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Mercati: incerti tra peggio e meno peggio
03 Agosto 2008 22:02 MILANO - di Alessandro Fugnoli*
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank
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Che mezzo usate quest’anno per andare in vacanza? Usate ancora
tranquillamente l’auto e l’aereo o ripiegate sul più modesto treno?
La distruzione di domanda di carburante e di prodotti petroliferi in
generale è ancora poca cosa in Europa. In America, invece, l’auto si
comincia a usarla meno per davvero. Quanto all’aereo, oltre a dovere
pagare 50 dollari per il secondo bagaglio che si imbarca, si corre
il rischio di trovare cancellato non solo il volo, ma l’intero
collegamento.
Cresce il numero di città di 100-200mila abitanti che non sono più
servite. Chi deve volare deve farsi in questi casi centinaia di
chilometri per raggiungere una città più grande dove l’aeroporto
funziona ancora.
Con tutti i suoi sforzi l’America ha tagliato i suoi consumi di
400mila barili al giorno. Se il petrolio tornasse a 90 dollari (il
target di Lehman) quei 400mila barili tornerebbe a consumarli con
entusiasmo (ci riferiamo a un’analisi di sensitività di Goldman
Sachs).
Molti dicono che il petrolio dovrà scendere ampiamente sotto i 100
dollari perchè hanno in mente la legge bronzea che vuole che le cose
tendano a tornare alla normalità. La "regression to the mean" è una
legge nobile e utile in generale, ma questi non sono tempi normali.
Il consumo cinese di petrolio, pur con il prezzo raddoppiato, è di
500mila barili al giorno più alto di un anno fa. Per un barile che
l’America riesce a risparmiare, la Cina ne consuma 1.2 in più. In
queste condizioni è difficile ipotizzare una caduta pesante del
greggio. Ci sembra più realistico ipotizzare che il rallentamento
globale del secondo semestre (allargato a America, Europa e Asia)
eviterà per quest’anno il raggiungimento di nuovi massimi
significativi (geopolitica a parte), mantenendo però il prezzo medio
sopra i 100 dollari.
Il consolidamento e il movimento laterale del greggio sono
emblematici della fase che si sta aprendo per i mercati in generale.
Dalla fase dello shock, che ha caratterizzato in varie riprese il
primo anno della crisi, stiamo passando a una fase in cui
psicologicamente siamo tutti più attrezzati ad assorbire le cattive
notizie, ma in cui comunque la luce in fondo al tunnel resta ancora
lontana. Da un fase di movimento, con rotture drammatiche alternate
a fasi di recupero, passiamo a una fase di logoramento. Nelle guerre
di trincea le sortite e le rotte continuano a esserci, ma divengono
più rare.
In queste settimane c’è stata una corsa a dichiarare vicina
l’inversione di tendenza (o quanto meno per dichiarare la tendenza
ormai prossima all’esaurimento). L’autorevole settimanale Barron’s
ha dedicato una copertina alla fine della discesa del prezzo delle
case (Home Prices Are About To Bottom, 16 luglio) e un’altra alla
fine della discesa delle banche (Buy Banks – Selectively, 21
luglio). Sul mercato c’è stata del resto una corsa disordinata a
chiudere il Grande Arbitraggio del 2007-2008, lunghi di energia e
corti di finanziari, e ad aprirne uno di segno invertito, lunghi di
banche e corti di oil.
Tutto questo ci sembra prematuro. I finanziari sono ancora tossici e
i titoli dell’energia (che oltretutto non sono particolarmente cari)
hanno ancora delle potenzialità. Concediamo però volentieri una
diminuzione di forza di tutte queste tendenze. I prezzi delle case
continueranno quindi a scendere, ma più lentamente. I conti delle
banche, dal canto loro, continueranno a emanare tossine e i titoli
potranno ancora scendere, ma in modo meno generalizzato.
Ci saranno azioni bancarie che si azzereranno (negli Stati Uniti),
ma ce ne saranno altre che reggeranno e altre ancora (una piccola
minoranza) che potranno addirittura trarre beneficio
dall’acquisizione di clienti in fuga dalle situazioni più deboli o
dal rilevamento di asset ceduti forzatamente da banche che devono
liquidare velocemente.
La maggioranza delle banche, in ogni caso, continuerà a soffrire.
Non c’è da farsi troppe illusioni su questo. Molte, anche tra le
grandissime, hanno Poster per la nuova linea metropolitana di
Minneapolis ancora in carico i Cdo di mutui sopra i 50 centesimi per
dollaro. Sono quegli stessi Cdo che Merrill Lynch ha dovuto cedere a
22 (finanziando per giunta il compratore).
Svalutazioni dolorose e abbondanti sono quindi garantite per molti e
per molto a lungo. Anche chi ha azzerato in portafoglio le
componenti più tossiche dovrà comunque vedersela con un
deterioramento generalizzato della qualità degli asset e con una
richiesta pressante delle autorità di vigilanza di costituire
riserve e ricapitalizzarsi.
Per quanto esistano rischi di spirali negative (se tutti decidono di
ridurre la leva il valore degli asset scende e costringe a
un’ulteriore riduzione della leva), lo scenario peggiore è una
possibilità, ma non è necessariamente il più probabile.
C’è anche, perché no, la possibilità di galleggiare senza gloria
fino a primavera. Si parla tanto, in America, delle enormi
svalutazioni degli automobilistici e delle banche, ma la
capitalizzazione di borsa dei primi è quasi azzerata e il peso delle
banche sull’indice è in continua discesa.
Da qui in avanti i danni agli indici, più che da ulteriori discese
dei finanziari, verranno eventualmente dal contagio verso i settori
rimasti finora sani. Le previsioni macro indicano un costante
deterioramento da qui a fine anno, ma bisogna fare attenzione a due
cose. La prima è che si parte, almeno in America, da un secondo
trimestre di crescita più che dignitosa (contro ogni attesa e grazie
all’effetto anticipato dei rimborsi fiscali, ma non solo) che avrà
un’eco anche nel terzo trimestre. La seconda è che la probabile
recessione del quarto si prospetta al momento non devastante.
In un quadro fragile conterà molto il sentiment. Il periodo finale
di una campagna presidenziale diffonde adrenalina nel sistema. A
elezioni avvenute, inoltre, per definizione la maggioranza della
popolazione è soddisfatta dell’esito e ha motivo di sperare in un
rinnovamento. Poi, verso fine anno, come è noto, la stagionalità dei
mercati migliora. Fra due mesi vedremo le prime discese
dell’inflazione e le banche centrali avranno più spazio di manovra.
Infine i mercati tendono ad anticipare di qualche mese il punto
d’inversione del ciclo.
Il recupero seguito all’avvio del processo di sistemazione di Fannie
e Freddie continua a sembrarci, a differenza di quello successivo a
Bear Stearns, di stabilizzazione più che di (ipotizzata) inversione
di tendenza. Non per questo è meno benvenuto, anzi. Tra euro e
dollaro è aperta la gara tra due debolezze, quella americana e
quella di un’Europa che consuma poco ed esporta con crescente
fatica. A favorire il dollaro c’è almeno in teoria la sua
sottovalutazione. A favorire l’euro c’è il fatto che la debolezza
europea presenta meno rischi sistemici di quella americana.
L’effetto netto rimane per il momento quello di un range di
oscillazione abbastanza modesto.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero |
A
PROPOSITO
DI HEDGE FUNDS
03 Agosto 2008 22:02
MILANO -
di Giovanno Zibordi ______________________________________________
Come nota Bloomberg oggi mentre
le borse sono tutte scese ora dai massimi di fine anno del
-15% (Sudamerica e Giappone e ora anche Russia) al -20% l'
America, al -25% o -30% l'Europa, Corea e Hong Kong, al -40%
o anche -50% di India, Cina e Vietnam, un'intera categoria
composta da dozzine di fondi ha guadagnato da inizio 2008 un
18% medio.
Sono i fondi hedge "macro" cioè quelli che non investono in
azioni per paese o settore, non investono neanche stile
Warren Buffett su singoli titoli, ma quelli che vanno sia al
ribasso che al rialzo su TUTTO, azioni italiane o cinesi,
titoli bancari o minerari, small cap o blue chip, yen o
sterlina, India o Scandinavia, oro o soya, argento o
petrolio.
Questa gente non investe sia al ribasso che al rialzo su
qualunque cosa perchè sono onniscienti, al contrario perchè
semplificano e ragionano per alcuni grossi "temi"
macroeconomici da cui appunto il nome di questo stile:
"global macro" o "macro".
L'approccio è di fare alcuni ragionamenti generali e poi
prendere un settore azionario, un paese, una valuta, un tipo
di obbligazioni, delle materie prime, un paio di titoli
rappresentativi e venderli al ribasso o comprarli senza
sapere in dettaglio molto nello specifico, ma in base
appunto invece ad uno schema generale su come va il mondo.
Questo stile di investimento era popolare una volta al tempo
di Soros o meglio non era popolare ma risultava vincente per
i pochi come Soros che lo praticavano e poi era stato
soppiantato dal comprare sempre alcuni settori azionari come
il Nasdaq e la tecnologia negli anni '90 e poi gli
emergenti, l'energia o anche le borse stesse dopo il 2003.
Questo perchè tutto saliva, bonds, azioni di tutti i paesi e
materie prime grazie alle banche centrali che tenevano i
tassi di interesse troppo bassi.
Quando però l'economa va in crisi o comunque ci sono guai in
diversi paesi e settori IN UN'ECONOMIA GLOBALE lo stile
"macro", ribasso e rialzo spregiudicato su qualunque cosa, è
l'unico che funziona.
Per combinazione tra l'altro se uno da' un occhiata questo è
quello che si suggerisce qui, raccomandando appunto
indifferentemente oro o yen o azioni del gas o bancari o
petrolio short o India o obbligazioni a 2 anni... il che per
molti di primo acchitto può sembrare confuso o complesso. Ma
si passa da una cosa all'altra non perchè si guardano solo i
grafici o perchè si è specialisti di tante cose il che
sarebbe impossibile. Ci si muove a 360 gradi su tutto perchè
ora il mondo finanziario funziona oggi così, è tutto
integrato a livello globale, tutto influenza tutto e passi
indifferentemente da oro a yen ad azioni del gas o bancari o
petrolio short o India o obbligazioni a 2 anni... se
rientrano, in dati momenti, in un ragionamento economico
globale.
