|
. |
|
|
|
|
Borse
in preda al panico, ma il peggio potrebbe ancora arrivare
Martedì 1 Luglio 2008, 22:37 - di
Alberto Susic ________________________________________
Archiviati i primi sei mesi del 2008, con una
flessione nell'ordine di circa il 22%, facendo così del primo
semestre il peggiore degli ultimi venti anni, le Borse europee hanno
vissuto anche quest'oggi un'altra seduta al cardiopalma. Dopo li
rimbalzo realizzato ieri nel finale, le vendite hanno ripreso il
sopravvento a distanza di poche ore, costringendo gli indici del
Vecchio Continente a riportare cali anche superiori ai due punti e
mezzo percentuali nell'intraday. Nel finale si è avuto un parziale
recupero che ha permesso di limitare solo in parte i danni, tanto
che nella giornata odierna sono andati in fumo quasi 150 miliardi di
euro. Migliore appare invece la situazione in America dove i tre
indici principali, hanno toccato nuovi minimi con cali di oltre
l'1%, dando vita però ad una reazione che li ha riportati al di
sopra della parità. Diversi i fattori che stanno mettendo sotto
pressione i mercati, a partire dal caro-petrolio e più in generale
delle materie prime, oggetto di numerosi acquisti. A questo si
ricollega anche un'altra grande preoccupazione, rappresentata
dall'inflazione, che rischia di costringere le Banche Centrali a
rimettere mano ai tassi di interesse, con la minaccia di ritocchi
verso l'alto nel breve. Giovedì prossimo la BCE dovrebbe annunciare
l'atteso rialzo di un quarto di punto, ormai scontato dal mercato,
che però attende con apprensione di capire se questa mossa sarà
seguita da altre nei mesi a venire.
A zavorrare i listini azionari sono anche i timori legati al
comparto bancario, per il quale si profilano nuove perdite e
svalutazioni, con la minaccia di ulteriori aumenti di capitale che
vengono sempre mal digeriti dalle Borse. La crisi del credito appare
ancora ben lungi dall'essere superata, diversamente da quanto si era
creduto un paio di mesi fa, quando gli indici avevano dato vita ad
un interessante recupero scommettendo però su un simile scenario.
A frenare gli acquirenti è anche l'attesa per la nuova stagione
delle trimestrali, in particolare americana, che prenderà il via
ufficialmente il prossimo 8 luglio. Gli operatori temono sgradite
sorprese, tanto da aver messo già in conto una flessione degli utili
in media superiore al 10%.
In considerazione di tutti questi elementi negativi, è facile
comprendere come le prospettive delle Borse per i mesi a venire non
siano poi così incoraggianti. Proprio ieri il presidente di M&G,
Carlo De Benedetti, ha dichiarato di non vedere cielo sereno per i
prossimi mesi, ritenendo che il peggio non sia ancora arrivato.
Durerà ancora a lungo infatti la crisi che vede un'economia in
sofferenza, non solo per la negatività sul versante finanziario ma
anche per quella che interessa il settore immobiliare.
Indicazioni simili giungono dalla BRI, la Banca dei Regolamenti
Internazionali, che non ha fatto mistero del suo pessimismo,
dichiarando a chiare lettere che il peggio della crisi dei mercati
potrebbe ancora arrivare. Si tratta di una crisi senza precedenti
nel dopoguerra, spiegando che gli eventi degli ultimi mesi
dimostrano che l'entita' dei problemi a venire potrebbe essere ben
maggiore
di quanto molti attualmente ritengono.
Anche i toni usati dalle banche d'affari relativamente alle
prospettive future dei mercati sono segnati da non poco pessimismo.
Con riferimento in particolare all'azionario europeo, a lanciare
ancora una volta un allarme è Morgan Stanley (SPU - notizie) che
dopo aver messo in guardia dalla fine del ber market rally agli
inizi di maggio, prospetta scenari poco felici per il futuro. L'idea
è che le valutazioni siano ora interessanti, accompagnate da un sentiment ribassista che è da leggere positivamente in ottica
contrarian. Questo però non deve indurre ad abbassare la guardia,
perché i fondamentali sono ancora negativi e sulla base degli stessi
Morgan Stanley stima un downside di un ulteriore 10% per l'azionario
del Vecchio Continente. La fase orso è destinata a durare ancora per
almeno altri sei mesi e forse anche nove e si avvierà alla
conclusione solo quando sarà raggiunto il punto di minimo degli
utili e si avrà un allentamento delle tensioni sul fronte
inflazionistico.
La strategia suggerita è quella di mantenere una buona dose di
liquidità in portafoglio, limitando l'esposizione all'azionario,
prediligendo in ogni caso temi difensivi come le utilities, gli
energetici e i farmaceutici.
A predicare cautela sull'Europa è anche Ubs (Virt-X: UBSN.VX -
notizie) che consiglia di sottopesare l'investimento in quest'area,
a vantaggio di quello americano, anche se le attuali valutazioni nel
Vecchio Continente scontano già un netto calo degli utili societari
nei prossimi trimestri. In linea con quanto suggerito da Morgan
Stanley, anche la banca elvetica consiglia di puntare sul settore
energy, al quale però si affiancano gli industriali, senza
trascurare il comparto tecnologico e quello delle telecomunicazioni.
E' bene invece mantenere le distanze dai finanziari, che vanno
comunque approcciati con grande cautela, stando alle indicazioni
strategiche di ING. Gli analisti ritengono che non sia ancora giunto
il momento di abbandonare la cautela di questi mesi, che dovrà
accompagnarci anche nella seconda metà del 2008. Ma i finanziari non
sono i soli a cui prestare attenzione, perché il brokers olandese
vede insidie anche tra i ciclici, che sono da evitare in vista di
sorprese negative che potrebbero arrivare nei prossimi mesi. In
generale il consiglio è di puntare sui titoli a grande
capitalizzazione, rappresentativi di società che presentano solidi
bilanci e vantano una crescita dei profitti superiore alla media,
dal momento che gli stessi offrono una maggiore difesa dalle
turbolenze dei mercati.
 |
Fonte - Trend on line.com |
DOPO
I CALI, WALL STREET SOGNA IL RALLY D'AUTUNNO
03 Luglio 2008 01:30 NEW YORK - di WSI _________________________________
L’ estate è una stagione insidiosa per Wall
Street. Secondo il vecchio adagio «vendi in maggio e vattene
via» gli investitori dovrebbero starne alla larga. I tre
mesi estivi spesso vedono un volume ridotto di scambi e un
calo generale degli indici. I peggiori scivoloni estivi
negli ultimi 20 anni sono stati nel 1990 con -13,6% (prima
guerra del Golfo; recessione), nel 1998 con -7% (crisi
finanziaria della Russia), nel 2001 con -21,9% (post Bolla)
e nel 2002 con -14,5% (bancarotta di WorldCom, la maggiore
nella storia Usa). Ma nel 2003 e nel 2006 le estati sono
state più generose con gli investitori, offrendo loro rialzi
rispettivamente del 4,1% e 5,3%. E l’anno scorso, nonostante
lo scoppio della crisi dei mutui subprime, da fine giugno
(inizio dei problemi di Bear Stearns) a fine settembre Wall
Street non è andata in rosso (+0,2%).
Come saranno il prossimi tre mesi e, in generale, la seconda
parte del 2008? Il primo semestre è stato negativo con un
calo dell'11% dell'indice Dow Jones e del 10% sia per
l'S&P500 e il Nasdaq. Ma i risultati sono stati molto
diversi settore per settore: dal crollo del 50,8% per le
aziende dell'elettronica di consumo al +65,8% dei produttori
di carbone. Un segno che proprio in un mercato difficile si
possono trovare buone occasioni.
I risparmiatori più avventurosi possono guardare ai settori
dei consumi non di base e ai titoli finanziari, dove le
scommesse al ribasso sono molto pesanti per la paura della
recessione e dei buchi nei bilanci delle banche.
«Il livello delle posizioni negative su questi due settori è
tale da suggerire che forse è eccessivo — fa notare Jason
Trennert di Strategas research partners —. Un po' di
rafforzamento nei dati economici, l'umore degli investitori
super pessimista e le valutazioni ragionevoli delle azioni
possono essere gli ingredienti di un cocktail per un rally
estivo di Wall Street». Il rapporto prezzo/utili delle 500
società dell'indice S&P viaggia oggi attorno a 17,2 e, se si
escludono i titoli finanziari, è pari a 16,2, una
valutazione appunto ragionevole, ma non sufficiente a
giustificare una nuova fase di rialzo di Borsa se non si
raffredda l'inflazione, avverte Trennert.
Anche Tobias Levkovich , responsabile delle strategie
azionarie Usa di Citi , crede che i prezzi delle azioni
americane oggi siano piuttosto attraenti: il 17% inferiori
al valore equo calcolato in rapporto ai rendimenti dei bond
a rischio zero e al premio storico per il rischio di Borsa.
Ma secondo Levkovich un rally sostenibile non può avvenire
quest'estate ed è invece probabile che inizi più tardi verso
fine anno, dopo una nuova fase di ribassi.
«Quest’anno l'andamento della Borsa è fatto a W — aggiunge
Levkovich —. Forse abbiamo cominciato a scendere nella
seconda V. Le stime della media degli analisti per gli utili
dei prossimi trimestri sono troppo alte, in particolare per
i settori industriali e delle materie prime; e quando
saranno riviste al ribasso Wall Street toccherà nuovi
minimi».
Lo strategist di Citi però non vede tutto nero. Anche se
l'America fosse all'inizio di un periodo di stagflazione —
stagnazione più inflazione — non è detto che il mercato
finanziario debba andar male. Anzi, durante i periodi di
stagflazione dagli anni 70 a oggi (1970, ’74-’75, ’80, ’82 e
’91), l’indice S&P500 in media è cresciuto del 6% (con un
massimo del 18,8% nell’80 e un calo del 10,7% nel ’74-’75),
mentre i prezzi di oro e petrolio sono di solito calati,
contrariamente a ciò che si aspettano molti investitori.
«Molti credono che l'attuale scenario sia simile al
1990-1991 per la crisi immobiliare e finanziaria, i rincari
petroliferi, le pressioni geopolitiche e il dollaro debole —
osserva Levkovich —. Se fosse vero, gli investitori azionari
dovrebbero rallegrarsi, perché durante la stagflazione del
’91 l’S&P500 è salito del 12,4%, mentre dovrebbero
preoccuparsi quelli che puntano sul petrolio, calato del 26%
nello stesso periodo».
A spingere per un rally di fine anno dovrebbero esserci
proprio le quotazioni petrolifere in calo per il
rallentamento dell’economia globale e un nuovo impegno della
Cina a combattere la propria inflazione. I settori preferiti
dagli analisti di Citi sono banche-assicurazioni-servizi
finanziari diversificati, i semiconduttori, la distribuzione
commerciale, la farmaceutica e biotecnologia, i trasporti.
I comparti sottopesati sono l’energia, i beni capitali, le
utilities, i materiali, l’auto, l’immobiliare, l’hardware
tecnologico e la distribuzione alimentare.
