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America:
un repulisti
stile Merrill Lynch
03 Agosto 2008 21:16 MILANO -
di Giuseppe Turani
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E´ tradizione, quando gli italiani partono per le vacanze, chiedersi
come sarà l´autunno, che cosa troveranno cioè al loro rientro. Oggi,
però, conviene fare una piccola deviazione e domandarsi invece
che
cosa potrà essere l´autunno americano. Anche perché da come sarà
dipenderà molto del nostro. E qui ci sono le sorprese, e le
preoccupazioni.
In apparenza, tutto sembrerebbe andare per il meglio. Nell´ultimo
trimestre dell´anno scorso gli Stati Uniti sono andati indietro
dello 0,2 per cento. Un brutto segnale. Ma poi si sono subito
ripresi e nel primo trimestre di quest´anno la loro crescita è stata
dello 0,9 per cento. Ancora meglio sono andate le cose nel secondo
trimestre (quello che si è chiuso a giugno): la crescita è stata di
quasi il 2 per cento (1,9, per la precisione).
Un osservatore un po´ distratto potrebbe concludere che ormai
l´economia americana ha superato le sue difficoltà e che ha
imboccato la strada della ripresa: da qui in avanti le cose non
possono che andare meglio. Invece non è così. Il rischio che le cose
peggiorino (e di parecchio) è reale.
Per accorgersene, basta guardare i dati. La crescita del secondo
trimestre è di fatto tutta frutto delle esportazioni che sono
cresciute (dato annualizzato) di oltre il 9 per cento rispetto al
trimestre precedente. Gli investimenti sono crollati e i consumi si
sono mossi di pochissimo. Da lontano sembra quasi di leggere dei
dati italiani: tira l´export, ma ristagna la domanda interna.
Dentro i numeri relativi al secondo trimestre c´è però una specie di
sirena d´allarme, che si è messa a suonare fragorosamente: le
imprese hanno liquidato (e con una certa larghezza) le loro scorte
di magazzino. Questo potrebbe essere frutto di un errore: gli
imprenditori americani hanno pensato di essere dentro la recessione
e hanno fatto fuori le merci che avevano già prodotto, prima che il
mercato le rifiutasse. Ma, in realtà, i consumi hanno tenuto
abbastanza e c´è stata crescita.
Allora, non c´è stato errore, ma c´è stata una previsione (un po´
sinistra): gli imprenditori americani pensano che le cose andranno
sempre peggio e vogliono arrivare dentro la crisi con poche merci in
magazzino, leggeri.
Si sbagliano? Probabilmente no.
Visto che più di un centro di
ricerca prevede un quarto trimestre (ottobre-dicembre) decisamente
negativo (cioè con crescita sotto lo zero). Inoltre, non può essere
sottovalutato il fatto che ormai da sette mesi il "sistema America"
perde regolarmente occupati (al ritmo di 60-70 mila unità al mese).
È evidente che, se diminuisce il numero delle buste paga, non
possono aumentare i consumi interni.
Inoltre, non è affatto finita la crisi del credito. Anzi, molti sono
convinti che il peggio deve arrivare.
A settembre ci sarà la grande
asta pubblica delle case "sub-prime" sequestrate (cioè quelle per
cui non sono state pagate le rate). Le banche, che ne sono entrate
in possesso forzosamente, pur di liberarsene, le svenderanno, come è
tradizione. C´è quindi il pericolo che i prezzi degli immobili
subiscano un altro duro colpo. Ma, in questo caso, diventeranno
indifendibili non solo i prestiti sub-prime, ma anche molti "prime",
cioè regolari. Con il rischio di nuove difficoltà per le banche e
per il credito.
Ma ci sono altri segnali allarmanti. La General Motors (per anni
azienda numero uno al mondo) ha chiuso i conti del secondo trimestre
con una perdita di 15 miliardi di dollari. Sembra che dentro queste
perdite ci siano anche molte rate delle auto non pagate: chi non
riesce più a pagare il mutuo della casa, evidentemente non paga
nemmeno quello dell´auto. Insomma, forse sta arrivando una crisi
"auto-prime".
Ma c´è, se possibile, ancora di peggio. La grande banca d´affari
Merrill Lynch (da cui uffici una volta passavano due su tre delle
azioni scambiate nel mondo) ha venduto 30 miliardi (di dollari) di
obbligazioni al 20 per cento del loro valore facciale (e ha
finanziato il compratore). Si è accorta, insomma, di avere in casa
della cartaccia (dei crediti molto dubbi, poco esigibili) e li ha
svenduti pur di ripulire il proprio bilancio. Poiché non c´erano
compratori, ne ha inventato uno e gli ha prestato i soldi necessari.
Ha pagato uno perché gli portasse fuori l´immondizia. Avete presente
quelli che si chiamano per sgombrare cantine e solai dalla roba
vecchia? La stessa cosa.
Dentro le banche, sembra di capire, non c´è solo la faccenda dei
prestiti sub-prime. Probabilmente ci sono anche altri casi di
prestiti fatti con troppa facilità a soggetti che si stanno
rivelando incapaci di far fronte ai loro impegni.
Se le cose stanno così, nessuno è più in grado di dire quando finirà
la crisi del credito (che sta frenando l´economia mondiale). Anche
perché trattare un´obbligazione di una banca, a questo punto, può
essere una cosa più rischiosa dell´andare a farsi una giocata a Las
Vegas.
Insomma, l´autunno americano non sarà una tranquilla passeggiata
lungo viali leggiadri rallegrati dai colori delle foglie che cadono.
Sarà, se questi segnali sono corretti, una specie di inferno.
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Fonte
- La
Repubblica |
AMERICA,
DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI DI 4 ANNI
03 Agosto 2008 18:10
NEW YORK -
di
WSI ______________________________________________
L'emorragia di posti di
lavoro negli Usa continua e alimenta le preoccupazioni
sull'economia, già sull'orlo della recessione. A luglio sono
stati persi 51.000 posti di lavoro, facendo balzare il tasso
di disoccupazione al 5,7%, ai massimi degli ultimi quattro
anni. Si tratta del settimo mese consecutivo di contrazione
del mercato del lavoro. Si tratta inoltre del settimo mese
di fila che si registra una contrazione dei posti di lavoro,
anche se la dinamica delle perdite fino ad oggi è risultata
tutto sommato contenuta rispetto a precedenti periodi di
grave crisi economica.
Dall'inizio dell'anno sono stati soppressi 463.000 posti. I
dati diffusi dal dipartimento del lavoro arrivano a pochi
giorni dalla riunione della Fed, chiamata a decidere sul
costo del denaro. Gli analisti si attendono che i tassi, il
prossimo 5 agosto, restino fermi al 2% alla luce delle
incertezze sia sul fronte dell'inflazione sia su quello
della crescita, che procede a ritmo più lento del previsto.
Nel secondo trimestre, infatti, il pil è salito di un
'modesto, 1,9% nonostante gli sgravi fiscali concessi
dall'amministrazione Bush. Nel quarto trimestre del 2007,
inoltre, l'economia si è contratta dello 0,2%, scendendo in
territorio negativo per la prima volta dalla recessione del
2001.
Con l'economia a rilento e la disoccupazione in aumento i
timori per lo stato di salute dell'Azienda America crescono,
anche alla luce del perdurare delle tensioni sui mercati
finanziario e immobiliare. A luglio, infatti, l'economia ha
continuato per la crisi dell'immobiliare, come dimostrano i
22.000 posti persi nel settore delle costruzioni.
Nell'industria sono stati persi 35.000 posti, mentre nella
distribuzione 17.000 e nei servizi alle imprese 24.000.
Nel settore pubblico e in quello dell'educazione-sanità,
invece, si è registrata un tendenza inversa: nei due
comparti sono stati rispettivamente creati 25.000 e 39.000
posti di lavoro. Nella pubblica amministrazione sembra
andare contro corrente la California, barometro di ogni
tendenza e uno degli Stati più colpiti dalla crisi dei mutui
subprime: il governatore Arnold Schwarzenegger licenzia
migliaia di impiegati e sforbicia le buste paga dei
dipendenti statali.
L'ex Terminator di Hollywood ha firmato un ordine esecutivo
che elimina 22 mila posti di precario e part-time nella sua
amministrazione e riduce al salario minimo gli stipendi di
altri 200.000 fino a quando il parlamento del Golden State
non passerà il nuovo bilancio che cerca di far fronte a un
deficit di 15,2 miliardi di dollari. "Ho esercitato i miei
poteri per evitare una crisi della massima ampiezza e
permettere al nostro stato di andare avanti", ha detto
Schwarzy annunciando l'impopolare misura che sarà
prevedibilmente contestata dai sindacati.
Il dipartimento del commercio, nel diffondere i dati
odierni, spiga come "negli ultimi tre mesi c'é stato un
aumento notevole della disoccupazione fra i giovani di età
compresa fra i 16 e i 24 anni". Il salario orario medio di
luglio si è attesto a 18,06 dollari (+3,4% su base
tendenziale), mentre il numero di ore lavorate è sceso a
33,6 a fronte delle 33,7 di giugno.
Fonte -
WallStreetItalia.com
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GREENSPAN
CAPO-GUFO, SEMPRE
PIU' APOCALITTICO
05 Agosto 2008 13:17
NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
C'é il rischio che
altre banche e istituzioni finanziarie dovranno essere
salvate dai governi, prima che la crisi del credito sarà
superata. Lo sostiene l'ex presidente della Federal Reserve,
Alan Greenspan, in un articolo pubblicato oggi sul Financial
Times. E pensare che proprio Greenspan ha gran parte di
responsabilita' per la crisi attuale, essendo stato artefice
della politica della iper-liquidita' con i tassi d'interesse
ai (nel 2004) ai livelli piu' bassi dal Dopoguerra a oggi.
