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Il
fallimento della Federal Reserve
01 Luglio 2008 03:00 LUGANO Milano -
di Alfonso Tuor
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È inaccettabile che l’economia mondiale precipiti in una crisi,
sicuramente la più grave dai tempi della Grande Depressione degli
anni Trenta, per colpa di qualche migliaia di banchieri e di gestori
di Hedge Funds. Eppure è quanto sta accadendo e la caduta delle
borse di questi giorni è semplicemente la controprova che
la
cosiddetta crisi dei mutui subprime sta cominciando ad intaccare
pesantemente l’economia reale.
La previsione della maggior parte degli analisti finanziari di una
ripresa dell’economia statunitense nel secondo semestre di
quest’anno si sta rivelando quanto meno fantasiosa, così come l’idea
che il peggio della crisi del sistema bancario sia già alle nostre
spalle. I dati economici indicano invece che gli Stati Uniti durante
questo secondo trimestre sono molto probabilmente già caduti in
recessione, che la crisi del mercato immobiliare americano continua
ad aggravarsi e che la crescita europea sta subendo una brusca
frenata.
D’altro canto non vi è stato alcun sostanziale miglioramento della
situazione del sistema bancario, come dimostra l’impennata di tutti
gli indici di mercato che «misurano» il grado di fiducia nei
confronti degli istituti finanziari. Quindi
ora con l’inflazione in
forte rialzo ovunque, con il continuo aumento del prezzo del
petrolio e con la nuova pericolosa fase di debolezza del dollaro si
ha la dimostrazione del totale fallimento delle politiche con cui si
è voluta affrontare la crisi del sistema finanziario, che anzi
stanno provocando un generale avvitamento dell’economia mondiale.
Dopo lo scoppio nel mese di agosto dell’anno scorso dell’enorme
bolla del credito creata dalla nuova ingegneria finanziaria, si
doveva affrontare di petto la crisi del sistema bancario. Si
dovevano inviare le autorità di sorveglianza sia negli Stati Uniti,
sia in Europa e anche in Svizzera a verificare i bilanci delle
banche e si dovevano trarre le inevitabili conclusioni per quegli
istituti bancari che non soddisfacevano più i requisiti di capitale
(ossia che erano e sono tecnicamente falliti).
È quanto si deve fare ancora oggi e ciò non vuol dire condannare al
fallimento questi istituti bancari, ma obbligarli a ricapitalizzarsi
adeguatamente. Se non fossero in grado di ricapitalizzarsi sul
mercato, bisognerebbe nazionalizzarli. In questo modo le banche
centrali sarebbero sgravate dal compito di condurre una politica
monetaria tesa a salvare il sistema bancario.
A causa della debolezza delle classi politiche dei paesi occidentali
e a causa del potere di influenza politica del mondo della finanza
questa via non è stata seguita. Si è invece pensato di salvare capra
e cavoli usando la politica monetaria (taglio dei tassi, iniezioni
continue di capitali, ecc.) per risanare il sistema finanziario.
Il risultato di questa politica è che si è aggravato il quadro
generale dell’economia mondiale senza nemmeno riuscire a creare le
premesse per cominciare a risolvere la crisi del sistema bancario.
Ci spieghiamo.
La politica monetaria fortemente espansiva seguita dalla Federal
Reserve si sta rivelando un fallimento: non ha frenato la caduta del
mercato immobiliare, non sta scongiurando la recessione e ha dato
solo una boccata di ossigeno alle banche. In compenso, i tassi bassi
e la continua espansione della massa monetaria sono state la causa
prima del rialzo dell’inflazione, dell’impennata dei prezzi del
petrolio e delle altre materie prime e della caduta del valore del
dollaro. La Federal Reserve ha inoltre perduto credibilità.
Non è infatti casuale che le turbolenze sui mercati finanziari sono
cresciute fortemente dopo la riunione della Fed di mercoledì scorso,
ossia quando la banca centrale americana ha confermato che non
alzerà il costo del denaro, che è attualmente al 2%, nonostante
l’inflazione negli Stati Uniti sia già salita al 4,2% e nonostante
si preveda che entro la fine dell’anno supererà il 6%. In pratica,
la banca centrale statunitense ha confermato di essere «schiava» di Wall Street e di voler continuare a subordinare la lotta al rincaro
e la difesa del valore del dollaro ai bisogni della finanza
americana.
Di fronte a questa abdicazione della banca centrale americana la
reazione è stata immediata: il dollaro si è di nuovo indebolito, il
prezzo del petrolio ha superato i 140 dollari il barile, le borse
hanno ripreso a scendere e paradossalmente gli indici di misura
dello stato di salute delle banche sono peggiorati. È evidente che
stiamo entrando in un periodo di forti tensioni, poiché l’attuale
politica monetaria americana produce un pericoloso aumento
dell’inflazione che si aggiunge al brusco rallentamento
dell’economia. Si tratta di una ricetta economica che non può che
fare paura.
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Fonte -
Corriere del Ticino |
CAPITALISMO
AL GRAN FALO' DELLE VANITA'
02 Luglio 2008 04:43 ROMA - di Massimo Giannini _________________________________
La storiella la racconta l’Herald Tribune.
Giusto un anno fa, passeggiando per le frenetiche sale del
New York Stock Exchange con il suo proverbiale completo
bianco, Tom Wolfe emise la sua profezia: «Stiamo assistendo
alla fine del capitalismo come lo abbiamo conosciuto».
Sembrava la farneticazione apocalittica del neofita, che
assiste per la prima volta, senza capirli, ai miracoli della
«fabbrica del denaro», che in quel periodo girava ancora a
pieno regime. E invece il grande scrittore americano (forse
proprio perché non è un economista) aveva capito molto più
di tutti gli «addetti ai lavori» che in quei giorni si
affannavano a far soldi gonfiando la bolla immobiliare e
insaccando merce avariata nei «titolisalsiccia».
È davvero la «fine del capitalismo», quella che stiamo
contemplando con occhi sempre più smarriti e portafogli
sempre più vuoti? Forse è meglio evitare sentenze
definitive: anche Francis Fukuyama aveva predetto la «fine
della storia», e la storia si è poi presa la briga di
smentirlo. Ma la crisi c’è, come ha detto il governatore
Draghi.
È grave, e per qualità più che per quantità non ha
precedenti nella storia del ‘900. Tra le banche d’affari
circola un «calcoletto», che dà la misura dell’effetto
subprime. Il Fondo monetario stima che le perdite per le
istituzioni finanziarie internazionali siano pari a 1000
miliardi di dollari, di cui 510 riferiti alle sole banche.
Se questo è il buco, finora a colmarlo hanno provato i fondi
sovrani (con un esborso di circa 52 miliardi di dollari) e
gli aumenti di capitale (pari a 133 miliardi di dollari). Il
totale fa 185. Vuol dire che all’appello mancano 325
miliardi di dollari, che le banche non hanno ancora trovato.
Da dove usciranno fuori? Nessuno lo sa. Altri aumenti di
capitale? Difficile collocarli, se non superscontati. Nuovi
ingressi dei Souvereign Funds? Finora ci hanno rimesso quasi
il 20% in termini di valori azionari investiti. Vendita di
asset? Per coprire la voragine, calcolando il leverage medio
delle prime 25 banche internazionali, bisognerebbe alienare
cespiti per almeno 10 mila miliardi di dollari, e non si
vede chi potrebbe sborsarli. Risultato?
O paga lo Stato, con le nazionalizzazioni. O paga il
mercato, con le bancarotte. Se non è la «fine del
capitalismo», è comunque una grande autodafè del sistema
finanziario globale. Un colossale «falò delle vanità»,
proprio come aveva previsto quello stesso signore vestito di
bianco, in un’altra magnifica profezia datata 1987.
Fonte
- La Repubblica
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Medvedev:
«Ecco la mia ricetta contro la crisi finanziaria globale»
02 Luglio 2008 04:43
MOSCA - di Leonardo Maisano ____________________________________
«Il sistema finanziario globale va adattato
alla realtà di oggi e ai rischi di oggi perché le
istituzioni economiche internazionali create negli anni
Sessanta e Settanta hanno dimostrato di non essere in grado
di misurarsi con questa situazione. È necessaria maggiore
flessibilità nell'azione per prevenire le crisi e va
abbandonato l'egoismo nazionale». Il presidente russo
Dimitri Medvedev, 43 anni a settembre, nella prima
intervista alla stampa quotidiana dal giorno del suo
insediamento al Cremlino concessa ad un gruppo selezionato
di testate di Paesi aderenti al G8 (per l'Italia, in
esclusiva al Sole 24 Ore), indica la sua dottrina per
spingere il mondo fuori dall'impasse.
Ne ha per tutti: dal G8 all'Opec «le cui decisioni non hanno
influenza duratura sui prezzi del greggio». Contesta un
sistema di global governance americano-centrico cioè
«ancorato agli interessi di un solo Paese e alla sua
valuta». Auspica e immagina un ruolo crescente per il rublo
nello scenario monetario del pianeta. Liquida come «poco
seri» i commenti del candidato alla Casa Bianca John McCain
che si è detto favorevole all'esclusione della Russia dal
G8, tiene alto il tiro sul Kosovo e avverte che in Russia
"l'ultima parola" ora spetta a lui. Come dire: il presidente
sono io non è più Vladimir Putin, oggi premier e con il
quale Medvedev ha confermato di lavorare in piena sintonia.
Tace, criptico, sui destini di Mikhail Khodorkovskij l'ex
proprietario di Yukos ora in carcere in Siberia.
È, nell'imminenza del G8 in Giappone, un'intervista a tutto
campo che tratteggia il profilo del nuovo leader per la
prima volta visto da vicino dopo la lunga stagione
elettorale russa.MOSCA - «Il sistema finanziario globale va
adattato alla realtà di oggi e ai rischi di oggi, perché le
istituzioni economiche internazionali hanno dimostrato di
non essere in grado di misurarsi con questa situazione. È
necessaria maggiore flessibilità nell'azione per prevenire
le crisi e va abbandonato l'egoismo nazionale». Il
presidente russo Dimitri Medvedev, 43 anni a settembre, a
pochi giorni dal vertice dei Grandi in Giappone, nella prima
intervista alla stampa quotidiana dal suo insediamento al
Cremlino concessa a un gruppo selezionato di testate di
Paesi aderenti al G8 (per l'Italia, in esclusiva al «Sole 24
Ore» che la pubblica integralmente nel numero in edicola
giovedì 3 luglio), indica la sua dottrina per spingere il
mondo fuori dall'impasse.
Il nuovo leader russo ne ha per tutti: dal G8 all'Opec «le
cui decisioni non hanno influenza duratura sui prezzi del
greggio». Contesta un sistema di global governance
americano-centrico, cioè «ancorato agli interessi di un solo
Paese e alla sua valuta». Auspica e immagina un ruolo
crescente per il rublo nello scenario monetario del pianeta.
Liquida come «poco seri» i commenti del candidato alla Casa
Bianca John McCain che si è detto favorevole all'esclusione
della Russia dal G8, tiene alto il tiro sul Kosovo e avverte
che in Russia «l'ultima parola» ora spetta a lui. Come dire:
il presidente sono io non è più Vladimir Putin, oggi premier
e con il quale Medvedev ha confermato di lavorare in piena
sintonia. Tace, criptico, sui destini di Mikhail
Khodorkovskij l'ex proprietario di Yukos ora in carcere in
Siberia.
Fonte
- La Stampa
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TASSI:
BCE LI ALZA DELLO 0.25 PORTANDOLI AL 4,25% 03 Luglio 2008 13:47 FRANCOFORTE -
di
Reuters ______________________________________________
Il board della Banca
centrale europea ha deciso una stretta da un quarto di punto
sui tassi di riferimento della zona euro, rispettando le
attese di mercati finanziari e analisti. Il tasso minimo sul
rifinanziamento principale sale così a 4,25% dal precedente
4,00%, livello che manteneva dal giugno 2007. Innalzati
anche a 3,25% da 3,00% il tasso sui depositi overnight
presso l'istituto centrale di Francoforte e a 5,25% da 5,00%
quello sui rifinanziamenti marginali. In un sondaggio
realizzato la settimana scorsa da Reuters presso 81
economisti, in 77 hanno pronosticato un rialzo dei tassi
oggi, pur non prevedendo una serie di strette monetarie da
parte della banca centrale.
"I fondamentali dell'economia restano solidi" ma "persistono
rischi al ribasso" che rendono "incerto l'outlook
sull'economia". Lo ha detto il presidente della Bce,
Jean-Claude Trichet, sottolineando che "il buon andamento
del primo trimestre può venire compensato da quello del
secondo trimestre" ed è quindi "preferibile guardare al
primo semestre nel suo complesso" per valutare lo stato di
salute dell'economia.
'Non ci siamo impegnati in modo preventivo sulle future
mosse sui tassi'. Cosi' Jean-Claude Trichet. Il presidente
della Bce risponde a chi gli chiede di far luce sulle
prossime mosse dell'Eurotower sui tassi di interesse.
L'inflazione 'rimane la principale preoccupazione dei
cittadini di Eurolandia, da qui la decisione odierna', presa
per prevenire effetti di 'second-round' sui prezzi, perche'
restano rischi al rialzo per l'inflazione nel medio periodo'.
Trichet sottolinea che 'i prezzi al consumo rimarranno alti
per un periodo piu' lungo di quanto previsto'. L'indice
armonizzato dell'inflazione rimarra' sopra il 2% ancora per
alcuni mesi e potra' iniziare a scendere 'gradualmente' solo
nel 2009. Afferma poi come il prezzo del petrolio e degli
alimentari stanno 'erodendo il potere di acquisto' dei
cittadini europei. Gli stessi fattori hanno contribuito ad
'aumentare i rischi sui prezzi nel medio termine'.
Attenzione anche sulle contrattazioni salariali, perche' la
Bce teme che possano produrre effetti negativi di secondo
livello sull'inflazione. Sempre secondo Trichet, 'i
fondamentali dell'economia restano solidi' ma 'persistono
rischi al ribasso' che rendono 'incerto l'outlook
sull'economia'.