Raccomandazioni molto diverse vengono da Standard & Poor's ,
che prevede difficoltà per tutto il mercato e in particolare
per le azioni a larga capitalizzazione, a causa dello
svanire degli effetti dello stimolo economico, oltre alle
pressioni inflazionistiche e l’atteso rialzo dei tassi da
parte della banca centrale Usa.
«Consigliamo di sovrappesare i titoli tecnologici, le cui
valutazioni scontano già la recessione, e il comparto dei
materiali, che di solito fa bene quando prevalgono i timori
di inflazione — dice Sam Stovall , capo strategist di S&P —.
Siamo neutrali sul settore dell’energia, perché crediamo che
il prezzo del petrolio calerà. E sottopesiamo i titoli della
salute e le utilities, le cui prospettive di profitti non
sembrano all'altezza delle aspettative di mercato».
|
Fonte
- Corriere della Sera |
|
Il volto nuovo della crisi
03 Luglio 2008 01:30 MILANO - di Sara Silano _________________________________
La crisi ha cambiato volto. Non è più
soltanto una “questione” finanziaria, ma ha intaccato
l’economia reale. Secondo Mohamed El-Erian,
co-amministratore delegato di Pimco (colosso americano del
reddito fisso), intervenuto alla Morningstar Investment
conference di Chicago, “vedremo crescenti pressioni
inflazionistiche di fronte alle quali né i mercati né gli
apparati politici sono adeguatamente preparati”. Ma
rassicura il manager, “non ci sarà nessun crack;
semplicemente un riequilibrio globale della crescita, molto
turbolento”.
Mai come in questi giorni gli investitori si sono sentiti
nel bel mezzo della tempesta. Il petrolio brucia record su
record, l’inflazione in Europa ha toccato il 4%, il livello
più alto dall’ingresso della moneta comunitaria, le piazze
finanziarie del Vecchio continente sono ai minimi degli
ultimi quarant’anni. E il rincaro dei prezzi alimentari
minaccia la stabilità sociale ed economica di molti Paesi in
via di sviluppo. Le banche centrali sono nella difficile
condizione di dover decidere politiche monetarie che
contrastino il caro-vita importato dalle nazioni emergenti
in un contesto di rallentamento della congiuntura.
Dopo cinque anni di rialzo ininterrotto, nel primo semestre
l’indice Msci mondiale ha perso oltre il 18%, peggio ha
fatto l’Europa (-20,6%), mentre il Giappone ha contenuto il
ribasso intorno al 13%. Da gennaio, le categorie di fondi
con rendimenti medi positivi sono tutte difensive. In
particolare, i monetari e obbligazionari in franchi svizzeri
hanno beneficiato di una divisa che è storicamente un porto
sicuro e può contare su un quadro macro più solido rispetto
ad altre aree sviluppate. Hanno guadagnato (+2%) anche i
comparti specializzati in titoli inflation linked, che
mettono al riparo dall’aumento dei prezzi, e in misura
minore i prodotti di liquidità area euro (+1,4%).
Nell’ultimo trimestre, però, la situazione ai vertici della
classifica per rendimenti è cambiata. Il forte rincaro del
greggio ha infiammato i titoli energetici e, di conseguenza,
i fondi specializzati nel settore (+15%) e nei Paesi
produttori, in particolare l’America Latina e la Russia. Non
sono invece avvenuti grandi cambiamenti nella parte bassa
della classifica, con gli Azionari India e i finanziari
fanalini di coda sia a tre che a sei mesi. Le vendite
continuano a colpire le banche a causa della crisi
creditizia, mentre la Borsa di Mumbai fa i conti con il
rialzo dei tassi di interesse.
Secondo gli esperti, gli investitori devono prepararsi a
navigare in acque agitate anche nella seconda parte
dell’anno. Per farlo, El-Erian inviata ad “ascoltare” quello
che il mercato ci sta dicendo. Guardando al passato, dice,
le crisi asiatica, russa ed argentina negli anni Ottanta e
Novanta e il collasso di Enron e WorldCom hanno reso più
solidi i Paesi emergenti, in un caso, e il settore
societario nell’altro, permettendo loro di opporre maggior
resistenza alle turbolenze dell’ultimo anno. Per il comparto
finanziario, si profilano analoghe “cure ricostituenti”.
Per il manager di Pimco, però, è un grave errore smettere di
investire, piuttosto è importante decidere come gestire
l’attuale fase, soprattutto valutare quale rischio si è
disposti a correre e costruire il portafoglio coerentemente
con esso. Inoltre, è necessario comprendere quanto gli
eventi ciclici (come l’attuale) e i trend di lungo periodo
incidono sul proprio patrimonio. Insomma, l’invito è a non
cadere nella trappola degli schemi di breve termine dettati
dall’emotività, perché i propri investimenti devono essere
in grado di sopravvivere alle turbolenze future.
 |
Fonte
- MorningStar.it |
|
E perfino il
Papa perde
e chiude i bilanci in
rosso
10 Luglio 2008 00:46 SANTA
SEDE - di
WSI ________________________________________
La Santa Sede chiude il 2007 con un bilancio in rosso.
Il disavanzo netto alla fine dell'anno scorso risulta infatti pari a
9.067.960 euro. E' la prima volta da tre anni: nel 2004, 2005 e 2006
infatti i risultati erano stati positivi per un totale di 15.206.587
euro. I numeri sono stati diffusi dal Consiglio dei cardinali per i
problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, che si è
riunito la settimana scorsa.
Le entrate del Vaticano l'anno scorso hanno toccato quota
236.737.207 euro, mentre le uscite sono state superiori: 245.805.167
euro. E il risultato netto è quindi negativo.
Tre i capitoli presi in considerazione nel bilancio - attività
istiuzionale, settore immobiliare e attività finanziaria: è
quest'ultimo che ha originato l'inversione di tendenza. "Il settore
si è chiuso con un avanzo netto di 1,4 milioni di euro contro 13,7
milioni di euro del 2006; si è avuta perciò una flessione di circa
12 milioni di euro, ascrivibile principalmente alla brusca ed assai
accentuata inversione di tendenza nella fluttuazione dei tassi di
cambio, soprattutto del dollaro statunitense". In lieve calo gli
introiti da investimenti in titoli, in aumento invece gli
investimenti nel comparto finanziario a breve termine. Insomma, è
stato il supereuro a determinare il rosso delle finanze vaticane.
Il settore immobiliare "ha ottenuto un risultato positivo netto di
36,3 milioni di euro, superiore a quello registrato nel 2006 che si
attestò a 32,3 milioni di euro. L'incremento in termini assoluti è
di 4 milioni di euro, imputabile sia al maggior gettito delle
locazioni, sia alle plusvalenze realizzate per la vendita di alcuni
cespiti immobiliari. In aumento anche le spese dirette su immobili a
reddito che da 15,4 milioni passano a 18,2 milioni di euro, con un
aumento del 18%". Saldo negativo di 14,6 milioni di euro, poi, per
Radio Vaticana e per l'Osservatore Romano. Quanto all'attività
finanziaria della Curia romana, infine, sostanzialmente invariati
sono stati i contributi degli episcopati (86.022.372 euro nel 2006,
86.143.257 euro nel 2007) e le spese (da 126,2 milioni di euro nel
2006 a 125,4 milioni di euro nel 2007.
Restano sostanzialmente stabili le voci riguardanti l'attività
istituzionale della Santa Sede. Questo settore ingloba tutti i
dicasteri della Curia Romana: Segreteria di Stato, Rappresentanze
Pontificie, Congregazioni Romane, Pontifici Consigli, il Sinodo dei
Vescovi e altri uffici. Dal momento che si tratta di organismi che
assistono da vicino il Santo Padre nella sua missione di Pastore
universale a servizio delle Chiese locali e a beneficio dell'intera
umanità, essi non producono ricavi. Da qui il senso della
disposizione che richiama i vescovi a venire incontro alle necessità
della Santa Sede per sostenerne l'attività.
Nel 2007, oltre ad altri introiti di minore entità, i contributi
arrivati da Conferenze Episcopali, Diocesi, Istituti religiosi,
Istituzioni ed enti vari è rimasta sostanzialmente invariata (
86.022.372 euro nel 2006, 86.143.257 nel 2007). Anche i costi
dell'intero settore, direttamente connessi con l'attività della
Curia Romana, sono rimasti sostanzialmente identici: si è passati da
126,2 milioni di euro nel 2006 a 125,4 milioni nel 2007. Profondo
rosso invece, ma non è una novità, per due delle quattro istituzioni
collegate con la Santa Sede: tra le "aziende mediatiche" del Papa,
Radio Vaticana e Osservatore Romano sono in passivo mentre Libreria
Editrice Vaticana e Centro Televisivo Vaticano sono in attivo.
L'insieme di queste attività sono strettamente legate alla
diffusione della voce e dell'immagine del Papa.
Il settore ha chiuso con un saldo negativo di 14,6 milioni di euro,
riferibile sostanzialmente al deficit della Radio Vaticana e ai
costi per "L'Osservatore Romano". Risultati positivi sono invece
venuti dalla Tipografia Vaticana che ha chiuso il proprio bilancio
con un avanzo di 1 milione di euro, dal Centro Televisivo Vaticano,
con un avanzo di 458.754 e dalla Libreria Editrice Vaticana con un
utile di 1,6 milioni di euro.
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com |
Anche
gli hedge piangono 10 Luglio 2008 17:04 -
di Macromonitor ______________________________________________
Nel primo semestre di
quest’anno gli hedge funds hanno fatto segnare la peggior
performance in quasi due decenni, a causa della crisi
creditizia e del bear market azionario. La flessione
semestrale, pari allo 0,75 per cento, è stata realizzata
quasi completamente nel mese di giugno, che ha fatto segnare
un meno 0,7 per cento, secondo i dati pubblicati da Hedge
Fund Research, la società di Chicago specializzata nelle
statistiche sui rendimenti dei fondi alternativi. Si tratta
del peggior risultato nel primo semestre dall’inizio delle
rilevazioni di questa serie storica, nel 1990. Finora,
l’industria degli hedge ha realizzato solo un anno di
ritorni negativi, il 2002, con meno 1,45 per cento.
Sempre secondo HFR, il settore ha attratto 16,5 miliardi di
dollari di sottoscrizioni nette nel primo trimestre di
quest’anno, contro i 30,4 del quarto trimestre 2007, mentre
si rileva la sempre minore tolleranza alle perdite da parte
degli investitori, che hanno aumentato il turnover tra
gestori piuttosto che uscire dall’industria dei fondi
alternativi. In dettaglio gli hedge fund azionari sono scesi
in media del 3,3 per cento quest’anno, mentre quelli che
investono in obbligazioni convertibili hanno lasciato sul
terreno il 7,6 per cento in media. Decisamente migliori le
performance medie dei fondi che investono su temi
macroeconomici, in progresso di circa il 13 per cento da
inizio anno.
 |
Fonte - Macromonitor
|
|
Borsa:
non
smontate baracca e burattini
11 Luglio 2008 13:58 MILANO - di
Alessandro Fugnoli ________________________________________
Il greggio per consegna dicembre 2013 tratta a 136 dollari. Se sia
un prezzo interessante o meno non lo sappiamo, lo vedremo fra cinque
anni. Diciamo solo che se pensate che nel prossimo periodo la
crescita globale, superata la difficile fase apertasi un anno fa,
riprenderà a un ritmo discreto, allora pagare adesso 136 dollari si
rivelerà probabilmente un ottimo affare. Se invece pensate che il
prezzo sarà più basso, allora dovete considerare l’ipotesi di
vendere l’azionario e magari anche la casa, perché solo una lunga
fase di stagnazione potrà farlo scendere in misura rilevante.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha appena pubblicato le sue
stime a cinque anni sulla domanda e l’offerta globale di petrolio.