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S&P:
'SE ANCHE FOSSE PREPARATO DA VACCHE, DAREMMO UN RATING'
04 Agosto 2008 16:42
NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Non parrebbe una
novita', ma comunque vale la pena farne menzione: nel
disastro dei mutui subprime di cui ricorre in questi giorni
il primo anniversario, le agenzie di rating americane
Standard & Poor’s Ratings Services, Fitch Ratings e Moody’s
Investors Service, hanno avuto una grossa fetta di
responsabilita' nel creare il caos che oggi terrorizza i
mercati finanziari e milioni di proprietari di case in tutto
il mondo.
Stando alle ultime informazioni, gli analisti di Standard &
Poor’s sono stati apparentemente i piu' espliciti, tra le
tre piu' importanti agenzie di rating, ad avere dubbi e
mettere in questione i criteri interni con cui si procede a
dare il voto a determinati strumenti finanziari emessi da
migliaia di societa' quotate e non. Ne parla il Wall Street
Journal in un articolo uscito lo scorso weekend. E
certamente, col senno di poi, cio' sembra essere uno dei
motivi principali per il cui il sistema finanziario e'
andato fuori controllo.
L'articolo del WSJ cita una versione provvisoria (draft) di
un report della pubblicato Securities and Exchange
Commission pubblicato il mese scorso (con la differenza che
la versione finale non fa accenno ad alcuna societa' in
particolare, il draft si'). In una email, un analista di S&P
scrive ad un altro che quel particolare "deal" a cui stava
per essere assegnato un rating era "ridicolo", e inoltre che
"in questi casi noi non dovremmo dare un rating", si legge
nel report Sec. Nella sua risposta via email il collega
scriveva: "noi diamo il rating ad ogni tipo di deal";
"potrebbe anche essere strutturato da vacche, daremmo
comunque un rating".
L'articolo cita poi un manager di Standard & Poor’s facente
parte del gruppo che assegna i rating ai CDO (Collateralized
Debt Obligations, tipo asset-backed security e structured
credit product) il quale scrive in un'email che le tre
agenzie stavano per creare "un mostro anche piu' grande: il
mercato dei CDO". "Speriamo solo - aggiungeva - che noi
all'epoca saremo tutti ricchi e in pensione, quando questo
castello di carte implodera'". L'email finiva con un
emoticon - ;O), - fatto non secondario perche' dimostra che,
se per caso un anno fa c'era qualche preoccupazione sulla
qualita' dei rating nello staff di S&P’s, non era certo
presa sul serio da nessuno.
Come e' noto, le migliaia di deal andati male con i prodotti
strutturati legati ai mutui subprime, hanno contribuito a
lastricare il mercato dei capitali di buchi colossali nei
bilanci del sistema bancario. La crisi del credito, esplosa
nell'agosto 2007, secondo la maggior paret degli esperti
causera' come minimo perdite globali di almeno $1 trilione
(ma c'e' chi parla gia' di $2 trilioni, cioe' 2.000 miliardi
di dollari), con conseguenze che tracimano ormai
sull'economia reale, i consumi e la fiducia sia negli Stati
Uniti che nel resto del mondo occidentale.
Fonte
- WallStreetItalia.com
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Non ti curar dell'Orso
ma guarda e passa
07/08/2008 13.34 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
“La zampata dell’Orso
sui mercati”. “L’Orso affonda i mercati”. “I mercati nel
panico per colpa dell’Orso”. Non c’è giornale finanziario
che nell’ultimo anno non abbia fatto un titolo sull’Orso
(tecnicamente, quando un indice perde almeno il 20% rispetto
ai massimi) . All’inizio la questione era semplice: capire
se le piazze finanziarie stavano veramente entrando in
questa fase.
Poi, quando la maggior parte dei panieri si stava
avvicinando a quel livello, le domande sono diventate più
circostanziate. Quando ci arriveremo? Quanto durerà? Cosa
succederà alle azioni? Tutti interrogativi pertinenti e che,
dal punto di vista giornalistico, attirano l’attenzione del
lettore. “Gli investitori, tuttavia, dovrebbero evitare di
farsi coinvolgere da queste discussioni: se sono contenti
con la struttura dei propri portafogli, farebbero bene ad
abbandonare il giornale sotto l’ombrellone e andare a fare
il bagno”, spiega Gregg Wolper, uno dei responsabile
dell’analisi sui fondi di investimento di Morningstar. “Se,
infatti, le discese dei mercati sono importanti, le
definizioni non lo sono per nulla”.
Come accennato sopra, per mercato Orso si intende la discesa
del 20% di un indice. Ma chi ha inventato questa regola?
“Probabilmente la stessa persona che ha deciso di definire
recessione il rallentamento del Pil per due trimestri
consecutivi”, risponde acido Wolper. “Non uno e nemmeno tre.
Due precisi”.
Polemiche a parte, è comprensibile il motivo per cui
accademici e professionisti dei mercati cerchino delle
definizioni. Senza di queste, la storia delle Borse potrebbe
essere raccontata soltanto come una serie di alti e bassi.
Solo piantando dei paletti saldi e appiccicando etichette è
possibile dare uno sguardo sensato all’andamento dei
listini.
Tutto questo, però, non ha nessun senso per l’investitore
ordinario. E l’attenzione che i giornali dedicano a queste
definizioni è, nella migliore delle ipotesi, una
distrazione. Nella peggiore, invece, può diventare
pericolosa. “E’ una distrazione perché un investitore non
dovrebbe fare le sue mosse basandosi solo sul movimento di
breve periodo delle azioni in portafoglio”, spiega
l’analista. “Certo, il Dow Jones può scendere del 18% (la
cosiddetta “correzione”, Ndr) o crollare del 20%. Ma la
stessa importanza hanno l’andamento del prezzo del petrolio,
la crisi del comparto immobiliare e i movimenti dell’euro
rispetto alle altre valute. Una maggiore attenzione andrebbe
posta, forse, alle proprie esigenze personali. Ad esempio:
il mio posto di lavoro è ancora sicuro? Come sto di salute?
E quindi: non sarebbe il caso di avere a disposizione una
dose di liquidità per qualsiasi evenienza? Tutte domande a
cui il livello raggiunto da un indice non può bastare come
risposta”.
Il pericolo è rappresentato dal tono con cui i giornali
talvolta parlano del mercato Orso. Spesso raccontano quello
che è successo in passato, quanto è durato e quanto profondo
è stato il crollo. La morale, nella maggior parte dei casi,
è che un investitore dovrebbe fuggire dalle Borse e
comportarsi in maniera più prudente. In realtà, la fase Orso
può durare un giorno oppure dei mesi. Ma gli articoli in cui
si consiglia come comportarsi in queste occasioni, danno
sempre l’impressione che, una volta superata la soglia del
-20%, non ci sia più niente da fare: l’investitore resterà
impantanato per non si sa quanto tempo. “Ma è un gioco
pericoloso”, dice Wolper. “Se la gente inizia a credere che,
una volta iniziato, il mercato Orso continuerà ancora a
lungo, allora arriveranno gli ordini di vendita che
schiacceranno i prezzi ancora di più”.
All’apparenza, quindi, sembrerebbe più logico acquistare
piuttosto che vendere durante le fasi di Orso. “Non è
detto”, conclude l’analista di Morningstar. “I titoli,
infatti, potrebbero scendere ancora. E se anche uno volesse
farlo, sarebbe dura dare ordini di acquisto quando Tv e
giornali non fanno altro che ripetere quanto sia grave la
situazione. Insomma, la discesa dei mercati è una cosa seria
e vale la pena conoscere i motivi che la stanno causando.
Tuttavia, non ha senso cercare di sapere se una correzione
ha superato una determinata soglia. Meglio lasciare questi
esercizi ai professori, agli analisti delle merchant bank e
a chi fa i titoli sui giornali”.
Fonte
-
MorningStar.it
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Borsa
& Mercati, quanto è realistico questo rialzo ?
08 Agosto 2008 08:02 MILANO -
di
Alessandro Fugnoli
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Oggi nel mondo c’è deflazione e inflazione, come dire che piove con
il sole. C’è anche, contemporaneamente, crescita, stagnazione e
recessione. C’è un dollaro forte e debole. Ci sono oro, petrolio e
materie prime destinati a scendere ma anche (più avanti) a salire.
Su questo quadro tempestoso ma ancora vitale aleggia la minaccia
mortale, l’Iran. Una minaccia remota, come un tuono lontano che
lentamente si avvicina.
Per tentare di capire quello che succede bisogna partire dalla corsa
folle dell’economia mondiale negli anni dal 2003 al 2007, quando il
Pil globale è aumentato di più di un quarto. Corse di questo tipo
finiscono a volte per cause esogene (guerre, shock di varia natura),
per scelte sbagliate di policy, per eccessi di leva e conseguenti
bolle di asset o per morte naturale. La morte naturale è quando
l’economia globale cresce a lungo più della crescita della
produttività. Da un certo punto in avanti non ci sono più risorse
inutilizzate (disoccupati da impiegare, miniere inattive da iniziare
a sfruttare, impianti fermi dalla crisi precedente da riattivare) e
la crescita si trasforma in inflazione.
Il grande ciclo 2003-2007 è finito prima di tutto per morte
naturale, ma anche per eccessi di leva e infine per errori di policy
in sé non gravissimi, ma che messi insieme al resto hanno creato il
quadro che vediamo. Non è una tempesta perfetta perché manca il
primo elemento, l’esogena, e speriamo di cuore che l’Iran non voglia
crearla.
La crescita del 2003-2007 è stata così forte e ha accumulato una
velocità tale da non finire tutta in una volta. E’ come un’armata
che corre all’assalto verso il nemico a velocità crescente e a un
certo punto inizia qua e là a trovare ostacoli, ma non su tutta la
linea. Succede così che qualche parte del fronte si deve fermare,
qualche altra deve addirittura arretrare mentre ci sono ancora zone
in cui l’avanzata continua.
Questo quadro articolato (con gli emergenti che continuano a
crescere, Europa e Giappone che si stanno fermando e l’America che
si avvia verso un quarto trimestre di probabile recessione) è una
benedizione perché ci evita, finché dura, una recessione globale
simultanea. Il prezzo da pagare per questo è che questa crescita
bassa e irregolare (il mondo è ancora in crescita, nel suo
complesso) durerà a lungo, tutto quest’anno e gran parte del
prossimo, con qualche effetto strutturale anche negli anni
successivi.