Ricordando i salvataggi di Northern Rock da parte del
governo inglese e di Bear Stearns da parte di quello
americano, Greenspan ritiene che "potrebbero esserci altre
banche e istituzioni finanziarie che, sull'orlo del default,
finiranno con l'essere salvate dai governi".
Tuttavia l'ex governatore della banca centrale Usa avverte:
un deciso intervento dei governi per contrastare l'attuale
crisi finanziaria rischia di "arrecare più danni che
benefici", poiché innescando una spirale protezionistica e
contraria al mercato, potrebbe spingere giù i prezzi
dell'azionario a livello mondiale.
In particolare Greenspan guarda con preoccupazione alla
possibilità che i governi, già pressati dall'inflazione,
possano tentare di riaffermare il loro controllo sugli
affari economici, spiegando che "se questo fenomeno
diventerà molto esteso la globalizzazione potrebbe invertire
rotta a un costo impressionante". Greenspan quindi spiega
che l'attuale crisi finirà soltanto quando i prezzi delle
case negli Stati Uniti inizieranno a stabilizzarsi.
Fonte -
ANSA
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CASE
& CONTRARIAN: ORSI OVUNQUE, TEMPO
DI RIALZO?
06 Agosto 2008 11:46
NEW YORK - WSI ______________________________________________
Parliamo di mercato immobiliare,
non di borsa. Ci sono tanti di quei catastrofisti in giro che
prevedono il collasso dei prezzi delle case in America, che vien
voglia di usare il metodo detto "contrarian indicator". Cioe':
in casi come questi il mercato considera come anticipatori
alcuni indicatori, che fanno prevedere possa accadere
esattamente l'opposto di quel che viene sbandierato.
Per esempio Fortune.com ha pubblicato un lungo profilo della
super-apocalittica e "gufa onoraria", l'analista della CIBC
Meredith Whitney, nota perche' nel 2005 aveva pronosticato
"perdite sul mercato del credito senza precedenti" per le
istituzioni finanziarie operanti nel comparto subprime. Oggi la
Whitney predice una recessione terribile, stile anni Ottanta.
Il canale TV CNBC Usa ha mandato in onda pochi giorni fa
un'intervista in cui la Whitney sostiene che i prezzi delle case
negli Stati Uniti "caleranno molto piu' di quel che la gente si
aspetta". Bhe' volete un po' di informazioni di background sul
suo curriculum? Ecco: 38 anni, ha lavorato come opinionista per
Fox News, ha un diploma del "Bikini Boot Camp", e' sposata con
il professionista del wrestling WWE John Layfield, conosciuto
anche come "il J.R. del wrestling". Grandi credenziali, no?
Il New York Times ha pubblicato un profilo dell'analista del
settore bancario Richard X. Bove: dal 2005, Bove "si e'
guadagnato una certa reputazione come uno dei pochi analisti
bancari che ha predetto lo scoppio della bolla immobiliare e i
conseguenti problemi in molti istituti di credito", scrive il
quotidiano newyorkese. Anche qui, un po' di info di background:
67 anni, lavora da casa sua a Lutz, in Florida, crede che alcuni
titoli del comparto bancario finanziario siano adesso "too
cheap", troppo sottovalutati.
La scorsa settimana il settimanale della Dow Jones (cioe' Rupert
Murdoch) Barron's ha dato spazio con un'intervista
all'economista super-apocalittico Nouriel Roubini, che osserva:
"Siamo nella seconda gamba di una recessione severa e
prolungata, cominciata nel primo trimestre di quest'anno,
destinata a durare almeno 18 mesi, fino a meta' dell'anno
prossimo". Aggiunge Roubini: "La crisi bancaria sistemica andra'
avanti per qualche tempo, costera' in totale fino a $2 trilioni
(2000 miliardi di dollari) di perdite, centinaia di banche
andranno gambe all'aria". Info di background: nativo della
Turchia, cresciuto in Italia, Roubini tiene un suo popolare blog
super-catastrofista (quante posizioni short ha sul mercato?) che
si chiama RGE Monitor.
Fonte -
WallStreetItalia.com
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La crisi
crea il socialismo per ricchi
09 Agosto 2008 19:43 LUGANO -
di Alfonso Tuor
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La crisi dei mutui subprime «festeggia» il primo
compleanno. Infatti esattamente un anno fa, il 9 agosto 2007, la
Banca centrale europea scendeva in campo per iniettare oltre 90
miliardi di euro di liquidità per frenare l’impennata dei tassi sul
mercato interbancario. Quella fu la prima ammissione ufficiale che
qualcosa di molto grave stava accandendo nei mercati finanziari dopo
la chiusura di due Hedge Funds della banca americana Bear & Stearns
attivi nello scambio di titoli legati al mercato immobiliare
statunitense.
L’intervento della Banca centrale europea immediatamente seguito da
quelli della Federal Reserve e della nostra Banca Nazionale hanno
segnato l’inizio ufficiale della cosiddetta crisi dei mutui subprime.
A dodici mesi dal suo inizio è indiscutibile che non si intravvede
ancora la fine di questa crisi e che è quindi possibile che potremmo
essere chiamati a «festeggiare» altri compleanni. Infatti quella,
che in Svizzera e in Europa è apparsa finora come una crisi che ha
colpito duramente alcune grandi banche, sta cominciando ora ad
intaccare pesantemente la crescita economica e quindi a toccare
tutti. Questa scadenza offre comunque l’opportunità di ricordare le
origini di quella che è la più grave crisi del sistema bancario di
questo dopoguerra.
Il tracollo dei mutui ipotecari subprime è in realtà unicamente il
detonatore di una crisi che mette in luce problemi ben più gravi:
un’enorme espansione del credito, ossia una vera e propria bolla
creditizia, favorita ed ampliata dalla nuova ingegneria finanziaria.
È infatti il credito facile e a basso costo che provoca (e non solo
negli Stati Uniti) un’impennata dei prezzi degli immobili. Il
segmento dei mutui subprime è ovviamente quello più a rischio, ma
rappresenta solo una piccola parte, valutata attorno ai 1.000
miliardi di dollari, dell’intero mercato ipotecario americano.
Se il problema fosse confinato a questo comparto, dopo oltre 400
miliardi di dollari di perdite denunciate dalle banche nell’ultimo
anno, la crisi sarebbe già stata archiviata. In realtà, i problemi
non si limitano ai mutui subprime e si sono già estesi agli altri
comparti del mercato immobiliare, ai crediti al consumo, ai leasing,
ai crediti agli studenti e con la frenata economica attualmente in
corso si estenderanno ai crediti industriali.
La gravità della crisi non è tanto rappresentata dalla solvibilità
dei soggetti indebitati, ma dal modo in cui il sistema bancario ha
finanziato questi crediti. Infatti
la quantità dei crediti è stata
moltiplicata dal processo di cartolarizzazione, ossia
dall’impacchettamento delle ipoteche (o di altri crediti) concesse
dalle banche in titoli che poi venivano venduti sui mercati (le
cosiddette Asset Backed Securities).
Nulla di preoccupante, fino a questo stadio. Anzi, il trasferimento
a milioni di investitori dei rischi prima detenuti dalle banche,
avrebbe dovuto rendere più sicuro l’intero sistema. In realtà,
questo era solo il primo passo, poiché gli uomini di Wall Street
avevano dato libero sfogo alla loro fantasia attuando una vera e
propria moltiplicazione di questi crediti. Infatti,
le obbligazioni
inizialmente vendute sul mercato (le cosiddette ABS) venivano
nuovamente reimpacchettate e rivendute, e quindi trasformate in
obbligazioni di obbligazioni (i cosiddetti CDO), che a loro volta
venivano reimpacchettati in CDO al quadrato, che poi venivano
clonati in modo sintetico, usando i derivati, che ovviamente
venivano ancora rivenduti.
Ma c’è di più, su tutti questi strumenti si sviluppa un enorme
mercato, chiamato dei Credit Default Swap, che teoricamente, insieme
a vere e proprie compagnie assicurative (le cosiddette «monolines»)
dovevano garantire il detentore di questi titoli di fronte ai rischi
di insolvenza. E non è ancora finita, su questi titoli si
scommetteva sull’andamento dei tassi ed altro ancora. È stato
calcolato che su ogni 100 dollari di ipoteca Wall Street era
riuscita a costruire e poi a vendere almeno sei strumenti finanziari
diversi.
Per le banche questa è la nuova ingegneria finanziaria; per ogni
persona di buon senso questa è un’enorme catena di Sant’Antonio di
carta straccia, anche se munita di sofisticati prospetti di
presentazione, di rating tripla A e di calcoli del rischio dei
titoli elaborati da matematici e fisici assoldati dalle banche.
E infatti appena il mercato immobiliare americano ha cominciato a
scricchiolare e, quindi, non appena sono sorti i primi dubbi sulla
capacità di pagare i tassi e di restituire i prestiti ipotecari, il
castello di carte è rapidamente crollato. Il crollo ha messo in luce
alcuni aspetti sorprendenti.
La cartolarizzazione non aveva disperso il rischio, che come un
boomerang ha colpito le banche che avevano avviato il processo.
Si è
scoperto inoltre che le banche erano a tal punto «dipendenti» da
questi strumenti tossici che avevano costruito delle società fuori
bilancio (chiamate SIV o Conduit) che detengono ancora circa 5.000
miliardi di dollari di questi titoli.
Dall’agosto dell’anno scorso nessuno vuole più questi strumenti
inventati dalla nuova ingegneria finanziaria. Addirittura le stesse
banche non si fidano l’una dell’altra. Ciò ha costretto le banche
centrali a scendere in campo per sostituirsi al mercato continuando
a finanziare le banche e diventando di fatto gli acquirenti di
ultima istanza dei titoli detenuti dal sistema bancario. E infatti
la storia dell’ultimo anno è costellata di continui interventi
statali (soprattutto negli Stati Uniti) per salvare il sistema
bancario ed evitare una crisi sistemica.