L’Aie è una specie di Opec dei consumatori e raggruppa i principali
paesi dell’area Ocse. E’ finanziata dai governi, che utilizzano le
sue stime quando preparano i piani energetici nazionali e quando
elaborano i documenti di programmazione economica a medio termine.
Negli ultimi anni l’Aie ha sbagliato tutte le sue previsioni sul
greggio, come del resto le hanno sbagliate il Fondo Monetario, la
Banca Mondiale e quasi tutti quelli che si sono cimentati in questo
difficile esercizio. Con l’eccezione, bisogna riconoscerlo, di quei mattocchi del Peak Oil, una strana congrega di personaggi che sono
quasi tutti ingegneri minerari e geologi e quasi mai economisti.
Questi signori (che non vanno assolutamente confusi con gli
ecologisti ed economisti alternativi del Club di Roma che negli anni
Settanta fecero previsioni malthusiano-apocalittiche rivelatesi poi
completamente sbagliate) se ne stanno da sempre nel loro angolino
come il gruppetto di scienziati pazzarielli e cani sciolti di
X-Files. Nessuno li ha mai presi troppo sul serio e loro, in cambio,
si sono sempre fatti grosse risate sugli esperti ufficiali del
settore tipo Dan Yergin del Cera).
Ora succede che l’Aie e Yergin si
sono messi a dire le stesse cose di questi signori e cioè che nel
2013 la situazione del greggio sarà brutta, non come quella di
adesso, ma molto di più. L’offerta salirà con grande fatica e avrà
una qualità energetica più bassa di quella odierna. Il tutto a
fronte di una domanda che, lasciata a sé stessa (e cioè non arginata
da un prezzo crescente) tenderà a salire molto di più. I peak oiler
ridono sotto i baffi. Notano che gli organismi ufficiali cominciano
a fare i conti con la realtà, fanno le pulci qua e là (la quantità
che sarà disponibile per noi, dicono, sarà in realtà più bassa di
oggi, perché una parte crescente della produzione se la consumeranno
direttamente i paesi produttori), aggiungono un Peak Gas ancora più
grave del Peak Oil e ritengono che nel 2020 la situazione sarà
ancora brutta, non come nel 2013, ma molto di più. Non vogliamo
seguirli su questa strada e ci atteniamo al quadro proposto
dall’Aie, sperando che sbagli come ha sbagliato in tutti questi
anni, ma senza contarci troppo.
Il quadro che emerge non è
necessariamente catastrofico. Si può ragionevolmente sperare che i
governi dei paesi consumatori, ora allertati (sia pure in grande
ritardo) si diano da fare per trovare soluzioni alternative. l meno
che si possa dire è però che il petrolio continuerà a remare contro
la crescita globale al di là della crisi finanziaria e immobiliare
in cui stiamo impantanandoci da un anno e in cui resteremo ancora
parecchi mesi. La ripresa globale, presto o tardi, partirà, ma andrà
avanti con il freno a mano tirato ancora per qualche anno. Insomma,
mentre negli ultimi anni petrolio ed economia globale sono cresciuti
insieme, da qui in avanti lo spazio di crescita se lo dovranno
contendere. O continuerà ad apprezzarsi il greggio (e allora non ci
sarà espansione) o il greggio si fermerà e lascerà respirare la
crescita. Un terzo scenario, in cui non crescono né il greggio né
l’economia potremmo vederlo nei prossimi mesi. Siamo infatti vicini
a un punto di rottura.
L’economia globale non sembra pronta a
reggere un greggio ancora più forte. Un greggio che arresta la sua
corsa e si ferma sui livelli attuali, tuttavia, di per sé non sarà
sufficiente a garantire un’uscita rapida dalla crisi. C’è infatti,
non dimentichiamiolo, la crisi finanziaria-immobiliare che continua
a produrre i suoi effetti negativi su occupazione, consumi, valore
degli asset. Per le banche la stagnazione significa una minore
qualità degli asset e una spinta alla loro liquidazione. A meno di
miracoli la crisi finanziaria-immobiliare potrà terminare prima del
suo decorso naturale solo con un atto politico, per il quale si
dovrà aspettare come minimo primavera. L’atto politico sarà, negli
Stati Uniti, l’acquisto pubblico di grandi quantità di asset bancari
(in primo luogo mutui) e la ricapitalizzazione, sempre con soldi
pubblici, delle banche. Sarà quello, probabilmente, il punto di
svolta. Da qui a primavera si galleggerà, nello scenario base, molto
vicini alla crescita zero. La Yellen dice che gli Stati Uniti
riusciranno probabilmente a non avere trimestri a crescita negativa.
Il mercato non ci crede più di tanto, ma non credeva nemmeno a
Bernanke quando, tra gennaio e marzo, diceva che il primo semestre
avrebbe avuto crescita positiva, come poi è stato.
Lo scenario base
vede un’ulteriore erosione del valore delle banche, ma presenta
anche settori che riescono ancora a crescere, come parte della
tecnologia, parte della chimica oltre, ovviamente, alle materie
prime. Per i tassi non sembra esserci storia, nel secondo semestre,
se non in Asia. L’Asia, del resto, rappresenta uno dei rischi verso
il basso dello scenario di base, ma può tenere se, come si vede da
qualche segnale in Cina, l’inflazione inizia a scendere, a partire
da quella alimentare. L’altro rischio è l’Iran, su cui quanto meno è
aperto uno spiraglio vero di trattativa, quel tanto che possa
indurre gli Stati Uniti a frenare eventuali attacchi israeliani.
In
questa fase difficile il debito di qualità migliore, come dice El-Erian di Pimco, ha un rapporto rischio-opportunità migliore dell’equity,
anche di qualità. Il profilo da mantenere è difensivo. Bear market
rally di qualche rilievo non sono da escludere, ma richiedono, oltre
al sentiment estremamente negativo che c’è già, una discesa del
greggio sotto i 130 dollari. Chi ha cash non abbia fretta di
spenderlo e lo tenga, nel caso, per l’anno prossimo.
 |
Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale
di strategia di Abaxbank |
Per le borse, sarà
peggio del 2000-2003
11 Luglio 2008 01:13 LUGANO - di
Corriere del Ticino ________________________________________
Il ribasso del prezzo del petrolio e
l’intenzione della banca centrale americana di estendere al 2009 le
linee di credito di emergenza per le banche sono le ragioni del
rimbalzo dell'altro giorno delle borse. La ripresa dei mercati
azionari potrebbe durare alcuni giorni, ma è molto improbabile che
segni un punto di svolta per i mercati.
La diminuzione del prezzo del petrolio non è per il momento tale da
mutare le prospettive economiche. Solo una sua discesa sotto i 100
dollari il barile potrebbe avere un effetto tonificante
sull’economia e sui mercati finanziari. Infatti per il momento non
vi sono elementi certi per sostenere che è cominciato lo scoppio
dell’enorme bolla speculativa che ha contribuito in modo decisivo
all’esplosione del prezzo del greggio, anche se alcuni segnali
potrebbero indurre a formulare questa ipotesi. Il segnale più
importante è sicuramente rappresentato dal crescere della pressione
politica volta a stroncare la speculazione sulle materie prime e sui
generi alimentari.
Il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, ha proposto
al G8 di aumentare in modo consistente i margini dei depositi oggi
del 5% sui contratti future, il ministro dell’economia, Giulio
Tremonti, ha formalmente inoltrato a Bruxelles proposte di lotta
contro la speculazione finanziaria, che hanno trovato orecchie
attente sia da parte della presidenza francese sia da parte della
Commissione europea. In campo è sceso anche il Congresso americano.
I provvedimenti in discussione tendono a dare maggiori poteri e
personale aggiuntivo alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC),
ad aumentare i margini dei depositi sui contratti future e a
scoperchiare la scatola nera (il settore meno trasparente del
mercato) degli swaps creati da Goldman Sachs e Morgan Stanley per
permettere a fondi pensione, Hedge Funds e società petrolifere di
scommettere tra di loro sull’andamento futuro del prezzo del
greggio.
Il mercato degli swaps, che non è sottoposto ad alcuna
regolamentazione e che è molto opaco, è però quello in cui operano
gli operatori finanziari ed è quello che ha determinato gran parte
dell’impennata dei prezzi delle materie prime. Basti ricordare che
la stessa CFTC sostiene che l’85% degli investimenti negli indici
delle materie prime avviene al di fuori dei mercati regolamentati
dei futures. La crescente pressione politica può indurre a
sospettare che i «padroni» di questi mercati potrebbero desiderare
un calo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime per
scongiurare il pericolo che cambiamenti delle norme rovinino il
giocattolo che rende tanti soldi.
Se si eccettua l’incognita di una forte caduta del prezzo del
petrolio, non vi è alcun motivo che possa spingere al rialzo le
borse. Infatti, l’intenzione della Federal Reserve di estendere
all’anno prossimo le linee di credito di emergenza è semplicemente
un’ulteriore conferma che la crisi del sistema bancario è tutt’altro
che superata.
Anzi, nei prossimi giorni assisteremo all’estensione di questa crisi
al vasto mondo delle banche americane di medie e piccole dimensioni
e assisteremo ai dibattiti politici sulla ricapitalizzazione di
Fannie Mae e Freddie Mac, ossia le due grandi agenzie parastatali
americane, che attraverso l’erogazione di ipoteche o di garanzie
sulle ipoteche concesse da altri istituti detengono la metà del
totale dei mutui ipotecari americani. Che la crisi bancaria sia
tutt’altro che superata lo dicono anche gli stessi mercati: basti
guardare ai tassi sul mercato interbancario che stano tornando ai
livelli massimi.
In realtà, non vi è ragione alcuna per cui i mercati azionari, già
in pieno «bear market», debbano scendere meno di quanto calarono
all’indomani dello scoppio della bolla delle cosidette dot.com,
ossia dal marzo del 2000 all’aprile del 2003. La situazione attuale
è ben più grave di quella dell’inizio di questo decennio.
Allora non vi era una crisi del mercato immobiliare americano, che
si aggrava sempre più e che si sta allargando ad altri paesi
(Spagna, Gran Bretagna ed Irlanda); allora non vi era una crisi del
sistema bancario internazionale; allora il petrolio costava poco più
di 20 dollari il barile; e allora le banche centrali avevano
maggiore spazio di manovra, poiché l’inflazione non dava alcun segno
di vita. Inoltre, oggi, oltre al chiaro rallentamento dell’economia
statunitense, cominciano a moltiplicarsi i dati che segnano la
prossima entrata in recessione di Spagna e Gran Bretagna e i segnali
che anche l’economia tedesca comincia a perdere colpi.
