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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Mercati finanziari - Situazione

Borse in preda al panico, ma il peggio ...

Microeconomia

E perfino il Papa perde e chiude i bilanci in rosso

Mercati finanziari - Situazione e previsione

Borsa: non smontate baracca e burattini

Mercati finanziari - Situazione e previsione

Per le borse,  sarà peggio del 2000-2003

Comportamenti socio/finanziari

Suicidi e boom di divorzi,  la crisi sconvolge gli USA

Mercati finanziari - Situazione e previsione

Azionario, smontare le posizioni lunghe ?

Finanza italiana - Risparmio gestito

L’industria che verrà

Finanza italiana - Situazione Paese

Rischio-Italia sui mercati

Finanza italiana - Risparmio gestito

I buoni della Posta battono i Fondi 48 a 5

   
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+++   ANSA  +++  02 Luglio 2008 19:30 MILANO - di ANSA  +++  BORSA: MONDO BRUCIA 1.900 MLD A GIUGNO, MILANO IN CODA/ANSA   +++   02 Luglio 2008 20:48 NEW YORK   +++   PETROLIO: ANCORA RECORD, A LONDRA SUPERA 144 DOLLARI   +++   ANSA  +++
 
  Venerdì 04 luglio 2008   Sabato 05 luglio 2008   Mercoledì 09 luglio 2008  
       
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   Borse in preda al panico, ma il peggio potrebbe ancora arrivare

Martedì 1 Luglio 2008, 22:37 - di Alberto Susic
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Archiviati i primi sei mesi del 2008, con una flessione nell'ordine di circa il 22%, facendo così del primo semestre il peggiore degli ultimi venti anni, le Borse europee hanno vissuto anche quest'oggi un'altra seduta al cardiopalma. Dopo li rimbalzo realizzato ieri nel finale, le vendite hanno ripreso il sopravvento a distanza di poche ore, costringendo gli indici del Vecchio Continente a riportare cali anche superiori ai due punti e mezzo percentuali nell'intraday. Nel finale si è avuto un parziale recupero che ha permesso di limitare solo in parte i danni, tanto che nella giornata odierna sono andati in fumo quasi 150 miliardi di euro. Migliore appare invece la situazione in America dove i tre indici principali, hanno toccato nuovi minimi con cali di oltre l'1%, dando vita però ad una reazione che li ha riportati al di sopra della parità. Diversi i fattori che stanno mettendo sotto pressione i mercati, a partire dal caro-petrolio e più in generale delle materie prime, oggetto di numerosi acquisti. A questo si ricollega anche un'altra grande preoccupazione, rappresentata dall'inflazione, che rischia di costringere le Banche Centrali a rimettere mano ai tassi di interesse, con la minaccia di ritocchi verso l'alto nel breve. Giovedì prossimo la BCE dovrebbe annunciare l'atteso rialzo di un quarto di punto, ormai scontato dal mercato, che però attende con apprensione di capire se questa mossa sarà seguita da altre nei mesi a venire.
A zavorrare i listini azionari sono anche i timori legati al comparto bancario, per il quale si profilano nuove perdite e svalutazioni, con la minaccia di ulteriori aumenti di capitale che vengono sempre mal digeriti dalle Borse. La crisi del credito appare ancora ben lungi dall'essere superata, diversamente da quanto si era creduto un paio di mesi fa, quando gli indici avevano dato vita ad un interessante recupero scommettendo però su un simile scenario.
A frenare gli acquirenti è anche l'attesa per la nuova stagione delle trimestrali, in particolare americana, che prenderà il via ufficialmente il prossimo 8 luglio. Gli operatori temono sgradite sorprese, tanto da aver messo già in conto una flessione degli utili in media superiore al 10%.

In considerazione di tutti questi elementi negativi, è facile comprendere come le prospettive delle Borse per i mesi a venire non siano poi così incoraggianti. Proprio ieri il presidente di M&G, Carlo De Benedetti, ha dichiarato di non vedere cielo sereno per i prossimi mesi, ritenendo che il peggio non sia ancora arrivato. Durerà ancora a lungo infatti la crisi che vede un'economia in sofferenza, non solo per la negatività sul versante finanziario ma anche per quella che interessa il settore immobiliare.
Indicazioni simili giungono dalla BRI, la Banca dei Regolamenti Internazionali, che non ha fatto mistero del suo pessimismo, dichiarando a chiare lettere che il peggio della crisi dei mercati potrebbe ancora arrivare. Si tratta di una crisi senza precedenti nel dopoguerra, spiegando che gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che l'entita' dei problemi a venire potrebbe essere ben maggiore
di quanto molti attualmente ritengono.