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Fonte - Reuters
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Il
gufo: la crisi costerà il 6% del PIL USA 08 Luglio 2008 03:00 ROMA - di
WSI ______________________________________________
«Nessuno può dire con
certezza quanto questa crisi durerà. Noi pensiamo che
potrebbe ragionevolmente terminare nella prima o tutt’al più
nella seconda metà del 2009. Ma una cosa invece è certa: si
tratta della più grave crisi finanziaria del dopoguerra e
adesso siamo a circa metà del guado». Stefano Visalli,
direttore McKinsey responsabile strategia banche a livello
europeo, è anche in grado di indicare l’impatto stimato sul
Pil Usa di questa tempesta: «Le perdite di attività reali
saranno pari ad almeno il 6 per cento del pil americano».
Si tratta di un dato inedito nella storia dell’economia
occidentale degli ultimi 60 anni: «Per avere un termine di
paragone, l’impatto della crisi delle casse di risparmio
americane negli anni Ottanta fu circa la metà, ovvero il 3
per cento del pil Usa. Ed è quasi simile all’impatto della
crisi giapponese di cui quel paese porta ancora oggi i
segni».
Dovremmo essere a metà di questa crisi, scoppiata con i
subprime ma poi allargatasi a tutto il sistema finanziario:
«Ma non possiamo esserne sicuri perché ci sono ancora due
incertezze: da una parte, non siamo ancora in grado di
stimare la profondità della crisi economica che sta
arrivando; dall’altra non è ancora chiaro quanto e quanto
rapidamente i regolatori alzeranno i requisiti di capitale,
creando ulteriori difficoltà alle banche già
sottocapitalizzate». Sebbene l’impatto delle perdite sui
crediti sia più forte in America, la crisi non rimarrà
confinata oltreoceano: «Se c’è una recessione negli Usa, è
inevitabile una ricaduta in Europa. I segnali ci sono già:
in Gb la richiesta di mutui si è ridotta del 50%, in
Danimarca del 35. La crisi è già diffusa».
Per le banche la tempesta potrà avere effetti significativi.
«Si ridurrà la leva, ovvero il rapporto fra attivi e
capitale, che negli ultimi 78 anni era aumentato del 2030%.
Di conseguenza, la redditività scenderà portando a processi
di consolidamento già nella prima o nella seconda metà del
2009, quando si comincerà a vedere la fine della crisi». In
questa situazione gli istituti di credito avvantaggiati per
le future fusioni saranno quelli «molto retail e che sono
già presenti in aree ad alta crescita come l’Europa
dell’Est». In questo identikit possono riconoscersi alcune
grandi banche italiane, «ma ci sono anche gli istituti
spagnoli e alcuni francesi. Più penalizzate invece le banche
anglosassoni e alcune tedesche». (a.bon.)
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Fonte - WallStreetItalia.com
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G8
giurassico, aboliamolo 10 Luglio 2008 12:49 TORINO -
di Mario Deaglio ______________________________________________
Tutti in tenuta da
ufficio a far finta di piantare un albero davanti alle
telecamere, per testimoniare il loro impegno per l'ecologia
e contro il cambiamento climatico: così, goffi e impacciati,
sono apparsi i leader degli otto Paesi economicamente più
importanti del mondo ad almeno due miliardi di
telespettatori che ne hanno, più o meno distrattamente,
seguito le attività. In realtà il loro impegno ecologico e
climatico è risultato almeno tanto inadeguato - si potrebbe
dire tanto ridicolo - quanto il loro abbigliamento. E se
qualcuno aveva ancora dei dubbi, il solito comunicato
stampa, denso di buone parole e luoghi comuni ma avaro di
fatti, li dovrebbe aver convinti di quanto inutili, per non
dire nocivi, siano questi incontri.
L’iniziativa del G8 (allora G5) era nata nel 1975 quando di
fronte a una crisi grave e del tutto sconosciuta, come il
primo choc petrolifero, il presidente francese Giscard
d’Estaing ebbe l’idea di un incontro a porte chiuse e a
quattr’occhi in cui i responsabili del governo dei maggiori
Paesi dell’Occidente potessero dialogare senza testimoni.
E tagliando fuori le rispettive burocrazie. Un luogo in cui
stare assieme a esaminare problemi, a confrontare strategie,
a raggiungere accordi informali ma - sperabilmente -
efficaci. Di qui dovevano partire decisioni rapide per
contrastare l’aumento dei prezzi delle materie prime, che
peraltro continuarono a crescere e ci regalarono il secondo
shock petrolifero del 1979.
In 33 anni e 34 incontri al vertice, il G8, pur senza
diventare un organo formale, si è allargato (con l'ingresso
della Russia, limitato però ad alcune materie) e di alcuni
Paesi emergenti, invitati a assistere ad alcune sedute; si è
anche appesantito, in quanto a livelli più bassi si
incontrano, in occasioni separate, i ministri dell’economia,
dell’ambiente, della giustizia e altri ancora, e ha perso
gran parte di quel carattere riservato che poteva
costituirne l’elemento originale. Dopo i gravi incidenti di
Genova, si cerca di tenere le riunioni in luoghi isolati, ma
il G8 attira sempre giornalisti e contestatori e induce i
partecipanti a pietose esibizioni mediatiche, come quella,
appunto, di far finta di piantare un albero. I comunicati
sono inconcludenti e sull’efficacia delle riunioni si
pronunceranno gli storici tra trenta e più anni, consultando
archivi che per ora sono segreti.
Se i capi dei Paesi più potenti hanno bisogno d’incontrarsi
riservatamente, è bene che lo facciamo. Se devono lanciare
messaggi comuni che diano all’opinione pubblica un senso di
direzione e politica condivisa, è bene che lo facciano. Le
due cose assieme, però, non riescono molto bene in quanto la
riservatezza del primo obbiettivo si scontra con la
visibilità del secondo e ne derivano comunicati inutili e
grandi decisioni mancate per cui un vertice G8 può rivelarsi
addirittura dannoso. Così forse è stato per la riunione
svoltasi sull’isola giapponese di Hokkaido, dove, dietro
l’annuncio di obiettivi convenientemente lontani nel tempo,
di accordi che non saranno mai portati a ratifica, di
impegni che difficilmente saranno rispettati, si intravedono
crescenti divisioni trai partecipanti.
La prima divisione è, in termini semplici, tra ricchi e
poveri. Invitati «a prendere il caffè», ossia a una parte
soltanto delle riunioni, quando i grandi discorsi erano già
stati fatti, i rappresentanti dei Paesi emergenti si sono
rifiutati di sobbarcarsi oneri aggiuntivi nella lotta
mondiale al riscaldamento atmosferico; ma c’era da
aspettarselo, visto la vibrante presa di posizione in questo
senso - al G8 dei ministri dell’ambiente svoltosi qualche
mese fa a Heiligendamm, in Germania - del rappresentante
cinese, il quale aveva ricordato che l'inquinamento è il
risultato di duecento anni di industrializzazione
occidentale. L’«accordo» contiene soltanto buone parole,
senza vere scadenze in tempi brevi e ciascuno lo leggerà
come vorrà.
Una seconda frattura, meno visibile e più profonda, è quella
derivante dal veto posto dagli Stati Uniti (e dal Canada)
all’ingresso a pieno titolo dei grandi Paesi emergenti
nell'organizzazione per la scarsa condivisione da parte di
questi ultimi di fini generali, che immaginiamo essere la
democrazia e l'economia di mercato. In questo modo il G8
rinuncia a essere un vero e proprio «salotto mondiale» ma
diventa il «salottino» di una parte sola. Nel 1975, gli
attuali membri pesavano per circa i due terzi del prodotto
lordo mondiale; oggi il loro peso, tenendo conto del
differente potere d’acquisto della medesima quantità di
moneta in varie parti del mondo, è di poco più della metà.
La ricerca dell’efficacia richiederebbe un allargamento,
senza il quale appare illusorio affrontare con efficacia i
grandi problemi mondiali.
Per il resto, si è confermata la mancanza di soluzioni e di
idee per i problemi strutturali emersi nell'ultimo anno,
dalla crisi finanziaria alla crisi agricola, per la quale
sono stati stanziati pochi spiccioli, e chissà se poi
verranno davvero spesi. Sulle colline giapponesi, insomma,
c’è stata una conferma in più del fatto che una ricetta
magica per uscire dalle crisi molteplici e concatenate di
questi nostri anni non l’ha ancora trovata nessuno.
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Fonte - La Stampa
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Salvataggio
Fannie e Freddie: rischio per bilancio, dollaro Usa 11 Luglio 2008 19:56 NEW YORK -
di
Reuters ______________________________________________
NEW YORK (Reuters) - Il
precipitare di Fannie Mae (NYSE: FNM - notizie) e Freddie
Mac (NYSE: FRE - notizie) al centro della crisi finanziaria
ha spinto Wall Street a interrogarsi su un possibile
salvataggio governativo delle due agenzie.
Molti però temono che il salvataggio delle due GSEs (Government
sponsored enterprises) sia così oneroso da danneggiare il
bilancio dello Stato e minacciare i corsi del dollaro, già
duramente provato.
"La percezione che gli Stati Uniti non siano più un rifugio
sicuro per i capitali potrebbe produrre un enorme pressione
sul dollaro, così come i timori di un forte aumento delle
emissioni del Tesoro Usa per finanziare un salvataggio", ha
detto James Hamilton, professore d'economia all'Università
di California, San Diego.
Insieme Fannie Mae e Freddie Mac controllano quasi la metà
del mercato americano dei mutui. La flessione del loro
valore in Borsa è stata sbalorditiva. Fannie Mae ha perso la
maggior parte del suo valore, passando da circa 70 dollari
dell'agosto 2007 agli attuali 9.
A Freddie è andata anche peggio. Il titolo è caduto oggi al
prezzo di un gallone di gasolio.
La situazione è talmente cupa che, secondo indiscrezioni
pubblicate dal New York Times (NYSE: NYT - notizie) , alti
funzionari dell'amministrazione Bush stanno considerando
un'acquisizione delle due società interamente finanziata dal
Governo.
Il segretario del Tesoro Henry Paulson ha minimizzato questa
possibilità, ma i mercati hanno tratto poco conforto dalle
sue dichiarazioni e la situazione appare tanto incerta che
molti continuano a ipotizzare un salvataggio.
Una tale mossa, assolutamente nuova per dimensioni, non
sarebbe del tutto esente da rischi. Innanzitutto,
l'assorbimento delle passività di Fannie e Freddie
raddoppierebbe effettivamente il debito pubblico americano,
portandolo al 65% del Pil.
Questo provocherebbe un'altra ondata di vendite del dollaro,
dicono gli analisti, mettendo fine alla fase di relativa
calma dello scorso trimestre.
Una rinnovata avversione al biglietto verde, a sua volta,
potrebbe scatenare un vecchio timore: che gli investitori
stranieri inizino ad avere dubbi sui titoli di debito
pubblico americano. Le banche centrali straniere detengono
circa un quarto dei Treasury presenti sul mercato e circa
1.000 miliardi di titoli emessi dalle agenzie.
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IL
GOVERNO AMERICANO SI PREPARA AL
SALVATAGGIO DI FANNIE E FREDDIE 13 Luglio 2008 15:37 NEW YORK -
di
WSI ______________________________________________
Il ministro del Tesoro
americano Hank Paulson si prepara a iniettare almeno $15
miliardi in cash nelle due agenzie semi-governative Fannie
Mae e Freddie Mac, che garantiscono circa $5 trilioni di
mutui immobiliari (pari a 1/3 del pil Usa), allo scopo di
evitare un crack che avrebbe conseguenze devastanti per il
sistema finanziario mondiale. Secondo alcune fonti il piano
sara' annunciato domenica sera (il salvataggio Bear Stearns
fu reso pubblico una domenica alle 7:00pm ora di New York) e
comunque prima dell'apertura di Wall Street.
Secondo il piano, il governo degli Stati Uniti ricevera' in
cambio dell'iniezione di capitali una nuova classe di
azioni, che pero' diluira' immensamente gli azionisti.
L'infusione di cash sarebbe accompagnata dalla possibilita',
sia per Fannie Mae che per Freddie Mac, di usare la
"discount window" della Federal Reserve, una fonte di
finanziamento d'emergenza a breve termine. Questo rumor
sulla "discount window" era gia' circolato venerdi' a Wall
Street, poi era stato smentito dalla Fed, adesso sembra
proprio che si vada - tra immense incertezze e tensioni -
proprio verso uno scenario di questo tipo.
Leggere: Bernanke tells Freddie discount window open:
sources
La maggior parte degli investitori istituzionali con cui
Wall Street Italia ha parlato in queste ore (banche d'affari
e hedge funds di Manhattan sono tutti freneticamente al
lavoro questo week-end) ritengono che il piano sara'
annunciato prima dell'apertura di Wall Street lunedi'
mattina, per calmare i nervi ultra-tesi del mercato, e forse
anche stasera.
Il ministero del Tesoro Usa, scrive oggi il Washington Post
sta lavorando durante il weekend per arrivare alla certezza
che Freddie Mac sia in grado di vendere lunedi' mattina $3
miliardi di bond, in un'operazione gia' fissata da tempo. Si
tratta di debito a breve, ma sara' cruciale capire se c'e'
interesse da parte del mercato ad assorbire queste
obbligazioni da una societa' nel mirino degli short.
Leggere anche:
Freddie Mac and Fannie Mae future may rest with US Treasury
I titoli Fannie Mae (FNM) e Freddie Mac (FRE) la scorsa
settimana hanno perso circa la meta' del loro valore in
borsa (rispettivamente -47% e -45%; sono in calo dall'80 al
90% dai massimi) dopo che i rumor di un salvataggio del
governo Usa hanno provocato un'ondata inarrestabile di
vendite a Wall Street. Congiutamente le due societa' private
ma di fatto semi-governative possiedono o garantiscono circa
la meta' dei $12 trilioni (12mila miliardi di dollari) di
mutui immobiliari dell'intera America, per cui sono
assolutamente vitali alla sopravvivenza e corretto
funzionamento del mercato immobiliare, in quello che viene
giudicato il peggior crollo dei prezzi delle case dai tempi
della Grande Depressione.
Il salvataggio dovrebbe arrivare proprio mentre il settore
finanziario e' in attesa di nuove cattive notizie questa
settimana. Citigroup, secondo alcuni analisti di Wall
Street, potrebbe annunciare ulteriori svalutazioni per
almeno $8 miliardi nell'ambito dei risultati del secondo
trimestre, mentre Merrill Lynch potrebbe annunciare perdite
e svalutazioni per $4 miliardi. Cio' costringera' queste due
istituzioni bancarie, e molte altre minori, a dovere vendere
assets per far fronte alla drammatica crisi di capitali nata
con la crisi dei mutui subprime.