Questa crisi, che è stata causata dalle follie della nuova
ingegneria finanziaria, è solo agli inizi ed è destinata ad essere
molto lunga. Infatti non si può uscire da questa crisi senza aver
smaltito gran parte dell’enorme bolla del credito creata in questi
anni. Ad esempio, il risanamento dei bilanci bancari richiederà
molto tempo, che si allungherà ulteriormente per il prevedibile
aumento delle sofferenze dovuto al forte rallentamento economico. In
queste condizioni non vi è alcun motivo perché questo calo delle
borse sia di proporzioni inferiori a quello dell’inizio di questo
decennio.
 |
Fonte - Corriere del Ticino |
FANNIE
MAE & FREDDIE MAC:
ORMAI VALGONO ZERO 11 Luglio 2008 17:04 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
L'analista Jon Najarian
di OptionMonster ritiene che le due societa’ di mutui
ipotecari saranno in grado di sopravvivere alla tempesta
subprime ma che il valore delle relative azioni e’ ormai
nullo.
"Non c’e’ bisogno di leggere tra le righe. E’ chiaro che il
governo rilevera’ entrambe le aziende in quanto non potra’
lasciar evaporare 5 mila miliardi di dollari in mutui" ha
affermato l’esperto. "Ma per gli azionisti queste azioni
sono ormai carta straccia".
Il valore delle due societa' di e' dimezzato nell'arco di
poche ore: Fannie Mae e Freddie Mac perdono rispettivamente
il 39,60% a 7,97 dollari e il 46,75% a 4,26 dollari. Il
titolo Fannie Mae ha perso l'80% del proprio valore
dall'inizio dell'anno, quello Freddie Mac l'87%.
Secondo Bloomberg, Fannie Mae e Freddie Mac dovrebbero
registrare in bilancio perdite e svalutazioni per circa $77
miliardi prima che il governo americano sia costretto a
intervenire con un salvataggio pubblico, stando a uno studio
degli analisti di Fox-Pitt Kelton e Friedman, Billings,
Ramsey & Co. Le due agenzie para-governative hanno gia'
raccolto circa $20 miliardi per coprire le perdite dovute al
piu' alto tasso di bancarotte e mancati pagamenti di rate
nel settore immobiliare.
Fannie e Freddie detengono o garantiscono oltre $5 trilioni
di mutui, pari a circa la metà del totale delle ipoteche
immobiliari negli Stati Uniti. Un'insolvenza provocherebbe
un crack di dimensioni devastanti per l'intero mercato
finanziario Usa e mondiale.
 |
Fonte - ANSA
|
|
Materie
prime, la bolla sta per
scoppiare? 15 Luglio 2008 16:02 MILANO -
di Marco
Caprotti ______________________________________________
La bolla delle materie
prime rischia di scoppiare. L’allarme viene lanciato dagli
analisti, secondo cui è arrivato il momento di essere cauti
quando si inseriscono commodity nel portafoglio. I primi
segnali di rallentamento del comparto sono evidenti:
l’indice Gsci di settore, che da inizio anno (e calcolato in
euro) ha guadagnato il 31,7%, nell’ultimo mese (fino al 15
luglio) ha registrato un progresso dello 0,48%. E questo
nonostante il prezzo del petrolio abbia fatto segnare nuovi
record.
“L’idea di aggiungere altre materie prime nei portafogli sta
tentando sempre più investitori”, scrive in uno studio
Christine Benz, analista di Morningstar secondo cui, solo a
maggio, i fondi legati all’energia e alle commodity sono
riusciti a raccogliere 4 miliardi di dollari di nuovi asset.
“Del resto si tratta del tipo di investimento che dà
tranquillità nei momenti di crisi del mercato immobiliare e
di crescita dell’inflazione”.
Dall’inizio del 2002 fino a due mesi fa l’indice Gsci di
categoria ha guadagnato, mediamente il 20% all’anno contro
il +5% fatto segnare dall’S&P500. Secondo l’analista,
tuttavia, dopo questa corsa è arrivato il momento di fare
alcune considerazioni a mente lucida. “Divento molto nervosa
quando tutti gli investitori si buttano a capofitto sulla
stessa asset class”, continua il report. “Non posso fare a
meno di domandarmi se ormai sia stato spremuto tutto il
guadagno possibile. Ma c’è anche un altro fattore che mi
preoccupa: gli hedge fund sono stati fra i maggiori
scommettitori sulle commodity. Se dovessero iniziare a
cambiare idea o a ritirare i loro soldi per renderli agli
investitori, le fortune delle materie prime e delle società
ad esse collegate potrebbero subire un rovescio. Infine, c’è
da considerare che il continuo aumento dei prezzi, prima o
poi, farà diminuire la domanda di energia e di altri
materiali di base”.
Le stesse preoccupazioni sono state espresse da diversi
money manager che hanno partecipato all’ultima Morningstar
Conference di Chicago. Alcuni di quelli che hanno guadagnato
di più con le materie prime, hanno deciso di intascare i
profitti e investire in altri settori, come ad esempio nei
farmaceutici. Dal punto di vista operativo, quindi, cosa
conviene fare? “Indubbiamente le commodity rappresentano un
ottimo mezzo di diversificazione” risponde Benz. “Tuttavia
bisogna prima fare un attento check-up del portafoglio per
capire cosa c’è dentro. Anche se un fondo non è
specializzato sulle materie prime, magari ha all’interno già
diverse aziende legate alle commodity perché il gestore ha
deciso di seguire il trend di questi anni. Un metodo per
scoprirlo è quello di verificare i rendimenti: se un
portafoglio in particolare ha fatto meglio degli altri, ci
sono buone possibilità che abbia seguito questa strada. Una
eccessiva diversificazione, a questo punto sarebbe dannosa
perché aumenterebbe in maniera incontrollabile la volatilità
degli investimenti”.
 |
Fonte - MorningStar.it
|
|
Suicidi e boom di divorzi, la
crisi sconvolge gli USA
17 Luglio 2008 09:30 NEW YORK - di
Maurizio Molinari ________________________________________
Un suicidio e molti divorzi: l’onda
lunga della crisi dei mutui invade le famiglie dei manager dell’alta
finanza, scatenando danni a catena. La crisi dei mutui ha la sua
prima vittima, nel senso letterale del termine con il top manager
Scott Coles, 48 anni, brillante titolare di una importante società
di mutui in Arizona, che si è suicidato lasciandosi alle spalle una
bancarotta valutata in diverse centinaia di milioni di dollari.
Al momento in cui si tolse la vita, circa un mese fa, gli inquirenti
avevano immaginato un atto di disperazione dovuto all’improvviso
divorzio dalla moglie neanche trentenne ma gli accertamenti eseguiti
portano ora a disegnare ben altro scenario. All’origini del gesto
disperato c’è il fatto che la Mortgages Ldt di Coles non trovava più
capitali a causa della crisi dei mutui e le esposizioni accumulate
avevano portato a porre le premesse di una bancarotta, poi
puntualmente dichiarata il 24 giugno, che neanche il ricorso al
Chapter 11 - l’amministrazione controllata - avrebbe consentito di
gestire o superare. Da stella del gotha economico dell’Arizona,
Coles stava per precipitare nella miseria.
Da qui la scelta del proprietario di scrivere una lettera d’addio,
indossare un elegante smoking e impiccarsi sopra il letto
ex-matrimoniale come scelta estrema per non dover assistere
all’inesorabile crollo dell’impero immobiliare che aveva contribuito
a creare facendo crescere di molto la piccola azienda ereditata dal
padre, che l’aveva fondata nel 1963. «Scott Coles era molto
ambizioso, voleva essere più grande della sua stessa vita, si
considerava il creatore di Phoenix» ha detto di lui al «Wall Street
Journal» Malcom Jozoff, che gli fu amico e anche partner in molti
investimenti di successo.
L’ambizione di Coles è lo specchio di quanto avvenuto in Arizona
negli ultimi venti anni: Phoenix si è trasformata in uno dei polmoni
della crescita economica nazionale grazie al massiccio arrivo di
cittadini da altri Stati, che hanno fatto lievita a dismisura il
mercato immobiliare portando al boom dei mutui.
La drammatica
scomparsa trasforma ora la sua parabola nello spettro che assilla
numerosi manager alle prese con il crollo del mercato nazionale dei
mutui.
Se lui ha perduto la vita a causa della crisi finanziaria, altri
manager stanno perdendo le mogli. A rivelarlo sono le notizie che
rimbalzano da Wall Street conquistando i titoli dei tabloid di
Manhattan, secondo i quali il crollo del credito e la diminuzione
dei profitti hanno portato negli ultimi 12 mesi ad un significativo
aumento del numero dei divorzi, soprattutto nelle aree della Grande
Mela dove si concentrano i redditi più alti. Un avvocato di New York
ha rivelato di aver ricevuto dalla moglie la richiesta di
separazione a seguito del crollo del reddito annuale da 20 milioni a
8 milioni. Per arginare la situazione questo manager ha da un lato
chiesto all’avvocato di guadagnare tempo e dall’altro ha preso soldi
in prestito per regalare alla moglie abiti e vacanze di lusso.
Uno dei principi del foro di Manhattan, l’avvocato Raoul Felder che
rappresentò Larry Fortensky nel divorzio da Elizabeth Taylor,
afferma che le «separazioni dei super ricchi» sono aumentate da 250
a 300 nell’ultimo anno, registrando il maggiore balzo in avanti dal
1980. A confermare i guai famigliari dei residenti più ricchi di New
York è anche Kenneth Muellen, psicoterapista dell’East Village molto
popolare fra banchieri e magnati, secondo il quale «la crisi del
credito sta diventando per loro qualcosa di molto serio, come il
gioco d’azzardo, il bere o il sesso, in grado di distruggere vite e
famiglie».
Ciò che colpisce, aggiunge Nancy Chemtob, altro avvocato esperto di
cause matrimoniali, è come la «crisi del credito» si sia trasformata
in una delle «motivazioni portate da un coniuge per separarsi
dall’altro», spiegando che provoca malumori, violenze casalinghe e
«abbandoni» creando una spirale che distrugge la vita coniugale.
Essendo venuti meno i molti milioni dollari che finora la
sostenevano.
 |
Fonte - La Stampa |
Borse
a buon mercato. Ma solo in apparenza
18 Luglio 2008 16:20 MILANO -
di
Marco
Caprotti ______________________________________________
Anche se la settimana
per le Borse mondiali non è stata nera come le precedenti, è
ancora presto per dire se si intravede, se non proprio una
luce, almeno un bagliore alla fine del tunnel. L’indice Msci
World nell’ultima ottava (e calcolato in euro) ha perso lo
0,5%. E lo scenario nel quale si stanno muovendo operatori e
listini non è dei migliori.