Non si può avere tutto dalla vita. La storia naturale di una crisi
da surriscaldamento prevede l’arresto del motore, il raffreddamento
e il riavvio (tanto più vivace quanto più lungo è stato il
raffreddamento). Se però si interviene con provvedimenti di policy
(monetari o fiscali) il raffreddamento è meno intenso, ma il riavvio
è lento e zoppicante.
Il petrolio, come nota JP Morgan, può ben scendere del 20 per cento
dai massimi, ma i colli di bottiglia del sistema sono molti, le
risorse inutilizzate poche, è il riequilibrio sarà comunque
faticoso. Questo non toglie che la discesa delle materie prime non
sia da una parte dovuta (il ciclo sta rallentando ovunque) e
dall’altra provvidenziale, perché arriva in un momento di fragilità,
questo secondo semestre in cui i prezzi delle case continuano a
scendere ed erodono la ricchezza dei consumatori e il capitale delle
banche.
Questo bear market rally del dopo Fannie/Freddie è più irregolare e
meno impetuoso del rally di Bear Stearns di marzo e aprile, ma è per
qualche aspetto più motivato. Allora il combustibile del rialzo era
l’idea, tutta da dimostrare e presto smentita, che la crisi
finanziaria era finita. Oggi il combustibile è un dato reale, il
petrolio che scende da 147 a 118 e fa apparire il 5 per cento
dell’inflazione headline come un picco temporaneo cui seguirà una
rapida discesa. Con un incubo in meno (quello dell’inflazione) le
banche centrali avranno più spazio per evitare di alzare i tassi e,
nel caso, per abbassarli.
Il petrolio che scende è dovuto a un calo reale di domanda in
America e a un calo supposto in Cina dopo le Olimpiadi. Un
contributo viene da un aumento di produzione saudita e un altro da
una speculazione che si è messa al ribasso con entusiasmo. Il
mercato rimane comunque in mano ai produttori e al buon cuore di
alcuni di loro, non ai consumatori. Perché torni in mano ai
consumatori bisogna che la riduzione di domanda divenga definitiva e
su questo è lecito qualche dubbio. L’America ha una sensitività
straordinaria al prezzo in salita (quando supera la soglia del
dolore) ma ne ha altrettanta al prezzo in discesa. Chi abbandona
l’auto per il treno appena può torna all’auto.
Aleggia poi, dicevamo, la questione iraniana, sempre più calda.
L’Iran sembra avere rifiutato, dopo quella europea, anche l’offerta
americana. Israele è in un momento di fibrillazione politica che
ruota in particolare sulla risposta da dare alla minaccia iraniana.
Il dibattito andrà avanti fino a metà settembre e probabilmente
anche oltre, ma il tempo passa veloce.
Nonostante l’Iran questo rally ha ancora del tempo e dello spazio, a
condizione che il petrolio non risalga. Per qualche settimana ancora
i dati macro americani saranno più che passabili e quelli societari
indicheranno che il sistema rimane vitale. Il rally non dovrebbe
danneggiare i bond (anche a loro fa bene il petrolio che scende) e
dovrebbe continuare a favorire un modesto e temporaneo recupero del
dollaro.
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Fonte
- Rosso e il Nero |
Borsa,
il
rally d'Agosto ha il fiato corto
11 Agosto 2008 10:01 MILANO -
di Giuseppe Turani
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Venerdì grande boom dei mercati, quasi tutti, meno quelli asiatici
che avevano chiuso prima degli eventi. La cosa curiosa è che a
determinare il balzo in avanti dei listini (forse un inizio di rally
agostano) è stata una pessima notizia proveniente dall´Italia. E
cioè la notizia che, a conti fatti, se non siamo in recessione, ci
mancano proprio due millimetri.
Le previsioni più generose, a questo punto (dopo il flop del Pil nel
secondo trimestre) dicono che cresceremo nel 2008 dello 0,1 per
cento (e basta un blackout dell´Enel o uno sciopero robusto per
andare a zero) e dello 0,6 per cento l´anno prossimo.
Quel che fa l´Italia, per la verità, non è così importante da
provocare cambiamenti negli scenari mondiali. Solo che, stimolati
dalle nostre tristi vicende, gli esperti si sono messi a ragionare
sull´Europa e si sono accorti che la settimana prossima dovranno
uscire i dati del Pil tedesco (sempre del secondo trimestre) e della
Francia. La Germania, molto probabilmente avrà un risultato negativo
e la Francia vi andrà molto vicino.
Questa pessima notizia è piombata sui mercati e li ha trovati in una
fase molto particolare: e cioè con una gran voglia di trovare una
scusa, una ragione, per darsi una svegliata e correre un po´ in
avanti, giusto per fare cassa e per liberarsi degli odiosi
ribassisti (che da mesi e mesi dominano la scena), facendo sentire
loro l´odore della polvere. E quindi i mercati hanno fatto subito
una lettura molto particolare («ogni impedimento è giovamento»,
avrebbe detto nostra nonna).
E ne hanno concluso che, di fronte all´arrivo, ormai conclamato e
sicuro, della recessione in Europa, i severi guardiani della Banca
centrale europea avrebbero dovuto cambiare registro: basta con il
rigore suicida e sotto a dare una mano alla congiuntura dell´area
euro, che rischia di avvitarsi su se stessa. Nemmeno quei signori,
insomma, possono pensare di tenere duro. E quindi, ecco il sogno, a
breve il costo del denaro tornerà a scendere in Europa.
Sarebbe già bastato questo per consentire ai rialzisti di mettere a
segno qualche buon colpo, ma la catena degli eventi è andata avanti.
Visto che i tassi europei devono scendere (sperano i rialzisti)
allora non c´è più ragione perché l´euro rimanga così alto sul
dollaro. Giù l´euro, quindi, e su il dollaro.
Intanto, in qualche altra stanza, i padroni del petrolio (produttori
e intermediari) facevano un ragionamento parallelo: qui ci troviamo
con l´Europa in recessione, e con l´America che, se non è in
recessione, va comunque al minimo. Le due maggiori economie del
mondo sono di fatto ferme. Forse è ora di piantarla. Tenere alto il
petrolio in queste condizioni non ha più senso. E quindi giù anche
il petrolio. E quindi altro gas per i rialzisti dei mercati.
Il mondo è in recessione, ma il denaro costerà meno e anche il
petrolio. Due mesi fa nessuno avrebbero scommesso un soldo su uno
scenario del genere. Il rally d´agosto può partire, e infatti è
subito partito. Con grande entusiasmo.
Ma tutto questo ha senso? In un´ottica di breve periodo, di puro
trading (o speculazione) di Borsa, certamente. Il rialzo è lì da
vedere, e quindi quelli che venerdì ci hanno puntato sopra hanno
vinto e forse vinceranno anche nei prossimi giorni. Ma non si tratta
di un rialzo con il fiato lungo. E questo perché in un certo senso
il peggio, purtroppo, è appena dietro l´angolo. E si compone di
almeno tre elementi:
1 - La crisi americana del credito fra settembre e ottobre dovrebbe
dare ancora frutti molto amari (arriveranno sul mercato le case
sequestrate perché non sono state pagate le rate subprime, e questo
farà crollare i prezzi degli immobili, rovinando ancora di più un
mercato che già sta molto male di suo).
2 - Quelli che adesso stanno comprando titoli di Borsa al rialzo
probabilmente non hanno ben presente che da adesso in avanti i conti
delle aziende saranno via via peggiori. E questo significa che le
aziende non riusciranno a tenere l´attuale livello di dividendi.
Bene o male, non si può dimenticare che le due maggiori economie del
mondo sono bloccate. Quindi si sta correndo a pagare più di ieri
roba che domani renderà meno di ieri. Come speculazione questa può
anche essere un´idea (a patto di fare il colpo e poi uscire alla
velocità del suono), se invece si parla di investimenti no,
assolutamente.
3 - Infine, dietro l´angolo c´è sempre il problema Iran, con la
possibilità che esploda un altro conflitto mediorientale. Cosa che
avrebbe subito pesanti conseguenze sul prezzo del petrolio (al
rialzo questa volta e non certo al ribasso).
Insomma, il rally d´agosto delle Borse ha tutta l´aria di essere
appunto un rally d´agosto. Un gran fuoco di paglia dove chi è molto
svelto e molto abile può anche fare molti soldi in fretta. Mentre
chi non è un surfista dei listini molto provetto, può rischiare di
perdere in poche settimane anche quello che non ha ancora perso
finora.
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Fonte
- La Repubblica |
LA CRISI DEI MUTUI AFFOSSA I MERCATI, MILANO -20%
11 Agosto 2008 16:10
ROMA - di
ANSA ______________________________________________
La crisi dei mutui
subprime ha lasciato il segno in borsa. Tutti i listini dei
paesi industrializzati hanno subito perdite pesanti, ma il
bilancio peggiore è quello di Piazza Affari, che ha
registrato un calo di oltre il 25% rispetto ad un anno fa.
Se si guarda infatti alla variazione degli indici nelle
ultime 52 settimane (dati Bloomberg), da quando cioé il 9
agosto del 2007 la Bce fu costretta alla prima mega
iniezione di liquidità sul mercato per cercare di limitare
gli effetti della crisi dei subprime, l'indice S&P Mib di
Piazza Affari ha lasciato sul terreno il 25,4%.
Si tratta della perdita maggiore tra le borse dei paesi del
G7 e si confronta, ad esempio, con l'11,37% perso dal Dow
Jones a Wall Street. Meglio ha fatto il Nasdaq, il listino
dei titoli tecnologici di New York, che è stato
evidentemente in grado di compensare il contraccolpo subito
in primo luogo dai titoli bancari e finanziari ed è così
riuscito a limitare il ribasso di un anno al 5,14%.
Ma la borsa dove gli investitori hanno subito meno danni è
quella canadese di Toronto il cui indice principale TSX
Composite dopo un anno di crisi dei mutui può vantare una
perdita contenuta allo 0,92%. In Europa la borsa che è
riuscita meglio a limitare le perdite è stata Londra, dove
l'indice Ft100 è indietreggiato del 9,09%. Subito dopo viene
Francoforte, con il Dax fermo ad un calo del 10,64%.
Maggiore la perdita di Parigi che ha visto il Cac40 lasciare
sul terreno il 17,56%.