A rendere ancor piu' tesa la situazione e' il fallimento in
California di IndyMac Bank, in quello che e' il secondo
maggiore crack bancario della storia americana (leggere:
MUTUI: USA, SCENE PANICO DOPO FALLIMENTO BANCA INDYMAC).
Venerdi' per l'acuirsi della crisi dovuta ai rumor di un
salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, sia il presidente
George Bush che il ministro del Tesoro Henry Paulson sono
intervenuti pubblicamente sostenendo che la situazione e'
attentamente monitorata dal governo americano. Paulson
tuttavia ha affermato che al momento non "e' allo studio
alcun piano di salvataggio" per i due colossi dei mutui
immobiliari. Certamente colpisce che Paulson venedi' abbia
mentito cosi' clamorosamente nella funzione pubblica di
ministro del Tesoro, visto che la sua smentita dovrebbe a
sua volta essere smentita dai fatti nelle prossime ore.
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Fonte - WallStreetItalia.com |
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Stati
Uniti:
la ritirata
del neoliberismo
13 Luglio 2008
22:40 ROMA - di Federico Rampini ________________________________________
L´ultima vittima si chiama IndyMac, una cassa di
risparmio con 32 miliardi di dollari di attivi: gli ispettori
federali l´hanno dichiarata in bancarotta venerdì sera. Per
dimensione è il terzo fallimento bancario di tutti i tempi, in
America. È il crac più recente, probabilmente non l´ultimo né il più
grosso.
L´effetto-domino della crisi dei mutui continua ad amplificarsi e le
conseguenze si allargheranno ancora una volta all´Europa e all´Asia.
Le autorità americane si affannano a organizzare salvataggi
d´emergenza che si traducono in salassi per i contribuenti e per i
risparmiatori. Emerge un´altra conseguenza della crisi: un
cambiamento profondo nei rapporti di potere fra Stato e mercato. La Federal Reserve, il "pompiere" di ultima istanza che corre a
spegnere un incendio dopo l´altro, si è decisa a riscuotere il
prezzo dei suoi interventi: esige un rafforzamento senza precedenti
dei suoi poteri di vigilanza. È l´inizio di una ritirata strategica
del neoliberismo nella sua roccaforte ideologica più influente. Può
aprire la strada nel mondo intero a un´era di maggiore regolazione
dei mercati, un colpo d´arresto alla "finanza creativa".
Il fallimento della IndyMac è il più grosso dai tempi della
Continental Illinois (1984), cioè dalla tremenda crisi delle Savings
& Loans. Non si tratta di un istituto specializzato nei mutui
scadenti (subprime) per clienti di dubbia solvibilità. Questa cassa
di risparmio con sede a Pasadena, in California, erogava mutui
considerati sicuri. Dalla fine dell´anno scorso non riusciva più a
vendere sul mercato i titoli di debito corrispondenti a quei mutui.
Dodici giorni fa si è sparsa la voce che IndyMac era a rischio. I
suoi sportelli sono stati assediati dai depositanti: tutti
ritiravano i loro soldi, un´emorragìa di 1,3 miliardi di dollari in
poche ore. La bancarotta era inevitabile: la banca è passata sotto
la gestione della Federal Deposit Insurance. La procedura
fallimentare garantisce i depositanti fino a centomila dollari ma
non oltre; gli azionisti perderanno tutto, i creditori si vedrà.
Lunedì si attende con ansia la riapertura dei mercati per capire se
si placa la tempesta su Fannie Mae e Freddie Mac, le due più antiche
e rispettabili istituzioni del credito immobiliare, che affondano le
radici nel New Deal rooseveltiano dopo la Grande Depressione. I
timori di una loro bancarotta e le voci su una possibile
nazionalizzazione hanno creato il panico. Fannie e Freddie sono le
"madri" di tutti i mutui americani: quelli normali, non i subprime.
L´ammontare di debiti che fanno capo a quelle due istituzioni
raggiunge i 5.200 miliardi di dollari: più dell´intero volume dei
Buoni del Tesoro Usa in circolazione (4.500 miliardi). Una
insolvibilità di quelle istituzioni crea un rischio sistemico per lo
stesso bilancio federale. E ben oltre gli Stati Uniti: i titoli in
cui Fannie e Freddie hanno impacchettato i loro debiti circolano nel
mondo intero, hanno la credibilità del rating AAA (voto di massima
fiducia sui mercati finanziari), sono stati comprati in abbondanza
da banche e fondi comuni in Europa e in Asia.
Chi sarà la prossima vittima di questo gioco al massacro? Gli
avvoltoi circolano da tempo attorno alla banca d´affari Lehman
Brothers. Un tempo era uno dei nomi più altisonanti di Wall Street.
Nelle ultime due settimane ha perso un terzo del suo valore di
Borsa. Molti analisti vedono un remake del film-horror che portò al
tracollo di Bear Stearns quattro mesi fa. Si chiedono chi sarà
stavolta a comprarsi una Lehman dissanguata dalla sfiducia; e con
quale "spinta" da parte della Federal Reserve.
Il salvataggio di Bear Stearns, mascherato come un´acquisizione ad
opera della JP Morgan, fu in realtà sovvenzionato con fondi pubblici
grazie all´intervento della banca centrale.
In caduta di credibilità si trova la Wachovia, la seconda maggiore
banca americana dopo Bank of America per la rete di sportelli.
Wachovia è stata virtualmente commissariata con la nomina al suo
vertice di un sottosegretario al Tesoro. C´è chi spera che la compri
Goldman Sachs. Sempre, c´è da giurarlo, se il vero costo lo sosterrà
il contribuente. Fra i big della finanza di Wall Street, Merrill
Lynch giovedì rivelerà un nuovo buco nel suo bilancio, perdite
aggiuntive dell´ordine di 6 miliardi di dollari. Il suo chief
executive John Thain, a chi gli chiedeva se il peggio sia ormai
passato, ha risposto: «Su questo sono scettico».
Le dimensioni drammatiche di questa crisi - che ormai ha superato di
molto il "bubbone" originario dei mutui scadenti - hanno costretto
la Federal Reserve a un impiego eccezionale di fondi pubblici. Il
banchiere centrale Ben Bernanke ha definito così il suo compito più
urgente: «Assicurare una liquidazione ordinata di società
finanziarie che hanno un´importanza vitale nella stabilità del
sistema, quando arrivano sull´orlo della bancarotta».
Bernanke sa quanto questi salvataggi siano impopolari: l´America
viene tassata per tenere in piedi i colossi di Wall Street, mentre
milioni di famiglie hanno subito o rischiano di subire i
pignoramenti giudiziari delle abitazioni. Per non essere soltanto
"l´angelo salvatore dei banchieri", Bernanke ha sfoderato un
linguaggio duro, esigente. È andato al Congresso a chiedere uno
straordinario ampliamento dei suoi poteri di controllo e di
sanzione, una svolta nella storia americana. Vuole, e otterrà, che i
suoi ispettori possano andare a spulciare i bilanci non soltanto
nelle banche classiche ma anche nelle banche d´affari e
d´investimento, nelle società finanziarie, negli intermediari di
Borsa.
Il Senato di Washington ha appena approvato a maggioranza
schiacciante (63 voti contro 5) una prima riforma del credito
fondiario che istituisce una vigilanza ad hoc sulle finanziarie che
erogano mutui. Il nuovo vento che soffia dall´America ridurrà la
libertà di cui hanno goduto molti attori della finanza globale.
Ne
prende atto un antico paradiso bancario, la Svizzera, il primo paese
europeo ad aver già imboccato la nuova tendenza: la banca centrale
svizzera ha varato un giro di vite sulle due principali aziende, Ubs
e Credit Suisse, imponendo delle riserve di capitali molto più
solide che in passato. Dalle macerie di questa crisi emergerà
probabilmente una nuova gerarchia nei rapporti di forze tra i
guardiani delle regole e il mondo del capitale.
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Fonte - La Repubblica |
IL
PIANO PER SALVARE FANNIE & FREDDIE 'E' UN DISASTRO
SENZA APPELLO' 14 Luglio 2008 16:53 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
Il piano della Fed e
del ministero del Tesoro Usa per salvare Fannie Mae e
Freddie Mac e' "un disastro senza appello", e le due agenzie
semi-governative dei mutui sono "praticamente insolventi".
Lo ha detto da Singapore in un'intervista a Bloomberg
Television Jim Rogers, uno dei piu' abili investitori
mondiali, ex co-fondatore di Quantum, il primo hedge fund di
George Soros.
"Non so dove questi individui trovino l'audacia di prendersi
i nostri soldi, dico i soldi dei contribuenti, per comprare
azioni in Fannie Mae", ha detto Rogers, 65 anni, a
Bloomberg. "In questo modo andremo al salvataggio di
chiunque altro nel mondo. Tutto cio' rovina i bilanci della
Federal Reserve, rende il dollaro ancora piu' vulnerabile e
aumenta l'inflazione".
Intanto, sempre secondo Bloomberg, l'analista di Goldman
Sachs Daniel Zimmerman ha predetto un una nota ai clienti
che i titoli dei due colossi para-governativi dei mutui
scenderanno di un ulteriore 35%. Freddie Mac quota in questo
momento al New York Stock Exchange $7.76 (+0.13%) mentre
Fannie Mae e' prezzata $10.73 (+4.68%): rialzi cosi'
marginali da essere destinati a trasformarsi in ribassi nel
corso della seduta.
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Fonte - ANSA |
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Prove generali
di crack
bancario in America
14 Luglio
2008 17:43 LUGANO - di Corriere del Ticino ________________________________________
Negli Stati Uniti è cominciata la corsa agli sportelli
delle banche per ritirare i propri risparmi. Presa d’assalto da
migliaia di risparmiatori, che in due settimane hanno ritirato 1,3
miliardi di dollari, la IndyMac Bancorp, una banca californiana
specializzata in mutui immobiliari, è infatti rimasta senza soldi ed
è fallita. L’istituto, che a fine marzo valeva ancora 32 miliardi di
dollari, è passato sotto il controllo della Federal Deposit
Insurance Corporation (FDIC). I clienti della banca non perderanno i
primi 100.000 dollari di deposito e recupereranno forse la metà del
resto.
L’istituto riaprirà i battenti oggi sotto l’amministrazione
controllata della FDIC e si chiamerà IndyMac Federal Bank. Il costo
del salvataggio dell’istituto si aggirerà attorno agli 8 miliardi di
dollari. Il fallimento della IndyMac è il secondo grande crack
bancario della crisi dei mutui subprime. Il primo fu quello della
Northern Rock, accaduto nell’autunno dell’anno scorso, che sta
costando allo Stato britannico alcune decine di miliardi di dollari.
È però il più grave degli ultimi 25 anni e nella graduatoria dei
dissesti bancari americani si situa solo alle spalle di quello della
Continental Illinois National Bank del 1984 e dell’American Savings
& Loan di Stockton del 1988.
Ora vi è il grande timore che sia il
primo di una serie di fallimenti delle 8.000 banche di piccole e
medie dimensioni degli Stati Uniti, il cui stato di salute è molto
precario.
Infatti, come ha dichiarato Christopher Whalen, direttore della
società di ricerca Institutional Risk Analytics, «molti temono che
quanto è successo negli ultimi giorni in California sia solo un
assaggio di quanto capiterà, poiché il fallimento della IndyMac è
solo la punta dell’iceberg e vi saranno altre bancarotte». Tutto ciò
accade mentre si teme sulla sorte delle due grandi agenzie
parastatali americane attive nel mercato dei mutui ipotecari.
Secondo William Poole, ex membro del Direttorio della Fed, Fannie
Mae e Freddie Mac sono prossime ad uno stato di insolvenza ed è
quindi necessario un intervento immediato dello Stato federale.
Indubbiamente, un dissesto di queste due agenzie, che non sono degli
istituti bancari, farebbe apparire la bancarotta californiana una
bagatella. Infatti Fannie Mae e Freddie Mac finanziano o
garantiscono la metà del totale delle ipoteche erogate negli Stati
Uniti e hanno quindi passività che ammontano a 5.300 miliardi di
dollari, ossia a circa il 40% del Pil statunitense.
Evidentemente non verrà permesso che esse falliscano, ma il loro
salvataggio sarà molto oneroso per lo Stato federale: 75 miliardi di
dollari, se verrà scelta la via della loro ricapitalizzazione,
oppure il raddoppio del debito pubblico americano, se lo Stato
garantirà le obbligazioni che hanno erogato per finanziarsi. Non
sorprende che di fronte a questa prospettiva il dollaro sia
ritornato ai minimi.
Le difficoltà di Fannie Mae e di Freddie Mac e il crack
dell’istituto californiano segnano un altro significativo
peggioramento della crisi del sistema bancario. La montagna di
crediti erogata negli ultimi anni e l’enorme volume di strumenti
creati dalla nuova ingegneria finanziaria rappresentano un macigno
che non riescono ad erodere nemmeno i ripetuti interventi di
salvataggio delle banche centrali e dello Stato federale americano.
E ciò non può essere considerato una sorpresa.
Infatti l’economista Ludwig von Mises (1881-1973), appartenente alla
cosiddetta Scuola austriaca, aveva scritto:
«Non esiste modo di
evitare il collasso finale di un boom generato dall’espansione
indiscriminata del credito. L’unico interrogativo è se la crisi
arriverà appena sarà abbandonata la politica dell’espansione del
credito o in seguito sotto forma di totale distruzione del sistema e
del suo sistema monetario». A conclusioni analoghe era giunto anche
l’economista americano Hyman Philip Minsky (1919-1996) nel suo libro
tradotto in italiano con il titolo: «Potrebbe ripetersi? Instabilità
e finanza dopo la crisi del ’29». Vi è da sperare che le loro
analisi non siano adeguate alla realtà attuale. Sta di fatto però
che questa crisi, che è prossima a «festeggiare» il primo
compleanno, non è assolutamente prossima alla conclusione. Anzi, di
giorno in giorno diventa più grave e più pericolosa.
