai portatori diretti delle obbligazioni Lehman si stringe anche il cordone protettivo dell'Abi, l'associazione bancaria italiana, che si attiverà, ha annunciato il presidente Corrado Faissola, per "assicurare loro la massima efficienza e tempestività nell'insinuazione al passivo". Un'assistenza che si estenderà "eventualmente anche in una fase successivà Per quanto riguarda Mediolanum le polizze verranno trasformate sostituendo gli strumenti finanziari sottostanti con nuovi titoli obbligazionari di una banca italiana e di una spagnola (la trattativa è ancora in corso, ha precisato Doris) mi titoli Lehman rimarranno nel patrimonio libero di Mediolanum Vita e Mediolanum International Life a cui fanno capo le polizze in attesa del successivo realizzo. Il costo netto di questa operazione, in caso di default totale e coupon zero, ammonta a un massimo di 120 milioni di euro e sarà coperto pro quota dai soci Doris (52,92%) e Fininvest (47,08%) che rinunciano all'acconto dividendi (0,85 euro l'anno scorso mentre quello 2008 verrà proposto al prossimo cda del 12 novembre) e per la restante parte concedono un finanziamento subordinato infruttifero che andrà a rafforzare il patrimonio di Mediolanum.(ANSA).

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Bond bancari, un approfondimento necessario

Tuesday, 21 October, 2008 at 8:30 - di Charles Dexter Ward

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Le recenti turbolenze dei mercati, la larga esposizione delle famiglie italiane alle obbligazioni bancarie e la prospettiva di una garanzia governativa più o meno esplicita su questa tipologia di strumenti hanno acceso l’interesse della stampa (specializzata e non) su questo segmento del mercato. Come spesso accade, sotto la spinta emozionale della stringente attualità se ne è scritto molto, colpevolmente in ritardo e con numerose imprecisioni. Cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza sia a livello terminologico che pratico.
Tanto per sgombrare il campo da dubbi iniziamo quindi con il dire che vanno fatte due macro distinzioni nel mondo dei bond bancari: la prima riguarda il mercato presso cui sono stati collocati questi titoli e la seconda il grado di seniority/subordinazione. Come abbiamo anticipato in un recente post, bisogna dire apertamente che mentre il rischio di credito è un fattore oggettivo ed è legato alla capacita di puntuale rimborso degli interessi e del capitale, il pricing di questo rischio è molto meno oggettivo ed è sostanzialmente frutto della domanda e dell’offerta del mercato. Questo è sicuramente vero oggi, in cui il grande bisogno di capitali delle banche e al contrario la scarsa domanda per questi titoli da parte degli operatori ha portato ad un violento allargamento degli spread e quindi dei rendimenti offerti da questi titoli.
Ma è altresì vero che fino a pochissimo tempo fa il mercato di questi titoli è stato di fatto segmentato in due grossi sottoinsiemi: il mercato riservato agli investitori istituzionali e il mercato retail. Il secondo è stato utilizzato dagli istituti bancari per raccogliere finanziamenti a tassi ben lontani da quelli che lo stesso emittente avrebbe dovuto pagare sul mercato istituzionale: ciò è stato possibile sfruttando la scarsa cultura finanziaria media del risparmiatore italiano, che continua a ritenere il prodotto obbligazionario come uno strumento sicuro in sé, alla stregua di un titolo di Stato.
E’ sicuramente vero che i gruppi bancari italiani si sono dimostrati solidi, ma è altrettanto vero che i rendimenti offerti ai risparmiatori erano ben inferiori a quelli a cui girava il debito delle banche sul mercato istituzionale: non è necessario perder soldi affinché un investimento possa esser classificato come un cattivo investimento. I bond bancari sottoscritti a spread risibili erano ex ante dei cattivi investimenti, semplicemente perché non offrivano la corretta remunerazione: corretta è un termine in realtà non esatto. La corretta remunerazione ex-ante per il rischio di credito infatti non esiste: di certo altri operatori ricevevano rendimenti più generosi per assumersi lo stesso grado di rischio. Mercati segmentati quindi, in cui il signor Mario Rossi molto spesso non ha ricevuto una remunerazione per il proprio investimento allineata agli standard di mercato.
Riconoscere questa anomalia è il passo indispensabile per procedere con l’analisi dello strumento e arrivare a scelte di investimento consapevoli e razionali: sperando che si possa imparare qualcosa dalla recente crisi, è evidentemente inopportuno correre a vendere questi titoli oggi. Anzi, diciamo che come segmento quello dei bond finanziari appare tra i più interessanti in questo momento. Ma per non commettere errori bisogna conoscere bene le regole del gioco o in alternativa può esser opportuno rivolgersi a prodotti di risparmio gestito specializzati. Per quanti decidessero di non fermarsi qui e fossero curiosi di sapere qualche dettaglio in più, bisogna arrivare ad analizzare la seconda macro-distinzione, che riguarda il livello di subordinazione. Parafrasando Orwell si potrebbe dire infatti che “Tutti i bond (bancari) sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.
La conoscenza degli strumenti è presupposto essenziale per poter effettuare un investimento consapevole: vale quindi la pena dedicare un breve post alla definizione delle linee guida essenziali del mondo dei bond finanziari. La prima macro-distinzione, tra titoli senior e subordinati, infatti aiuta a isolare l’investimento più semplice e lineare (segmento senior) da quello che richiede una maggiore attenzione (segmento subordinato): le regole e il funzionamento delle obbligazioni “senior” sono piuttosto standard e intuitive anche se lo stesso termine senior rischia di essere in alcuni casi fuorviante. Basta pensare al caso delle obbligazione senior di Lehman che oggi si scambiano ad un decimo del loro valore nominale. Senior non è quindi di per se sinonimo o garanzia di solvibilità o affidabilità.
La seniority si riferisce piuttosto al grado di privilegio di cui godono i detentori di questi titoli nell’eventualità dovessero far valere i propri diritti di fronte ad una eventuale messa in liquidazione della società emittente. Nel malaugurato caso di una procedura fallimentare, chi ha titoli senior gode di una precedenza rispetto a chi ha sottoscritto obbligazioni subordinate. Magra consolazione se, come visto ad esempio nel caso di Lehman, le perdite in conto capitale sono comunque molto elevate. La vera forza di questi titoli è nella loro semplicità strutturale: sono titoli “binari”, l’emittente paga o non paga, “tertium non datur”. E’ questa la vera garanzia di questi titoli: come abbiamo visto, è piuttosto raro che una istituzione finanziaria venga lasciata fallire. Quindi più che sperare in un alto valore di recupero, chi sottoscrive un’obbligazione senior scommetta sul verificarsi dell’evento “NON DEFAULT” in una ipotetica scommessa che ha solo due risultati possibili.
Come vedremo meglio, per alcuni bond subordinati invece la condizione di “Non Default” è condizione necessaria ma non sufficiente per esser sicuri di non incorrere in perdite in conto capitale o in conto interessi.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