Come scrive il settimanale «The Economist», con la motivazione che
le conseguenze del fallimento di una grande banca sarebbero
devastanti per l’intera economia mondiale, siamo entrati in una fase
di «socialismo per i ricchi». Ma il «Welfare State» (ossia lo stato
assistenziale) approntato per le banche ha permesso di guadagnare
tempo, ma non ha risolto la crisi. Anzi, essa colpisce sempre più
duramente l’economia reale. Gli Stati Uniti hanno evitato finora di
cadere in recessione grazie al piano di ristorni fiscali di Bush, ma
molti prevedono che vi cadranno nei prossimi mesi. Sorprendentemente
anche l’economia europea, che doveva essere più resistente, sta
subendo una brusca frenata che fa temere che presto non potrà
evitare di cadere in recessione.
La crisi dei mutui subprime si è già trasformata nella crisi del
sistema bancario occidentale e ora rischia di provocare una pesante
recessione delle economie occidentali. In conclusione, è certo che
l’uscita da questa crisi, che è la più grave di questo dopoguerra,
non è prossima. Incerto invece è quanti compleanni saremo ancora
costretti a «festeggiare».
 |
Fonte
- Corriere del Ticino |
Complotto: la
guerra in Georgia ordita da Cheney per bloccare Obama
15 Agosto 2008 15:16
NEW YORK - di WSI -
di
WSI ______________________________________________
Ecco il retroscena che
finora mancava sulla guerra tra Georgia e Russia. Il
conflitto nell'Ossezia del Sud e' parte di un complotto
ordito da Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti, per
evitare che Barak Obama sia eletto presidente a novembre.
Questo almeno e' quel che scrivono in queste ore i "cospirazionisti"
russi anti-americani sui loro blog. La tesi, riporta il sito
del quotidiano Times di Londra, e' stata sostenuta
ufficialmente dal notiziario di Vesti FM, una stazione radio
russa che, come quasi tutti i media controllati dal governo
moscovita ha riabilitato i vecchi sistemi dell'era Sovietica
(quando la mano americana era indicata come responsabile
dietro qualsiasi conflitto vero o presunto con l'Occidente).
"La Russia moderna potra' anche essere collegata a internet
e al mercato globale ma nella battaglia per conquistare
l'opinione pubblica mondiale il Cremlino sta riproiettando
un vecchio film in bianco e nero dei tempi dell'Unione
Sovietica" scrive il Times.
La tesi-bisogna-sconfiggere-Obama-per-far-vincere-McCain ha
ricevuto ampio supporto e copertura in Russia. Ne ha parlato
mercoledi' anche Sergei Markov, un analista politico russo
vicino a Vladimir Putin, primo ministro e fact-totum del
potere moscovita, vero stratega dietro al presidente di
facciata Medvedev.
"L'amministrazione di George Bush sta appoggiando in pieno
gli interessi del candidato repubblicano John McCain" ha
detto Sergei Markov dai microfoni di Radio Vest FM.
"Sconfitto da Barak Obama su tutti i fronti, McCain ha solo
una carta ancora da giocare: la creazione di una Guerra
Fredda virtuale con la Russia. Lo stesso Bush non voleva una
guerra nel sud dell'Ossezia ma il suo partito Repubblicano,
con la spinta decisiva del vicepresidente Cheney, non gli ha
lasciato altra scelta". Markov ha poi aggiunto: "Gli
americani penseranno adesso a costruire a tavolino un
conflitto armato tra Ucraina e Russia".
Mosca insomma sta usando i vecchi metodi "cospirazionisti"
per far circolare nel mondo politico questa nuova edizione
della Guerra Fredda, nel caso specifico scatenata dal
conflitto caucasico. Il disegno e' alimentato vieppiu' dagli
esiti poco felici della politica estera del presidente Usa
George Bush, in uscita dalla Casa Bianca tra cinque mesi e
in enormi difficolta' interne per il conflitto in Iraq (McCain
sta cercando addirittura di prendere le distanze da Bush in
campagna elettorale). Tra gli altri media moscoviti che
hanno ripreso la tesi del complotto dei repubblicani
americani nel Caucaso c'e' anche Russia Today, un canale di
stato russo in lingua inglese in onda 24 ore su 24.
Fonte -
WallStreet Italia.com
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Mercati:
non disturbate i manipolatori
18 Agosto 2008 17:00 ROMA -
di Maurizio Blondet
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Mentre Bush persegue la sua mega-politica imperiale, l’economia USA,
letteralmente, fonde come un gelato a ferragosto. I pignoramenti di
case sono saliti del 55% a luglio rispetto a un anno fa; ciò
significa che una famiglia su 464 ha ricevuto notizia di insolvenza,
o ha visto mettere all’asta la sua casa, o se l’è vista prendere
dalla banca creditrice (1).
Con punte tragiche in certe zone: in un’area metropolitana della
Florida, Cape Coral-Fort Myers, una famiglia su 64 ha perso o sta
perdendo la casa; in California, una famiglia ogni 186; in Nevada,
una ogni 106. Le banche si trovano con almeno 750 mila unità
immobiliari sequestrate, che non riescono a vendere nemmeno a prezzi
drasticamente calanti. Eppure, il peggio deve ancora avvenire.
Circa un milione e mezzo di famiglie (per lo più in California) sono
incatenate ad un tipo di mutuo variabile più velenoso dei sub-prime.
Si chiama «Option ARM» (Adjustable Rate Mortgage), perchè i debitori
hanno scelto di pagare le prime rate ad un tasso addirittura
inferiore al mero interesse (cioè senza la quota di restituzione del
capitale), mentre la quota non pagata si aggiunge al prestito
originale, fino a quando raggiunge un certo ammontare (tra il 110 e
il 125% del prestito d’origine); a quel punto il mutuo viene
«riformulato» (recast) e il debitore deve pagare un rateo aumentato,
di colpo, del 60-80%.
Ciò poteva ancora andare quando i prezzi immobiliari salivano; oggi,
coi prezzi calanti, è un nodo scorsoio strangolatore (2). I
proprietari si trovano a pagare enormemente di più del valore
attuale della casa. E ovviamente non pagheranno, preferendo
abbandonare l’immobile e rendersi introvabili.
Ciò sta anzi già
avvenendo; ma il grosso delle «riformulazioni» avverrà fra ottobre e
marzo 2009. Con relative insolvenze a catena, e conseguenze
esplosive per le banche creditrici.
Perchè il mercato delle opzioni ARM vale 400 miliardi di dollari, la
metà della bolla dei subprime (1 trilione), ma colpirà un sistema
bancario già alle corde. La linea di credito di emergenza aperta per
Fannie Mae e Freddie Mac, le «assicuratrici» semi-statali dei mutui,
è di 800 miliardi, e verrà dunque rapidamente risucchiata dagli ARM;
peggio ancora, le opzioni ARM, coriandolizzate e confezionate, sono
sparse in fondi di ogni genere, e su di esse è stato creato un
business di derivati da trilioni di dollari, che dunque è minacciato
di implosione, tale da gettare le banche nell’abisso.
Ciò pone la domanda: come mai, in questa situazione fallimentare,
il dollaro si è apprezzato sull’euro? Banche e imprese denunciano
perdite colossali, i bilanci degli Stati sono in rosso profondo, la
disoccupazione aumenta, e in questa rovina il dollaro risale.
La risposta viene da James Turk, analista e fondatore di Gold Money:
«Le Banche Centrali sono intervenute a sostenere il dollaro, e ne
posso dare la prova. Quando le Banche Centrali intervengono sui
mercati valutari, comprano dollari con le loro valute; poi usano i
dollari per comprare titoli di debito di Stato USA, per lucrare un
interesse. Questi titoli di debito acquisiti dalle Banche Centrali
sono conservati in custodia presso la Federal Reserve, e questa ne
riporta l’ammontare ogni settimana.
Ebbene: al 16 luglio 2008, la Federal Reserve riportava di detenere
2.349 miliardi di dollari (2,35 trilioni) in Buoni del Tesoro
custoditi per conto di stranieri. Tre settimane dopo, i titoli in
custodia erano più di 2,4 trilioni.
Il che, in un anno, fa una
crescita del 38,4%. Dunque le Banche Centrali accumulano dollari ad
un ritmo mai visto, ingiustificato rispetto al deficit commerciale
americano. La conclusione logica è che stanno sostenendo il dollaro,
per impedirgli di precipitare. Provocando un rialzo, non troppo
difficile da ottenere visto l’effetto-leva usato dei fondi hedge».
Il calo del barile e dell’oro è stato, con ogni probabilità,
manipolato al ribasso allo stesso modo. E’ chiaramente all’opera il
cosiddetto «Plunge Protection Team», il semisegreto gruppo di
finanzieri (ufficialmente si chiama President’s Working Group on
Financial Markets) allestito appunto per manipolare i cambi e i
corsi onde contenere, o almeno ritardare, una catastrofe, a forza di
effetti-leva (3).
Ellen Brown, un’avvocatessa civilista che studia i trucchi
finanziari (il suo ultimo saggio ha per titolo «The Web of Debt», la
rete del debito) sospetta addirittura che il conflitto in Georgia
possa essere stato scatenato per distrarre dalla enorme crisi che
incombe. E ricorda il film «Wag the dog» (in italiano «Sesso e
potere»), il film del ‘97 in cui un consigliere della Casa Bianca
(Robert De Niro) contatta un produttore di fiction tv (Dustin
Hoffman) e gli dice: «C’è una crisi alla Casa Bianca, e per salvare
le elezioni bisogna fingere una guerra» (4). Il presidente USA nel
film è travolto da uno scandalo sessuale, e per salvarlo si finge
una guerra contro... l’Albania, naturalmente tutta inventata, e resa
nei TG a forza di effetti speciali elettronici.