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Fonte - Corriere
del Ticino |
Bernanke:
i rischi per inflazione e crescita si intensificano 15 Luglio 2008 16:33 NEW YORK -
di Macromonitor ______________________________________________
Nel corso della
audizione semestrale davanti al Banking Committe del Senato
(cui farà seguito quello davanti alla Camera dei
Rappresentanti) il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha
segnalato che i policymakers sono incerti sulla direzione
della politica monetaria, a causa degli accresciuti rischi
per crescita ed inflazione. Al contempo, aiutare i mercati
finanziari a tornare a condizioni di più normale
funzionamento resta un’”alta priorità”. “Ci sono
significativi rischi al ribasso per la crescita, ed i rischi
di rialzo dell’inflazione si sono intensificati”, ha detto
Bernanke, che ha quindi abbandonato le frasi utilizzate
nello statement di giugno del meeting della Fed, in cui si
affermava che i rischi per la crescita erano “in qualche
modo diminuiti”.
Questa variazione riflette, tra le altre cose, anche il
salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac ad opera del Tesoro
e della Fed, di questa settimana, oltre ai maggiori prezzi
dell’energia, ridotto accesso al credito ed ulteriore
aggravamento della crisi dell’immobiliare residenziale. Al
contempo, Bernanke ha aggiunto:
“Dobbiamo prestare particolare attenzione ad ogni
indicazione, come un’erosione delle aspettative d’inflazione
di più lungo periodo, che gli impulsi inflazionistici dai
prezzi delle materie prime possano incorporarsi nella
determinazione di prezzi e salari.”
Bernanke ha aggiunto che è probabile che la spesa dei
consumatori “resti frenata per i prossimi trimestri”, e che
le imprese, nella seconda parte dell’anno “possano essere
caute a spendere”. I rimborsi fiscali hanno fornito
“tempestivo supporto” alle famiglie, secondo il presidente
della Fed. Ciò ha consentito alle stesse di spendere oltre
le previsioni della Fed, ha aggiunto. I prezzi cedenti delle
abitazioni hanno contribuito alla marea montante dei
pignoramenti. Ciò ha intensificato la pressione ribassista
sui prezzi delle case, soprattutto in alcune aree.
Nelle nuove previsioni, la Fed ha alzato le proprie
previsioni per crescita ed inflazione nel 2008, confermando
la prospettiva di un’accelerazione della crescita nel 2009.
La Fed ora vede la crescita di quest’anno all’1-1,6 per
cento, contro la stima di 0,3-1,2 per cento fatta ad aprile
scorso; nel 2009 si prevede una crescita del 2-2,8 per
cento, uguale alla stima di aprile. I prezzi al consumo
dovrebbero crescere del 3,8-4,2 per cento quest’anno, contro
il 3,1-3,4 per cento stimato in aprile.
Bernanke ha aggiunto che la maggior parte dei policymakers
della Fed vedono le proprie previsioni inclini al ribasso
riguardo la crescita, ed al rialzo riguardo l’inflazione.
L’incertezza nelle previsioni è maggiore del normale, ha
aggiunto, a causa di durata ed effetti della crisi
finanziaria sulla crescita, e della possibilità di
estensione del trasferimento dei prezzi delle materie prime
all’inflazione core, effetti finora limitati.
Gli effetti della crisi immobiliare sono stati amplificati
dai rapidi incrementi nei prezzi di energia ed altre materie
prime, che hanno ridotto il potere d’acquisto. Secondo
l’ultima survey dell’Università del Michigan gli americani
prevedono l’inflazione media annua al 3,4 per cento nei
prossimi cinque anni, la più elevata aspettativa dal 1995.
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Fonte - Macromonitor |
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Schizofrenia
made in USA
17 Luglio 2008 09:08 WASHINGTON - di
Vittorio Zucconi ________________________________________
Più ancora che una crisi, quella in atto in America è
una grande purga. Di eccessi finanziari, di illusioni ideologiche,
di una scadente classe di governo politica ed economica che ha
fallito ed è ora travolta nella confusione di una nazione che va a
letto col panico e si sveglia con l´euforia. Alla sera collassano
banche come la IndyMac, e i clienti si accampano nella notte fuori
dalle filiali in California. Alla mattina si scopre che la Borsa
sale e il prezzo del greggio crolla, meno 13 dollari in 48 ore. Il
mondo finisce e ricomincia da un giorno all´altro, nell´impotenza di
chi dovrebbe guidarlo.
Non è recessione, inflazione, depressione, stagflazione, questa.
L´economia americana è in preda alla schizofrenia.
L´economista
Robert Samuelson parla di «Great Puzzle», di rompicapo del quale
nessuno ha la chiave. L´economia americana non è ancora in
recessione, che significa caduta del prodotto interno lordo per due
trimestri consecutivi, e addirittura prevede una crescita
complessiva a fine 2008 che potrebbe raggiungere il 3 per cento, un
boom per i miserandi tassi di crescita europei, con il 5,5% di
disoccupazione.
Ma 8.500 famiglie hanno la propria casa pignorata ogni giorno –
250mila mila ogni mese – per la impossibilità di pagare le rate di
mutuo. E il mercato immobiliare è alla deriva: l´inventario delle
case invendute o messe sul mercato dai creditori, ha raggiunto tempi
di 18 mesi. Occorrerebbe dunque almeno un anno e mezzo di acquisti
senza nuove case immesse sul mercato, per tornare all´equilibrio fra
prezzi, calati già del 20%, e offerte.
La domanda che sta al cuore del «grande rompicapo» e della
agghiacciante instabilità è se un´economia post-industriale possa
resistere al crollo della finanza. Se davvero, come si ipotizzò già
negli anni ´80 di fronte al crac reaganiano e al disastro delle
Casse di Risparmio e Prestiti (che coinvolse la famiglia Bush e il
senatore John McCain) economia e finanza possano vivere da separati
in casa, in esistenze parallele, ma non necessariamente sovrapposte.
L´entità del disastro prodotto dai mutui «subprime», cioè dei
prestiti a chi non aveva redditi sufficienti per qualificarsi, e
dall´assenteismo del governo, è ormai tale che da tempo l´economia
reale avrebbe dovuto esserne stroncata. Le banche, oppresse da
portafogli di esotici investimenti andati in fumo, di crediti
inesigibili, di case pignorate che sono costrette a esitare sul
mercato deprimendolo, annaspano. Nessuno vede la fine. È il panico
del nuotatore affaticato che non tocca il fondo coi piedi.
Se ancora, sorprendentemente, l´economia reale sembra resistere,
nonostante l´inflazione al 5% annuo, massima dal 1991, è perché
neppure anni di ideologia repubblicana dominante e di fede nella «virtus
sanatrix» del libero mercato sono riusciti a smontare quei congegni
di protezione che l´ideologia opposta, quella sprezzantemente
definita «statalista», aveva costruito come contrappeso agli
sbandamenti di mercati finanziari che sono, per natura non per
malvagità come vuole il populismo demagogico, speculativi.
Senza un sistema di banche federali costruito dal democratico
Woodrow Wilson nel 1913, senza le due corporation semipubbliche, la
Fannie Mae e la Freddie Mac, volute da Franklyin Roosevelt proprio
per assorbire e regolare i mutui insieme con la garanzia governativa
a tutti i depositi fino a 100 mila dollari, oggi non parleremmo di
schizofrenia, ma di catastrofe e di cucine per i poveri.
È stata questa remora politica, questa miopia ideologica, a
ritardare oltre ogni ragione quegli interventi della odiata «mano
pubblica», dunque il ricorso al borsellino dei contribuenti, che ha
permesso la folle galoppata del credito nei primi anni 2000 e ha
creato le premesse per il crac di oggi.
La fede nella defiscalizzazione come toccasana assoluto, la certezza
messianica nel «mercato» autorisanatore, ha rallentato quegli
interventi a sostegno dei mutui e freno al mercato delle «Wall
Street Follies» che sarebbero stati più utili e meno costosi se
adottati un anno fa, quando i primi sintomi del male si erano
manifestati. Ora è tutto più costoso, più rischioso, meno efficace,
perché la malattia si è diffusa. E tra la benevola indifferenza del
Presidente, che ieri ha fatto spallucce dicendosi «un non
economista» nonostante il suo Master in Business a Harvard, con le
resistenze demagogiche della sinistra democratica al «salvataggio
pubblico degli speculatori», non si è fatto nulla, fino a oggi.
Ora la questione è sapere se questo colossale esproprio di danaro
pubblico usato come sacchetti di sabbia negli argini che si
sfaldano, saprà fermare l´alluvione o se l´onda della finanza
tracimerà e allagherà anche la valle dell´economia reale, che ancora
resiste, fra i successi di Apple o Google e il disastro della General Motors. È in atto una «purga», di eccessi finanziari e di
miti ideologici, di classi dirigenti, nelle banche come nella
politica e sarà ancora molto dolorosa.
La sensazione è che la schizofrenia di un´America senza conducente
al volante dell´autobus, affidata al governatore della Fed, Bernanke,
non si ricomporrà fino a quando una nuova generazione di governanti
e di amministratori sarà alla guida della nazione, dunque fino al
prossimo anno. E questo spiega perché il repubblicano John McCain
che non può scrollarsi dalle spalle otto anni di governo del suo
partito, resti ben dietro a Barack Obama nei sondaggi. Come fu detto
in Italia, la scorsa primavera, agli elettori del centrosinistra
dopo i due anni di governo Prodi: possono gli eredi di coloro che
hanno creato questo il pasticcio, essere coloro che lo risolveranno?
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Fonte - La Repubblica |
MA
LA SPECULAZIONE E' POI COSI' NEGATIVA? 18 Luglio 2008 10:54 MILANO -
di Benedetto
Della Vedova ______________________________________________
La specula era la
vedetta della legione romana. Speculatore è perciò colui che
guarda lontano, che osserva e predice il futuro. Così
facendo si espone a rischi elevati ma anche a grandi
rendimenti. Lo speculatore è un imprenditore come altri:
valuta, rischia, poi guadagna o perde.
Nel mercato la speculazione è uno straordinario meccanismo
per segnalare e «prezzare» un fenomeno atteso, anticipandone
parte degli effetti. La speculazione contribuisce a
riportare situazioni strutturalmente distorte all’equilibro,
magari forzando gli attori economici e i politici ad
assumere decisioni necessarie. Pensiamo alla Fiat: sono
stati gli speculatori, con le loro scommesse al ribasso, a
forzare una ristrutturazione il cui ulteriore ritardo
avrebbe definitivamente azzerato l’azienda, con quel che ciò
avrebbe comportato.
I mercati dei future e degli swap, di cui gli speculatori
sono un anello fondamentale, facilitano la gestione del
rischio di prezzo, a vantaggio dei consumatori finali. Anche
per il petrolio.
Oggi i mercati finanziari ritengono che la domanda in Paesi
come la Cina crescerà, che l’offerta non sarà in grado di
tenerle testa e che il prezzo del petrolio sarà più alto di
quanto avevano previsto in precedenza: agli speculatori
conviene perciò comprare oggi per vendere domani. Una
speculazione al rialzo rappresenta il miglior stimolo per un
consumo più efficiente di energia, la ricerca di nuovi
approvvigionamenti, l’investimento in tecnologie alternative
all’oil.
Berlusconi ha detto: dobbiamo dire ai produttori che se i
prezzi non scenderanno noi sostituiremo il petrolio con il
nucleare. Questo è il nocciolo della questione. Grazie ai
fenomeni speculativi, in particolare all’anticipazione sui
prezzi attuali di fenomeni futuri, è possibile costringere i
governi ad assumere scelte di lungo periodo; da formica e
non da cicala. Per eterogonesi dei fini (gli effetti
inintenzionali) la stessa «speculazione» può indurre quelle
policy di governo che avranno solo in futuro il loro impatto
sulla domanda o sull’offerta di energia (l’efficienza
energetica o gli investimenti nel nucleare), ma possono far
calare oggi i prezzi.
La demonizzazione della speculazione non è una novità. Non è
nel mercato finanziario dei contratti future che vanno
ricercati, semmai esistono, gli untori della peste. La
ragione per cui il prezzo del petrolio continua a crescere è
una: l’offerta è rigida e non è in grado di tenere il passo
della domanda di oggi e domani, anch’essa poco sensibile
alle variazioni di prezzo. In più, viste le prospettive sui
prezzi, il produttori hanno probabilmente interesse a
rallentare l’estrazione (e i bassi tassi d’interesse
americani non invogliano certo a produrre e a investire i
ricavati, ma a tenersi il petrolio nei giacimenti).
Lo stesso per le materie prime alimentari: gli «speculatori»
amplificano i segnali di scarsità. L’offerta mondiale
avrebbe bisogno di uno «stimolo» e questo non può che essere
l’auspicata apertura dei mercati europeo ed americano,
togliendo i dazi e non mettendone di nuovi, unitamente
all’innovazione tecnologica. Nel nostro Paese, la critica
alla speculazione si è tramutata in una giudizio contro il
«mercato», ritenuto incapace o, peggio, colpevole. Le crisi
e i crac inducono salutari meccanismi di autocorrezione del
mercato, costosi soprattutto per gli speculatori che tirano
troppo la corda, e la politica ha il compito di aggiornare
la regolamentazione estendendola ai fenomeni nuovi.
Ma il primato della politica e del diritto sull’economia non
può tradursi in una pretesa di «redenzione» dei meccanismi
del mercato. È una pretesa sbagliata dal punto di vista
teorico, visto che la quantità di informazioni che il
mercato raccoglie e gestisce non può stare neppure nella
mente del più intelligente dei legislatori. Ed è una
ambizione vana dal punto di vista pratico, poiché nessuno ha
ancora scoperto un sistema più efficiente e giusto di
produzione e diffusione della ricchezza e del benessere.
Nessun fanatismo «mercatista» (merce per altro scarsissima
nella storia europea), ma, per parafrasare Churchill: il
mercato è il peggiore dei sistemi economici, a esclusione di
tutti gli altri.
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Fonte - Corriere della Sera |
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Barclays
in mano ai fondi sovrani 19 LUGLIO 2008 MILANO -
di Nicol Degli
Innocenti ______________________________________________
In mano ai fondi
sovrani di Medio Oriente e Asia: l'aumento di capitale da
4,5 miliardi di sterline di Barclays è andato in porto ieri,
ma meno di un quinto degli azionisti ha accettato di
acquistare azioni a un prezzo superiore a quello di mercato.