A livello globale il comparto azionario in questi giorni
viene trattato con uno sconto del 20% rispetto ai massimi
toccati nel 2007, togliendo anche le ultime remore a chi
ancora si ostina a non voler pronunciare la parola Orso.
L’inflazione, sempre a livello mondiale, è cresciuta quasi
del 6%, toccando il tasso massimo dal 1999. La produzione
industriale delle maggiori economie, intanto, continua a
rallentare. Insomma, secondo i tradizionali standard di
valutazione, il mercato equity sembrerebbe a buon prezzo.
Ma, appunto, secondo gli analisti è solo un’impressione.
“L’azionario è stato colpito da una crescita economica che
va a rilento, previsioni di rallentamento dei profitti,
aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse. Tutte
condizioni che difficilmente miglioreranno nei prossimi
mesi”, spiega una nota di Henderson Global Investors. “I
principali indicatori segnalano che la crescita industriale,
almeno in Europa, si indebolirà ancora. L’equity non appare
così a buon mercato se la congiuntura continuerà rallentare
e ci saranno altri tagli alle stime di crescita degli
utili”.
Stati Uniti
L’indice Msci North America, nell’ultima settimana ha perso
circa lo 0,2%. Le sedute sono state ancora condizionate
dalle notizie, a volte contraddittorie, sul futuro di Fannie
Mae e Freddie Mac. I due colossi dei mutui da qualcuno
venivano dati per spacciati a causa delle perdite in
bilancio, mentre il presidente degli Stati Uniti George W.
Bush e quello della Federal Reserve Ben Bernanke si sono
sgolati a furia di ripetere che la situazione è tranquilla.
In caso contrario ci sarebbe stato un intervento da parte
del governo per salvare la situazione.
In questo clima sono stati accolti con un sospiro di
sollievo gli ultimi dati arrivati da Citigroup, uno dei
gruppi finanziari più colpiti dalla crisi dei subprime. Nel
secondo trimestre le perdite (dopo le svalutazioni) sono
state pari a 2,5 miliardi di dollari. Gli analisti, che si
aspettavano un risultato negativo di 3,6 miliardi, si sono
quindi affrettati a consigliare ai loro clienti di
acquistare il titolo della banca. La situazione, insomma è
confusa, ma, secondo alcuni operatori, offre ancora delle
opportunità “Il mercato azionario americano continuerà a
presentarsi difficile”, recita una nota di Union Investment.
“D’altro canto si cominciano a intravedere quotazioni che
possono rivelarsi interessanti, così come interessante è
l’attenzione da parte di alcuni fondi sovrani. Inoltre, in
un periodo che va dai sei ai 12 mesi ci potrebbe essere un
miglioramento della generale situazione economica degli Usa.
In questo scenario, per gli operatori orientati a
investimenti a lungo termine le correzioni dei corsi possono
essere sfruttate come favorevoli opportunità d’entrata sul
mercato”.
Europa
L’indice Msci del Vecchio continente nell’ultima ottava ha
perso circa lo 0,75%. La situazione è complicata anche in
Europa: l’inflazione in crescita (4%), unita alla
stagnazione economica ha fatto rispolverare il termine di
stagflazione che, almeno da queste parti, non si sentiva
dagli anni ‘70. Questo complica tutto, soprattutto le
prossime decisioni della Banca centrale. L’istituto
monetario ha appena alzato i tassi di interesse portandoli
al 4,25%. La crescita dei prezzi, del resto, si fa sentire e
potrebbe peggiorare.
In Germania, quelli alla produzione secondo l’ufficio
federale di statistica a giugno sono cresciuti del 6,7%
rispetto al mese precedente. Si tratta del balzo maggiore
degli ultimi 26 anni e potrebbe portare a nuove strette. “Il
mercato sconta attualmente un unico rialzo di 0,25% in
autunno che riteniamo comunque non realistico salvo
ulteriori impennate nei prezzi delle materie prime” dice una
nota di Pictet Funds. La Bce dovrebbe per ora essere
soddisfatta del contenimento, già in parte visibile, delle
aspettative di inflazione osservabili sui mercati
finanziari”. Le notizie su Citigroup arrivate dagli Stati
Uniti, intanto, hanno riportato un po’ di tranquillità sul
fronte dei titoli finanziari, mentre il ritracciamento del
prezzo del petrolio ha fatto partire qualche ordine di
vendite sulle azioni auto.
Asia
L’indice Msci della regione nelle ultime cinque sedute ha
perso circa il 2,4%. Come sempre le incertezze di Usa ed
Europa si amplificano nel continente asiatico. Gli
investitori, oltre che sulle potenzialità di crescita
dell’area (che nel lungo termine, dicono, restano intatte),
si interessano sempre di più all’aspetto degli utili.
E un rallentamento dei mercati di sbocco, inevitabilmente
incide sui bilanci delle società che esportano.
“L’atteggiamento delle aziende è cambiato”, spiega Matthew
Vaight, co-manager del fondo M&G Asian Fund. “I consigli di
amministrazione sono sempre più consapevoli dell’importanza
di soddisfare le esigenze degli azionisti”. Gli fa eco il
suo collega Michael Godfrey: “Oltre ai cambiamenti esterni,
cerchiamo anche opportunità di investimento in società che
migliorano gli utili come risultato di un’evoluzione
interna”.
Scende, intanto anche il mercato del Giappone. L’indice Msci
del Sol levante nell’ultima settimana ha perso l’1,7%. Il
calo del prezzo del petrolio, spiegano gli operatori, ha
fatto crollare i titoli delle società di servizi e di
esplorazioni. Il tutto, in uno scenario macroeconomico che,
i più ottimisti, definiscono “ancora zoppicante”.
 |
Fonte -
Morning Star .it
|
|
Azionario,
smontare le posizioni lunghe
?
25 Luglio 2008 13:40 MILANO - di Alessandro Fugnoli ________________________________________
Ci sono tre analogie e tre
differenze tra il bear market rally di Bear Stearns di marzo-aprile
e quello di Fannie e Freddie iniziato la settimana scorsa.
La prima
analogia riguarda il tipo di climax ribassista che nei due casi ha
preceduto il recupero. Si è trattato di un allineamento perverso di
elementi macro (rischi di recessione e rialzo del petrolio) sopra i
quali hanno fermentato timori crescenti di implosione completa del
sistema finanziario.
Avevamo scritto in marzo che per i mercati una recessione equivale
di per sé a una malattia cronica a decorso lento alla quale ci si
può in qualche modo adattare gradualmente. L’implosione finanziaria
equivale invece a un infarto che può essere fatale per chi agisce a
leva ma può anche arrecare danni gravissimi a istituzioni e persone
innocenti (si pensi ai depositanti delle banche) esattamente come
un’automobile guidata ad altissima velocità che, sbandando, vada a
travolgere una folla di passanti sul marciapiede.
Se in marzo era in gioco tutto il sistema delle controparti
istituzionali che avevano rapporti con Bear Stearns, per Fannie e
Freddie il mercato ha visto messa in questione la credibilità
complessiva degli Stati Uniti come debitore e la tenuta
dell’architettura finanziaria globale.
Nei due casi la reazione dei policy maker è stata all’altezza della
sfida e ha combinato efficacia, pragmatismo, rispetto per le regole
di fondo del mercato e minimizzazione dei costi (quanto meno upfront)
per il contribuente. Nei due casi il mercato ha reagito come il
condannato a morte che riceve la grazia a cinque minuti
dall’esecuzione e si è abbandonato, dopo qualche attimo di
incredulità e di stupore, a un comprensibile entusiasmo, alimentato
ovviamente dalle cospicue posizioni short da ricoprire e dal cash
accumulato nelle settimane precedenti dal real money.
Nei due casi la razionalizzazione del rally si è spinta a ipotizzare
il peggio alle spalle. Tra il peggio alle spalle e il meglio a
portata di mano c’è un salto logico che in marzo fu compiuto su
ampia scala e che oggi qualcuno sta cominciando a fare.
La seconda analogia tra marzo e oggi è che i rally di sollievo hanno
ricevuto supporto, nei giorni successivi al punto d’inversione, da
utili trimestrali giudicati meno atroci del previsto per le banche e
i ciclici e non così mediocri come da attese per gli esportatori
(dall’America al resto del mondo o dall’Europa all’Asia o
all’America Latina).
La terza analogia è nella discesa del greggio che ha accompagnato il
rally dei risky asset (borse, crediti, dollaro) con notevole
simmetria, mitigando i timori d’inflazione e rafforzando l’idea del
peggio alle spalle. La discesa del greggio, nei due casi, si spiega
in parte con la sua natura di unico posto in cui nascondersi in un
contesto di caduta generalizzata dei corsi. Nel momento in cui i
corsi recuperano, l’hedge sul greggio viene smontato.
Sulla base di queste tre analogie si potrebbe concludere che questo
rialzo ha diritto a un’ampiezza almeno pari a quello di
marzo-aprile, che fu dell’11 per cento per l’S&P 500 (da 1280 a
1426). Si potrebbe perfino aspirare a qualcosa di più, almeno in
linea teorica, perché il punto di partenza questa volta è più basso
e perché la discesa del greggio si sta profilando più ampia di
quella di marzo-aprile.
Ci sono però, tra marzo e oggi, anche tre differenze e tutte e tre,
almeno potenzialmente, rendono più fragile il profilo di questo
rialzo. La prima differenza è nelle aspettative sul quadro macro. In
marzo si pensava a una seconda metà dell’anno positiva per l’America
(grazie ai rimborsi fiscali) e si era nel pieno di un primo
trimestre molto forte per l’Europa e per il Giappone.
Oggi si constata che i rimborsi fiscali, grazie anche alla rapidità
con cui sono stati effettuati, stanno producendo effetti sui consumi
progressivamente minori per cui i mesi da qui a fine anno, a meno di
un’ulteriore forte caduta del prezzo della benzina, vedranno consumi
americani a crescita zero o negativa. Quanto all’Europa, l’idea del
decoupling è stata abbandonata e l’orizzonte dei prossimi 12 mesi si
presenta debole, di poco sopra allo zero. L’Asia, dal canto suo,
deve cominciare a pensare ai suoi problemi d’inflazione e i suoi
tassi di crescita, pur restando nel complesso molto buoni, ne
risentiranno.
La seconda differenza sta nelle prospettive per il petrolio. La
discesa in corso ha tre ragioni. Una, lo smontaggio delle posizioni
lunghe che dovevano bilanciare le perdite subite sull’azionario,
l’abbiamo detta. La seconda è il fallimento del tentativo di toccare
i 150 dollari, che ha indotto i lunghi dell’ultima ora a chiudere e
mettersi al ribasso. La terza, la più importante, è il
ridimensionamento dei timori sull’Iran.
E’ stato scritto che con il prezzo di un biglietto aereo per Ginevra
per Nicholas Burns (che ha assistito sabato ai negoziati sul
nucleare) gli Stati Uniti hanno fatto scendere il prezzo del
petrolio del 15 per cento (da 147 a 124), tanto quanto forse farebbe
un piano energetico da decine di miliardi di dollari.