Ohimè, il conflitto georgiano è una realtà. Anche se forse non a
caso Saakashvili ha attaccato l’Ossezia il 7 agosto, il giorno in
cui la FED ha pubblicato i dati sugli inauditi volumi di acquisti di
BOT americani da parte delle Banche Centrali. Ma su questo ultimo
punto bisogna concentrarsi.
«Quali» Banche Centrali stanno dilapidando miliardi per sostenere il
dollaro? Se tra queste c’è la Banca Centrale Europea, com’è
probabile, bisogna concludere quanto segue: la BCE, con il suo tasso
primario rialzato fino al 4,25%, ha mandato l’economia europea in
recessione - e però aiuta gli americani, non gli europei. La scelta
di mantenere l’euro fortissimo, di restrizione del credito (denaro
caro), e per conseguenza di minori esportazioni, sta provocando la
contrazione dell’area europea, dello 0,2% in complesso, ma con
drammatiche situazioni secondo i paesi (5).
La Spagna è in situazione di emergenza, tanto da costringere
Zapatero a stanziare d’urgenza 20 miliardi di euro per lavori
pubblici, tagli fiscali e sostegno ai mutui - tipici rimedi
anti-ciclici. L’Italia e la Francia hanno visto contrarre le loro
economie dell’ 0,3% nel trimestre; la Germania si è contratta ancora
di più (0,5%), perchè più industrializzata e più esportatrice.
L’Islanda è ormai in recessione, ossia crescita negativa, di un
inquietante 3,7%. In crescita negativa sono anche Irlanda,
Danimarca, Lituania ed Estonia, mentre rallentano drammaticamente
l’Olanda e la Svezia.
Insomma tutta la zona euro è in recessione per la politica di
«denaro scarso e caro» instaurata dalla BCE; sarebbe irritante
apprendere che il denaro, reso così scarso in Europa, la BCE l’ha
trovato (o stampato) in abbondanza per comprare BOT americani, ossia
del Paese più indebitato del mondo.
La caduta della Germania, comparativamente più rapida, ha allarmato
la Confindustria tedesca (BDI), che ora sarebbe favorevole ad un
abbassamento dei tassi. Ma il delegato tedesco alla BCE, Axel Weber,
fa il sordo e resiste: «La fiducia espressa da alcuni osservatori,
che la crescita economica indebolita stia raffreddando l’inflazione,
è secondo me prematura», ha detto. Traduzione: la BCE ci sta
portando deliberatamente in una recessione per scongiurare la
spirale inflazionistica prezzi-salari. La BCE è convinta che ci sia
un’inflazione da eccesso di moneta. Quella moneta che ci fa mancare.
Invece sì, l’inflazione c’è (ufficialmente del 4,1%), ma essa
dipende dai rincari mondiali del petrolio e degli alimentari, su cui
le manovre della BCE non hanno alcun potere. Ma se si tolgono dal
calcolo greggio e alimentari (la misura si chiama «core inflation»)
si vede che la pretesa inflazione è già divenuta deflazione: i
prezzi d’altro genere sono infatti diminuiti dell’1,8% rispetto
all’anno scorso. A soffrire di più sono ovviamente i salari, il cui
potere d’acquisto è stato brutalmente accorciato. D’altra parte,
l’obbligo europeo di limitare il deficit al 3% del PIL impedisce ai
governi di attutire la recessione con un aumento della spesa
pubblica; anzi, l’Italia deve stringere i cordoni in piena
recessione (infatti le tasse non vengono tagliate, nonostante le
promesse, e i consumi non vengono stimolati da iniezioni di potere
d’acquisto ai salariati e pensionati). Il nodo scorsoio si stringe.
La Spagna, come abbiamo visto, s’è infischiata dell’imperativo di
limitare il deficit a 3%, ed ha varato il pacchetto d’emergenza con
20 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva: ma non solo ha un debito
pubblico inferiore a quello italiano, la sua crisi - essenzialmente
lo scoppio della bolla immobiliare - è più grave. Se avesse ancora
la propria moneta, dovrebbe svalutarla del 30% per riportare a galla
la sua economia. Avendo l’euro, non può farlo perchè la Germania e
la BCE non voglione deprezzare l’euro. Le banche spagnole più
esposte al crollo immobiliare (la Spagna ha oggi 800 mila
appartamenti di troppo) si fanno prestare i soldi dalla BCE, almeno
49,4 miliardi di euro.
Lo fanno con un trucco: emettono obbligazioni - che il pubblico non
comprerebbe - al solo scopo di consegnarle alla BCE per ottenerne
liquidità. In questo modo, di fatto, le banche ispaniche si fanno
sostenere dai contribuenti di tutta Europa, specialmente tedeschi,
per restare a galla - con un metodo surrettizio e forse illegale. E
allora perchè non può fare altrettanto la Grecia, che dovrebbe
svalutare del 40%? Magari lo farà, visto il precedente spagnolo: e
lo faranno l’Italia e l’Irlanda e l’Islanda. Ma la Germania in piena
contrazione, avrà voglia di pagare surrettiziamente col denaro dei
suoi contribuenti, il salvataggio di metà dei Paesi europei?
Sarebbe increscioso scoprire che, con questi guai in vista - nè più
nè meno che il pericolo di spaccatura della moneta unica europea -
la BCE trova il modo di spendere altri miliardi di tutti noi per
comprare i BOT di un’America in rovina, che per di più ci vuole
rifilare nella NATO anche la Georgia, e con ciò spingerci in rotta
di collisione con la Russia.
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1) Ilaina Jonas, «Home foreclosure filings up 55
percent in July», Reuters, 14 agosto 2008.
2) «Ticking time bomb», Economist, 14 agosto.
3) Ellen Brown, «Wag the dog: how to conceal massive economic
collapse», GlobarlResearch, 14 agosto.
4) «Wag the dog» è un noto modo di dire americano: «muovi il cane»
(sottinteso: anzichè la coda), per indicare la creazione di una
falsa apparenza.
5) Ambrose Evans-Pritchard, «ECB slammed as Europe crumbles»,
Telegraph, 15 agosto 2008.
 |
Fonte
- Effedieffe. |
Giappone
- Recessione in vista
Wednesday, 13 August -
di WSI -
di
by phastidio ______________________________________________
L’economia giapponese
si è contratta nel primo trimestre, portando il paese in
prossimità della prima recessione in sei anni, a causa
soprattutto del calo dell’export e della decelerazione della
spesa dei consumatori. Il pil si è ridotto del 2,4 per cento
annualizzato nel trimestre aprile-giugno, dopo l’espansione
del 3,2 per cento del primo trimestre. In particolare,
l’export è diminuito del massimo dalla recessione del
2001-2002, sottraendo al Giappone il motore di crescita che
ha sinora guidato la più lunga espansione del Dopoguerra,
mentre gli elevati costi dell’energia hanno frenato i
consumi domestici. La scorsa settimana Toyota ha riportato
il maggior calo degli utili in cinque anni, mentre Japan
Airlines ha comunicato un taglio dei salari per contrastare
i crescenti costi. Anche per la Bank of Japan si pone il
dilemma di politica monetaria che assilla le banche centrali
di gran parte del pianeta: crescita in indebolimento ma
inflazione in accelerazione.
Nel secondo trimestre il pil è calato dello 0,6 per cento
trimestrale, peraltro in linea con le stime di consenso. Il
Giappone è il terzo membro del G7 a sperimentare una
contrazione congiunturale del pil quest’anno, dopo Canada e
Italia. L’export è diminuito del 2,3 per cento, primo calo
in tre anni, mentre l’import è calato del 2,8 per cento. La
spesa dei consumatori, che conta per circa la metà
dell’economia giapponese, è diminuita dello 0,5 per cento
trimestrale. Il sentiment delle famiglie ha toccato in
luglio il minimo storico di tutti i tempi, dopo che
l’inflazione ha superato la crescita salariale. I bonus
aziendali estivi delle maggiori compagnie giapponesi sono
diminuiti per la prima volta dal 2002.
La domanda domestica, che include spesa dei consumatori ed
investimento aziendale, incide per lo 0,4 per cento della
contrazione trimestrale del pil. L’investimento aziendale è
diminuito dello 0,2 per cento, meno della flessione dello
0,6 per cento che gli analisti si attendevano. La scorsa
settimana Toyota, la più grande azienda giapponese, ha
ridotto del 3,5 per cento le proprie stime di vendita per
l’anno che termina a marzo 2009. Da giugno, Toyota ha
eliminato 800 posti di lavoro presso la propria sussidiaria
che realizza i SUV e le Lexus Sedan destinate al mercato
statunitense. Japan Airlines ha invece annunciato la scorsa
settimana una riduzione delle retribuzioni del 5 per cento,
per compensare l’aumento dei prezzi dei carburanti.
Anche l’investimento immobiliare residenziale ha contribuito
alla flessione del pil, con un calo del 3,4 per cento, a
fronte di attese per una crescita dell’1,4 per cento, a
seguito della debolezza nelle vendite di nuovi condomini
causata da prezzi in aumento e restrizione degli standard
creditizi da parte delle banche. Malgrado un quadro
d’insieme non particolarmente brillante, molti analisti si
attendono un rallentamento congiunturale meno severo che in
passato, essenzialmente perché le aziende hanno ripagato i
propri debiti, ridotto gli organici e razionalizzato
l’investimento in attrezzature ed impianti. Anche le
prospettive per l’andamento degli investimenti e le
condizioni del mercato del lavoro appaiono migliori rispetto
alla fine della precedente espansione, nel 2001. Secondo la
Development Bank of Japan, infatti, le aziende sono attese
aumentare i propri investimenti del 4,1 per cento nell’anno
che terminerà il 31 marzo prossimo: se questo dato è
peggiore rispetto al più 7,7 per cento dello scorso anno, è
comunque di gran lunga migliore del calo del 10 per cento
registrato durante la recessione del 2001. E riguardo il
mercato del lavoro, il quoziente impieghi-richiedenti è
ancora prossimo al suo massimo degli ultimi sedici anni, con
un valore che a giugno era pari a 0,91 che indica che vi è
un impiego disponibile per ogni lavoratore richiedente.