Tra i sette paesi più industrializzati solo la borsa di
Tokyo ha subito, insieme a Milano, un perdita superiore al
20%. Per la precisione l'indice Nikkei 225 ha ceduto il
21,45%. Per trovare qualche annata di borsa positiva bisogna
andare a cercare tra i mercati emergenti, che hanno avuto,
comunque, anch'essi in grandissima maggioranza un risultato
negativo. Tra le poche che hanno guadagnato c'é la borsa di
San Paolo con un più 7,5% e quella di Hong Kong che si è
fermata allo 0,42%. Molto male, invece la Cina, che
all'orgoglio olimpico deve contrapporre la perdita del
45,14% subita dalla borsa di Shanghai.
Fonte -
ANSA
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Il dollaro fa lo sgambetto alle materie prime
12/08/2008 09.23 - di
Marco Caprotti ______________________________________________
Il dollaro obbliga le
materie prime a fare una pausa. L’indice Msci del comparto
da inizio anno (calcolato in euro) ha perso più del 10%. La
maggior parte di questa discesa è stata registrata
nell’ultimo mese.
Colpa, spiegano gli analisti del ritrovato vigore del
dollaro che ha spinto gli investitori ad abbandonare questo
tipo di investimento che, in momenti di forte inflazione e
debolezza della valuta americana, viene effettuato in
un’ottica di protezione dei portafogli.
La scelta di lasciare le commodity deriva anche dalle
quotazioni record raggiunte. Il petrolio, tanto per nominare
la più conosciuta, ha superato i 145 dollari al barile,
mentre in questi giorni viene trattato a circa 113 dollari.
Un destino che ha interessato altri settori. L’argento,
scambiato appena sopra ai 15 dollari l’oncia, è ai minimi
degli ultimi sei mesi e condivide lo stesso destino che, in
generale, sta toccando tutti i metalli. I mercati, intanto,
sembrano disinteressarsi della guerra fra Russia e Georgia.
Nonostante l’oggetto del contendere siano gli oleodotti che
passano in territorio georgiano, il barile per il momento
continua la sua parabola discendente.
Il calo delle materie prime, oltre che a motivi speculativi,
è legato a ragioni industriali. La maggior parte dei Paesi
in via di sviluppo, con la Cina in testa, stanno avendo a
che fare con un’inflazione che non vedevano da decenni. Il
Regno di mezzo, ad esempio, ha avuto una crescita dei prezzi
che non si registrava da almeno 12 anni. Il problema, in
questo caso, è che la dinamica inflativa ha colpito
soprattutto i generi alimentari con il rischio di scatenare
disordini sociali e politici. Per questo Pechino è stata
costretta a dare un giro di vite agli investimenti nelle
infrastrutture che oltre ad ammodernare il Paese, portano
ricchezza nelle tasche delle famiglie aumentando la capacità
di spesa e, di conseguenza, il prezzo delle merci.
L’obiettivo è quello di cercare di rimettere in carreggiata
una crescita economica che, quest’anno, dovrebbe comunque
aggirarsi intorno al 10%.
Nonostante le discese, gli analisti consigliano di tenere
una parte del portafoglio nelle materie prime. “La frenata
della domanda è momentanea”, spiega un report di Morningstar.
“Quando la situazione si normalizzerà la richiesta da parte
della Cina e degli altri mercati in via di sviluppo
riprenderà”. Una conferma in questo senso è arrivata da
AngloAmerican. Secondo il management del colosso minerario
“gli ordini che arriveranno dalla Cina hanno la potenzialità
di dare il via a una nuova ripresa dei prezzi”.
Non va poi dimenticata la caratteristica difensiva di questo
tipo di asset. “L’inflazione, a livello mondiale, non è
ancora passata”, dice lo studio di Morningstar. “E ancora
non sappiamo quanto durerà la forza del dollaro. Per questo
è meglio non farsi trovare impreparati”.
Fonte -
MorningStar.it
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Il
pomo della discordia
12/08/2008 09.23 -
di Mariagrazia Briganti
________________________________________
Estate calda per il risparmio gestito europeo, alle prese con il
calo degli asset sia per colpa dei riscatti che della crisi
finanziaria che si è accentuata nel primo semestre del 2008.
Secondo i dati dell’Efama, l’associazione degli asset manager
europei, tutti gli stati ad eccezione di Francia, Svizzera, Regno
Unito e naturalmente Lussemburgo, stanno registrando profondi
deflussi: l’Italia è in testa con oltre 84 miliardi persi nel corso
dei primi sette mesi del 2008.
A parte questo trend, che storicamente si rafforza a inizio estate,
perché gli investitori preferiscono alleggerire i portafogli e
partire per le vacanze con maggior tranquillità, la calura estiva si
fa rovente soprattutto sul fronte normativo, con la Commissione
Europea, il CESR e l’Efama, per citare i principali organismi a
livello comunitario, impegnati a ferragosto nel dibattito sugli
emendamenti alla Direttiva Ucits (Undertakings for Collective
Investment in Transferable Securities), che vanno sotto il nome di
Ucits IV.
Un conto alla rovescia sofferto
Ma cos’è, in sintesi, la Ucits IV e quali sono i punti nevralgici
che hanno richiesto l’intervento del CESR - la commissione che
raccoglie gli organi di vigilanza e controllo dei mercati degli
stati europei –la quale ha interpellato sua volta le “Consob”
europee chiedendone il parere entro il 22 agosto?
Procediamo con ordine. A differenza dei cambiamenti apportati dalla
Ucits III, rivolti principalmente alla gestione degli investimenti e
degli strumenti da inserire nei portafogli dei fondi, la Ucits IV si
concentra sull’aumento dell’efficienza nel mercato europeo dei
prodotti del risparmio gestito.
Dall’avvio delle consultazioni, con la presentazione del White paper
nel 2006, finalmente lo scorso 16 luglio la Commissione europea ha
presentato un articolato pacchetto di misure in cui è contenuta, tra
le altre, la proposta di abbandonare il Prospetto semplificato e di
sostituirlo con un documento semplice, di una sola pagina, chiamato
Key Investor Information (KII), con i dati più importanti per un
investitore che vuole sottoscrivere un fondo comune.
Secondo la Commissione, il prospetto semplificato ha fallito il suo
obiettivo di essere uno strumento di informazione utile agli
investitori per prendere le loro decisioni di investimento. Nella
stessa direzione vanno le altre procedure per snellire il materiale
informativo a carico delle società di gestione che desiderano fare
attività cross-border.
Il pacchetto è ora al vaglio del Consiglio Europeo e dovrà essere
approvato anche dal Parlamento. La sua entrata in vigore non è
attesa prima del 2011 e la possibilità che nel frattempo
sopraggiungano nuovi aggiustamenti è tutt’altro che remota.
Il passaporto europeo
Il vero pomo della discordia è il passaporto europeo. La Commissione
lo ha escluso dal pacchetto presentato in Consiglio, ma Charlie
McCreevy, commissario europeo per i servizi e il mercato interno, ha
deciso di chiedere aiuto al CESR, che entro novembre dovrà dare il
suo parere sulle condizioni da rispettare per assicurare che la
gestione cross-border di un fondo Ucits non indebolisca i poteri
degli organismi di vigilanza degli stati ospitanti.
Il CESR, a sua volta, lo scorso 16 luglio, ha girato la richiesta
agli organismi di controllo degli Stati membri “affinché esprimano
le loro opinioni e aiutino il CESR nel suo compito consultivo della
Commissione europea”. Il CESR, che dovrà rispondere alla Commissione
entro novembre, raccoglierà i pareri delle istituzioni di vigilanza
europei entro il prossimo 22 agosto, rimandando a settembre il
dibattito e la formulazione della proposta alla Commissione europea.
Grazie al Passaporto europeo, un fondo comune armonizzato (Ucits)
potrà essere gestito da una società sotto la legislazione di uno
Stato membro diverso da quello di origine, attraverso una succursale
o mediante la libera prestazione di servizi. In teoria, un gestore
francese che voglia replicare il successo di un prodotto all’estero
non avrebbe più la necessità di creare una sede e registrare un
duplicato del fondo, ma potrebbe vendere lo stesso prodotto,
domiciliato in Francia, anche in Germania, con l’unico obbligo di
avere nel paese ospitante, al quale è comunque affidata l’attività
di controllo, la banca depositaria.
Se questa possibilità è stata salutata con favore dalla maggior
parte degli Stati coinvolti, ha sollevato le critiche di Lussemburgo
e Irlanda, dove è domiciliata la maggior parte dei prodotti europei.
I due stati, temendo la perdita della loro supremazia come Paesi di
origine, si sono detti poco disposti a mantenere la vigilanza su
fondi domiciliati altrove e che non avrebbero di fatto alcuna
presenza nel Paese. In particolare, a preoccupare le autorità dei
due Stati, è la mancanza di controllo sulla contabilità e il calcolo
del prezzo.
L’introduzione del passaporto europeo eviterebbe la creazione dei
cloni e aprirebbe la strada alla fusione fra fondi appartenenti a
Stati diversi. L’aumento delle masse gestite creerebbe economie di
scala e ridurrebbe il peso dei costi organizzativi e di gestione.
Come riporta Ignites, il quotidiano online del Financial Times, in
Europa vi sono oltre 36.000 fondi, contro gli 8.000 fondi americani;
per entrambi, gli asset in gestione si aggirano attorno ai 5mila
miliardi. Per l’industria comunitaria è dunque un’opportunità
importante per aumentare l’efficienza organizzativa, snellire le
procedure, razionalizzare le risorse.