La maggior parte delle azioni è andata all'estero: il
maggiore azionista della terza banca britannica è diventato
il Qatar con una quota dell'8%, seguito da fondi sovrani e
investitori istituzionali di Singapore, Cina e Giappone.
Diverse banche britanniche hanno optato per un aumento di
capitale per alleviare l'impatto negativo della stretta
creditizia: il mese scorso Royal Bank of Scotland aveva
concluso il maggiore aumento della storia raccogliendo 12
miliardi di sterline con l'adesione del 95% degli azionisti.
Giovedì Bradford & Bingley, società di credito ipotecario in
difficoltà, ha avuto il via libera all'aumento da 400
milioni di sterline. Ieri sera è scaduto il termine per le
adesioni all'aumento di capitale da 4 miliardi di sterline
di Hbos, il cui esito verrà reso noto lunedì. Il titolo è
salito del 5,1% chiudendo a 282 pence a Londra, un rally
arrivato troppo tardi per convincere gli azionisti. Gli
analisti prevedono adesioni per un terzo del totale, mentre
Morgan Stanley e Dresdner, i due gruppi che hanno
sottoscritto l'aumento di capitale, potrebbero trovarsi a
detenere i due terzi delle azioni Hbos.
Gli azionisti di minoranza di Barclays hanno acquistato solo
267 milioni di nuove azioni, il 19% degli 1,6 miliardi di
azioni che Barclays aveva offerto a un prezzo di 282 pence.
All'epoca in cui l'offerta era stata annunciata il prezzo
era scontato del 9 per cento. Ieri il titolo della banca è
salito del 10% a 320 pence, ma nelle ultime settimane il
prezzo era sceso sotto il livello dell'offerta, riducendo
quindi l'incentivo ad acquistare per gli azionisti. Lo
scarso interesse dimostrato dagli azionisti era quindi del
tutto prevedibile e comprensibile, secondo gli analisti. I
restanti 1,14 miliardi di nuove azioni sono state acquistate
dagli investitori definiti "ancora" per indicare il loro
ruolo di stabilizzatori. «È stato un modo molto intelligente
e ben strutturato di raccogliere capitali, evitando i
problemi di molte emissioni riservate agli azionisti, – ha
commentato Mamoun Tazi, analista di MF Global a Londra. –
Barclays ha dato l'opportunità di acquistare agli azionisti
e ha poi riempito il vuoto con i nuovi investitori». Anche
alcuni hedge fund, tra i quali Glg Partners, Och-Ziff e
Lansdowne hanno partecipato all'aumento di capitale di
Barclays ieri ma le loro quote non sono state rese note.
Barclays era stata una delle prime banche a "corteggiare"
attivamente gli investitori stranieri, che ora possiedono
più del 40% del totale delle azioni. Temasek di Singapore e
la China Development Bank avevano già investito lo scorso
anno, quando la banca britannica aveva bisogno di fondi per
finanziare il suo tentato takeover della banca olandese Abn
Amro, poi fallito. Temasek ha ora aumentato la quota dal 2 a
circa il 3%, mentre la Cina mantiene una quota del 3,1 per
cento. La Qatar Investment Authority è diventato il maggiore
azionista con una quota del 6% che vale circa 1,7 miliardi
di sterline, mentre una società chiamata Challenger di
proprietà del primo ministro del Qatar ha una quota del 2% e
il gruppo giapponese Sumitomo Mitsui Banking ha il 2,1 per
cento.
Barclays è stata meno colpita di altre banche dalla crisi
legata al subprime e ha perso poco più di 2,5 miliardi di
sterline, o 5 miliardi di dollari di asset. La banca ha
dichiarato ieri che metà dei capitali raccolti verrà messa
in forziere, mentre metà verrà utilizzata per «conquistare
nuove opportunità di mercato».
I titoli del settore bancario sono crollati nell'ultimo anno
di crisi finanziaria e le banche puntano a rafforzare la
loro posizione mentre l'incertezza continua a dominare sui
mercati e i profitti derivanti da attività come la
concessione di crediti ipotecari e l'investment banking
vengono costantemente erosi.
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Fonte - La
Stampa |
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C'è il rischio
di recessione globale
20 Luglio 2008 18:46 LUGANO - di
Corriere del Ticino ________________________________________
Quella passata è stata una settimana frenetica. È
cominciata con la grande paura sulla sorte di Fannie Mae e Freddie
Mac e con il crack della banca californiana IndyMac; è proseguita
con l’annuncio di un piano di salvataggio delle due grandi agenzie
americane, che finanziano o garantiscono la metà dei mutui ipotecari
statunitensi, con la discesa in campo del presidente della Federal
Reserve, Ben Bernanke, e con le rassicurazioni dello stesso
presidente Bush; è continuata con una serie di operazioni tese a
sostenere i mercati finanziari, come l’introduzione di norme che
vietano la vendita allo scoperto di 19 titoli finanziari, e si è
conclusa con un rimbalzo dei mercati azionari, trainato dalla forte
discesa del prezzo del petrolio e dai risultati di Citigroup, la più
grande banca del mondo, che malgrado le perdite sono stati comunque
considerati migliori delle aspettative.
Il tratto comune di questi interventi è quello dell’intervento dello
Stato federale americano (e quindi dei contribuenti) a sostegno del
sistema finanziario e la trasformazione – come ha scritto il
professor Avinash Persaud – delle banche centrali (e non solo la
Federal Reserve, ma anche la Banca centrale europea e la Banca
Nazionale Svizzera) da prestatori di ultima istanza ad acquirenti di
ultima istanza di titoli legati al mercato immobiliare americano che
le banche non riescono più a vendere.
Tutti questi interventi, volti a ridare ossigeno al sistema
bancario, dimostrano che la cosiddetta crisi dei mutui subprime, che
è prossima a «festeggiare» il suo primo anno di vita, è lungi
dall’essere conclusa. Ci si può comunque interrogare se il piano per
salvare Fannie Mae e Freddie Mac e soprattutto i 5300 miliardi di
dollari di titoli in circolazione, grazie ai quali le due agenzie
finanziano il mercato immobiliare statunitense, possa avere un
effetto tonificante sui mercati simile a quello che ebbe alla fine
di marzo l’operazione che evitò la bancarotta di Bear & Stearns.
In
altri termini, ci si può domandare se siamo alla vigilia di un’altra
fase di bonaccia di questa crisi.
Quest’ipotesi non è da escludere. La risposta dipende però
dall’andamento di un’altra variabile: il prezzo del petrolio.
L’attuale rimbalzo delle borse appare dovuto in primo luogo alla
discesa del greggio, che è sceso al di sotto dei 130 dollari,
perdendo in due giorni circa 20 dollari il barile e confermando che
la sua esponenziale ascesa, che lo ha portato pochi giorni orsono a
stabilire il primato di 147 dollari, è il frutto della speculazione
finanziaria (in questi ultimi giorni non vi è stato infatti alcun
fatto nuovo che giustifichi questo calo).
Oggi non si può però escludere che anche questa bolla stia
scoppiando e che quindi il prezzo del petrolio possa ancora
scendere. Una simile eventualità darebbe maggior fiato al rimbalzo
delle borse, ma non cambierebbe in modo sostanziale i parametri
della crisi finanziaria ed economica, il cui epicentro è negli Stati
Uniti. Infatti, il continuo calo dei prezzi delle case non lascia
intravvedere alcun sollievo per il settore finanziario. Inoltre,
l’esaurimento degli effetti positivi sui bilanci delle famiglie
americane dei ristorni fiscali previsti nel piano di 110 miliardi di
dollari varato dal Congresso induce molti economisti a prevedere una
brusca frenata dei consumi, che verrebbe ad aggiungersi alla stretta
nella concessione dei crediti che stanno operando le banche
americane. Tutto ciò induce a ritenere che l’economia americana
possa cadere nella recessione cui finora è riuscita a sfuggire.
Pure in Europa si moltiplicano i dati che mostrano una brusca
frenata della crescita anche di quella che è stata finora l’economia
più resistente, ossia quella tedesca. Per questi motivi appaiono
giustificati i timori di una recessione globale dei paesi di vecchia
industrializzazione avanzata giovedì scorso dal capoeconomista del
Fondo Monetario internazionale.
 |
Fonte - Corriere
del Ticino |
Fate
qualcosa per
riequilibrare i mercati
17 Luglio 2008 09:30 NEW YORK - di Marco
Cecchini ________________________________________
Stoptrichet.com è un sito che da
qualche mese prende di mira il presidente della Bce, Jean Claude
Trichet, e le sue scelte di politica monetaria. Ad animarlo è un
gruppo di economisti francesi che giudicano gli ultimi rialzi dei
tassi sull’euro. Forse stoptrichet.com è solo "colore" internettiano,
forse esagera, ma gli ultimi dati dell’economia europea e
internazionale danno certamente da pensare.
L’industria tedesca, e
con essa quella della intera area euro, si sta fermando, altrettanto
fa quella americana; del Giappone è meglio non parlare. Continua, è
vero, il boom della Cina e di altri paesi emergenti, ma ad oggi le
previsioni di consenso dicono che l’economia mondiale crescerà del
2,9%, un punto meno del 2007. E siamo solo alla fine di luglio:
aggiornamenti al ribasso sono sempre possibili. Se non tutto il
pianeta, almeno la sua parte occidentale insomma, rischia una
recessione molto seria. Era proprio il caso di premere il pedale del
freno ci si chiede?
In un recente libro sulla Grande Depressione () lo storico Randall
Parker ricorda il ruolo che le idee della Scuola Austriaca e dei
suoi seguaci americani nei circoli politici, i così detti , ebbero
nel causarla. I liquidazionisti, che esercitavano una notevole
influenza sul presidente Hoover, ritenevano che gli operatori
economici dovessero essere indotti a modificare gli sconsiderati
modelli di consumo e di investimento che erano stati alla base del
boom degli anni Venti e del successivo crollo di Wall Street.
Solo
una profonda , anche a costo di massicci fallimenti, avrebbe purgato
dagli eccessi e consentito di ripartire. Dunque non era il caso di
cambiare indirizzi di politica monetaria. Una rigidità, questa, che
rese ancora più acuta la depressione.
Trichet non è Hoover e la Bce non assomiglia alla Federal Reserve
del 1929; semmai è una proiezione su più larga scala della
Bundesbank. La congiuntura europea e internazionale però camminano
sul filo del rasoio.
L’idea della Bce è che l’Europa sia in una situazione molto simile a
quella degli anni Settanta, quando a seguito del primo choc
petrolifero e delle politiche accomodanti che lo seguirono
l’economia del continente finì per impantanarsi nelle secche della
stagflazione con indici dei prezzi in forte ascesa mentre il Pil
crollava. A riprova Trichet cita segnali che sembrerebbero indicare
l’avvio di una spirale salariale e parla di rischio per i prezzi. Ma
i critici di questa linea che si ispira alla lezione degli anni
Settanta la pensano diversamente e osservano come le economie siano
oggi praticamente deindicizzzate e i mercati del lavoro più
flessibili.
Dunque, essendo di fronte a spinte inflazionistiche da costi (i
rincari del petrolio e delle materie prime) e non da domanda, è più
giusto preoccuparsi della possibile involuzione recessiva del
sistema, anche perché la politica monetaria produce effetti con un
ritardo di almeno uno due anni. Del resto in Europa la bolla
immobiliare per esempio si sta rapidamente sgonfiando, in
particolare in Spagna, Francia e Irlanda. La Bce in definitiva
pagherebbe ancora una volta il suo tributo alla linea ultrarigorista
e alla tradizione della Bundesbank.
Al di la dei torti e delle ragioni la disputa tra sostenitori e
critici di Trichet mette in evidenza come il rischio di errore nella
conduzione delle politiche anticrisi sia molto alto. Questo rischio
poi è amplificato da un altro fattore, vale a dire la mancanza di
coordinamento a livello internazionale. E’ paradossale infatti che
al carattere globale assunto dai meccanismi economici e finanziari
corrisponda oggi una concertazione crossborder delle politiche
addirittura minore che nel passato. La crisi dei subprime ha
riportato i banchieri centrali al centro della scena, come ai vecchi
tempi di Hans Tietmeyer e Alan Greenspan, ma essi sembrano muoversi
con pericolose logiche isolazioniste.
L’America che sul boom dei consumi finanziati a debito aveva
costruito in solitudine la crescita propria e del mondo, Europa
inclusa, è ora lasciata sola a gestire il deleveraging e una crisi
finanziaria potenzialmente catastrofica per tutti.
I signori delle
valute asiatiche, impedendo l’apprezzamento delle proprie monete,
frenano il riequilibrio delle partite correnti USA. La Bce, con la
sua politica dei tassi, affonda il dollaro, il quale a sua volta con
la sua debolezza alimenta il rialzo del greggio e delle materie
prime in una catena senza fine. Forse i tempi non sono maturi per
una nuova Bretton Woods, ma un accordo stile Plaza 1985 sembra
davvero improcrastinabile.
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Fonte - Borsa&Finanza |
Il potere economico
si sposta a est
20 Luglio 2008 17:14 MILANO - di Giuseppe
Turani ________________________________________
Non è tanto facile capire chi siano
oggi i "padroni del mondo", coloro cioè che detengono il potere
economico sul pianeta. Fino a qualche anno fa era abbastanza
accettato che il vero potere fosse nelle mani delle grandi banche
d´affari internazionali. E questo perché questi soggetti avevano le
mani in pasta ovunque e disponevano di moltissimi soldi. Quindi
erano in grado di finanziare operazioni colossali o magari anche di
gestirle in proprio. In pratica potevano procedere alla
riorganizzazione di interi settori industriali a livello planetario.
Poi è venuta la stagione dei fondi di "private equity", veri e
propri colossi finanziari, soprattutto perché, facendosi finanziare
dalle grandi banche, erano in grado di intervenire ovunque e, di
nuovo, di procedere a ridisegnare la mappa dell´economia di tutto il
mondo. Ma tutto questo, in un certo senso, è qualcosa che ormai sta
alle nostre spalle.
La crisi del credito (partita giusto un anno fa negli Stati Uniti
con la vicenda dei prestiti subprime) ha spazzato via come un vento
d´autunno il potere (ammesso che fosse reale) delle banche d´affari
e, di conseguenza, anche dei fondi di private equity.