Sette anni fa vi erano due richiedenti per ogni impiego
disponibile.
Ad oggi, quindi, si può concludere che l’economia giapponese
sta decelerando ma non collassando.
Fonte -
Macromonitor
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Crisi
mondiale: é stupido curare il malato grave con
un'aspirina
20 Agosto 2008 23:53
LUGANO - di
Corriere del Ticino
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La cosiddetta crisi dei mutui ipotecari subprime comincia ad
intaccare anche l’economia reale. Tra le prime vittime è l’economia
europea, che è stata indebolita non solo dalla crisi bancaria, ma
anche dalla forza dell’euro e dall’impennata del prezzo del petrolio
e delle altre materie prime. Infatti, nel secondo trimestre di
quest’anno il Pil di Eurolandia si è contratto dello 0,2% rispetto
ai primi tre mesi del 2008.
È la prima contrazione economica dalla creazione della moneta unica
europea nel 1999 e la prima volta dalla recessione del 1992/93 che
l’attività economica è diminuita nei 15 paesi che usano l’euro.
Anche se l’economia europea è pur sempre cresciuta dell’1,5%
rispetto al secondo trimestre dell’anno scorso, il termine
«recessione» ritorna prepontentemente al centro del dibattito
politico ed economico.
Le difficoltà dell’economia europea ravvivano le paure di una
recessione globale. Infatti anche da un’altra economia, quella
giapponese, che avrebbe dovuto dimostrarsi in grado di resistere
meglio alla crisi del credito arrivano segnali preoccupanti. Nel
secondo trimestre il Pil nipponico si è contratto dello 0,6%. La
stessa strada è stata imboccata da Canada ed Australia e soprattutto
dagli Stati Uniti, dove l’esaurirsi degli stimoli fiscali di Bush
farà piombare (come prevede anche UBS) l’economia americana in
recessione nel secondo semestre di quest’anno. La brusca frenata
delle economie occidentali inciderà anche sulle prospettive del
nostro paese.
I primi segnali cominciano ad emergere. La fiducia dei consumatori
svizzeri è diminuita a livelli non più toccati dai tempi della
stagnazione dell’inizio di questo decennio. Gli ordinativi
provenienti dall’estero dell’industria delle macchine (un quinto
dell’export elvetico) sono diminuiti e già nel mese di giugno le
esportazioni di questo settore saranno inferiori rispetto a quelle
dell’anno scorso. È quindi molto probabile che nei prossimi mesi vi
sarà anche un forte rallentamento della crescita elvetica.
In questo quadro poco roseo l’unica incertezza riguarda la capacità
di tenuta delle economie dei grandi paesi emergenti (Cina, India,
Brasile, Russia, ecc.). Se anch’esse dovessero soccombere alle
pressioni recessive dei paesi di vecchia industrializzazione,
avremmo una pericolosa recessione globale. Il forte calo dei prezzi
delle materie prime delle ultime settimane sembrerebbe confortare
questa previsione. Invece è molto probabile che questi paesi
continueranno a crescere, poiché il calo dei prezzi del petrolio e
dei prodotti agricoli calmiererà l’inflazione e permetterà il varo
di politiche fiscali di rilancio dell’economia.
Al centro della crisi finanziaria e ora anche economica sono i paesi
di vecchia industrializzazione e soprattutto gli Stati Uniti, poiché
la brusca frenata della crescita si accompagna alla crisi del
mercato immobiliare e del sistema bancario e quindi ad una
contrazione dell’erogazione dei crediti che riduce sensibilmente
l’influenza della politica monetaria.
E infatti dalla lettura di
quanto sta succedendo negli Stati Uniti si può trarre la conclusione
che per uscire da questa crisi non saranno sufficienti le
tradizionali manovre di politica economica, ossia la combinazione di
riduzione del costo del denaro con pacchetti fiscali tesi a ridare
fiato ai consumatori.
Queste misure permettono unicamente di guadagnare tempo, ma sono
inadeguate rispetto ai problemi che stanno frenando l’economia.
Queste politiche mirano a ricreare le condizioni che hanno provocato
questa crisi: spingere le famiglie americane a spendere aumentando
il loro livello di indebitamento, ritenuto da tutti già eccessivo.
Paradossalmente, si sta ripetendo esattamente quanto fece la Federal
Reserve di Alan Greenspan all’inizio di questo decennio dopo il
crollo delle borse, sebbene quella politica monetaria sia ritenuta
da alcuni la responsabile della situazione di oggi.
Invece per affrontare una crisi, come l’attuale, determinata da un
eccesso di credito erogato dal sistema finanziario e per converso da
un eccesso di debito delle famiglie, occorre riorientare
completamente il mix della politica economica. I consumi delle
famiglie non dovrebbero essere sostenuti da un ulteriore aumento del
loro indebitamento, ma da un incremento dei loro redditi attuato
attraverso un’adeguata politica fiscale. La crescita dovrebbe essere
trainata da grandi investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il
sistema finanziario dovrebbe essere risanato dalle radici. Oggi non
vi è consenso per il varo di queste politiche, ma nel prossimo
futuro la gravità della crisi le riporterà in auge.
 |
Fonte
- Corriere del Ticino |
La
crisi economica
potrebbe favorire Obama
20 Agosto 2008 23:23
CINCINNATI - di Andrea Hopkins
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I prezzi della benzina negli Stati Uniti possono essere leggermente
diminuiti, ma è difficile prevedere che prima delle elezioni
presidenziali di novembre si attenuino tra gli elettori le
preoccupazioni sul futuro dell'economia. E questo potrebbe
pregiudicare le possibilità per i repubblicani di restare in corsa
per la Casa Bianca.
I dati appena pubblicati, che mostrano un'impennata dell'inflazione
e un rallentamento nelle costruzioni, con l'indice che misura
l'avvio di nuovi cantieri al punto più basso da 17 anni, hanno
alimentato i timori, e secondo gli analisti ci sono pochi dubbi che
il susseguirsi di cattive notizie possa alimentare negli elettori
una voglia di cambiamento. Secondo Michael Walden, economista della
Carolina State University, questa situazione da' al candidato
democratico Barack Obama un grande vantaggio sul repubblicano John
McCain.
"Fino a quando l'economia continuerà a peggiorare, Obama sarà
favorito perchè gli elettori vedranno in lui l'uomo del cambiamento"
dice Walden. Una crisi economica non è mai un vantaggio per i
partiti in carica. Dopo sette anni di presidenza Bush, gli elettori
sono scontenti dello stato dell'economia statunitense, e stanchi di
prezzi alti, disoccupazione in aumento e crisi immobiliare e
creditizia. "Gli elettori continuano a ripetere con forza che
l'economia è il punto chiave di queste elezioni", spiega Maurice
Carroll, direttore dell'istituto di sondaggi della Quinnipiac
University. Secondo un sondaggio Quinnipac su scala nazionale, per
il 52% dei potenziali elettori il tema più importante è proprio
quello economico, che supera di gran lunga la percentuale (16%) di
chi è preoccupato soprattutto della guerra in Iraq.
Ma non è chiaro quale candidato venga percepito come il più adatto a
gestire la situazione economica. I sondaggi mostrano risultati
contrastanti. Il sondaggio Reuters/Zogby mostra come alla domanda su
quale candidato sarebbe più adatto a gestire la politica economica
del Paese, il 49% abbia indicato McCain e il 40% Obama. Il sondaggio
Quinnipac invece riporta risultati opposti.
Che un'economia barcollante avrebbe costituito un punto di debolezza
per McCain - un senatore dell'Arizona che è stato prigioniero in
Vietnam e ha ammesso la sua scarsa esperienza in campo economico -
era fatto atteso. Ma nell'ultimo mese McCain ha attaccato Obama sui
rincari energetici, e i sondaggi hanno mostrato che una grande
maggioranza degli elettori sostengono la sua richiesta di aumentare
le trivellazioni in mare aperto per far fronte all'aumento del
prezzo della benzina, vicino ai 4 dollari al gallone.
Obama si è
opposto a ulteriori trivellazioni, ma recentemente ha detto di
essere favorevole a un limitato aumento dell'estrazione come parte
di un programma energetico più ampio.
SCENARI FUTURI Secondo Brian Darling, analista alla conservatrice
Heritage Foundation, la richiesta di un incremento della produzione
di petrolio negli Usa sta facendo guadagnare voti a McCain. "Se
guardiamo ai sondaggi, si vede come McCain rimanga fermo nelle sue
posizioni anche in una congiuntura economica molto sfavorevole",
dice Darling. "Se McCain riesce a convincere gli elettori che terrà
bassa la pressione fiscale e aumenterà la produzione domestica di
greggio, questo potrebbe avere la meglio sulle critiche ai
repubblicani per politiche economiche sbagliate".
Darling ammette comunque che molto potrebbe dipendere dagli sviluppi
economici da qui a novembre, quando anche gli elettori indecisi
sceglieranno il proprio candidato. "Nuovi fallimenti bancari e un
peggioramento della crisi immobliare potrebbero aiutare Obama. I
repubblicani, a torto o a ragione, saranno criticati per ogni
problema economico". Mentre Obama, che sarebbe il primo presidente
afroamericano negli Usa, ha conquistato alcuni elettori e
opinionisti politici in patria e all'estero, analisti e sondaggisti
sostengono che probabilmente le elezioni saranno molto combattute.