Sempre secondo le voci raccolte da Ignites, non necessariamente le
fusioni oltre confine implicheranno la perdita di supremazia e di
vigilanza di Dublino o Lussemburgo. È vero il contrario, perchè se
le fusioni permetteranno di raccogliere fondi differenti in un’unica
struttura, le società sceglieranno giurisdizioni internazionali e
ben funzionanti nelle quali fissare il domicilio dei loro fondi. I
due Paesi potrebbero quindi mantenere la loro posizione di capitali
della registrazione dei fondi, con il controllo sulla società di
gestione. Ma l’industria sarà libera di esportare tutte le altre
funzioni nel resto dell’Europa.
 |
Fonte
- MorningStar.it |
La brutta abitudine del greggio di cambiare strada
14/08/2008 10:44 -
di Sara
Silano ______________________________________________
Il petrolio è tornato
sui suoi passi e lo ha fatto in modo frettoloso. Dopo aver
toccato i 145 dollari al barile il 14 luglio, ha perso nelle
ultime sedute circa il 16%. Si tratta di una sana correzione
o dell'inizio di un mercato orso? Per l'oro nero è molto
vicina la soglia del -20% che sui mercati finanziari è
considerata un chiaro segnale di inversione del trend, ma le
materie prime sono , però, sono convinti che il trend di
lungo periodo sia al rialzo, anche se le quotazioni
dovessero nel breve scendere intorno ai 100 dollari al
barile, perché i problemi strutturali, che hanno favorito il
rally degli ultimi anni non sono venuti meno. Insomma,
secondo questa scuola di pensiero, il petrolio si è preso
una pausa prima di lanciarsi verso nuovi record, in un mondo
che è profondamente diverso dal passato.
Negli ultimi anni, gli
analisti hanno dovuto rivedere più volte le stime sul prezzo del
petrolio. Dopo la seconda guerra mondiale, la media storica è
stata di 20 dollari (in termini reali), negli anni Ottanta è
salita a 26. Questi livelli appartengono ormai al passato. Gli
analisti di Morningstar (NASDAQ: MORN - notizie) hanno calcolato
che il prezzo per indurre i produttori a investire nell'aumento
dell'offerta sarà di 50-60 dollari al barile almeno per i
prossimi cinque anni. Esso (Parigi: FR0000120669 - notizie)
incorpora i più alti costi di esplorazione e sviluppo, oltre al
maggior premio per il rischio geopolitico. Come spiega Elizabeth
Collins, “Esiste sempre la possibilità di una pesante recessione
che riduca la domanda, ma sarebbe una situazione temporanea,
perché nel lungo periodo il trend è di crescita. In questo
contesto, i prezzi dovranno necessariamente mantenersi alti per
motivare i fornitori a investire in nuovi impianti”.
La risposta dei trader e degli hedge fund alla rapida discesa
delle quotazioni del greggio è stata l'assunzione di posizioni
corte, che indicano l'aspettativa di nuovi ribassi nel breve.
Allo stesso modo, secondo le statistiche di Etf Securities,
nella settimana terminata il 25 luglio, gli operatori hanno
venduto l'Etf short crude oil (strumento di investimento sul
future sul greggio, con andamento inverso rispetto all'indice)
per 37 milioni di dollari. In un'ottica di lungo periodo, però,
dicono gli analisti di Morningstar, le opportunità nel settore
delle aziende petrolifere non mancano, in particolare nel
comparto estrattivo, dei prodotti petroliferi e del gas, che
appaiono relativamente a buon prezzo. Sono considerate
interessanti le società che hanno sfruttato l'impennata dei
prezzi per avviare progetti innovativi per aumentare la
produzione in modo redditizio.
Fonte - MorningStar.ir
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Lo zio Sam al salvataggio di Freddie e Fannie?
Monday, 18 August,
2008 -
di John Christian Falkenberg _____________________________
Il settimanale finanziario Barron's riporta che il governo USA
sarebbe pronto a ricapitalizzare Freddie Mac e Fannie Mae,
salvando i risparmiatori e la funzione delle aziende, ma
penalizzando draticamente alcuni dei responsabili del disastro,
ossia il management e gli azionisti. Meglio di nulla, anche se
rimarranno impuniti maggiori responsabili del disastro: i
politici, soprattutto Democratici, che hanno inventato e
protetto il duopolio di Fannie Mae e Freddie Mac ed ora si
scandalizzano per un risultato già previsto dieci anni fa.
Il piano di ricapitalizzazione prevederebbe la sottoscrizione da
parte del governo di nuove azioni privilegiate od altri
strumenti ibridi che si porrebbero in una posizione superiore a
quella delle attuali azioni (ordinarie e delle privilegiate) già
in circolazione, diluendole pesantemente e rprobabilmente
azzerandone il valore. Si tratta di un piccolo passo nella
minimizzazione del danno: in questo modo, si evitano sia la
nazionalizzazione tout court, che la concessione di un aiuto di
Stato a favore di manager e degli azionisti, perlomeno
corresponsabili dello stato di cose e che quindi vengono
penalizzati.
Si evita così di instaurare un pessimo precedente per il
capitalismo americano, non peggiore, almeno, della scellerata
gestione delle GSE da parte del Congresso americano. Dobbiamo
ricordarci infatti che le GSE e la crisi attuale non sono
prodotti del "mercatismo", ma di certo colbertismo a stelle e
strisce.
Le GSE sono un duopolio imposto per legge, ferocemente protetto
da fiumi di denaro distribuito ad entrambi i partiti, ma in gran
parte a quello Democratico, che è sempre riuscito a bloccare
ogni tentativo di riforma e privatizzazione proposto negli anni
scorsi proprio da quei repubblicani "liberisti" che adesso,
vengono accusati di essere i responsabili.
The Kindness of Strangers
Monday, 18 August,
2008 -
di John Christian Falkenberg _____________________________
Se uno degli scopi dell’aiuto governativo a Freddie Mac e Fannie
Mae è mantenere aperto il flusso di capitali dall’estero di cui
gli USA hanno bisogno per sostenere investimenti e consumi,
allora il piano non sta funzionando.
Sembra infatti che le banche centrali asiatiche abbiano venduto
circa 11 miliardi di dollari sul mercato soltanto negli ultimi
giorni, alleggerendo uno stock di investimenti nelle
obbligazioni delle GSE sceso adesso intorno ai 975 miliardi di
dollari.
La fine del crollo del dollaro aiuterà sicuramente la fiducia in
altre classi di attivi patrimoniali e potrebbe rallentare la
fuga dalle GSEs, ma per Freddie e Fannie il problema rimane
particolarmente acuto: le banche centrali estere sono state
importanti acquirenti netti per anni, aiutando a ridurre
notevolmente i costi di raccolta ed aumentando i liquidi
disponibili per le due agenzie; il cambio di marcia, se
definitivo, significa che il ritorno in salute dei due
pachidermi semistatali e del mercato immobiliare slitta
ulteriormente nelle nebbie del futuro.
Questo è il problema di chi, come recitava Blanche in “Un tram
che si chiama desiderio”, si affida per sopravvivere alla
gentilezza degli estranei: non sai mai per quanto possa durare.
From Reuters:
An extraordinary Treasury capital infusion may be needed to
restore faltering
foreign demand for debt issued by Fannie Mae and Freddie Mac,
the two top home
funding sources that the government is willing to rescue to save
the housing
market.The companies rely heavily on overseas investment, often
up to two-thirds
of each new multibillion-dollar note offering, to help pare
funding costs and
keep mortgage rates low.But foreign central banks have dumped
nearly $11 billion
from their record holdings of this debt in four weeks, to $975
billion, and
won’t return in force before it’s clear if — and how — the
government will
back Fannie and Freddie, some analysts say….
Fonte - Macromonitor
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Attenti,
piccoli speculatori sprovveduti
26 Agosto 2008 03:22 NEW
YORK -
di Francesco Carbone
________________________________________
Il movimento di mercato più forte e interessante degli ultimi 10
giorni è stato quello su valute e commodities. Il dollaro ha avuto
contro l'Euro uno dei più forti rimbalzi di questo bear market. Da
1.60 a 1.485 in venti sessioni, di cui quasi ben sette figure nel
giro di qualche giorno. Il mondo dello spettacolo finanziario non
aspettava altro per festeggiare l'attesissimo colpo di reni degli
USA, già proclamato come il segno dell'inevitabile rivincita
dell'economia americana.
Scappa da ridere. Niente è cambiato. Gli USA sono sulla strada della
più clamorosa bancarotta di tutti i tempi, quella strada indicata
già nella nostra analisi del 2001, e non è certo un movimento di
qualche figura tra Dollaro ed Euro a cambiarne le sorti. Il dollaro
può essere considerato l'azione unitaria della ipotetica USA Spa ed
è destinato come i titoli della fu-Enron o delle attuali Fannie e
Freddie a un valore prossimo allo zero (misurato in termini di
potere d'acquisto di beni reali). Tutte le valute di carta
paragovernative su licenza monopolistica senza un bene reale
sottostante hanno una vita media di gran lunga inferiore a quella di
un essere umano. Il dollaro di pura carta compirà 40 anni nel 2011.
Probabilmente sarà talmente ridotto male che non avrà neanche più
fiato per spegnere quelle tante, troppe candeline.
Parallelamente alla ripresa del valore del dollaro contro l'euro e
le altre valute c'è stata ovviamente una forte caduta dei prezzi
delle materie prime e dei metalli preziosi. Scrivo ovviamente perchè
il ragionamento degli investitori, da quando è cominciato il mercato
toro delle commodities, continua a essere, benché erroneo, sempre il
solito: su il dollaro contro le altre fiat paper (o monete di carta)
- giù le materie prime che sono prezzate prima di tutto in dollari.
In questo caso il ragionamento ha trovato forza nella combinazione
con un'altra connessione logica molto frequente: rallentamento
economico mondiale = diminuzione domanda di materie prime = prezzi
più bassi.
Il risultato è stato uno degli storni più violenti di questo mercato
rialzista delle materie prime, giunto appena al suo settimo anno di
vita (contro una vita media di 20) e con un incremento di prezzo che
non raggiunge neanche la metà degli incrementi medi storici. Strano,
anzi molto strano proclamare la fine di questo mercato toro che nei
suoi fondamentali è potenzialmente di gran lunga più esplosivo di
qualunque altro che l'ha preceduto.
Nel lungo termine questi ragionamenti si riveleranno ancora una
volta sbagliati così come è successo negli ultimi sei anni. Il loro
difetto principale è quello di non tenere conto del continuo e
iperbolico aumento di unità monetarie emesse sotto forma di moneta
dalle banche centrali o sotto forma di debito degli stati nazionali.
Ed è quindi quasi paradossale che questa ripresa del dollaro che ha
provocato la caduta delle materie prime si sia verificata proprio
all'indomani del primo tentativo di salvataggio di Fannie Mae e
Freddie Mac, un intervento che costerà miliardi di dollari (se non
addirittura trilioni di dollari), pagati in maniera diretta o
indiretta sempre dalle solite vittime reali di ogni intervento
governativo: ceto medio e classe povera. Un intervento che spingerà
anche il governo americano a premere sull'accelerazione di un debito
nazionale oramai fuori controllo.