Allora si è
detto che oggi il grande potere, il potere di ultima istanza, quello
definitivo, sta nelle banche centrali. Nella potente Federal Reserve
americana e nelle sue consorelle (prima fra tutte la Banca centrale
europea). Questi soggetti, del tutto indipendenti (sta a loro
ascoltare i politici oppure no) possono regolare il flusso del
denaro e il suo costo. E quindi è come se su un´automobile potessero
regolare il flusso della benzina e il suo costo. Chi può avere un
potere più grande?
In realtà, non è così. Oggi le banche centrali appaiono, più che
altro, incapaci di trovare una via d´uscita dalla crisi nella quale
siamo piombati e, qualunque cosa facciano, rischia di essere la cosa
sbagliata. Sono soggetti stressati, insomma, che in teoria
dispongono di un potere infinito, in realtà l´esercizio di questo
potere diventa sempre più problematico, difficile, pieno di
contraddizioni.
Ma allora il potere economico a livello planetario dove sta? Si è
dissolto? Non comanda più nessuno? In parte è così. Se una volta
l´America era in grado di decidere per tutti, oggi non può più farlo
e non ci sono altri soggetti in grado di esercitare una signoria
convincente sull´economia e sulla finanza. Ci sono tanti soggetti,
con interessi ovviamente contrastanti (all´Europa servirebbe un
dollaro forte, ma all´America serve debole, ad esempio) e nessuno è
così forte da piegare gli altri alla propria volontà.
Quasi ogni giorno, infine, si affacciano nuovi protagonisti.
Protagonisti che per ora si limitano a assumere, magari, la
proprietà di istituzioni finanziarie e di altre cose, ma che domani
potrebbero sviluppare una loro "politica economica" autonoma
(ovviamente diversa da quella dei soggetti già esistenti). Gli
ultimi arrivati sulla scena sono i fondi sovrani, i fondi, cioè, che
appartengono agli Stati, in genere emergenti e comunque molto ricchi
(petroliferi o asiatici).
Nella generale crisi del credito, che ha messo in ginocchia tutto il
sistema della finanza internazionale, i Fondi Sovrani sembrano
essere i soli a disporre ancora di ingenti mezzi finanziari e allora
intervengono qui e là, evitando crisi peggiori, ma anche
conquistando posizioni. E´ di questi giorni la notizia che tre fondi
sovrani (Qatar, Cina e Singapore) sono diventati gli azionisti di
riferimento di una delle maggiori banche inglesi finita nei guai (la
Barclay´s). Ma altri interventi analoghi c´erano stati nei mesi
scorsi e altri ne vedremo in futuro.
E´ presto per dire che questi sono i nuovi padroni del mondo, anche
perché non hanno un progetto articolato e definito. Per ora si
limitano a fare quelli che pensano siano dei buoni affari. Poi si
vedrà. Intanto, sotto questa nuvola di potere indefinito stanno
avvenendo mutamenti sostanziali nella struttura produttiva. E´
appena uscita la classifica dei 500 maggiori gruppi mondiali di
Fortune. Ebbene, la General Motors, che per anni e anni, era stata
al primo posto, adesso (bilancio 2007) è scivolata al nono.
Al primo posto troviamo Wal-Mart, una catena americana di
supermercati, che poi è seguita da ben tre compagnie petrolifere.
La
prima società manifatturiera vera e propria la incontriamo solo al
quinto posto, ma non è una ditta americana (come sarebbe stato
logico fino a qualche anno fa): è la giapponese Toyota, ormai il più
grande produttore del mondo di automobili (la General Motors,
intanto, sta lottando per non chiudere i battenti). Tutto va verso
Est?
Sono segnali, questi, ancora troppo deboli per dire che il potere si
sta spostando definitivamente verso Oriente. Ma una cosa è invece
certa. Alcune roccaforti di quel mondo (fino a ieri egemone assoluto
sul pianeta) stanno cadendo: la grande industria automobilistica, le
banche d´affari, la parte più sofisticata (e avventurosa) della
finanza moderna. E anche l´hi-tech non sta benissimo.
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Fonte - La Repubblica |
"In America
il peggio é passato"
22 Luglio 2008 10:03 ROMA - di Eugenio
Occorsio ________________________________________
«Quello di metà luglio è stata il terzo "ribaltone" del
mercato di quest’anno dopo quelli di metà gennaio e metà marzo. Ma
sarà l’ultimo. La sensazione di crisi comincia a dissolversi». Parla
con grande sicurezza Bob Doll, vicepresidente e capo economista
della BlackRock, la più grande società di gestione del risparmio del
mondo con 1.428 miliardi di dollari amministrati al 30 giugno 2008.
«Si cominciano a vedere segnali di recupero, e si sono aperte sul
mercato opportunità di acquisto molto interessanti. L’indice
Standard & Poor’s, che adesso è sui minimi intorno a quota 1250,
risalirà fino a 1450 entro fine anno».
Eppure mentre parliamo le agenzie battono le ennesime notizie
inquietanti: la Merrill Lynch ha riportato una perdita di 4,9
miliardi di dollari nel secondo trimestre, peggio delle aspettative,
che portano a 19,2 miliardi il conto per la crisi dei subprime
pagato dalla banca d’investimento. La stessa Merrill Lynch tra
l’altro possiede il 49% della BlackRock, alla quale ha ceduto due
anni fa la gestione dei patrimoni privati. BlackRock peraltro
continua a macinare utili: nel secondo trimestre li ha aumentati del
23% sullo stesso periodo del 2007 arrivando a 274 milioni. Si dice
che per salvarsi ora la Merrill Lynch potrebbe vendere proprio
questo gioiello di famiglia, dopo essersi liberata delle
partecipazioni in Bloomberg (il 20% per 4,4 miliardi) e in Financial
Data Services di cui ha ceduto il controllo per 3,5 miliardi. Su
questo Doll non commenta, ma sulla situazione generale invece sì, e
rinnova il suo «prudente ottimismo», come lo definisce lui stesso.
Cos’è che la induce a questa speranza? Eppure come abbiamo visto le
tensioni non mancano... «Certo che non mancano, e altre ne verranno.
La recessione immobiliare è destinata a perdurare a lungo. Ma ci
sono segnali favorevoli. Il peggio della crisi creditizia è passato.
E poi l’inflazione non dovrebbe impennarsi, gli Stati Uniti ce la
faranno ad evitare la recessione anche se per il rotto della cuffia
(«narrowly»), gli utili delle compagnie non finanziarie andranno
bene perché il settore manifatturiero resta solido, perfino
il
prezzo del petrolio scenderà».
Quest’ultima ci pare la previsione più azzardata. Qual è il motivo?
«Intendiamoci: il greggio si manterrà sempre intorno ai 90-100
dollari, ma non arriverà a 200 come qualcuno dice, e neanche a 150.
Finirà l’anno su valori inferiori a quelli con cui l’aveva
cominciato, appunto intorno ai 100 dollari».
Inevitabile chiederle: quanta parte del prezzo è dovuta alla
speculazione finanziaria? «Sicuramente esiste, però l’elemento
preponderante è il mercato. Nel mondo c’è una richiesta forsennata
di petrolio soprattutto da parte delle potenze asiatiche che non
accenna a diminuire, e ormai i paesi produttori faticano a tener
testa a questa domanda visto che diversi pozzi si stanno esaurendo.
Questo basta a giustificare prezzi alti.
L’elemento nuovo è il
rallentamento della domanda da parte degli Stati Uniti, che
funzionerà da calmiere delle quotazioni».
Se c’è questo rallentamento significa che gli Usa sono in
recessione? «No, di recessione non è il caso di parlare. C’è una
marcata debolezza, è vero, ma l’economia americana ha in sé una
forza sufficiente ad evitarle la crescita negativa del pil. A fine
anno la crescita sarà per l’intero 2008 del 2% o poco meno. Va
peggio l’Europa che raggiungerà sì e no la metà di quella crescita
nella sua media. L’Asia invece continua la sua galoppata».
E l’Italia in questo quadro? «Non ho elementi sufficienti per
formulare una previsione specifica. Posso solo dirle che c’è qualche
fattore positivo di non poco conto, come il fatto che siete riusciti
ad evitare la bolla immobiliare modello Usa e le conseguenze dello
"scoppio". Altri, come la Spagna, non ci sono riusciti».
Torniamo agli Stati Uniti. Diceva che l’inflazione non è una
minaccia. Però, come in Europa, è in crescita anche in America: ha
raggiunto il 4% e perfino Bernanke si è detto preoccupato...
«Diciamo che il rallentamento dell’attività economica ha funzioni antiinflattive. E poi il sistema ha risorse sufficienti e le aziende
hanno conseguito grazie alle tecnologie aumenti di produttività
tali, perché l’attuale trend si ridimensioni spontaneamente una
volta attenuata la minaccia del petrolio. Il che come abbiamo visto
dovrebbe avvenire nella seconda metà dell’anno.
Il tasso core, cioè
depurato dei volatili prezzi alimentari ed energetici, si mantiene
sotto controllo. Comunque, bene ha fatto Bernanke a tenere desto
l’allarme: proprio per questo la discesa dei tassi è finita, e anzi
potrebbe cominciare di qui a qualche mese un cammino opposto.
Mi
faccia aggiungere una cosa sulla Fed: nell’attuale crisi finanziaria
si sta comportando benissimo, operazioni come la discount window e
tutte le altre agevolazioni al mercato finanziario danno prova di
una rimarchevole creatività e stanno funzionando. Anche il
coordinamento con le manovre fiscali dell’amministrazione sta dando
qualche risultato».
Lei ha preparato una lista delle dieci priorità di cui tener conto.
Una di queste dice: le aziende su cui investire sono quelle a
maggior capitalizzazione. Allora non è che bisogna tornare sul
mercato con cieca fiducia... «Parlavo di ottimismo sì, ma
ragionevole. Bisogna scegliere fra le aziende a più larga
capitalizzazione in settori quali l’hitech, la cura della salute o
la stessa energia, che diano per di più certezze di crescita sul
lungo termine e siano il più possibile multinazionali, cioè in grado
di cogliere con l’export i benefici del dollaro debole. Vanno
evitati i settori troppo maturi e le iniziative speculative su
piccoli gruppi malgrado le promesse di rapido sviluppo».
E al di fuori dell’America? «Secondo noi ci sono ancora buone
opportunità sul mercato di Tokyo. L’economia giapponese ha
rallentato ma rimane più forte di quella americana.
A questo punto
si potrebbero cercare occasioni anche sui mercati cinese e indiano,
ora che si sono strutturati efficacemente con sufficienti criteri di
trasparenza. E’ vero che le esportazioni verso l’America sono
diminuite ma restano due paesi molto forti».
Per finire, lei inserisce fra i "comandamenti" anche un’esplicita
previsione per la Casa Bianca... «Proprio la difficile situazione
economica, unita alla guerra impopolare che stiamo combattendo e
soprattutto alla capacità organizzativa e carismatica di Barack
Obama faranno la differenza. Vinceranno i democratici».
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Fonte - La Repubblica |
"No il tunnel
é ancora lungo"
22 Luglio 2008 10:20 MILANO - di G. Mar. ________________________________________
Un sistema finanziario che ha
esagerato al punto da dover ripensare se stesso. Giovanni Tamburi,
fondatore e presidente della Tip (Tamburi Investment Partners) non
prevede «la fine», ma un «sano cambiamento epocale».
Un mondo fatto
meno di carta e più di economia reale: «D’ora in avanti vincerà chi
ha pochissimi debiti e soldi veri».
Ma per cominciare a vedere la
luce in fondo al tunnel non basta un’estate: servono almeno altri 18
mesi. In cui tutto può succedere, «anche un nuovo pesante declino,
nell’ordine del 10-20 per cento delle Borse».
La crisi dei subprime è scoppiata un anno fa. In aprile, mentre i
mercati recuperavano un 10%, si diceva il peggio è passato. Pie
illusioni, pare. O no? «Facciamo due conti: le stime sulle
svalutazioni nei bilanci delle banche necessarie per archiviare la
crisi dei mutui subprime vanno da 500 miliardi a 1.500. Finora ne
sono emersi 400: se ha ragione il Fondo monetario internazionale che
si colloca salomonicamente in mezzo con 900 miliardi vuol dire che
siamo solo a metà strada. E quello dei subprime non è più un club di
pecore nere isolate».
Ci sono altri strumenti a rischio secondo lei? «Tutta l’area delle
cartolarizzazioni legate a creditori un po’ più affidabili dei
subprime e quella adiacente delle obbligazioni a bassissimo rating
in questo momento sono assolutamente paralizzate. Migliaia di titoli
che hanno fatto volare molti bilanci oggi sono clinicamente morti.
Le banche dovranno ridimensionarsi ancora molto e ripatrimonializzarsi».
Allora l’ultima grande crisi, quella dei bilanci truccati cominciata
con Enron e finita con la legge Sarbanes-Oxley, era ben meno grave
di questa? «Quelle furono truffe, pesanti, ma riconducibili a
comportamenti devianti. E sanzionabili.
Qui siamo di fronte a un
sistema che non funziona più. Perché i soldi veri sono fermi,
nessuno si fida più, le banche centrali sono costrette a salvare chi
scoppia e a immettere liquidità "fasulla" nel mercato».
Sta dicendo che il tasso d’inflazione è destinato a salire ancora?
«Potrebbe arrivare anche all’8-10%. Perché il petrolio e le altre
materie prime non torneranno indietro. E perché, prima o poi, il
denaro che oggi serve a tener vivi i mercati smetterà di tappare i
buchi e verrà a galla..».
Un’apocalisse finanziaria. Come ne usciremo? «Ma no, non sta finendo
il mondo. Sta solo cambiando. Vedremo, probabilmente, il contrario
di quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni: banche che
vendono attivi invece di andare a caccia di prede per diventare
sempre più grandi e Stati che invece di privatizzare si mettono le
mani in tasca per salvare chi traballa troppo».
Un consiglio per chi deve investire? «Cash is king, liquidità
sovrana. Con i Bot e certi depositi si porta a casa il 4% e le
banche, come detto, hanno bisogno di soldi veri come l’aria. Non ci
sono dubbi, né scelte migliori da fare».
Piazza Affari e le altre vanno lasciate deserte? «No. La verità è
che le aziende solide e poco indebitate sono destinate a trarre
vantaggio da questo gigantesco esame di coscienza come non mai.