E mentre gli economisti discutono il contenuto dei programmi
economici dei due candidati, l'elettore medio potrebbe decidere
guardando al portafoglio e alle preoccupazioni economiche più che a
qualsiasi tema specifico. "E' una tendenza consolidata. Le persone
capiscono che l'economia durante la presidenza Bush è stata debole,
almeno nel suo secondo mandato, e questo sicuramente danneggia McCain in quanto candidato repubblicano e da' a Obama un vantaggio
significativo perchè lui può sostenere che non continuerà sulla
strada di Bush", dice Alexander Lamis, docente di scienze politiche
alla Case Western University in Ohio.
Secondo Walden, una diminuzione dei prezzi della benzina potrebbe
aiutare McCain se gli elettori ne trarranno un po' di sollievo per
il proprio budget familiare, e se saranno quindi meno desiderosi di
quel cambiamento che Obama rappresenta. Ma, sempre secondo
l'analista, sul fronte dell'occupazione le cose non potranno che
peggiorare da qui a novembre. "Credo che i prezzi della benzina
continueranno a scendere fino al giorno delle elezioni e anche
oltre, e questo avrà un effetto psicologico positivo sugli elettori.
Ma non avrà più peso delle criticità nel mercato del lavoro. Non
credo assolutamente che l'elettore medio pensi che il peggio sia
passato".
 |
Fonte
- Ruters |
CHI E' L'ECONOMISTA INDIANO
CHE DENUNCIA L'EGOISMO AMERICANO
21 Agosto 2008 13:39 MILANO
-
di
Stefano
Feltri ______________________________________________
Per fortuna Jagdish Bhagwati resiste.
L’economista indiano trapiantato alla Columbia University,
che da anni predica i benefici del libero commercio, non si
arrende. Il decano dei liberisti continua a spiegare che
ridurre le barriere doganali e aprirsi alla globalizzazione
è una scelta che comporta alcuni costi nel breve periodo, ma
poi tutti ci guadagnano. Però il clima è cambiato e ora
Bhagwati si trova costretto a usare argomenti di sinistra,
abbandonando i toni da destra liberale del passato. In un
sorprendente articolo pubblicato oggi dal Financial Times,
dal titolo "The selfish hegemon must offer a New Deal on
trade", Bhagwati denuncia la deriva egoistica dell’America.
Per proteggere due milioni di agricoltori, gli Stati Uniti
hanno chiesto a India e paesi in via di sviluppo sacrifici
inaccettabili, determinando il fallimento del negoziato di
luglio della Wto.
"Ancora una volta gli Stati Uniti sono un gigante
spaventato", scrive l’economista della Columbia, proprio
come quando la concorrenza Giapponese terrorizzava le
industrie americane negli anni ottanta e i deputati
fracassavano i walkman Toshiba sulle scale del Congresso. E
quando l’America si spaventa, per usare l’espressione dello
storico dell’economia Charles Kindleberger, smette di essere
un "egemone altruista" e diventa un "egemone egoista", che
si nasconde dietro la richiesta del rispetto dei diritti dei
lavoratori in Cina e in India solo per proteggere le proprie
imprese inefficienti.
Ma in un’economia sempre più competitiva, dominata "dal
vantaggio comparato caleidoscopico", cioè disperso e
frammentato in giro per il globo, la strategia cinica
dell’egemone egoista non può durare a lungo. Perché il
protezionismo può rivelarsi molto costoso, soprattutto se
impedisce a un paese di confrontarsi con la concorrenza
globale e spreca risorse sempre più scarse per salvare
imprenditori (soprattutto agricoli) che non sono più
competitivi.
Peccato che Barack Obama, il candidato democratico, parli di
una "nuova epoca" ma che si annuncia più protezionista di
quella attuale, mentre John McCain, che pure è per cultura
un sostenitore del libero commercio, non ha abbastanza
competenza in materia per mettere l’economia al centro della
sua campagna elettorale, e per ora non offre risposte
convincenti.
Bhagwati, sempre più solo, e la scuola di economisti
indiani-americani che a lui si ispira continueranno a far
sentire la propria voce, ma l’impressione è che in questa
fase siano destinati a restare inascoltati.
Fonte
-
Il Foglio
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USA-RUSSIA:
verso una nuova guerra
fredda
22 Agosto 2008 04:29
ROMA - di Sandro Viola
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Dopo l´America, che l´altro ieri aveva siglato con i polacchi
l´accordo per l´installazione d´un sistema antimissilistico a
ridosso dei confini russi, è Mosca, adesso, a far capire che la
crisi scaturita dalla guerra nel Caucaso è soltanto agli inizi.
Il Cremlino ha infatti deciso di sospendere qualsiasi forma di
cooperazione militare con la Nato. Non siamo ancora all´uscita dal
Consiglio Nato-Russia, ma si tratta comunque d´un passo molto
significativo. Soprattutto perché nei capitoli della cooperazione
militare era compreso il passaggio attraverso la Russia di
"materiali non letali" (quindi approvvigionamenti, attrezzature
sanitarie) diretti in Afghanistan.
Un segno, dunque, che le reazioni occidentali di queste due
settimane alla condotta dell´Armata Rossa nel Caucaso non avevano né
intimidito né preoccupato il regime russo.
Presa nel complesso, la risposta dell´Alleanza Atlantica al
travolgente contrattacco dei russi in Georgia (la principale
responsabile, questo non va dimenticato, della guerra d´agosto) era
stata abbastanza cauta. Alla riunione dei ministri degli Esteri
della Nato, martedì scorso, le porte erano state lasciate aperte ad
una ripresa di rapporti "normali" con Mosca, alla sola condizione
d´un totale ritiro delle truppe russe sulle posizioni da cui s´erano
mosse il 7 agosto. Del resto, che altro poteva essere deciso nella
riunione della Nato?
La situazione s´è già fatta abbastanza convulsa, e nessuno intendeva
aggravarla giungendo ad una drastica rottura del dialogo con la
Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell´Onu,
partner del G8 e del Quartetto che media nel conflitto
israelo-palestinese, massimo esportatore di idrocarburi al mondo, e
inoltre in possesso del più vasto armamento nucleare dopo quello
degli Stati Uniti.
Certo: l´irruenza con cui l´amministrazione Bush ha voluto
concludere l´accordo sui missili anti-missili in Polonia, può aver
spinto Putin a reagire con un gesto drastico, clamoroso, come la
fine d´ogni cooperazione con la Nato. Ma è vero anche che
l´atteggiamento possibilista, prudente, degli europei che contano
(Germania, Francia, Italia, Spagna) poteva bastare ai russi per
attendere senza troppo agitarsi la fine della bufera post-Georgia.
Non è stato così. E ora bisogna tentare di capire come stiano
guardando alla crisi, come ne stiano valutando gli sviluppi, gli
uomini del Cremlino. Se alla prima buona occasione decideranno di
rinfoderare il linguaggio e i gesti di sfida adoperati in questi
ultimi giorni: o se invece la cautela degli alleati dell´America non
verrà interpretata come timore dello scontro, "appeasement", un
incoraggiamento a nuove dimostrazioni di forza. Come farebbe pensare
al momento la fine della cooperazione militare con la Nato.
Il tentativo di cogliere cosa passi per la mente a Putin e ai suoi
non è facile, dato che il regime consolidatosi a Mosca in questi
anni (la sua natura e composizione, le sue motivazioni) è così
anomalo da risultare quasi sempre imprevedibile. In Russia governa
una consorteria di ex agenti dei servizi segreti: uomini d´una
stessa generazione e formazione, la vera "élite" - per studi,
orgoglio del ruolo, patriottismo - dell´ultima Urss. E questo gruppo
nutre oggi la fierezza d´aver tratto il proprio Paese dal baratro in
cui era caduto.
Esattamente dieci anni fa, infatti, la Russia di Eltsin aveva
dichiarato bancarotta. Il rublo ridotto a carta straccia, la
sospensione dei pagamenti del debito estero, i risparmi di decine di
milioni di russi andati in fumo. Nessun rispetto sul piano
internazionale, il crimine dilagante, lo Stato a pezzi.
Poi, nel 2000, Putin era asceso al potere con i suoi accoliti ex
Kgb. E la Russia è oggi, otto anni dopo, un´altra Russia. Lo Stato
rimesso in piedi, i forzieri della Banca centrale che scoppiano di
riserve valutarie, l´economia in ripresa, e attorno al regime un
consenso massiccio che la guerra in Georgia, fomentando il
nazionalismo e anti-americanismo dei russi, ha ancora aumentato.
Al vertice moscovita circolano quindi una grande sicurezza,
un´autostima, diciamo anche un´euforia. La percezione del gruppo che
fa da base al regime, la Kooperativnost uscita dai servizi segreti
dell´Urss, è che sulla scena internazionale "l´aritmetica del
potere" è oggi dalla sua parte.
Poco importano le critiche che giungono dall´esterno per le
indecenti farse elettorali russe, per il fatto che tutti i
personaggi di rilievo siano insieme uomini di governo e
amministratori della ricchezza energetica del Paese (con automatiche
e proficue ricadute sulla loro ricchezza personale), o per la
presenza d´una specie di partito unico che rende il Parlamento
completamente prono ai voleri del Capo.
Il regime di Vladimir Putin ha il vantaggio di non dover rispondere
a nessuno. Non ad un´opposizione politica e ad un´opinione pubblica
all´interno, né ad alleati degni del nome all´esterno.
Può così appoggiare all´Onu il Sudan sulla questione Darfur, i
generali birmani e lo Zimbabwe di Mugabe, rifiutare gli osservatori
internazionali nei giorni delle elezioni, sciogliere a manganellate
le sparute discese in piazza degli oppositori, tenere sotto stretto
controllo i maggiori mezzi d´informazione, sospendere al primo
stormir di fronde le forniture energetiche ai paesi ex Urss.