C’è però un problema. Gli Stati Uniti hanno dato all’Iran 15 giorni
di tempo per dire sì o no. Magari la scadenza sarà prorogata, ma se
alla fine l’Iran ribadirà la sua intenzione di andare avanti, la
situazione potrà improvvisamente apparire ancora più a rischio di
una settimana fa, quando ancora rimaneva una carta da giocare. Anche
l’Europa, a quel punto, farebbe fatica a fare finta di continuare a
credere a una disponibilità iraniana.
La terza differenza tra marzo e oggi, infine, è proprio che c’è
stato il rally di marzo e noi che viviamo in luglio sappiamo che
quel rally che sembrava preludere a un’inversione duratura o quanto
meno a una stabilizzazione è in realtà finito e si è poi trasformato
in un ribasso ancora più inquietante. In altre parole abbiamo perso
l’innocenza. Facciamo fatica a dirci che il peggio è alle spalle
dopo essercelo detto in marzo e avere visto il peggio arrivare di
nuovo in luglio.
Questo significa che questo rialzo, se avrà dall’Iran e dal petrolio
il permesso di proseguire, sarà più incerto e prudente e assumerà un
carattere di stabilizzazione, più che di esuberante recupero. Se
così fosse non sarebbe male.
Abbiamo davanti mesi di consumi in rallentamento, di prezzi delle
case in ribasso, di espansione globale debole e di riduzione
ulteriore della leva del sistema bancario. La speranza è che il
prezzo del greggio (sul quale rimaniamo molto positivi a medio
termine) fletta ancora e si riporti ai livelli d’inizio anno. Se
così fosse già in settembre vedremmo un’inflazione in progressiva
attenuazione (con l’headline che converge sul core, e non il
contrario come si è temuto in tutti questi mesi). Lo spazio di
manovra per le banche centrali aumenterebbe.
Quanto detto, più la prospettiva in primavera di una soluzione più
radicale della crisi immobiliare e finanziaria con la nuova
legislatura negli Stati Uniti, permetterebbe di attraversare il
difficile secondo semestre senza troppi danni, smentendo ancora una
volta le previsioni di recessione.
Il dollaro beneficia del recupero dei risky asset ma, come abbiamo
detto più volte, non c’è da farsi troppe illusioni. Sui bond
governativi la debolezza di questi giorni riflette il travaso verso
l’equity e ignora il miglioramento delle prospettive sull’inflazione
grazie alla discesa del greggio.
 |
Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale
di strategia di Abaxbank |
FANNIE
E FREDDIE: LASCIATELE FALLIRE 27 Luglio 2008 18:10 NEW YORK -
di
WSI ______________________________________________
Uno degli ex
governatori regionali della Federal Reserve, William Poole,
sostiene che Fannie Mae e Freddie Mac non solo sono
"inutili", ma dovrebbero essere lasciate fallire perche'
nelle condizioni in cui sono distorgono il mercato
finanziario. Poole lo ha scritto in un articolo sul New York
Times.
Fannie Mae e Freddie Mac non sono essenziali per il mercato
dei mutui, scrive Poole, e se fossero messe in liquidazione
ordinatamente, il mercato rileverebbe il loro business senza
problemi. Fannie e Freddie esistono oggi per provvedere
garanzie per le "mortgage-backed securities" scambiate sul
mercato, un business che e' sostanzialmente quello di
un'assicurazione.
E' importante liquidare le due agenzie para-governative,
anche perche' e' pericoloso mantenere questo loro ruolo
dominante in un mercato con solo due operatori. Sarebbe
molto meglio avere varie aziende in concorrenza tra loro,
dice Poole. Qualsiasi sia l'ammontare totale di un
salvataggio pubblico, visto che Fannie e Freddie sono oggi
tecnicamente insolventi (il valore stimato delle passivita'
supera il valore stimato degli assets) e anche se il
salvataggio fosse di "soli" $25 miliardi, la vera questione
non e' l'immediata sopravvivenza di questi due giganti
malati, ma il loro futuro di lungo termine. Al momento le
due agenzie distorgono il mercato al punto che il debito
pubblico nazionale degli Stati Uniti, che di solito viene
calcolato in circa $5 trilioni, di fatto sale con Fannie e
Freddie a $10 trilioni.
C'e' stato gia' un esempio di come gli Stati Uniti possano
vivere tranquillamente senza Fannie e Freddie, senza che ci
fossero problemi al mercato dei mutui immobiliari, scrive
l'ex governatore della Fed. Dopo uno scandalo finanziario
nel 2005, le autorita' diedero una stretta feroce alle
attivita' delle due agenzie. Il debito nazionale relativo ai
mutui residenziali sali' di $1.176 trilioni quell'anno,
anche se la quota di Fannie e Freddie sali' solo di $169
miliardi, appena il 14.4% del totale. In sostanza, il
mercato nel 2005 a mala pena si accorse che i concorrenti
privati delle due agenzie para-governative avevano garantito
o emesso l'85% dell'aumento dei mutui immobiliari in totale.
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com |
|
Merrill,
mutui e macerie 30 Luglio 2008 19:10 -
di
Macromonitor ______________________________________________
Merrill Lynch & Co., la
terza più grande casa d’investimento degli Stati Uniti,
procederà ad un aumento di capitale per 8,5 miliardi di
dollari e venderà 30,6 miliardi di dollari di obbligazioni
ad un quinto del loro valore nominale, nel tentativo di
rafforzare il proprio merito di credito, prostrato dale
perdite sui mutui. Temasek Holdings, il fondo sovrano di
Singapore divenuto il maggior azionista di Merrill dopo
l’acquisto di una partecipazione in dicembre, acquisterà
altri 3,4 miliardi di dollari di azioni, e riceverà da
Merrill circa 2,5 miliardi di dollari per compensare le
perdite subite sul precedente investimento. La casa
d’investimento statunitense procederà inoltre nel terzo
trimestre ad ulteriori svalutazioni per 5,7 miliardi di
dollari.
Dal momento dell’insediamento dell’attuale Chief Executive
Officer, John Thain, lo scorso dicembre, Merrill ha raccolto
capitale azionario per 30 miliardi di dollari, nello sforzo
di tenere il passo con le continue svalutazioni di crediti
ipotecari. Il mese scorso l’agenzia di rating Standard &
Poor’s ha tagliato il merito di credito di Merrill da A+ ad
A, annunciando la possibilità di ulteriori declassamenti. La
ricapitalizzazione rappresenta evidentemente una pesante
penalizzazione per gli attuali azionisti, che subiranno una
forte diluizione (le nuove azioni determineranno infatti un
aumento del 36 per cento nel numero delle azioni circolanti
rispetto allo scorso 30 giugno), mentre gli obbligazionisti
potrebbero (ma il condizionale è d’obbligo) vedere almeno la
stabilizzazione del continuo deterioramento del merito di
credito della casa d’investimento, che li ha finora
pesantemente penalizzati.
Nel tentativo di fare cassa Merrill nelle ultime settimane
ha venduto la propria partecipazione nell’agenzia di stampa
finanziaria Bloomberg, incassando 4,43 miliardi di dollari,
accettando un sacrificio di prezzo rispetto all’obiettivo
d’incasso, fissato a giugno in 5 miliardi di dollari.
Recentemente sono stati inoltre conclusi accordi per la
cessione del ramo d’azienda specializzato in amministrazione
di fondi comuni, Financial Data Services, per 3,5 miliardi
di dollari.
Merrill ha anche proceduto a vendere 30,6 miliardi di
dollari di collateralized bond obligations (CDO), per soli
6,7 miliardi di dollari, il 22 per cento circa del valore
nominale. Il compratore è un’affiliata dell’investment
manager texano Lone Star. A conferma del fatto che sui
titoli finanziari la stagione dei saldi non è ancora finita,
sarà la stessa Merrill Lynch a fornire circa il 75 per cento
del finanziamento del prezzo d’acquisto, con una propria
linea di credito. E’ interessante notare che il
finanziamento è garantito unicamente dai titoli venduti, il
che significa che Merrill assorbirà l’eventuale perdita sui
CDO che ecceda 1,68 miliardi di dollari. La cessione di tali
CDO darà origine ad un’ulteriore svalutazione trimestrale
ante-imposte di 4,4 miliardi di dollari nel terzo triemstre.
Meno di due settimane fa Merrill annunciava svalutazioni su
CDO per il secondo trimestre pari a 3,5 miliardi di dollari.
Da inizio anno Merrill ha perso circa il 55 per cento del
proprio valore azionario. Solo Lehman Brothers ha perso di
più all’interno dell’indice Amex Securities Broker/Dealer,
con un calo di circa il 77 per cento.
Le continue ricapitalizzazioni di Merrill Lynch sono
avvenute in parallelo con le rassicurazioni della società
riguardo l’adeguatezza della propria base di capitale. Ma
evidentemente l’entità dei crediti da svalutare e la scarsa
propensione alla trasparenza (comportamento comune a tutti
gli intermediari finanziari e creditizi dall’inizio della
crisi dei mutui, un anno fa, ed alla base degli elevati
tassi interbancari, indotti da incertezza sulla solvibilità)
è sostanzialmente superiore alle previsioni. All’inizio
della crisi Merrill Lynch aveva sui propri libri
obbligazioni collateralizzate per circa 50 miliardi di
dollari. Ad oggi ne sono rimasti circa 8,88 miliardi di
dollari. I CDO incidono per 27 miliardi di dollari su un
totale di svalutazioni per 41 miliardi di dollari. Un dato
che fornisce la misura del danno provocato dalla crisi dei
mutui e dei prodotti strutturati ad essi legati.
 |
Fonte - Macromonitor |
|
L’industria che verrà
17 Luglio 2008 16:36 MILANO - di Sara
Silano ________________________________________
Gli investitori hanno ragionevoli
motivi per essere insoddisfatti dei rendimenti dei fondi italiani,
ma esiste un 25% di strumenti che può competere con gli esteri. E
sono quelli con un portafoglio prevalentemente azionario e un
profilo di rischio/rendimento più efficiente. A sostenerlo è
Marcello Messori, presidente di Assogestioni, sulla base di uno
studio, curato dal neonato ufficio studi dell’associazione di cui è
responsabile Alessandro Rota e presentato in un incontro dal tema
“Problemi aperti nel settore del risparmio gestito”.
Le performance da sole, però, non sono sufficienti per spiegare una
crisi strutturale, cominciata nel 2001, che ha accelerato
nell’ultimo anno per effetto del calo dei mercati. Messori indica
due altri fattori: l’inefficiente allocazione temporale dei
portafogli, per cui gli investitori si sono persi l’intero ciclo di
rialzo delle Borse cominciato nel 2003, e gli eccessivi costi di
distribuzione che si sono mangiati tutto il valore aggiunto generato
dalla gestione.
Colpa dei produttori che hanno sfornato fondi a capitale protetto e
garantito anziché azionari o dei collocatori che hanno indirizzato i
risparmiatori verso porti sicuri o, ancora, di questi ultimi che,
dopo la doccia fredda del 2000, non hanno più voluto avvicinarsi
alle azioni, sintomo di una ancora scarsa educazione finanziaria?