  Obbligazioni, l’ora delle sorprese

23/10/2008 13.08 - di MariaGrazia Briganti

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Obbligazioni “bancarie”, “strutturate”, “societarie”. Fino a qualche tempo fa, questa parola era un lasciapassare per convincere i risparmiatori a investire anziché lasciare i soldi sul conto corrente. Perché faceva rima con sicurezza, con la benedizione della Mifid, la direttiva europea che ha imposto agli istituti di credito e ai promotori di vendere ai clienti solo i prodotti coerenti con il loro profilo di rischio.

Oggi il castello della sicurezza è crollato, dopo che le più blasonate banche d’investimento americane, grandi emittenti di obbligazioni, sono fallite o hanno vacillato pericolosamente prima di essere soccorse dallo Stato o acquistate dai concorrenti. E le obbligazioni hanno messo a nudo tutta la loro fragilità di titoli di credito che, come si legge nella definizione data dalla Banca d’Italia, “conferiscono all’investitore (obbligazionista) il diritto a ricevere il rimborso del capitale sottoscritto e una remunerazione a titolo di interesse”. Un diritto che, tuttavia, può essere pregiudicato in caso di difficoltà finanziarie dell’emittente.

Dal 1995 al 2007, la quota di bond bancari nei portafogli degli investitori è aumentata di sei volte, per un patrimonio complessivo di 355 miliardi di euro (dati Banca d’Italia). Numeri che testimoniano l’enorme diffusione di questi strumenti tra i risparmiatori, i quali dopo il fallimento di Lehman Brothers hanno cominciato ad interrogarsi su cosa realmente gli è stato venduto allo sportello. E spesso hanno scoperto che non si tratta di semplici obbligazioni, ma di prodotti di ingegneria finanziaria sui quali è difficile avere informazioni.

I titoli strutturati, infatti sono costituiti da una obbligazione e da una o più componenti definite “derivative”, cioè contratti di acquisto e/o vendita di strumenti finanziari (come indici, azioni, valute, fondi comuni). Sono obbligazioni bancarie a tutti gli effetti, per cui l’emittente (una banca) è tenuto alla restituzione del capitale investito alla scadenza, ma il rendimento può variare e anche di molto, essendo basato su parametri collegati al verificarsi o meno di certi eventi previsti nel regolamento di emissione. Di conseguenza, oltre al rischio emittente, l’investitore deve sostenere anche quello legato all’andamento dell’indice di riferimento, che può portare a un azzeramento della cedola.