Ma la cosa più interessante è stato il movimento del metallo
prezioso per eccellenza. Da un livello di quasi 1000 dollari è
precipitato a 800 nel giro di neanche un mese. Non che questo ci
sorprenda, affatto. Così come i mercati ribassisti regalano agli
investitori i rally più spettacolari (della serie Dow Jones +300
punti in una sola giornata, successo anche di recente e SEMPRE,
anche in precedenza, solo in fasi di mercato orso), i mercati al
rialzo subiscono correzioni spesso violente che terrorizzano quelli
che sono dentro, o che stanno per entrarci, scrollando le cosiddette
mani deboli. E questa è solo una delle tante correzioni violente
dell'oro da quando nel 2001 è cominciata la sua salita.
Addirittura, se riprendiamo l'ultimo mercato toro, quello degli anni
settanta, l'oro precipitò da un massimo relativo di 180 registrato
nel 1974 fino ai 100 $ del 1976. Un crollo del 40% al quale seguì
poi la salita rapida che lo portò su fino a 800 e passa dollari,
dove ebbe termine definitivamente la corsa del metallo con il
salvataggio del sistema monetario mondiale da parte dell'allora
banchiere centrale Volcker. A differenza dell'odierno Bernanke,
Volcker potè permettersi, in una economia ancora relativamente sana,
con basso livello di debito nazionale, e creditrice nei confronti
del mondo, di portare i tassi quasi al 20%. Oggi siamo appena al 2%
e l'ipotesi di tirarli su di un quarto di punto terrorizza mezzo
mondo finanziario. Figuriamoci cosa vorrebbe dire riportarli al 5%
dove stavamo un anno fa, o ancora più su al 10%.
Nessun salvataggio reale si potrà ripetere a questo giro senza
restituire pienamente all'oro la sua dignità come strumento
monetario, indispensabile per un sistema economico globale più
stabile rispetto a quello maneggiato maldestramente dalle banche
centrali negli ultimi 30 anni. Un sistema economico che soprattutto,
a differenza di quello attuale, produca e diffonda benessere in
maniera decisamente più equa tra i suoi attori.
Benchè non ci sia ancora alcuna percezione del problema, la realtà
di fatto è che banca centrale e il sistema bancario a riserva
frazionaria sono oggi una reliquia storica della quale è evidente il
fallimento totale come perno gestionale del sistema economico. Allo
stato attuale dei fatti un sistema così congegnato, a gestione
centralizzata, di liberale ha ben poco, è socialista nella sua vera
essenza, e non ci sorprende quindi che stia portando la società
verso un impoverimento graduale. La stessa cosa accadde in tempi
ancora più brevi per le economie socialiste, dove la gestione
centralizzata non si limitava al sistema finanziario ma al complesso
delle attività economiche.
Benché inoltre cominci a diffondersi una sfiducia nelle capacità
delle politiche monetarie di poter "curare" i malesseri economici,
si riscontra una quasi totale assenza di corretta identificazione
del problema e quindi della sua risoluzione. Ciò che non si riesce o
non si vuole ammettere è che sono le banche centrali stesse la
principale causa originaria dei mali che sarebbero predisposte a
curare. L'aumento dei prezzi tanto per citare il male più frequente,
ma anche tutte le bolle speculative che hanno avuto luogo negli
ultimi 20 anni, petrolio compreso (per quelli che il rialzo del
petrolio lo considerano una bolla, che invece a nostro avviso bolla
non è affatto). Uno studio dell'economia così come insegnata dai
maestri austriaci Mises e Rothbard aiuterebbe nella comprensione del
problema e della sua soluzione. Ma quelli citati sono autori
sconosciuti alle masse e appena studiati anche dai professori
universitari che in vario grado osannano ancora i vari Smith, Keynes,
Friendman.
Ma torniamo all'analisi di questa caduta del prezzo dell'oro. Quel
che sorprende non è tanto la caduta dell'oro in dollari (da 990 a
800), quanto quella dell'oro in Euro (da 590 a 540). Come detto
sopra, niente in realtà è cambiato sul dollaro, anche se la
percezione di un miglioramento della valuta statunitense rispetto
all'euro ha portato al suo riprezzamento. Quel che è cambiato è la
percezione che adesso magari toccherà inflazionare di più in euro
(che sia ad opera delle banche centrali o dei governi tramite il
debito) che in dollari, a causa della recente e sempre più evidente
debolezza delle economie europee. Quindi se poteva avere un senso
una ritracciamento temporaneo dell'oro in dollari fino a quota 850,
punto di rottura storico dei massimi del 1980, in euro il prezzo
dell'oro avrebbe dovuto tenere o addirittura salire più rapidamente.
Non è successo. Possiamo spiegarlo così.
Il tasso Eur-$ ha picchiato la testa contro un livello protetto
dalle banche centrali (che ovviamente impastano le mani anche sui
mercati finanziari non bastandogli la gestione centralizzata del
credito e l'arbitrario fixing del tasso di interesse a breve), posto
a questo giro a 1.60 (al giro precedente, tra il 2005 e il 2006, era
di 1.35). Questo nel 2008 è stato il livello limite dove fermare
l'euro a tutti i costi e lo si è fatto ripetutamente fino appunto
all'ultimo tentativo del 15 luglio.
Non riuscendo a battere le banche centrali, i grossi players hanno
deciso alla fine di giocare dalla loro parte, forti anche del fatto
che gli ultimi dati economici avevano cominciato a dare l'economia
europea in vistoso rallentamento. Tutti a vendere euro quindi, con
un movimento che ha assunto una intensità crescente fino al climax
dell'8 agosto, dove si è verificato un ribasso dell'euro molto
violento del 2% che probabilmente ha visto migliaia e migliaia di
piccoli conti speculativi con posizioni lunghe, aperte magari sopra
la resistenza importante della media 200 (tagliata come il burro) e
in assenza di stop loss stretto, essere chiusi automaticamente per
mancanza di margini sufficienti a coprire la leva utilizzata (ci
sono broker che offrono leve di 100:1 o anche 200:1). Un bel
boccone, di piccoli speculatori ancora sprovveduti, come se ne
vedono raramente in finanza.
E un bel boccone anche di posizioni lunghe su oro. Se infatti
l'attacco contro l'euro ha fatto scappare tutti a gambe levate dalla
valuta europea, figuriamoci il panico scatenato tra i deboli di
cuore impegnati in posizioni speculative sull'oro! Approfittando
delle vendite dei program trading che hanno in correlazione
strettamente positiva oro ed euro e al primo segno di vendita del
secondo vendono anche il primo, i signori che tengono sotto
controllo e manipolano costantemente il metallo più importante del
pianeta hanno approfittato del bailamme causato dall'euro, per
seminare vero e proprio terrore. L'oro pertanto è sceso in maniera
insensata in tutte e due le valute, offrendo ai fortunati possessori
di coriandoli europei la migliore opportunità del 2008 di convertire
i propri eccessi di liquido cartaceo in moneta dura, duratura,
sonante e onesta.
 |
Fonte
- UsemLab |
Borse asiatiche lontane dai tempi d’oro
27/08/2008 19.17
-
di Sara Silano ______________________________________________
I mercati asiatici non si
scrollano di dosso i timori di una recessione negli Stati Uniti.
L’indice Msci Asia Pacifico (escluso il Giappone) ha perso il 2%
nell’ultimo mese (al 26 agosto), portando il ribasso dall’inizio
dell’anno al 26%. Ad agosto gli indici hanno toccato i minimi da
due anni, con episodi di panic selling legati agli allarmi utili
lanciati dalle banche americane.
La Borsa cinese è stata una delle più colpite dalle vendite.
L’indice di Shanghai è sceso intorno ai 2.300 punti dopo aver
superato i 6.400 nell’ottobre scorso. Negli ultimi otto mesi, la
capitalizzazione si è praticamente dimezzata. Alle
preoccupazioni per il rallentamento internazionale si sono
aggiunte quelle legate all’economia interna. Gli investitori
sperano che il governo approvi il pacchetto di incentivi,
stimato in 370 miliardi di yuan, che include una spesa per 220
miliardi e tagli per 150. L’obiettivo è di mantenere la crescita
del Prodotto interno lordo intorno al 10%.
A luglio, la produzione industriale cinese è salita del 14,7%
annuo, il peggior risultato da 19 mesi, sulla scia della minor
domanda estera, che finora è stata il motore dello sviluppo. In
effetti, nel primo semestre l’avanzo della bilancia commerciale
è sceso del 12% (su base annua) per la prima volta nell’ultimo
quinquennio. Per Dan Su, analista di Morningstar, gli
investitori hanno cominciato ad adottare un approccio più
critico verso l’ex Celeste impero, anche perché i problemi
strutturali (inefficienze, prodotti indifferenziati, ecc.), che
prima erano mascherati da una robusta crescita, ora cominciano a
venire in superficie.
La Cina, inoltre, come altri Paesi asiatici, deve affrontare il
problema dell’inflazione, generato dall’aumento del prezzo delle
materie prime, in particolare del petrolio e dei beni
alimentari. I prezzi al consumo si aggirano intorno all’8%, due
volte più alti del livello target che Pechino ritiene
desiderabile. In India sono ancora più elevati (12% a luglio),
ai massimi degli ultimi dodici anni, complice l’incremento dei
prezzi dei carburanti seguito all’eliminazione dei sussidi
governativi nel settore. Per ora gli sforzi delle banche
centrali per tenere a freno l’inflazione hanno dato risultati
solo parziali. Un contributo potrebbe venire dalla diminuzione
dei prezzi delle derrate agricole e delle quotazioni del
greggio.
Il quadro macro più fosco e la minor propensione al rischio
degli investitori hanno alimentato la volatilità sui mercati
asiatici, facendo passare in secondo piano alcune trimestrali
positive, come quella della Bank of communication cinese, i cui
profitti solo saliti del 60% rispetto allo stesso periodo del
2007 grazie all’aumento delle vendite di carte di credito e al
buon andamento del settore delle gestioni di patrimoni. Le
aziende più sofferenti sono quelle legate alle esportazioni, che
risentono del rallentamento della domanda globale. Secondo gli
analisti, è sulle industrie esposte allo sviluppo interno che
bisogna concentrare l’attenzione in un’ottica di lungo periodo.