In questo, gli errori o provocazioni dell´America di Bush non
c´entrano. E c´entrano solo relativamente le ricchezze piovute
dall´aumento dei prezzi di petrolio e gas, cresciuti di sei volte
negli anni di Putin. I modi con cui dal 2005-2006 la Russia
contrasta, ostacola, ostruisce ogni strada percorsa dagli Stati
Uniti, scaturiscono infatti dalla viscere del regime. Dal suo
bisogno di rivincita per il crollo della Russia sovietica («la più
grande tragedia del XX secolo», dice Putin), dai complessi
d´inferiorità e frustrazioni sofferti lungo tutti gli anni Novanta
dinanzi alla vittoria americana nella Guerra fredda, dal suo
nazionalismo di nuovo fervente dopo i successi ottenuti da quando è
al potere.
È dunque un gruppo dirigente insieme risentito e baldanzoso che
gestirà a Mosca la crisi in atto. Le tensioni ormai molto forti con
gli Stati Uniti, la semi-rottura con la Nato, una possibile
discrepanza delle posizioni tra l´Unione europea e Washington,
l´esacerbarsi dei rapporti con i vicini ex Urss dopo la guerra in
Georgia. Quella che per alcuni versi sembra già una nuova Guerra
fredda, nella quale la condotta del regime russo, almeno per ora, è
tutto meno che prevedibile.
Solo l´economia, l´economia globalizzata, rende la situazione meno
infiammabile di com´era ai tempi della vera Guerra fredda. I
rapporti tra monopoli e industrie russi col mondo industriale e
finanziario dell´Occidente sono oggi così intensi (e da ambedue le
parti praticamente irrinunciabili), che è difficile pensare ad una
loro rottura. L´Occidente vive una crisi economica molto seria,
forse non passeggera. E la Russia aspira a modernizzarsi per abolire
finalmente le sue tante sacche di miseria, e non essere - invece che
una nazione potente - soltanto un petro-Stato che conta i barili di
petrolio da vendere sul mercato.
 |
Fonte
- La Repubblica |
Killing
me softly
24 Agosto 2008 23:00
ROMA - di Eugenio Benetazzo
________________________________________
I suv americani stanno letteralmente uccidendo dolcemente i loro
proprietari ormai non più in grado di sostenere finanziariamente sia
il pagamento delle rate dei light leasing quanto il costo del pieno
di benzina (gasoline). Tanto per fare un esempio pratico, un gallone
di benzina (3,8 litri) costa adesso 4 $, che per l'Homer Simpson di
turno è un prezzo fuori dal mondo:
considerate infatti che durante
la crisi petrolifera di fine anni settanta il massimo prezzo pagato
fu di $3,5! Fino a tre anni fa il costo si aggirava a $1,50 al
gallone. Per dare un ulteriore elemento di paragone, il resto del
mondo paga un gallone dai $2 della Cina agli oltre $8 in Europa!
Negli States lo scenario automobilistico si sta rendendo
insostenibile, considerate che un americano medio, viste le ampie
dimensioni dei distretti urbani, percorre normalmente più di 100 km
al giorno per recarsi al lavoro, fare la spesa al jet market e
fermarsi per un cheese burger da Mc Donald. I giornali di annunci
economici di seconda mano sono invasi da offerte di vendita a prezzi
regalati di questi bestioni della strada: ma nonostante il prezzo
regalato, non se li fila comunque nessuno ! Persino le
concessionarie di auto nuove propongono sconti anche del 40 % purchè
qualche folle sprovveduto se li porti via.
Sembrano invece
paradossali per il tipico stile di vita americano le richieste di
acquisto e prenotazione delle cosidette compact car, le utilitarie
europee e giapponesi dalle dimensioni contenute, ma dai costi di
gestione paradisiaci a confronto.
Per la prima volta la mentalità "super size" dello yankee obeso
ovvero tutto esageratamente molto grande sembra subire una pesante
sconfitta, che come perdente clamoroso identifica proprio la grande
major automobilistica americana:
la General Motors, il cui logo GM è
stato recentemente ribattezzato come acronimo di Gigante Morente. La
General Motors è stata sino a qualche anno fa la più grande azienda
automobilistica del pianeta ed anche la prima corporation per
fatturato prodotto: nata come holding negli anni trenta dalla
fusione per incorporazione di quattro marchi storici dell'industria
automobilistica americana (Buick, Chevrolet, Oldsmobile e Pontiac),
ha cavalcato come leader di mercato per decenni le scene del
panorama automobilistico planetario imponendo i suoi oltraggiosi
veicoli ovunque, sino a quando non si è scontrata con la lean
production di Toyota (attualmente il più grande costruttore
automobilistico del mondo).
Lo scontro è stato fatale, per non dire
mortale, infatti senza esagerazioni possiamo dire che General Motors
è ormai avviata ad una lenta ed inesorabile morte industriale e
finanziaria.
I fondamentali sull'azienda di Detroit hanno raggiunto proporzioni
allarmanti: crollo delle vendite oltre il 30 %, quattro trimestri
consecutivi con ingenti perdite, solo l'ultimo con oltre 15 miliardi
di dollari, le agenzie di rating hanno emesso un pesante downgrade
sul titolo al limite ormai della spazzatura,
non si placano le voci
di possibile fallimento del gruppo per insolvenza finanziaria, il
titolo azionario GM ormai in caduta libera a 10$ per azioni (il
minimo degli ultimi cinquant'anni). Il famoso suv Hummer dai consumi
sconsiderati è uno dei marchi di punta del gruppo americano che ha
fatto dell'abbondanza delle forme e dei consumi sfrenati la sua
strategia di mercato per distinguersi dagli altri produttori. Una
scelta che a distanza di tempo adesso più che mirare alla
distinzione stia lentamente portando all'estinzione.
Il ruolo ed il peso della GM negli USA è superiore a quello della
Fiat per il nostro paese, se l'azienda di Detroit dovesse incorrere
in un default finanziario (ormai sempre più prossimo ed inesorabile)
le conseguenza per l'economia statunitense sarebbero pari ad uno
shock finanziario con effetti domino su decine di grandi
corporations, e tutto questo in piena crisi subprime e nel pieno di
una depressione economica.
Sarà curioso a questo punto conoscere che
tipo di intervento adotteranno le autorità di governo statunitensi
per impedire anche a questo bubbone finanziario di implodere. In
ogni caso tutti gli interventi di salvataggio recentemente
effettuati dallo Zio Sam avranno presto ripercussioni sulle tasche
dei contribuenti americani e sulla quantità e qualità dei servizi
erogati dalle agenzie federali. Per quanto ossigeno continui a dare
ad un malato terminale per tenerlo in vita, sai perfettamente che
prima o poi dovrà soccombere fisicamente.
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Fonte
- www.eugeniobenetazzo.com |
L'economia
mondiale
scende dalla Limousine
25 Agosto 2008 00:13 MILANO -
di La Repubblica
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Questo sarà l´autunno delle cattive notizie. La prima è che non ci
sarà la ripresa (e nemmeno la ripresina) sulla quale molti
contavano. Anzi, è probabile che le cose vadano peggio di quanto
sono andate fino a oggi. E questo per una serie di ragioni molto
semplici. Il consumatore americano (che rappresenta il 20 per cento
del Pil mondiale contro il 3 per cento del consumatore cinese, come
spiega Alessandro Fugnoli) sta per affrontare la sua stagione più
dura.
La crisi dei mutui subprime non è affatto finita. E in autunno
dovrebbero andare in vendita le case sequestrate dalle banche perché
i mutui non sono stati pagati. Questo significa che i prezzi delle
case in America scenderanno ancora. E questo, come in un perverso
gioco di domino, significa che per moltissimi americani ci saranno
problemi perché il valore delle loro casa scenderà ancora. E quindi
problemi con le banche, con i finanziamenti e con il livello di
vita.
Insomma, tutto congiura perché il consumatore americano non abbia
tanta voglia di correre a consumare. Più probabile che si chiuda in
casa (se riuscirà a salvarla), a guardare la tv, con una birra in
una mano e un sacchetto di patatine nell´altra.
All´economia mondiale, cioè, rischia di venire a mancare uno dei
suoi protagonisti principali. E il consumatore cinese (che dovrebbe
arrivare in soccorso), finita la festa delle Olimpiadi, ha anche lui
un po´ l´aria di uno che si ritira a tirare il fiato. Per fortuna
sembra che il governo cinese sia pronto a intervenire con un po´ di
soldi (30-40 miliardi di dollari) per aiutarlo a essere un po´ più
spendaccione e a sostenere quindi l´economia (e altri aiuti sono
previsti, sembra, per la Borsa).
Ma la cattiva notizia che riguarda il consumatore americano non sarà
l´unica dell´autunno in arrivo.
E´ sempre più evidente, ad esempio,
che assisteremo a una rapida discesa degli utili delle aziende
quotate. Finora hanno tenuto, ma nel terzo trimestre dell´anno
dovranno cedere. Con l´America che sta combattendo per non finire in
recessione e l´Europa che probabilmente c´è già (e la Cina in
rallentamento post- olimpico), mantenere gli utili di una volta
richiederebbe un intervento diretto degli dei dell´Olimpo (che però
forse sono in ferie, da secoli).
Ma se gli utili aziendali vanno giù, anche i listini sono destinati
a cedere. E questo significa altre perdite per i
consumatori-risparmiatori americani. E un nuovo stimolo a starsene
chiusi in casa davanti alla tv.
E´ prevedibile, in questa
situazione, che cresca la pressione dei governi sulle banche
centrali perché diano una mano. E poiché l´inflazione è
tendenzialmente in discesa, questa mano arriverà. Ma non prima di
Natale perché tanto la Federal Reserve quanto al Banca centrale
europea vorranno vedere, prima, dei numeri che certifichino
l´effettiva discesa dell´inflazione.