Perché le banche si scongeleranno per prestare soldi solo a chi ha
degli indici finanziari a prova di bomba. Acquistare oggi questo
genere di azienda è più che un affare. Con un’avvertenza importante
sull’etichetta: dopo aver ben scelto bisogna azzerare le aspettative
e tenere i nervi saldi per almeno tre anni. Immaginare di
guadagnarci prima sarebbe da ingenui».
 |
Fonte - Corriere della Sera |
IL VERO COSTO DEL GREGGIO? 80
DOLLARI AL BARILE (SENZA SPECULAZIONE) 23 Luglio 2008 16:46 NEW YORK -
di
Il Sole 24
Ore ______________________________________________
Questo il prezzo
dell'oro nero se non ci fosse la speculazione a spingere le
quotazioni. Un 38% in meno rispetto all'attuale prezzo che
ridarebbe fiato alle economie dei paesi consumatori.
Il prezzo del greggio sarebbe di circa 80 dollari al barile
se non ci fosse la speculazione a spingere le quotazioni
dell'oro nero. Lo ha indicato Jesus Reyes Heroles,
amministratore delegato di Petroleos Mexicanos, confermando
quanto calcolato da alcuni analisti. Una quotazione di 80
dollari al barile risulterebbe del 38 per cento inferiore al
prezzo di chiusura del greggio martedì a New York e
ridarebbe fiato alle economie dei paesi consumatori, fra i
quali gli Stati Uniti.
Il Congresso Usa, da parte sua, studierà questa settimana
delle proposte volte proprio a mettere al bando alcuni
aspetti delle contrattazioni dei derivati petroliferi, che
secondo gli Usa hanno distorto la domanda e contribuito al
balzo del 69 percento segnato dal greggio nell'ultimo anno.
I legislatori Usa stanno considerando fra le altre cose la
possibilità di limitare il numero di contratti che un
investitore può detenere e potrebbero obbligare gli
operatori ad un'informativa più stringente, per ridurre la
domanda speculativa rispetto alla domanda fisica di greggio.
«Gli americani vengono presi per la gola non solo dall'Opec
ma anche dagli speculatori proprio qui nel nostro paese», ha
detto il senatore Ted Stevens, un repubblicano dell'Alaska,
riferendosi all'Organizzazione dei paesi esportatori di
petrolio. «Storicamente, non è stato un grande problema.
Solo di recente la speculazione ha raggiunto livelli
insostenibili».
I contratti petroliferi in mano agli investitori sul mercato
di New York sono quasi raddoppiati ad aprile dall'anno
prima, secondo la Commodity Futures Trading Commission, in
una fase in cui operatori quali Goldman Sachs Group Inc.
hanno aumentato le scommesse sulle variazioni di prezzo,
esacerbando i rincari del greggio, di cui non intendono poi
prendere fisicamente possesso, dicono i critici, e tutto ciò
a fini esclusivamente di lucro e non di copertura del
rischio.
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MUTUI: ARRICCHITO CON CRISI,
PAULSON STUDIA NUOVO HEDGE FUND 23 Luglio 2008 17:48 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 23
LUG - Si è arricchito scommettendo sulla crisi dei mutui
subprime, che lo scorso anno gli ha permesso di guadagnare
3,7 miliardi di dollari, e ora va 'in soccorso' delle
istituzioni finanziarie: il miliardario John Paulson,
secondo indiscrezioni, prevede di lanciare in dicembre un
hedge fund per fornire capitali alle banche colpite dalle
svalutazioni legate ai mutui subprime. Il fondo dovrebbe
aprire i battenti il prossimo dicembre. Lo scorso anno il
Credit Opportunities Fund di Paulson ha a guadagnato
miliardi scommettendo sulla crescita dei default nei
prestiti ipotecari. La crisi è costata alle banche 467
miliardi di dollari di svalutazioni e ingenti perdite che
hanno portato al collasso di Bear Stearns. Una scommessa,
quella di Paulson, che si è rivelata vincente e che gli ha
consentito di conquistare il titolo di manager di hedge fund
più pagato nel 2007.
 |
Fonte - ANSA |
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MUTUI: GROSS, SVALUTAZIONI FINO
A $1.000 MILIARDI 24 Luglio 2008 20:23 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
La crisi innescata dal
collasso del credito immobiliare Usa ad alto rischio
dovrebbe portare a circa un trilione (mille miliardi) di
dollari di svalutazioni a carico delle società finanziarie,
con la conseguenza di irrigidire il credito bancario ed
alimentare la cessione di asset.
La previsione è stata fatta oggi da Bill Gross, gestore di
PIMCO, il colosso mondiale dei fondi, che ha esposto le sue
posizioni al riguardo sul sito Web del gruppo. Gross ha
affermato che un totale di cinque trilioni di prestiti
immobiliari, cioé quasi la metà del totale, appartengono ad
asset da considerare a rischio, come il subprime o come le
emissioni cosiddette Alt-A. Oltre a questo - ha continuato -
circa 25 milioni di abitazioni statunitensi rischiano di
avere un valore negativo, il che significa ulteriori
pignoramenti ed un più accentuato calo dei prezzi. Il valore
negativo si determina quando le case valgono meno rispetto
al prestito contratto.
Gross ha aggiunto che qualora effettivamente si arrivi ad un
trilione di dollari di svalutazioni le società finanziarie
saranno costrette, ove non riescano a raccogliere la
liquidità necessaria, appunto a cedere asset in portafoglio.
Oltre a questo, si determinerebbe una contrazione del
credito con effetti sull' economia reale. Le previsioni di
Gross implicano quindi che le svalutazioni finora effettuate
corrispondono a meno della metà del totale richiesto al
sistema.
Le stime del gestore di PIMCO coincidono in particolare con
quelle dell' ex presidente della Banca Mondiale, James
Wolfensohn e superano quelle del Fondo Monetario
Internazionale che aveva stimato un massimo di 945 milioni
di 'write-down'. Gross è un personaggio molto seguito dal
mondo finanziario statunitense, in quanto fu fra l' altro
uno dei pochissimi a suo tempo a prevedere il collasso
legato all' esplosione della bolla immobiliare. Lo stesso
Gross aveva in seguito confessato che la prospettiva di un
imminente scoppio della crisi che è ufficialmente cominciata
il 9 agosto dello scorso anno gli era improvvisamente
diventata chiara mentre era impegnato in una seduta di Yoga.
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Fonte - ANSA |
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CRISI
BENZINA: L'AMERICA LASCIA L'AUTO IN GARAGE 28 Luglio 2008 14:15 NEW YORK -
di
ANSA ______________________________________________
Un rapporto dell'US
Transportation Department, cioe' del ministero dei Trasporti
degli Stati Uniti, mostra che negli ultimi 7 mesi gli
americani hanno ridotto l'uso dell'auto, guidando 40
miliardi di miglia in meno rispetto allo stesso periodo
dell'anno scorso. Per via dell'alto prezzo della benzina,
l'automobilista medio in maggio ha guidato il 3.7% di miglia
in meno rispetto al maggio del 2007, il che corrisponde a un
calo piu' che doppio rispetto al -1.8% che si era registrato
in aprile.
Secondo il ministro dei Trasporti Peters gli americani hanno
guidato 9.6 miliardi di miglia per veicolo in meno nel
maggio 2008 rispetto al maggio 2007, stando ai dati raccolti
dalla Federal Highway Administration. E' il piu' forte calo
per il mese di maggio in assoluto e il terzo maggior calo
mensile nei 66 anni nei quali questi dati sono stati
raccolti. Da notare che tre dei piu' forti cali in assoluto
(tutti superiori ai 9 miliardi di miglia guidate in meno) si
sono verificati dal dicembre 2007 in poi.
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Fonte - ANSA |
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QUALITA'
CREDITO: IN EUROPA AI MINIMI DI 5
ANNI 28 Luglio 2008 16:15 NEW YORK -
di
Reuters ______________________________________________
Lo scrive l'agenzia di
rating Moody's che riconosce tra le cause un'inflazione
crescente e un rallentamento della crescita. Promosse 12
societa', declassate 41. La BCE potrebbe...
La qualità del credito in Europa occidentale si è
deteriorata nel secondo trimestre del 2008 in modo tale da
toccare il minimo di cinque anni, risentendo di
un'inflazione crescente e del rallentamento della crescita.
Lo scrive Moody's in un report che analizza lo stato attuale
dell'economia europea.
L'agenzia di rating ha declassato 41 società e ne ha
promosse 12 in Europa occidentale, la peggiore valutazione
dal primo trimestre del 2003. L'Europa dell'Est sarebbe
invece più in forma dal punto di vista della qualità del
credito, con 5 società declassate e tre promosse nel secondo
trimestre dell'anno, dice Moody's. Tuttavia è la prima volta
dal primo trimestre dell'anno scorso che i rating negativi
superano quelli positivi.
L'economia europea lotta contro inflazione crescente e
rallentamento della crescita: due fenomeni che non mostrano
alcun segno di indebolimento, scrive Moody's. "Le condizioni
del credito stanno peggiorando, le attività rallentano, gli
utili si indeboliscono e la politica monetaria restrittiva
aumenta il rischio di inadempienza delle società" commenta
nel report l'economista Christine Lu, secondo cui "è
improbabile che la fase negativa dell'attuale ciclo sia già
finita". E' anche improbabile, per Moody's, che prosegua la
ripresa nelle emissioni corporate vista nel secondo
trimestre in Europa occidentale, davanti alla crescente
preferenza per i finanziamenti tramite emissioni azionarie
da parte delle società che vogliono migliorare i ratio
patrimoniali.
Resta comunque un barlume di speranza: le statistiche sulle
prospettive di rating suggeriscono che tra 12-18 mesi la
qualità del credito dovrebbe stabilizzarsi. Moody's si
aspetta un'ulteriore erosione della qualità del credito
nella seconda metà del 2008. Infatti, delle 52 società messe
sotto osservazione nella prima metà del 2008 soltanto il 13%
era in attesa di una promozione, contro il 27% della seconda
metà dell'anno scorso.
L'agenzia avverte che un sentimento di sfiducia
nell'economia e maggiori costi per interessi risulterebbero
in minori consumi e redditi più bassi nella zona euro.
Fattori che potrebbero costringere la Banca Centrale Europea
a un allentamento verso fine anno. Tra i diversi settori,
l'auto e la componentistica auto hanno secondo Moody's le
maggiori possibilità di sovraperformare, mentre le vendite
al dettaglio potrebbero essere il comparto più sotto
pressione nel contesto di un calo dei consumi che peserà
sulle attese di utile.
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Fonte - Reuters |
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Greggio,
vendite hedge dietro caduta, fondi comprano oro 28 Luglio 2008 18:25 NEW YORK -
di
Reuters ______________________________________________
di Jeremy Gaunt LONDRA (Reuters) - La caduta dei prezzi del
petrolio nelle ultime settimane ha visto gli hedge fund
giocare un ruolo di primo piano. I fondi, infatti, hanno
ritenuto che il greggio fosse troppo caro, soprattutto se
paragonato all'oro. Se è vero che gran parte della flessione
è stata determinata dalla previsione che la domanda calerà
come conseguenza del rallentamento delle economie trainanti,
gli esperti di hedge fund sottolineano che ci sono anche
ragioni non fondamentali alla radice del movimento. La corsa
dell'oro nero, con il greggio leggero Usa che ha guadagnato
il 53% da inizio anno, non si è accompagnata a un balzo
paragonabile dell'oro, che ha limitato la crescita al 18%.
"C'è un rapporto di lungo termine fra oro e petrolio",
sottolinea Will Bartleet, gestore del fondo Absolute Returns
Service di Hsbc. Un aspetto della correlazione è che il
prezzo del barile di greggio viene considerato in equilibrio
con il dollaro quando il rapporto fra i due è di dieci
barili per ogni oncia. A fine 2007, il rapporto fra greggio
e oro si attestava a 8,7, mentre a inizio luglio era sceso a
5,9. Gli hedge fund hanno notato questo squilibrio e hanno
deciso che era giunto il momento di liquidare le posizioni
long che avevano sul petrolio da diverso tempo. HEDGE VANNO
SHORT SUL GREGGIO Secondo la commissione che analizza il
trading di futures sulle materie prime, nella settimana
borsistica che si è chiusa il 22 luglio gli hedge hanno
adottato posizioni short sul greggio per la prima volta dal
febbraio 2007. Il trend è evidenziato anche da un'analisi di
Société Générale da cui emerge che gli hedge hanno
abbandonato le posizioni di compratori sul petrolio alla
fine di giugno e stanno adottando posizioni neutrali o di
venditori netti. Dalla stessa analisi di SG si nota che gli
hedge stanno comprando a piene mani oro, tornando ai livelli
di maggio e non lontani dai picchi che si sono visti nei
dodici mesi chiusi con il rally di marzo. Dal massimo di 147
dollari toccato l'11 luglio, il greggio è arretrato del 17%,
mentre l'oro è sceso del 6,5% circa. Il rapporto fra le due
commodities si è riportato a 7,5. A parte questa tematica
speculativa, gli esperti spiegano la discesa dell'oro nero
soprattutto con ragioni fondamentali. In una nota, Investec
Asset Management scrive che "la solidità del settore e della
domanda di petrolio è in dubbio per via dei maggiori prezzi
di produzione e dell'indebolimento della crescita economica
a livello mondiale". Altro fattore che motiva la flessione
dei prezzi è l'andamento del dollaro, che tradizionalmente
ha una relazione inversa con il greggio. Il rafforzamento
del biglietto verde, dunque, si è tradotto in un
indebolimento del petrolio. Resta il fatto che, tornando
alle dinamiche guardate dagli hedge, per arrivare al
rapporto di equilibrio di 10 a 1 fra greggio e oro, il primo
dovrebbe scendere a 92 dollari il barile, rispetto agli
attuali 124 dollari circa, oppure l'oro dovrebbe balzare a
1.230 dollari l'oncia, contro gli attuali 928 dollari circa.
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Fonte -
Reuters |
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FMI:
mercati finanziari ancora a
rischio
29 luglio 2008 MILANO
- di SOLE 24 ORE ________________________________________
I mercati restano fragili e i rischi
al ribasso restano elevati: l'ennesimo allarme viene lanciato dal
Fondo monetario internazionale, che esprime i suoi timori anche sul
mercato del credito. La crisi costera' $ 945 miliardi.