Esistono altre due insidie per i sottoscrittori di obbligazioni bancarie (non solo strutturate). La prima riguarda i riflessi della variazione dei tassi sui prezzi di mercato: un incremento dei saggi di riferimento, fa scendere i prezzi, mentre una diminuzione li fa salire. La seconda insidia si riferisce alla facilità con cui si può vendere il titolo prima della scadenza. In molti casi, i regolamenti di emissione non prevedono la negoziazione su un mercato regolamentato per cui l’investitore può trovarsi di fronte all’impossibilità di vendere prima della scadenza a meno di accettare una forte riduzione del prezzo pur di trovare una controparte disposta all’acquisto.

Un ultimo aspetto da non sottovalutare è rappresentato dal costo. Queste obbligazioni, infatti, sono in genere gravate da una commissione di collocamento e da spese, che pur avendo natura implicita, possono arrivare sin al 6% e si riflettono negativamente in termini di valore del titolo. E’ chiaro quindi che serve un buon rendimento per ammortizzarle e spesso all’investitore rimane ben poco in termini di guadagno.

Sul sito di Patti Chiari si legge: “Le obbligazioni strutturate sono strumenti complessi; uno dei rischi più frequenti è quello di non comprendere il loro funzionamento e dunque di fare una scelta non adatta alle proprie esigenze. Il loro acquisto è consigliato solo a chi ne ha compreso la natura e il grado di rischio”. Il punto però è questo:“Tutto ciò viene spiegato al cliente?”. Le molte domande che ci hanno rivolto i lettori in queste settimane e le loro testimonianze ci fanno pensare che non sia così. Spesso la presentazione di un prodotto si limita a una scheda sintetica, dove l’enfasi è posta sul rating, che come ha dimostrato questa crisi non è sempre una garanzia di affidabilità dell’emittente. Anzi proprio questa crisi induce a ripensare il meccanismo del rating e a dubitare dell’efficienza delle società che sono tenute a fornire “pagelle” agli emittenti la cui affidabilità è indispensabile per chi investe.

E la Mifid, la direttiva che doveva servire per garantire una maggior tutela ai risparmiatori? Le possibilità di appellarsi ad essa sono poche. “La banca ha l’obbligo di rispettare il profilo di rischio del cliente solo nella fase in cui vende il bond”, spiega l’avvocato Luca Zitiello. “Successivamente non è tenuta a verificarne l’appropriatezza, ossia a dare indicazioni al cliente, a meno che l’investitore non abbia stipulato un contratto di consulenza di carattere continuativo volto al monitoraggio del portafoglio (caso assai raro, ndr)”. Insomma, se l’obbligazione venduta con un rating AAA (massima affidabilità), poi va in default, diventa illiquida o si deprezza il risparmiatore non ha grandi armi di difesa.
 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

 

 

BOND: L'ITALIA E' TRATTATA DA PAESE EMERGENTE

29 Ottobre 2008 18:58 NEW YORK - di REUTERS
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Si amplia ancora il differenziale fra i rendimenti offerti dai Btp decennale e il Bund tedesco: lo spread ha raggiunto i 112 punti base. Nuovo record negativo dall'introduzione dell'euro.
Rendimenti in brusco rialzo per i Btp in una seduta che vede il forte rimbalzo dei listini azionari, con rialzi compresi tra il 7 e il 10% in chiusura per i principali indici del Continente.
I titoli del Tesoro italiano continuano a perdere terreno verso Germania facendo registrare un nuovo record dello spread di rendimento a dieci anni a 112 punti base, in allargamento di ben 13 punti base dai livelli di chiusura di martedì.
Il decennale risulta penalizzato anche rispetto alle altre scadenze sulla curva dei rendimenti. La prospettiva di un imminente ribasso dei tassi d'interesse sostiene infatti i brevi provocando di riflesso un drastico allargamento dello spread 2-10.
"Sul mercato continua a esserci molta pressione sui periferici, anche in controtendenza rispetto al movimento di rimbalzo delle borse che segnala un moderato ritorno della volontà di assumere rischio", commenta un trader.
I volumi sull'obbligazionario restano in ogni caso estremamente limitati. Alle 17,20 i volumi scambiati sul future sul Bund a dicembre non raggiungono i 500.000 lotti.
L'avversione al rischio che spinge gli investitori a preferire il rating tripla 'A' dei titoli tedeschi non penalizza solo l'Italia e il Commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia, ha definito oggi "eccessivamente alti" i livelli dello spread tra Germania e gli altri paesi dell'euro.
L'Italia, tuttavia, è zavorrata dal più alto debito pubblico dell'area e il mercato non esclude un maggiore ricorso all'indebitamento da parte del governo in un contesto di grave crisi economica come quello attuale.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto oggi che il governo è pronto ad aiutare le banche a superare le difficoltà legate alla crisi procedendo, se necessario, a sottoscrivere obbligazioni, covertibili e non, e azioni di risparmio. Per quanto riguarda invece le misure a sostegno dell'economia reale, Berlusconi ha spiegato che l'esecutivo ha "in mente diverse cose" sebbene "i fondi siano naturalmente scarsi".
Domani intanto il Tesoro offrirà in asta un nuovo titolo decennnale oltre alle riapertura del Btp tre anni e del Cct, per un totale compreso tra 5,75 e 7 miliardi di euro. La cedola del nuovo Btp primo marzo 2019 è stata fissata al 4,5%. Sul grey market il nuovo titolo scambia a 95,77.
"Con un rendimento superiore al 5% difficilmente il titolo non sarà appetibile", commenta un trader.