Tutti e tre hanno delle responsabilità e la crisi si può superare se
ognuno fa la sua parte. Il tavolo convocato dalla Banca d’Italia tra
istituti di credito e società di gestione dovrebbe pubblicare a
breve la ricetta suggerita per far ripartire l’industria. Assogestioni, dal canto suo, ha già avanzato alcune proposte, come
la rimozione delle disparità fiscali e regolamentari rispetto ad
altri prodotti, l’introduzione di incentivi per gli investimenti di
lungo termine e diversificati, la classificazione dei fondi aperti
come servizi di default per la loro semplicità e trasparenza,
l’evoluzione del mercato verso una varietà di forme proprietarie e
di rapporti tra produzione e distribuzione che incentivino la
concorrenza.
Il recupero di competitività è un passo obbligato non solo per
migliorare la qualità dei servizi offerti agli investitori e far
emergere l’eccellenza, ma anche per affrontare le nuove sfide che
pone l’apertura del mercato europeo. La direttiva Ucits IV darà il
“passaporto europeo” alle società di gestione, per cui non saranno
più necessarie divisioni operative nei diversi Paesi, ma potrà
essere gestito tutto dalla sede centrale (con l’eccezione dei
servizi di banca depositaria), con il supporto, per le realtà più
piccole, di operatori specializzati nei servizi amministrativi, di
controllo e marketing.
L’offerta italiana deve migliorare sia aumentando la qualità della
gestione dei prodotti esistenti che gestiscono 269 miliardi di euro
dei risparmiatori (quelli con cinque stelle di Rating Morningstar
sono meno del 3% contro una media europea del 10%), sia innovando in
due direzioni. La prima è stata indicata dal presidente di
Assogestioni, ossia la combinazione dell’aspetto previdenziale e di
quello finanziario in fondi semplici adatti ad accompagnare
l’investitore lungo il suo ciclo di vita (negli Stati Uniti è acceso
il dibattito sulla costruzione di portafogli che tengano conto di
questo aspetto).
La seconda, più di nicchia, è legata alle nuove opportunità che
derivano dalla Ucits III in termini di maggior flessibilità e di uso
di strategie simili a quelle degli strumenti alternativi. Nel
documento di consultazione sui cosiddetti eligible asset, la Banca
d’Italia propone di etichettare i fondi di nuova generazione come
“sofisticati” e impone l’uso di modelli adeguati di controllo del
rischio. A questo proposito, come osserva Carlo Camperio Ciani,
amministratore delegato di Casa4funds sulla base della sua
esperienza in Lussemburgo e Svizzera, il VaR (value at risk) è
l’indicatore statistico riconosciuto come più oggettivo, ma è
auspicabile anche l’adozione di misure che permettano di valutare la
coerenza della strategia con quanto previsto dal prospetto
informativo. E’ altresì necessario che i prodotti complessi siano
venduti a chi è in grado di comprenderli e di sostenere la maggior
rischiosità e non diventino uno specchietto per le allodole, come
accaduto in passato per altri strumenti “di moda”.
 |
Fonte - MorningStar.it |
Etf
fedeli ed economici 22 Luglio 2008 11:35 MILANO -
di Sara Silano ______________________________________________
Secondo uno studio di Morningstar, il grado di passività è
elevato e il costo competitivo anche con lo spread.
Sara Silano | 22/07/2008 11.35 | Invia Articolo per E-mail |
Copyright | Aggiungi ai preferiti
Replicanti, gli Exchange traded fund (Etf) non lo sono solo
sulla carta. Secondo uno studio realizzato da Morningstar, i
fondi indicizzati quotati presentano un alto tasso di
fedeltà al paniere di riferimento, che si riflette in
rendimenti sostanzialmente allineati. Inoltre, hanno costi
medi complessivi inferiori ai fondi comuni tradizionali,
soprattutto a quelli destinati alla clientela privata.
La ricerca, commissionata da Eurizon Capital, è stata
condotta sugli Etf quotati a Piazza Affari, specializzati
sulle principali aree geografiche (Europa, Asia, Stati
Uniti, emergenti e globali) e sugli obbligazionari
governativi euro. Sono stati esclusi gli strumenti che
investono in società a medio/piccola capitalizzazione e le
materie prime, i settoriali, gli strutturati e altri Etf di
nuova generazione.
Quanto sono fedeli
Per definizione gli Etf sono fondi passivi che replicano un
indice nella sua composizione e nei suoi pesi. Esistono,
tuttavia, fattori che possono incidere sul tasso di fedeltà,
quali la revisione periodica dei benchmark, le difficoltà di
accesso ad alcuni mercati e la minor liquidità di altri.
L’analisi, condotta su 56 Etf, ha mostrato, però, che gli
scostamenti, misurati come volatilità dei rendimenti
differenziali rispetto al benchmark (tracking error
volatility) sono minimi. Nell’ultimo anno, tra gli strumenti
con i valori più elevati ci sono gli azionari Usa, che hanno
risentito dell’alleggerimento delle posizioni nel settore
finanziario, uno dei più rappresentati nell’indice S&P 500,
dopo la crisi dei mutui subprime (quelli di bassa qualità).
Da gennaio, l’extra-performance degli Etf rispetto ai
rispettivi benchmark è stata in media di -0,13%, una
variazione troppo esigua per poter affermare che rendono
meno degli indici di riferimento. Solo il 13,7% dei
replicanti ha fatto peggio, di oltre 50 punti base, soglia
considerata discriminante, perché differenziali inferiori
sono attribuibili ai flussi di acquisto o altri fattori che
possono provocare divergenze temporanee. I risultati non
sono molto diversi se si considerano orizzonti più lunghi,
come gli ultimi dodici mesi. I fondi più fedeli sono gli
obbligazionari governativi euro e una delle spiegazioni più
plausibili è la minor volatilità dell’indice sottostante,
composto da titoli di Stato con un buon rating. Un altro
aspetto importante è la liquidità del paniere replicato. Ad
esempio, gli Etf sul DJ Eurostoxx50, l’indice delle 50
società a maggior capitalizzazione europee, sono più
allineati rispetto a quelli che replicano panieri più ampi o
particolari (etici, ad alto dividendo, ecc.).
Se al Ter aggiungi lo spread...
Il costo, che è tra i principali accusati dei deludenti
risultati dei fondi comuni tradizionali, non incide, invece,
sulle performance e sul tasso di fedeltà degli Etf. Infatti,
tanto gli strumenti meno onerosi quanto quelli più cari
mostrano uno scostamento medio prossimo allo zero. Il costo
sembra, invece, essere una discriminante per quanto riguarda
i volumi (gli strumenti con commissioni minori hanno scambi,
in termini di controvalore, superiori), ma su questi
incidono i flussi degli investitori istituzionali, che usano
gli Etf nella costruzione dei portafogli per coprire aree
strategiche, come ad esempio l’Euro-zona o gli Stati Uniti.
Il minor costo rispetto ai fondi tradizionali è stato uno
dei fattori che ha favorito lo sviluppo del mercato
italiano, che nell’ultimo anno ha visto crescere del 48% gli
scambi in termini di controvalore, nonostante la crisi delle
Borse. Ma gli Etf sono davvero sempre meno costosi?
Generalmente il confronto avviene sul Ter (Total expense
ratio o indice di spesa medio), dal momento che gli Etf non
hanno commissioni di ingresso, uscita e switch (per
acquistarli si sostiene un costo di negoziazione che dipende
dall’intermediario, come per una qualsiasi azione).
Tuttavia, essendo strumenti quotati, esiste un altro
“onere”, rappresentato dallo spread (differenziale) tra
prezzi di acquisto e di vendita (bid-ask).
Lo studio, che ha riguardato 87 Etf quotati a Piazza Affari
e si è basato sui dati di spread forniti da Borsa italiana,
ha messo in luce che, anche aggiungendo al Ter questa
variabile, la spesa complessiva è inferiore a quella media
dei fondi collocati tra i clienti privati (sono invece
leggermente più competitive le classi riservate agli
istituzionali e specializzate su aree particolari come i
mercati emergenti).
Gli Etf meno costosi sono quelli di prima generazione,
mentre gli ultimi, quantitativi, fondamentali e strutturati,
hanno costi superiori. Il confine con i fondi è più sottile
non solo a livello di strategie, ma anche di commissioni.
Ha collaborato Marco Frittajon, analista di Morningstar.
L'articolo è stato pubblicato sul CorrierEconomia del 14
luglio.
 |
Fonte - MorningStar.ir e
CorrierEconomia
|
|
Rischio-Italia
sui mercati
25 Luglio 2008 09:32 ROMA - di Massimo
Giannini ________________________________________
I cittadini tedeschi sono
preoccupati. L'indice Ifo sulla fiducia delle imprese è crollato ai
livelli più bassi dall'11 settembre, e la cancelliera Angela Merkel
li ha informati che la Germania non riuscirà ad evitare la "tempesta
perfetta" che sta sconvolgendo l'economia finanziaria, e che nel
2009 produrrà i suoi effetti negativi sull'economia reale: la
crescita di quest'anno non raggiungerà l'obiettivo del 2,2%.
Cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che di fronte al "disaster
capitalism" celebrato da Naomi Klein si ritrovano con un indice Isae
sulla fiducia delle imprese già ai livelli peggiori dal 2001 e con
un Prodotto lordo a crescita zero? La manovra approvata dalla Camera
non può confortarli. Dispone la "quantità" del risanamento, ma non
propone la "qualità" dello sviluppo.
C'è un "caso Europa", che ormai non si può più sottovalutare. Lehman
Brothers parla per la prima volta di rischio-recessione
nell'Eurozona. Ma da qualche settimana sui mercati c'è anche un
"caso Italia", che ormai non si può più nascondere.
Il Bollettino economico della Banca d'Italia aveva registrato, tra
l'inizio di aprile e i primi giorni di luglio, una riduzione del
premio di rischio sui titoli italiani. Il differenziale di
rendimento tra le obbligazioni emesse da società non finanziarie con
elevato merito di credito e i titoli di Stato era sceso di 0,3 punti
percentuali, un calo addirittura maggiore di quello registrato dagli
emittenti di altri Peasi europei. Ma nelle ultime due settimane lo
spread tra i nostri Bpt decennali e i Bund tedeschi ha ripreso
impercettibilmente ma inesorabilmente a crescere, tra i 50 e i 60
punti base.
In un mercato già di per sé volatile, gli operatori internazionali
non si fidano di un Paese che non sembra in grado di risolvere i
suoi problemi, endemici e sistemici, già ricordati da Mario Draghi
nella sua audizione in Parlamento il 2 luglio scorso: indebitamento
strutturale in aumento (più 0,6% al netto delle una tantum), spesa
corrente in tensione (per la prima volta oltre il 40% del Pil),
produttività in caduta libera (nel privato e soprattutto nel
pubblico impiego), costo del lavoro per unità di prodotto in ascesa
costante (più 4,5% tra inizio 2007 e primo trimestre 2008).