Secondo Joseph Tse, gestore di Fidelity, le economie asiatiche
sono inserite in un “superciclo” che include investimenti in
infrastrutture, domanda di risorse, crescita dei consumi interni
e dei redditi. Tutte tendenze che rimangono in essere,
nonostante l’attuale turbolenza.
Fonte - MorningStar.it
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Fondi,
a luglio persi 13,5 miliardi di euro
06/08/2008 17.17 -
di MariaGrazia Briganti
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Anche quest’anno gli italiani sono partiti per le vacanze estive
alleggerendo i loro portafogli di fondi comuni di investimento.
Secondo i dati resi noti da Assogestioni, a seguito dei riscatti e
delle perdite subite dai mercati, il patrimonio è sceso sotto i 500
miliardi di euro.
Le più penalizzate sono state le categorie obbligazionarie dalle cui
casse sono usciti oltre 7 miliardi e mezzo di euro, in particolare
provenienti dai prodotti area euro.
Unico segno positivo tra i fondi specializzati sul reddito fisso, lo
hanno registrato gli obbligazionari governativi in dollari (+217
milioni), sottoscritti evidentemente in previsione di un recupero
dei Treasury americani e in un’ottica di apprezzamento del dollaro
nei confronti della moneta unica.
Gli azionari hanno subito riscatti, al netto delle nuove
sottoscrizioni, per 2,6 miliardi di euro. Male soprattutto i fondi
specializzati sull’Europa e sull’America, mentre gli investitori
sono tornati a comprare timidamente i prodotti settoriali più
colpiti dai ribassi e al momento più a buon mercato, quali gli
azionari Finanza (+178 milioni) e gli azionari Tecnologia (+106
milioni di euro).
Per i fondi di liquidità, invece, i deflussi sono stati pari a 1,2
miliardi di euro: anche in questo caso, è evidente la scommessa sul
recupero del dollaro che ha portato quasi 40 milioni di euro nelle
casse dei fondi specializzati sul mercato monetario americano.
Più contenuti i deflussi per i prodotti bilanciati, che hanno chiuso
il mese di luglio con una perdita di 551 milioni, mentre i fondi
Hedge hanno subito riscatti (al netto di nuove sottoscrizioni) per
179 milioni di euro, contro i 449 milioni persi lo scorso mese.
Proseguono invece i riscatti dalla categoria dei fondi Flessibili,
che hanno perso 1,3 miliardi di euro.
A livello societario, i grandi gruppi hanno subito notevoli
deflussi, a partire dagli oltre quattro miliardi fuoriusciti dalle
società di gestione di IntesaSanpaolo e i 2,5 miliardi fuoriusciti
dalle casse di Pioneer. Spiccano i dati positivi di Banca Finnat
Euramerica (+258 milioni di euro), e, tra le case estere, di Jp
Morgan Am (+151 milioni) e State Street (+78,2).
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Fonte
-
MorningStar.it |
Italiani più poveri
11 Agosto 2008 09:31 MILANO -
di Vittoria Puledda
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La crisi dei mutui subprime morde i bilanci delle grandi banche (a
volte corresponsabili della crisi medesima) ma riduce drasticamente
anche le disponibilità finanziarie delle famiglie italiane. Che,
insieme al calo dei consumi e alla frenata dell´economia, hanno
sempre meno reddito disponibile e, ormai, adottano grande prudenza
anche nel chiedere prestiti, preoccupate probabilmente di non essere
in grado di restituirli: per la prima volta da tempo, infatti
l´ammontare complessivo dei debiti si è ridotto di 2,7 miliardi nel
primo trimestre 2008 rispetto al trimestre precedente. "Colpa"
soprattutto della minore richiesta di mutui casa (sono i
finanziamenti a medio-lungo termine a segnare la diminuzione di gran
lunga più forte) ma anche del rallentamento dei consumi che si fa
sentire: la domanda di prestiti a breve termine - tradizionalmente
legata all´acquisto dell´auto - è infatti diminuita di 605 milioni
di euro.
La fotografia - tra crisi finanziaria e frenata dell´economia - è
quella scattata dalla Banca d´Italia nel Supplemento al Bollettino
statistico sui Conti finanziari, pubblicato pochi giorni fa. Un dato
su tutti sintetizza il peggioramento del quadro: in tre mesi, dalla
fine del 2007 al 30 marzo scorso, le attività complessive delle
famiglie si sono ridotte di quasi 150 miliardi di euro; gli
italiani, insomma, in un trimestre si sono ritrovati in tasca 150
miliardi in meno tra depositi, conti correnti, azioni e titoli di
Stato; insomma hanno visto bruciare il 4% della loro ricchezza
finanziaria (che vale complessivamente 3.538 miliardi di euro);
rispetto a dodici mesi fa il "dimagrimento" è pari al 4,9%.
Il falò delle disponibilità finanziarie è stato acceso innanzitutto
dalla crisi di Borsa: il gruzzoletto in azioni è diminuito da un
trimestre all´altro del 13% (con un calo del portafoglio pari a 128
miliardi) per colpa in larghissima misura del calo dei mercati e,
per 15 miliardi, a causa di vendite nette di titoli. Ancor più
pesante il bilancio da un anno all´altro: dal marzo 2007 al marzo
scorso, infatti, il portafoglio azionario ha perso il 21% del suo
valore, nonostante nei primi sei mesi del periodo le famiglie
abbiano continuato a comprare titoli in Borsa (per quasi 24
miliardi).
Debacle ancora più accentuata per i fondi comuni: in termini di
consistenze i fondi sono passati - in un trimestre - dai 266,7
miliardi di fine dicembre ai 221,9 miliardi di fine marzo: quasi 45
miliardi in meno frutto in parte del calo delle quotazioni, e in
larga misura dei riscatti netti per 15,8 miliardi. Del resto,
rispetto ad un anno fa, il portafoglio complessivo della voce "fondi
comuni" nelle tasche degli italiani si è ridotto di un quarto. Ed è
crisi, sebbene meno profonda, anche per i prodotti assicurativi, che
hanno visto flussi negativi per circa 6 miliardi (i volumi
complessivi sono passati da 609,8 a 604 miliardi).
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Fonte
- La Repubblica |
ITALIA
PRIMA IN EUROPA
PER EVASIONE FISCALE
17 Agosto 2008 19:38
ROMA - di
WSI ______________________________________________
Nel nostro paese il 48%
del reddito imponibile non viene dichiarato al fisco.
Secondo un'indagine di Contribuenti.it i principali evasori
sono industriali (32%) e bancari e assicurativi (28%),
soprattutto al Sud (34,5% del totale nazionale).
E' l'Italia il paese europeo con la più alta evasione
fiscale, con il 48% del reddito imponibile che non viene
dichiarato al fisco. A rilevarlo un'indagine su un campione
di 1.500 cittadini condotta da Contribuenti.it, associazione
contribuenti italiani. Secondo l'indagine i principali
evasori sono industriali (32%), bancari e assicurativi
(28%), seguiti da commercianti (12%), artigiani (11%),
professionisti (9%) e lavoratori dipendenti (8%). L'evasione
è diffusa soprattutto al Sud (34,5% del totale nazionale),
seguito dal Nord Ovest (26,5%), dal Centro (20,1%) e dal
Nord Est (18,9%).
Il 44% di chi non paga le tasse «lo fa per insoddisfazione
verso i servizi pubblici erogati dallo Stato o la scarsa
cultura della legalità, il 36% per la complessità delle
norme e soltanto il 20% per la scarsità dei controlli».
Dall'indagine è inoltre emerso che «solo un cittadino su
cinque - afferma Vittorio Carlomagno presidente di
Contribuenti.it - sa perché paga le tasse, mentre quattro su
cinque si considerano sudditi di un'amministrazione
finanziaria troppo burocratizzata, che non eroga i servizi
sociali dovuti, violando i diritti dei contribuenti».
Fonte -
WallStreetItalia.com
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Mappa
del risparmio,
meno deflussi
27/08/2008 15.49 - di
Sara Silano ______________________________________________
Nel secondo trimestre
sono rallentati i deflussi dalle gestioni collettive.
Secondo le statistiche di Assogestioni, i fondi aperti e
chiusi hanno registrato riscatti superiori alle
sottoscrizioni per 30,5 miliardi di euro, circa 10 miliardi
in meno rispetto al precedente periodo. Il risultato
negativo è imputabile ai primi, mentre i secondi hanno avuto
una raccolta pari a 27 milioni.
A fine giugno gli Asset Under Management (patrimonio
promosso al lordo degli asset ricevuti e al netto di quelli
dati in delega) dell’intero settore sono pari a 982
miliardi, mentre il patrimonio promosso si attesta intorno
ai 979 miliardi.
E’ in continua crescita il peso dei fondi di diritto estero.
A fronte di deflussi in frenata e pari a 9,4 miliardi,
questi prodotti, infatti, rappresentano oggi il 45% del
patrimonio promosso nelle gestioni collettive. Quelli
italiani proseguono, invece, il declino (-21,1 miliardi) e
la loro quota sul totale è scesa sotto il 50%.
Nel trimestre i gruppi italiani hanno registrato deflussi
per quasi 24 miliardi nelle gestioni collettive, gli esteri
per meno di 7 miliardi.
Nel periodo aprile-giugno sono aumentati i riscatti dalle
gestioni di portafoglio, superando i 20 miliardi. Gli asset
under management sono scesi a 440 miliardi, mentre il
patrimonio promosso si è posizionato sopra i 431 miliardi.
SEGUE…
Solo le gestioni previdenziali hanno segnato un risultato
positivo (+552 milioni). Hanno chiuso in rosso le gestioni
patrimoniali in fondi (Gpf) retail (-12,1 miliardi), le
gestioni mobiliari (Gpm) retail (-3,7 miliardi), quelle di
prodotti assicurativi (-1,6 miliardi) e le Altre gestioni
(-3,3 miliardi di euro).
I deflussi dalle gestioni di portafoglio hanno interessato
soprattutto i gruppi italiani (-28,2 miliardi). Gli esteri,
invece, hanno avuto una raccolta netta pari a 7,9 miliardi.
Al 30 giugno i gruppi italiani hanno in gestione l’82% del
patrimonio complessivo (gestioni collettive e gestioni di
portafoglio) e ne promuovono l’83%.