 

Fonte - Reuters

 

 

 

 

RISPARMIO: ACRI; ITALIANI MOLTO PESSIMISTI, 2/3 IN DIFFICOLTA'

30 Ottobre 2008 12:30 ROMA - di ANSA
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(ANSA) - ROMA, 30 OTT - La crisi internazionale preoccupa molto i risparmiatori italiani e nell'ultimo anno due persone su tre sono andate incontro a disagi o difficoltà. Dalla consueta indagine annuale realizzata dall'Acri in collaborazione con Ipsos, in vista della Giornata Mondiale del Risparmio che si terrà domani, emerge che la percezione del futuro dell'economia rimane improntata a un forte pessimismo, ma non è comunque particolarmente peggiore di quello del 2007, già estremamente diffuso. "E' come se gli italiani avessero già introiettato la percezione della crisi e le preoccupazioni degli ultimi giorni non stiano aggiungendo nuovi elementi di negatività", spiega l'Acri precisando che la percentuale dei soddisfatti della propria situazione economica rimane al 51% (molti più al nord che al centro-sud), "ma ciò non vuol dire che la crisi internazionale non abbia determinato effetti negativi". Come lo scorso anno, il tenore di vita è ritenuto peggiorato negli ultimi anni dal 65% del campione: i 2/3 di italiani che nel 2008 hanno avuto disagi sono in linea con quelli del 2007, ma sono aumentati del 2% coloro che sono passati da una situazione di difficoltà a uno stato di difficoltà grave (il 21%, con circa un pensionato su 4 in difficoltà grave). Inoltre gli italiani in maggiore difficoltà hanno ridotto sensibilmente tutti i propri consumi, e anche chi sperimenta difficoltà più lievi o non le sperimenta affatto, dice di essere più accorto negli acquisti rispetto al passato. Pensando al futuro, comunque, rispetto alla propria situazione personale gli ottimisti (28%) prevalgono sui pessimisti (21%), mentre c'é pessimismo sulla situazione economica dell'Italia (49% contro 24% di ottimisti, ma nel 2007 la situazione era peggiore), dell'Europa (33% e 28%), del mondo (37% e 27%). In generale, gli ottimisti sono ancora il 34%, mentre il numero dei pessimisti è aumentato dal 46% al 48%. E in media gli italiani si attendono ancora tre anni di crisi (per il 54% tre anni o più). In questo contesto l'italiano sembra confermare la sua tradizionale prudenza: rimane molto alta la propensione al risparmio (87% dei casi) anche se solo il 34% degli intervistati é riuscito a risparmiare (1 punto percentuale in più rispetto al 2007). Quelli che hanno consumato tutto il reddito sono il 38% (39% nel 2007), mentre più di una persona su 4 (27%) consuma più di quanto incassa. Rispetto al 2007 non ci sono sostanziali differenze, anche se si registra una crescita tendenziale di famiglie indebitate: in sintesi più di un terzo degli italiani consuma più di quello che guadagna e non pensa che riuscirà a invertire il trend nel prossimo futuro. Quasi un italiano su 10 (9%) è così ricorso ai prestiti, quota triplicata dal 2001 e più che raddoppiata dal 2004. Si mantiene elevata la preferenza per la liquidità (60%), con la speranza di poter investire magari nel mattone (56%) o quantomeno negli strumenti considerati più sicuri (24%). Riguardo poi all'impiego del proprio risparmio, metà degli italiani dice che terrebbe conto solo degli aspetti economici (rischio, rendimento) e un'altra metà afferma di essere interessata a sapere in quale ambito verrà investito. Di fronte ai grossi problemi che stanno avendo gli altri paesi, infine, è migliorata l'opinione delle persone riguardo alle regole e ai controlli presenti in Italia ed è aumentata l fiducia nell'Europa. (ANSA).

 

Fonte - ANSA