Ma c'è un altro termometro, che riflette con inquietudine crescente
il grafico della "febbre italiana" di queste settimane. È il prezzo
dei "Credit default swap", cioè le polizze di assicurazione
sottoscritte dagli investitori che vogliono ricoprirsi dai rischi di
insolvenza sui titoli obbligazionari emessi da un Paese.
Nel mese di luglio, sui mercati, il costo dei "Cds" nell'Eurozona è
schizzato alle stelle per tutti i bond messi in circolazione dagli
Stati con i tassi di crescita più bassi, le finanze pubbliche più
critiche e i sistemi bancari più esposti. Dal 5 giugno scorso,
giorno dell'allarme inflazione lanciato dal presidente della Banca
centrale europea Trichet, assicurare un pacchetto di titoli di
debito italiani del valore di 10 milioni di euro costa 15 mila euro
in più.
Peggio dell'Italia, tra i 15 di Eurolandia, va solo la Grecia, con
un "rincaro" di 16 mila euro, mentre vanno un po' meglio il
Portogallo (più 14 mila euro), la Spagna (più 13 mila euro) e
l'Irlanda (più 10 mila euro). A reggere l'urto restano solo la
Germania (con un aumento di mille euro) e in parte la Francia (più 3
mila euro).
Cosa significa tutto questo? Il nostro Paese, suo malgrado, è
tornato ad essere un sorvegliato speciale in Europa. È l'anello
debole di una catena che non si può più spezzare (è irrealistica
l'ipotesi che l'Italia esca dal sistema monetario europeo) ma che ci
può soffocare (ogni aumento dei tassi di interesse deciso dalla
banca centrale aumenta il costo già esponenziale del nostro debito
pubblico).
L'euro ci ha salvato, come ripete Lorenzo Bini Smaghi: "Se non
fossimo nella moneta unica - secondo il membro italiano del board
della Bce - oggi ci ritroveremmo nel baratro in cui cademmo nel
1992". Ma l'ombrello dell'euro non può bastare. Per questo la
manovra economica triennale che da oggi passa all'esame del Senato è
palesemente deficitaria, come denunciato dal governatore di Via
Nazionale. Nel primo anno ruota tutta intorno agli aumenti delle
entrate, e nei due anni successivi si affida a un piano di riduzione
delle spese quasi interamente affidato al conto capitale (cioè agli
investimenti), agli enti locali (che saranno costretti a ridurre il
perimetro del Welfare) e ai ministeri (che di perdere il
"portafoglio" non ne vogliono sapere).
La nave europea non va. E noi siamo, ancora una volta, la zavorra.
Lo dice oggi il Fondo monetario, che ha appena rivisto il suo
outlook. Lo dirà il 7 agosto la stessa Bce, nell'ultimo consiglio
prima delle vacanze. L'"allerta" sull'Italia e sull'impennata dei
premi sui suoi "Credit default swap" non è un complotto delle
tecnocrazie senza popolo. È nei fatti: lo ha lanciato il Financial Times tre giorni fa. Il "warning" della bibbia del capitalismo
finanziario internazionale è caduto nell'indifferenza generale.
Si capisce che nel governo nessuno raccolga questi segnali.
Berlusconi considera la magistratura "un cancro da estirpare", e
ovviamente è troppo preso dalla sua rituale "caccia alle toghe".
Tremonti giudica la speculazione "una peste del XXI secolo", e
naturalmente è troppo impegnato nella sua virtuale "caccia agli
untori". Ma i mercati globali sanno valutare i pericoli. Le
istituzioni finanziarie sanno giudicare le politiche. Sarà banale,
ma mai come stavolta si può dire che chi semina vento raccoglierà
tempesta.
 |
Fonte - La Repubblica |
I buoni della Posta
battono i Fondi 48 a 5
29 Luglio 2008 14:41 TORINO - di Beppe
Scienza ________________________________________
Com’è possibile che da inizio 2008
siano usciti dai fondi d’investimento italiani solo 70 miliardi di
euro? Anziché alzare alti lai per deprecare la cosiddetta fuga dai
fondi, questa è la vera domanda da porsi.
Sorvoliamo sulla questione che tale dato andrebbe preso con le
molle. Proviene infatti dalla principale organizzazione
dell’industria patria del risparmio gestito (Assogestioni), che
indiscutibilmente è un soggetto di parte. Pare per esempio che
trascuri, per incompetenza o furbizia, i flussi dovuti alla
distribuzione di proventi. Possiamo considerarlo comunque indicativo
dell’ordine di grandezza di un fenomeno, che è sconcertante appunto
per le sue limitate dimensioni.
Sulla base dei danni che il risparmio gestito ha provocato e provoca
ai risparmiatori italiani, c’era da aspettarsi ben altro. Cioè
un’uscita in massa dei circa 1.000 miliardi che continua ad avere
sotto le sue grinfie, salvo qualche decina di miliardi, gestiti
magari benino.
Rendimenti vicini allo zero.
Il periodo esaminato è molto significativo: a metà giugno
1998 parte la cosiddetta tassazione dei capital gain, sei mesi dopo
arriva l'euro sui mercati finanziari, contemporaneamente vengono
riorganizzate le categorie dei fondi, molti cambiamo tipologia ecc.
Ebbene, sono dieci anni che i clienti dei fondi guadagnano in media
lo 0,5% l’anno, cioè praticamente nulla. Quasi come aver tenuto i
soldi sotto il mattone. Bastava lasciarli su un libretto postale, un
conto di deposito ecc. per ottenere di più.
Se infatti consideriamo 193.627 lire, ovvero l’equivalente di 100 €,
investiti a metà 1998 nei fondi comuni italiani, scopriamo che in
media a metà 2008 erano diventati la bellezza di 105,1 €. Lo dicono
gli indici generali dei fondi elaborati dalla Fideuram. Di nuovo è
una fonte di parte, ma possiamo escludere che i dati siano stati
taroccati per farli apparire peggiori che nella realtà; semmai sono
stati abbelliti.
Singoli fondi si sono discostati da tale performance, ma essa indica
che per la maggior parte essi hanno registrato perdite più o meno
pesanti o, nei casi migliori, guadagni nominali irrisori. Il dato
medio è poi significativo per le gestioni patrimoniali in fondi (Gpf)
che di regola vengono confezionate mescolando decine di fondi dalle
politiche di gestione alquanto diversificate.
Il peggio è che in termini reali la stragrande maggior parte dei
clienti dei fondi ci ha rimesso di brutto. Ragionando in potere
d’acquisto, essi avevano 100 € e si sono ritrovati a fine giugno
scorso con più solo 84 €. Ciò significa un –16% (meno sedici per
cento).
Distruggere ricchezza. C’è veramente da non crederci, in quanto tale
perdita non è dipesa dall’andamento dei mercati finanziari. È tutta
colpa dei gestori e ovviamente delle banche, assicuratori, promotori
finanziari ecc. che gli hanno dato in pasto al risparmio gestito
così tanti soldi, raccolti fra i propri clienti. Si stima infatti
che esso abbia messo le mani sul 40% della ricchezza finanziaria
degli italiani.
Se però il cliente dei fondi comuni in media non ha guadagnato quasi
nulla neppure in termini monetari, tutt’altri risultati ha ottenuto
il suo amico, il suo collega, sua madre ecc. che non si erano
spossessati dei propri risparmi. Anche con competenze modestissime e
impegno minimo, nello stesso periodo hanno di regola incrementato il
proprio gruzzoletto o magari il proprio ingente patrimonio. Il
risparmio gestito è infatti democratico: proporzionalmente danneggia
il ricco erede circa quanto erode i 20 o 30 mila euro del piccolo
risparmiatore.
Vediamo le performance dei più
significativi investimenti mobiliari dei risparmiatori italiani.
Tutti hanno reso di più: i Bot, i Cct, i Btp, in media le stesse
azioni italiane e persino i buoni fruttiferi postali. Questo è il
colmo: la proverbiale vecchietta, che poi magari era un ingegnere
trentenne, ha ottenuto il 48% anziché il 5%.
Sono migliori i rendimenti nel decennio anche per le azioni europee
(+1,6% netto l’anno) e invece negativi per quelle americane (-0,7%),
che non sono certo l’investimento tradizionale prevalente di un
normale risparmiatore italiano. Insomma, comunque la si giri, si
giunge a conclusioni analoghe a quelle delle pregevoli ricerche
dell’ufficio studi di Mediobanca, diretto da Fulvio Coltorti. La
gestione professionale del risparmio funziona così, bellezza!
Rigirare la frittata. Perché, malgrado l’evidenza dei fatti e contro
la propria convenienza, così pochi riescono a liberarsi dai lacci e
lacciuoli che li tengono imbrigliati nel risparmio gestito? In parte
sono frenati da trappole contrattuali, quali le furbesche
commissioni di uscita dai fondi, o dalla convinzione infondata che
sia sbagliato smobilizzare un investimento in perdita.
Poi ce la mettono tutta molti organi d’informazione. Ecco per
esempio Marco Liera che proprio nell’ottobre 1998 nel libro
"Investire in fondi comuni" del Sole 24 Ore (ISBN 88-7187-908-2)
dava ordini ai risparmiatori italiani: "I fondi comuni azionari non
sono autobus dai quali si entra e si esce a piacimento: richiedono
fedeltà assoluta!" (pag. 51, in neretto). Come dire? Ammettiamo che
uno si accorga che il suo fondo è gestito malissimo, che da anni
perde mentre gli altri guadagnano ecc. Ebbene, deve continuare a
rimetterci per far contenti i giornalisti confindustriali.
Impiegati di banca e promotori sono poi esperti nel manipolare la
realtà quando il cliente manifesta la propria insoddisfazione.
Esiste tutta una serie di tecniche per fargli credere che le perdite
sono imputabili a sue scelte sbagliate, quando invece sono
regolarmente dovute a inettitudine o malversazioni di gestori e
intermediari vari, nonché ai consigli dannosi fornitigli.
L’industria del risparmio gestito ha addirittura forzato una
disciplina, cioè la finanza comportamentale, al fine di rigirare
meglio le carte in tavola e ribaltare sui risparmiatori le
responsabilità del suo fallimento.
Padroni dei propri soldi. È vero che al deflusso dai fondi comuni,
sostanzialmente iniziato nel 2007, concorrono pure altre cause. Da
un lato i travasi pilotati verso fondi di diritto estero, ancor meno
trasparenti, soggetti ad ancor minori controlli e svantaggiati
fiscalmente in caso di perdite. Dall’altro quelli verso altri
prodotti-trappola del risparmio gestito, a volte persino un poco
peggiori (obbligazioni strutturate, formule pseudo-previdenziali
ecc.).
È però un fatto che, a fronte di anni e anni di perdite o di
rendimenti prossimi allo zero, i risparmiatori incominciano a capire
che l’errore sta nel manico. E la soluzione migliore è riprendere in
mano il controllo dei propri quattrini, per metterli titoli di
stato, buoni postali indicizzati all’inflazione ecc. o addirittura
anche solo in conti di deposito (Conto Arancio, Banco di Santander,
Chebanca ecc.). Questo però non lo dicono i tanti giornalisti ed
economisti in quota al risparmio gestito.
|