Anche i toni usati dalle banche d'affari relativamente alle prospettive future dei mercati sono segnati da non poco pessimismo. Con riferimento in particolare all'azionario europeo, a lanciare ancora una volta un allarme è Morgan Stanley (SPU - notizie) che dopo aver messo in guardia dalla fine del ber market rally agli inizi di maggio, prospetta scenari poco felici per il futuro. L'idea è che le valutazioni siano ora interessanti, accompagnate da un sentiment ribassista che è da leggere positivamente in ottica contrarian. Questo però non deve indurre ad abbassare la guardia, perché i fondamentali sono ancora negativi e sulla base degli stessi Morgan Stanley stima un downside di un ulteriore 10% per l'azionario del Vecchio Continente. La fase orso è destinata a durare ancora per almeno altri sei mesi e forse anche nove e si avvierà alla conclusione solo quando sarà raggiunto il punto di minimo degli utili e si avrà un allentamento delle tensioni sul fronte inflazionistico.
La strategia suggerita è quella di mantenere una buona dose di liquidità in portafoglio, limitando l'esposizione all'azionario, prediligendo in ogni caso temi difensivi come le utilities, gli energetici e i farmaceutici.
A predicare cautela sull'Europa è anche Ubs (Virt-X: UBSN.VX - notizie) che consiglia di sottopesare l'investimento in quest'area, a vantaggio di quello americano, anche se le attuali valutazioni nel Vecchio Continente scontano già un netto calo degli utili societari nei prossimi trimestri. In linea con quanto suggerito da Morgan Stanley, anche la banca elvetica consiglia di puntare sul settore energy, al quale però si affiancano gli industriali, senza trascurare il comparto tecnologico e quello delle telecomunicazioni.
E' bene invece mantenere le distanze dai finanziari, che vanno comunque approcciati con grande cautela, stando alle indicazioni strategiche di ING. Gli analisti ritengono che non sia ancora giunto il momento di abbandonare la cautela di questi mesi, che dovrà accompagnarci anche nella seconda metà del 2008. Ma i finanziari non sono i soli a cui prestare attenzione, perché il brokers olandese vede insidie anche tra i ciclici, che sono da evitare in vista di sorprese negative che potrebbero arrivare nei prossimi mesi. In generale il consiglio è di puntare sui titoli a grande capitalizzazione, rappresentativi di società che presentano solidi bilanci e vantano una crescita dei profitti superiore alla media, dal momento che gli stessi offrono una maggiore difesa dalle turbolenze dei mercati.

 

Fonte - Trend on line.com

 

 

 

 