I mercati finanziari restano fragili e i rischi al ribasso restano
elevati: l'ennesimo allarme viene lanciato dal Fondo monetario
internazionale, che esprime i suoi timori anche sul mercato del
credito. Gli esperti di Washigton sono preoccupati dal rallentamento
della crescita, che moltiplica i rischi del credito, e dalla
situazione mutui , con effetti devastanti sull'economia reale. La
crisi finanziaria costerà 945 miliardi di dollari.
A scattare la fotografia della situazione globale di economia e
finanza è stato Jaime Caruana, direttore della Divisione monetaria e
mercati di capitale dell'Fmi, presentnado un aggiornamento del
"Global Financial Stability Report" dello scorso aprile. I rischi
"di cui avevamo parlato nel rapporto di aprile" ha detto Caruana "si
sono materializzati in una continua spirale negativa tra mercati
finanziari ed economia reale".
I MERCATI RESTANO A RISCHIO
I mercati finanziari, si legge nel rapporto aggiornato, "non sono
ritornati ai livelli elevati di rischio sistemico osservati in
primavera, ma c'è crescente timore sull'interazione tra i mercati
finanziari e le prospettive macroeconomiche" e questo "malgrado le
misure radicali decise dalle autorità e pur a seguito di un
aggiustamento considerevole dei mercati finanziari negli ultimi due
mesi". La spirale negativa che si è creata tra mercati finanziari ed
economia reale, ha spiegato Caruana "si alimenta da un lato dal
rallentamento congiunturale che allarga il rischio di credito e
dall'altro dalla rivalutazione in atto sui mercati finanziari che
rende sempre più limitata la capacità di finanziamento del sistema
finanziario, contribuendo così a rendere sempre più problematiche le
prospettive per l'economia reale".
Il nodo centrale della crisi, ha sottolineato Caruana, "resta il
settore immobiliare negli Usa. E' molto importante riuscire a
stabilizzarlo, ma al momento è difficile vedere una svolta, anche se
ci sono segnali, in alcuni indicatori, in questo senso".
MATTONE IN CRISI
Il mercato degli immobili residenziali, tuttavia, "si sta
indebolendo anche in altre aree con segnali di un calo dei prezzi in
alcuni Paesi che, per questo, potranno in futuro subire pressioni a
livello economico e di mercati finanziari". Le banche, ha detto Caruana, "sono riuscite a trovare una grande massa di nuovo capitale
e questo è degno di nota, ma potrebbe esserne necessario di nuovo in
futuro e le condizioni saranno più difficili", in quanto "la
politica monetaria non è in grado di contribuire alla stabilità
finanziaria a causa delle pressioni inflative che stanno emergendo
nelle economie mature". Visti i livelli attuali dei titoli Abs e
l'andamento dei tassi di insolvenza, l'Fmi "non ritiene di dover
modificare la stima di perdite totali mark-to-market fatta in
aprile" che era di 945 miliardi di dollari circa.
IL RISCHIO DELLA SPIRALE FINANZA-ECONOMIA REALE
Il rischio principale per la congiuntura mondiale, ha ribadito
Caruana presentando il rapporto, "è questa spirale tra mercati
finanziari ed economia" che si farà sentire sempre di più anche in
Europa, finora rimasta piuttosto ai margini della crisi. "Il centro
della crisi" ha commentato Peter Dattels, capo della divisione
analisi e controllo dei mercati globali del Fondo "è stato negli
Usa, nel settore immobiliare, ed è normale che si facesse sentire
prima di tutto tra le istituzioni finanziarie di oltreoceano. Le
banche europee hanno diffuso i dati sui bilanci 2007 che hanno
fornito un quadro piuttosto chiaro, ma sono meno rapide di quelle
americane sul 2008 sul quale ci sono solo informazioni non
complete".
La crisi "sta investendo categorie di asset e regioni sempre più
ampie e si farà sentire sempre di più anche altrove, compresa
l'Europa, ne sono sicuro". Infatti, scrive il Fondo nel rapporto,
"l'esposizione sul subprime Usa è ora manifesta. Quello che
preoccupa è che il forte aumento dei pignoramenti e delle insolvenze
immobiliari negli Usa, assieme al continuo calo di prezzo delle
case, porti a un deterioramento generalizzato della qualità del
credito". Sulle banche, il Fondo dice che "malgrado svalutazioni che
superano i 400 miliardi di dollari nel totale, gli istituti di
crediti negli Usa, in Europa e Asia sono riusciti a reperire il
capitale necessario". Le perdite finora rese note superano,
tuttavia, il capitale raccolto e le banche "si trovano in difficoltà
a mantenere la redditività a causa del peggioramento della qualità
del credito, il calo delle commissioni, gli alti costi del
finanziamento e l'esposizione assicurativa nell'immobiliare o verso
'monoline'". I passi intrapresi finora dalle banche centrali "per
allargare la durata e la gamma di collaterale e di titoli counterparty sono riusciti a contenere il rischio sistemico, ma "il
rischio di credito resta elevato e diverse istituzioni finanziarie
saranno costrette anche in futuro a cercare nuovo capitale".
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Fonte - Sole24Ore |
1929, RELOADED
30 Luglio 2008 08:21 VIGNANELLO (VT) - di Maurizio Blondet ________________________________________
Le file di ansiosi risparmiatori
davanti alle banche per ritirare i depositi: si ripete in USA ciò
che avvenne nel ‘29. Solo, la vecchia foto in bianco e nero ci è
riproposta a colori. Wall Street che crolla, come allora. Le
«solide» istituzioni finanziarie che devono essere messe sotto la
tenda a ossigeno.
Il crack speculativo con la svalorizzazione degli «attivi» di carta
(fase uno) che si trasmette alle banche commerciali (fase due) e si
ripercuote nell’economia reale, con chiusure di aziende,
licenziamenti in massa, insolvenze a catena nel ceto medio, caduta
verticale dei consumi (fase tre).
In Gran Bretagna, la polizia ha proposto seriamente di istituire di
nuovo il «servizio nazionale», come si fece nel 1945, per occupare i
giovani senza lavoro e senza titolo di studio - i più proni alla
delinquenza - in opere sociali e lavori pubblici.
E’ la fase quattro: anche Roosevelt, negli anni ‘30, irregimentò
milioni di disoccupati, per occuparli in opere pubbliche.
La fase cinque può essere quella del razionamento, delle economie
pianificate per la necessità imposta dalla penuria, delle tessere
alimentari: a ciascuno tanti grammi di grassi, tanti di proteine,
tanti di farina.
Insomma tutto si ripete. Con qualche aggravante: i prezzi di
petrolio e alimentary, che dopo il ‘29 erano al minimo (deflazione),
ora continuano a salire nonostante la stagnazione (stagflation). E
peggio che nel ‘29, il centro dell’impero mondiale è senza testa,
con un presidente screditato e in uscita, senza iniziativa e senza
autorità; e il suo successore non entrerà in carica che fra molti,
lunghissimi mesi.
Le stesse avidità stolte e insaziabili, lo stesso capitalismo
svincolato da ogni regola, ha prodotto la stessa rovina. Ovviamente,
anche le stesse menzogne.
I media ripetono ai risparmiatori USA davanti alle banche: niente
paura, i vostri depositi sono garantiti dallo Stato. Infatti esiste
il Federal Deposit Insurance Co (FDIC), che in caso di insolvenza
paga depositi fino a 100 mila dollari. Solo che il FDIC dispone, per
queste garanzie, di 52.8 miliardi di dollari. E ne ha già spesi 8
solo per salvare i depositi di una sola banca, la IndyMac; e le
banche che diventeranno insolventi nei prossimi mesi saranno -
secondo le stime - tra le 150 e le 300;
persino il FDIC, che ha
l’obbligo dell’ottimismo ufficiale, calcola che saranno una
novantina. I suoi fondi bastano per sei o sette banche.
Il Telegraph consiglia, con lugubre euforia, «50 modi per
approfittare dei tristi tempi economici»: le Mercedes vengono con 2
mila dollari di sconto! La British Airways fa la svendita estiva di
voli a lungo raggio, e vi consente anche lo sconto sull’albergo e
l’auto a noleggio! Ci sono banche e ditte di costruzioni, alla
ricerca disperata di liquidità, che emettono obbligazioni al 7,5%, e
che sui conti correnti danno il 6,45%! Se vi fidate, se avete i
nervi d’acciaio, perchè quegli interessi parlano di insolvenza
imminente dei debitori (1). Ma anche questa lugubre euforia è una
replica del 1929.
Ma il particolare è comunque istruttivo: dice che nonostante le
«iniezioni di liquidità» fatte dalle Banche Centrali, nonostante la
riduzione dei tassi primari da parte della Federal Reserve al 2,5%,
il costo del denaro è comunque rincarato in modo proibitivo, chi ha
soldi da prestare chiede il 7-8% come minimo.
Finito il credito facile, la causa delle allegre bolle finanziarie
che stanno scoppiando una dopo l’altra. C’era tantissimo «denaro»,
ed ora di colpo non ce n’è più, s’è prosciugato. Eppure le Banche
Centrali americane ed europeee hanno alluvionato di liquidità le
banche e i fondi speculativi; questo denaro dovrebbe circolare in
massa nel sistema, provocando inflazione ma mantenendo lubrificata
la grande giostra. Invece la giostra è a secco, cigola, si arresta.
Dov’è finito quel fiume di liquidità? Semplice: le banche se lo sono
messo nelle riserve in copertura delle perdite subite e di quelle
che si aspettano. Non lo prestano.
Così, avviene un fenomeno inaudito: la massa monetaria (la moneta di
tutti i tipi, da M1 a M4), in USA ed Europa si è striminzita anzichè
aumentare. Ciò segnala che è in atto una deflazione, mentre i
rincari delle merci segnalano inflazione.
«Se le Banche Centrali reagiscono in eccesso alla fiammata
inflattiva provocata da greggio e granaglie - scrive Evans-Pritchard
- possono innescare una spaventosa catena di eventi». Ossia
aggravare la deflazione, instaurando la replica della Grande
Depressione (2).
Claude Trichet, il capo della Banca Centrale Europea - c’è bisogno
di dirlo? - sta facendo proprio questo. Equivocando il senso dei
rincari (dovuti a petrolio, quindi fuori della sua possibilità di
azione) ha scelto di combattere un’inflazione che non esiste in
termini monetari, mantenendo altissimi i tassi d’interesse.
Il 4.5%, misura «irresponsabile» l’ha definita Zapatero, perchè
condanna alla recessione la Spagna, dove il 20% dell’economia è
costituito dall’edilizia, e dove quasi un milione di case sono
invendute perchè i mutui sono troppo cari.
Trichet, duro nella sua dottrina, mantenendo assurdamente divaricato
il differenziale tra il tasso europeo e i Buoni del Tesoro
americani, ha ottenuto solo una cosa: che fiumi di denaro rovente si
sono rifugiati nell’euro abbandonando il dollaro che rende meno e si
squaglia; con ciò, ottenendo un euro assurdamente forte, che
strangola le esportazioni. Al punto che l’Europa crolla a picco
prima ancora dell’America.
Il solo dato positivo è che gli speculatori, ormai, ritengono l’euro
sopravvalutato del 20-30%. Entro due anni lo abbandoneranno, e
l’euro tornerà debole - com’è debole l’economia reale europea - e
tornerà competitivo. Se saremo ancora vivi, s’intende.
Per allora, il dollaro sarà sparito come riserva mondiale, e colossi
come Cina e Giappone - che siedono su montagne di dollari - avranno
ancora voglia di comprare le cravatte di Armani al 20% di sconto?
Saremo competitivi, ma nel gelo globale del consumo.
Trichet sta cercando di domare il rincaro del greggio provocando
l’ulteriore abbassamento dei salari reali in Europa, già erosi
dall’inflazione reale degli anni scorsi: fa calare la benzina
togliendoci i soldi per comprarla, e anche il posto di lavoro da cui
prendiamo i salari. E’ una scelta inumana, ossia da banchiere e
burocrate.
Spunta in ritardo, come nel 1929, la coscienza che è in atto non una
recessione, ma la Depressione.
Ha osato scrivere la parola sir William Rees-Mogg, influente
eurocrate e opinionista del Times (3). Dopo una vita di menzogne
liberiste, ora che ha raggiunto gli 80 anni, si permette di dire la
verità. Per la prima volta su un grande giornale, un potente
columnist che è anche membro dei poteri forti, evoca la Grande
Depressione.
Il Dow, l’indice azionario di Wall Street, non tornò ai livelli
pre-29 se non un quarto di secolo dopo, alla fine del 1954, scrive
Rees-Mogg; se la storia si ripete, «il mercato azionario tornerà ai
livelli del 2007 nel 2032».
Avremo 25 anni di vacche magrissime: uno spazio grande per una vita
umana, e milioni di vite umane passeranno dalla giovinezza alla
maturità nella miseria e nella caduta di speranze e prospettive. Il
peggio è il sospetto che tutto questo, il crack, il caos e la rovina
di milioni di vite, sia voluto, progettato.
Era il 1994, e David Rockefeller parlava allo United Nations
Business Council. Disse: «We are on the verge of global
transformation. All we need is a major crisis, and the nations will
accept the New World Order» (4). «Siamo sulla soglia di una
mutazione globale. Ci manca soltanto una cosa: una crisi rilevante,
e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale».
Stranamente, ha ripetuto in questi giorni la stessa cosa George Bush
senior, l’ex-presidente ed ex capo della CIA, il padre
dell’alcolista subnormale alla Casa Bianca: «Da questi tempi di
sconvolgimento può emergere il nostro obbiettivo, un Nuovo Ordine
Mondiale».
Hanno previsto tutto? Si preparano ad imporci l’ordine totale?
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1) «50 ways to profit from the economic gloom», Telegraph, 11 luglio
2008.
2) Ambrose Evans-Pritchard, «Monetarists warn of crunch across
Atlantic economies», Telegraph, 11 luglio 2008. «European recession
looms as Spain crumbles», Telegraph, 15 luglio 2008.
3) Sir William Rees-Mogg, «This recession could easily tips into a
depression», Times, 14 luglio 2008.
4) Citato da Pino Cabras, «Strategie per una Guerra mondiale»,
Cagliari 2008, pagina 65.
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