Non solo: molto probabilmente sarà una mano piccola, non risolutiva.
Le banche centrali, infatti, si vanno convincendo che tassi di
interesse troppo bassi non sono fondamentali per il buon andamento
dell´economia, mentre hanno il potere di scatenare le bolle (tipo
subprime), che poi scoppiano creando grandi guasti. A questo
proposito c´è anche chi sostiene che la stagione del denaro a buon
mercato forse si è chiusa per sempre. Il precedente capo della
Federal Reserve, Greenspan, se ne servì per superare con successo
almeno due momenti difficili (esplosione della new economy e
attentato alle Twin Towers), ma proprio in questi giorni si vede
quanto è alto il prezzo da pagare, con tutta la finanza mondiale nel
caos a causa delle troppe (e insensate) speculazioni, in gran parte
rese possibili proprio dalla disponibilità di montagne di denaro a
costo quasi zero.
L´autunno, insomma, sarà duro e segnerà l´inizio di un periodo di
riflessione. L´avvio di una stagione diversa dell´economia mondiale:
meno scintillante, più seria, e anche più grigia. Secondo alcuni
esperti, comunque, il tempo non mancherà.
Si comincia a capire,
infatti, che quasi tutte le banche (per un verso o per l´altro)
hanno i bilanci inquinati da titoli speculativi (finanza derivata di
vario tipo). E sistemare questi bilanci non sarà un lavoro di
settimane o di mesi, ma di anni.
In questa crisi, come accadde invece in quella del ´29, non vedremo
finanzieri e banchieri lanciarsi dai grattacieli di New York e
nemmeno le file dei disoccupati per avere un piatto di minestra, ma
sarà una faccenda lunga e segnata da un andamento dell´economia a
scartamento ridotto. Si scende dalle limousine, insomma, e si prende
il tram. E questo per anni. Fino a quando gli istituti di credito
avranno messo a posto i loro conti e fino a quando le banche
centrali avranno organizzato su basi diverse, e più ragionevoli, la
finanza mondiale. Dopo, si potrà ripartire, ma si andrà comunque più
piano, attenti a dove si mettono i piedi e con molto entusiasmo in
meno. Si ripartirà, ma sarà un mondo meno colorato, con meno
champagne e meno fuochi di artificio. Sarà meglio di quello da cui
stiamo uscendo.
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Fonte - La Repubblica |
E'
la fine del boom
delle commodity ?
26 Agosto 2008 04:24 NEW YORK
-
di *Tom Stevenson
*Tom Stevenson, e' Head
of Corporale Writing di Fidelity Investments International
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E’ curioso come cambiano le nostre aspettative sul prezzo del
petrolio. Se qualcuno avesse affermato un anno fa che per fare un
pieno di benzina ci sarebbero voluti circa 1,15 dollari al litro,
avremmo avuto un sussulto.
Dato che siamo anche arrivati a pagare oltre 1,20 dollari al litro,
l’ultima lieve flessione fa sì che vediamo il petrolio quasi a buon
mercato. Quasi. Considerato che la maggior parte del prezzo di un
litro di petrolio nel Regno Unito deriva da tasse, il costo visibile
attenua i meccanismi che sono alla base del sottostante prezzo del
greggio, che è crollato di circa un quinto dal picco che aveva
toccato il mese scorso quando era arrivato a 145 dollari al barile.
Cosa è successo dunque, e cosa può comportare tale andamento per gli
investimenti? Quando il prezzo del petrolio è sceso al di sotto dei
120 dollari al barile durante la scorsa settimana, toccando il punto
più basso da tre mesi, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Le
grandi società petrolifere hanno applaudito (silenziosamente) i
prezzi del greggio, ma per tutti gli altri, in un mondo come il
nostro dipendente dal petrolio, i prezzi alle stelle dell’energia
sono un incubo da scongiurare.
Il costo crescente sostenuto per viaggiare o per riscaldare le
nostre case, senza considerare l’impatto sul prezzo degli alimenti e
altri costi, è effettivamente un aumento di spesa. In un contesto
caratterizzato da redditi stagnanti, la spesa per i consumi subisce
una battuta d’arresto, le società vedono i loro costi salire alle
stelle e le banche centrali non riescono a sostenere la crescita
economica attraverso i tassi di interesse.
Il rallentamento della crescita economia è certamente una delle
ragioni del ribasso del prezzo del petrolio. La contraddizione
insita in un lento susseguirsi di notizie economiche non certo
rassicuranti e di un contemporaneo prezzo del greggio alle stelle è
finalmente apparsa chiara al mercato. In America, dove tasse a
livelli bassi comportano un rialzo del prezzo del petrolio e il
conseguente aumento del costo del gas, si è verificato un evidente
calo della domanda. E a margine, questo è il più importante fattore
per il prezzo di compensazione della materia prima più importante
del mondo. Ma il declino della domanda non è certo l’unica ragione.
Bisogna considerare anche l’aumento dell’offerta. La quantità di
petrolio fornito dai paesi dell’Opec è aumentata se consideriamo che
i 32,4 milioni di barili al giorno dello scorso giugno sono 1,8
milioni in più rispetto a un anno fa, e per la prima volta in
assoluto la International Energy Agency ha smesso di sollecitare
l’aumento della produzione ai cartelli dei produttori di greggio.
L’Arabia Saudita, il maggiore fornitore di petrolio al mondo, sta
estraendo greggio come mai accaduto dal 1984.
Nel mercato del
petrolio, il meccanismo che ne determina il prezzo non riflette
esattamente la domanda e l’offerta. Un terzo elemento è l’influenza
degli investitori, che si sono mossi pesantemente all’interno del
mercato delle commodity in questi anni. HSBC stima che negli ultimi
tre anni 200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi
specializzati in materie prime, poiché gli investitori istituzionali
hanno cercato di diversificare i loro portafogli rispetto
all’azionario e all’obbligazionario, cercando inoltre di preservare
i capitali contro la discesa del dollaro.
Mentre questa strategia può sembrare una diversificazione prudente
quando i prezzi delle commodity stanno salendo, è meno saggia in un
mercato in ribasso. L’unica ragione per investire nelle materie
prime come il petrolio è la convinzione che il prezzo continuerà a
salire. Non c’è nessun motivo di tenerle in portafoglio in un
mercato in ribasso e le vendite massicce rendono i prezzi più
volatili rispetto ad altre asset class.
La fine del boom delle commodity?
La domanda chiave che molti investitori si stanno ponendo è se
l’ultimo ribasso ha segnato la fine della bolla delle commodity o
se, invece, è solo una ricaduta in una traiettoria rialzista di
lungo-periodo, o super-ciclo come viene definito da alcuni. Su
questo, non c’è affatto un consenso unanime.
La teoria rialzista per il petrolio è ben nota. A differenza degli
anni ’70, quando gli squilibri nell’offerta sono stati la causa di
due tremendi shock, le regioni fondamentali dell’aumento dei prezzi
sono la crescente domanda proveniente dai paesi emergenti dell’Asia,
il calo delle riserve facilmente estraibili e il fatto che il
petrolio rimanente si trova in paesi politicamente instabili.
Per la prima volta in assoluto la domanda di petrolio dei paesi in
via di sviluppo ha superato quella degli Stati Uniti e dei paesi
dell’Europa e con tassi di crescita dei mercati emergenti molto al
di sopra di quelli che si registrano in occidente, è facile che
questa tendenza non cambi.
La corsa del prezzo del petrolio registrata negli ultimi tre anni è
stata tale che ribassi ulteriori non possono essere esclusi. HSBC ha
messo a raffronto l’aumento esponenziale registrato dall’indice
Nasdaq dal 1997 al 2000 e, sorprendentemente, le due traiettorie
risultano molto simili.
Il grafico di seguito mostra il Nasdaq
spinto in avanti di 100 mesi, così che è possibile fare un raffronto
con il più recente rialzo del prezzo del petrolio. I titoli
tecnologici sono certamente molto diversi dal petrolio, ma
l’andamento delle due bolle e dei successivi crolli è spesso molto
simile. Certo, nessuno può promettere che il prezzo del petrolio
continuerà a seguire il declino del Nasdaq, che, non è mostrato nel
grafico, ma ha spiegato molto della corsa fino al 2000. Ci sono
infatti buone ragioni per cui non dovrebbe accadere. La motivazione
che vede un prezzo del petrolio ancora alto è più fondata di quella
che vede un prezzo dei titoli tecnologici costantemente ai massimi.
Nel breve termine, comunque, gli investitori sono passati da una
visione rialzista a una ribassista per quanto riguarda i titoli
energetici. Sull’azionario, l’impatto della discesa del prezzo del
greggio si è riflesso in un passaggio dalle commodity ai titoli
finanziari e di consumo. Questo è esattamente ciò che ci si
aspetterebbe. Un rallentamento della crescita indebolisce l’ipotesi
rialzista riguardo i titoli energetici e le materie prime, mentre
l’affievolirsi delle preoccupazioni relative all’inflazione
allontana la pressione dai tassi d’interesse e fa sì che le banche
in pesanti difficoltà e i retailers appaiano venduti massiciamente.
Prevedere il timing di questi cambiamenti è pressoché impossibile, e
assumere che continuino è una strategia rischiosa. La recente
debolezza del prezzo del petrolio non scalfisce in alcun modo la
visione di lungo periodo che vede un super-ciclo del petrolio. A
meno che non ci allontaniamo dalla dipendenza dal petrolio e dai
suoi derivati, questa flessione subirà verosimilmente un’inversione
di tendenza a un certo punto. Pianificare i propri investimenti
sulla base di prezzi dell’energia costantemente elevati sembrerebbe
sensato.
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Fonte - Fidelity
Investments International |
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