Relativamente alle categorie, le sottoscrizioni hanno
superato i riscatti solo per i fondi immobiliari (+2
milioni). Gli hedge hanno chiuso il trimestre con deflussi
per 1,6 miliardi; i prodotti flessibili per 3,7 miliardi; i
monetari per oltre 6,3 miliardi; gli azionari per 6,9
miliardi; i bilanciati per 8,6 miliardi e gli obbligazionari
per 18,3 miliardi di euro.
Fonte -
MorningStar.it
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Alitalia?
Continuate così, massacratevi
28 Agosto 2008 04:23 NEW YORK - di Andrea Moro e Michele Boldrin
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1. Fino a pochi giorni fa, non la voleva nessuno, questa Alitalia.
Ora, invece, rispetto agli investitori resi noti lunedì, ne sono
emersi ufficialmente altri cinque. Possiamo accodarci anche noi, per
favore? È bene menzionarli, questi geni dell'imprenditoria, che
ricevono un marchio a costo zero, sapendo che se andasse male ci
sarebbe comunque un governo prossimo venturo pronto a salvarli:
Roberto Colaninno, attraverso Immsi, il gruppo Benetton attraverso
Atlantia, il gruppo Aponte, Riva, il gruppo Fratini attraverso
Fingen, i Ligresti con Fonsai, Equinox, Clessidra, il gruppo Toto,
il gruppo Fossati attraverso Findim, Marcegaglia, Caltagirone
Bellavista attraverso Acqua Marcia, il gruppo Gavio con Argo, Davide
Maccagnani con Macca, Tronchetti Provera e la stessa Intesa Sanpaolo.
2. Settemila dipendenti verranno esuberati alle poste ed al catasto
o in qualche altro ufficio pubblico. Come al solito, paga il
contribuente, ossia il produttore privato vero del centro-nord.
Certo, è triste che così tante persone possano perdere il posto di
lavoro, ma il garzone del panettiere sotto casa che ha chiuso
bottega il "posto alle poste" non gliel'hanno dato. Perché?
3. Codacons e altre associazioni dei consumatori pensano ad una
class action per proteggere i piccoli azionisti. Ora, non sappiamo
chi sia stato a convincere questi piccoli azionisti ad investire in
Alitalia. Forse sono stati convinti con dolo. Ma se non fosse così,
resterebbe il fatto che hanno investito in un'azienda fallimentare.
Davvero sono meritevoli di tutela? Ci voleva tanto a capire che
l'azienda era in stato di fallimento occulto? La vicenda chiarisce,
ancora una volta, che il famoso marchio "Alitalia", con o senza i
nuovi slogan berlusconiani, vale zero. Zero, perché senza
l'annullamento dei debiti ed il posto da ministeriale per i
dipendenti, nessuno si sognava di attaccarsi alla famosa cordata.
Ora invece c'è un free-for-all.
4. Adesso il tutto si gioca in realtà a Bruxelles, perché le ragioni
per cui questa operazione non è accettabile nel quadro europeo di
politica industriale sono tante e tali da far paura. Ma l'astuto BS
(che sin dai tempi della campagna elettorale andava cucinando la
truffa a danno del paese) ha piazzato un obbediente romano a
commissario dei trasporti. Quindi il problema ora consiste nel
seguente: quanto cederà l'Italia, sottobanco, su decine di altri
tavoli negoziali per ottenere il beneplacito o al più una simbolica
multa della Commissione? In altre parole, oltre agli evidenti costi
visibili dell'operazione salvataggio parassiti&fighetti romani
(circa un miliardino di euro, forse più) quanti e quali saranno i
costi sommersi?
5. Ah, complimenti a Marcegaglia, vero esempio di imprenditoria
moderna, competitiva e non assistita. Dimettersi da presidente
Confindustria per l'evidente conflitto d'interessi non è che le
verrebbe in mente, graziosa signora? Allora glielo suggeriamo noi
spiegando anche il perché: da quando in qua la presidente di
un'associazione imprenditoriale che si siede a trattare con il
governo ogni due giorni è anche legittimata a fare affari, e che
affari, con il medesimo?
6. Complimenti ai cittadini tutti, ai piccoli imprenditori,
all'opposizione, a tutti quelli che chiaccherano che occorre
cambiare: non vi vediamo in piazza a difendere le vostre tasche ed i
vostri diritti contro il furto romano. In particolare, non abbiamo
udito ancora nulla dai beoti leghisti! Banda di polentoni tonti: il
cosidetto federalismo del piffero voi non ce l'avete ancora, mentre
invece Roma-ladrona intasca allegramente qualche altro miliardo di
tasse del Nord per mantenere nel lussuoso far niente migliaia dei
suoi abbronzati fighetti e fighette. Diteci: ci fate o ci siete?
Perché essere tonti così tanto è veramente incredibile.
7. Complimenti, infine, al vostro ministro dell'Economia. Dalle
parole ai fatti: sta dimostrando in cosa consiste la sua nuova
politica industriale che permetterà al paese di affrontare la
concorrenza con il resto del mondo e con i paesi emergenti in
particolare. Continuate così, massacratevi. Che oramai del male ve
ne siete fatti abbastanza.
 |
Fonte
-
noiseFromAmeriKa.org. |
ALITALIA:
LE NOVITA' SALVA-CRISI DELLA
DELEGA / SCHEDA
28 Agosto 2008 19:25
ROMA - di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 28 AGO -
Nata con Cirio e Parmalat, cambia faccia con Alitalia. Dopo
poco più di 4 anni (era stata varata il 18 febbraio 2004) la
legge Marzano assume nuovi connotati per adattarsi alle
esigenze di riassetto della compagnia di bandiera. La
'nuova' Marzano sembra presentare una maggiore flessibilità
rispetto alla versione precedente, a partire dalla possibile
cessione di "asset ancora fruttuosi" da parte del
commissario straordinario per finire alla 'sospensione'
delle norme Antitrust sulle concentrazioni. Allo stesso
tempo, finirà per rappresentare una sorta di Testo Unico
nella disciplina sulle crisi delle grandi imprese, con una
ridefinizione delle norme penali sugli illeciti in materia
fallimentare. La nuova normativa, spiega il Consiglio dei
Ministri, punta infatti "al superamento della
contrapposizione fra tutela dei creditori e conservazione
degli organismi produttivi", con "l'obiettivo di evitare,
fino dove sia possibile, la procedura di liquidazione e la
possibilità di avvalersi degli strumenti flessibili di
soluzione della crisi di grande impresa pur in caso di
intervento pubblico". Ecco alcune delle differenze
principali fra le due normative: - AMMISSIONE: la Marzano si
attivava con un'istanza di ammissione all'amministrazione
controllata da parte dell'impresa, con contestuale ricorso
al tribunale affinché dichiarasse lo stato di insolvenza. Un
presupposto destinato a scomparire, visto che uno dei
cardini della legge delega è "ridefinire il contenuto della
domanda di ammissione alla procedura". L'ammissione in
precedenza avveniva tramite decreto del Ministero delle
Attività Produttive, mentre tale facoltà ora è assegnata
anche al Presidente del Consiglio dei Ministri. - NOMINA
COMMISSARIO: la nomina spetta ora anche al premier, che, al
pari del ministro dello Sviluppo Economico, ne determina il
compenso e le condizioni dell'incarico, anche in deroga alla
normativa vigente. Possono inoltre essere prescritte
"specifiche attività per il raggiungimento dell'obiettivo di
risanamento". Fra queste, anche "un'immediata vendita o
affitto di asset ancora fruttuosi, garantendo maggiore
elasticità al modello procedimentale", che in precedenza,
per eventuali cessioni, obbligava invece al preventivo
deposito di un piano di ristrutturazione che indicasse quali
attività non-core potevano venire dismesse. Il commissario
straordinario dovrà individuare l'acquirente mediante
trattativa privata. - DURATA: la ristrutturazione con la
Marzano era prevista tramite la cessione dei beni aziendali
(per un anno) o l'attuazione di un programma di risanamento
che non poteva superare i due anni. Uno degli scopi delle
nuove disposizioni è però proprio quello porre "fine dell'alternatività
fra ristrutturazione dell'azienda e cessione (con la
possibilità di perseguire il risanamento anche attraverso la
dismissione, ad esempio, di rami aziendali)". Quindi la
durata della procedura dell'amministrazione straordinaria
verrà ora fissata "in un periodo variabile tra uno e due
anni, in funzione della complessità della procedura, ma in
presenza di sopravvenute eccezionali esigenze può essere
disposta la proroga del termine sino ad un periodo massimo
di dodici mesi". - PIANO RISANAMENTO: se la presentazione
del piano di risanamento era esclusiva competenza del
commissario straordinario, da effettuarsi entro 180 giorni
dalla dichiarazione di insolvenza, adesso questi avrà anche
"la possibilità di valutare il programma proposto
dall'impresa, se del caso proponendo le necessarie modifiche
od integrazioni e se del caso proponendone uno da lui
redatto ed alternativo da sottoporre all'approvazione
ministeriale". - CREDITORI: maggiore attenzione viene
dedicata anche ai creditori. In precedenza i debiti venivano
'congelati' fino alla definizione di un concordato fra le
parti, mentre l'intento delle nuove norme è quello di
"rifiutare soluzioni che avviliscano le attese dei creditori
e quelle che trascurino interessi che gravitano a vario
titolo attorno alla vita dell'impresa". - ANTITRUST: le
operazioni di concentrazione connesse, contestuali o
previste nel programma, non sono soggette ad autorizzazione
ai sensi della normativa antitrust. Le parti sono comunque
tenute alla notifica preventiva di tali operazioni
all'Antitrust ed alla assunzione di impegni a tutela dei
creditori per evitare aumenti dei prezzi o l'applicazione di
gravose condizioni contrattuali per l'utenza. - DIRITTO
FALLIMENTARE: la delega prevede anche la riforma delle
disposizioni penali fallimentari, adeguandole alle novità
introdotte di recente alla disciplina civilistica. Viene
introdotta, per le fattispecie di bancarotta impropria da
"illecito societario", una "zona di rischio penale",
individuata nello stato d'insolvenza o nella situazione di
concreto pericolo d'insolvenza. Così come è stata prevista
ed estesa anche all'imprenditore individuale
"l'incriminazione della causazione intenzionale del dissesto
a cui si affianca, per la bancarotta societaria, la
causazione dolosa del dissesto mediante abuso dei poteri o
violazione dei doveri da parte degli esponenti societari".
Fonte -
ANSA
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