DOPO I CALI, WALL STREET SOGNA IL RALLY D'AUTUNNO
 

03 Luglio 2008 01:30 NEW YORK - di WSI
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L’ estate è una stagione insidiosa per Wall Street. Secondo il vecchio adagio «vendi in maggio e vattene via» gli investitori dovrebbero starne alla larga. I tre mesi estivi spesso vedono un volume ridotto di scambi e un calo generale degli indici. I peggiori scivoloni estivi negli ultimi 20 anni sono stati nel 1990 con -13,6% (prima guerra del Golfo; recessione), nel 1998 con -7% (crisi finanziaria della Russia), nel 2001 con -21,9% (post Bolla) e nel 2002 con -14,5% (bancarotta di WorldCom, la maggiore nella storia Usa). Ma nel 2003 e nel 2006 le estati sono state più generose con gli investitori, offrendo loro rialzi rispettivamente del 4,1% e 5,3%. E l’anno scorso, nonostante lo scoppio della crisi dei mutui subprime, da fine giugno (inizio dei problemi di Bear Stearns) a fine settembre Wall Street non è andata in rosso (+0,2%).
Come saranno il prossimi tre mesi e, in generale, la seconda parte del 2008? Il primo semestre è stato negativo con un calo dell'11% dell'indice Dow Jones e del 10% sia per l'S&P500 e il Nasdaq. Ma i risultati sono stati molto diversi settore per settore: dal crollo del 50,8% per le aziende dell'elettronica di consumo al +65,8% dei produttori di carbone. Un segno che proprio in un mercato difficile si possono trovare buone occasioni.
I risparmiatori più avventurosi possono guardare ai settori dei consumi non di base e ai titoli finanziari, dove le scommesse al ribasso sono molto pesanti per la paura della recessione e dei buchi nei bilanci delle banche.
«Il livello delle posizioni negative su questi due settori è tale da suggerire che forse è eccessivo — fa notare Jason Trennert di Strategas research partners —. Un po' di rafforzamento nei dati economici, l'umore degli investitori super pessimista e le valutazioni ragionevoli delle azioni possono essere gli ingredienti di un cocktail per un rally estivo di Wall Street». Il rapporto prezzo/utili delle 500 società dell'indice S&P viaggia oggi attorno a 17,2 e, se si escludono i titoli finanziari, è pari a 16,2, una valutazione appunto ragionevole, ma non sufficiente a giustificare una nuova fase di rialzo di Borsa se non si raffredda l'inflazione, avverte Trennert.
Anche Tobias Levkovich , responsabile delle strategie azionarie Usa di Citi , crede che i prezzi delle azioni americane oggi siano piuttosto attraenti: il 17% inferiori al valore equo calcolato in rapporto ai rendimenti dei bond a rischio zero e al premio storico per il rischio di Borsa. Ma secondo Levkovich un rally sostenibile non può avvenire quest'estate ed è invece probabile che inizi più tardi verso fine anno, dopo una nuova fase di ribassi.
«Quest’anno l'andamento della Borsa è fatto a W — aggiunge Levkovich —. Forse abbiamo cominciato a scendere nella seconda V. Le stime della media degli analisti per gli utili dei prossimi trimestri sono troppo alte, in particolare per i settori industriali e delle materie prime; e quando saranno riviste al ribasso Wall Street toccherà nuovi minimi».
Lo strategist di Citi però non vede tutto nero. Anche se l'America fosse all'inizio di un periodo di stagflazione — stagnazione più inflazione — non è detto che il mercato finanziario debba andar male. Anzi, durante i periodi di stagflazione dagli anni 70 a oggi (1970, ’74-’75, ’80, ’82 e ’91), l’indice S&P500 in media è cresciuto del 6% (con un massimo del 18,8% nell’80 e un calo del 10,7% nel ’74-’75), mentre i prezzi di oro e petrolio sono di solito calati, contrariamente a ciò che si aspettano molti investitori.
«Molti credono che l'attuale scenario sia simile al 1990-1991 per la crisi immobiliare e finanziaria, i rincari petroliferi, le pressioni geopolitiche e il dollaro debole — osserva Levkovich —. Se fosse vero, gli investitori azionari dovrebbero rallegrarsi, perché durante la stagflazione del ’91 l’S&P500 è salito del 12,4%, mentre dovrebbero preoccuparsi quelli che puntano sul petrolio, calato del 26% nello stesso periodo».
A spingere per un rally di fine anno dovrebbero esserci proprio le quotazioni petrolifere in calo per il rallentamento dell’economia globale e un nuovo impegno della Cina a combattere la propria inflazione. I settori preferiti dagli analisti di Citi sono banche-assicurazioni-servizi finanziari diversificati, i semiconduttori, la distribuzione commerciale, la farmaceutica e biotecnologia, i trasporti.
I comparti sottopesati sono l’energia, i beni capitali, le utilities, i materiali, l’auto, l’immobiliare, l’hardware tecnologico e la distribuzione alimentare.
Raccomandazioni molto diverse vengono da Standard & Poor's , che prevede difficoltà per tutto il mercato e in particolare per le azioni a larga capitalizzazione, a causa dello svanire degli effetti dello stimolo economico, oltre alle pressioni inflazionistiche e l’atteso rialzo dei tassi da parte della banca centrale Usa.
«Consigliamo di sovrappesare i titoli tecnologici, le cui valutazioni scontano già la recessione, e il comparto dei materiali, che di solito fa bene quando prevalgono i timori di inflazione — dice Sam Stovall , capo strategist di S&P —. Siamo neutrali sul settore dell’energia, perché crediamo che il prezzo del petrolio calerà. E sottopesiamo i titoli della salute e le utilities, le cui prospettive di profitti non sembrano all'altezza delle aspettative di mercato».
 

 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

Il volto nuovo della crisi
 

03 Luglio 2008 01:30 MILANO - di Sara Silano
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La crisi ha cambiato volto. Non è più soltanto una “questione” finanziaria, ma ha intaccato l’economia reale. Secondo Mohamed El-Erian, co-amministratore delegato di Pimco (colosso americano del reddito fisso), intervenuto alla Morningstar Investment conference di Chicago, “vedremo crescenti pressioni inflazionistiche di fronte alle quali né i mercati né gli apparati politici sono adeguatamente preparati”. Ma rassicura il manager, “non ci sarà nessun crack; semplicemente un riequilibrio globale della crescita, molto turbolento”.
Mai come in questi giorni gli investitori si sono sentiti nel bel mezzo della tempesta. Il petrolio brucia record su record, l’inflazione in Europa ha toccato il 4%, il livello più alto dall’ingresso della moneta comunitaria, le piazze finanziarie del Vecchio continente sono ai minimi degli ultimi quarant’anni. E il rincaro dei prezzi alimentari minaccia la stabilità sociale ed economica di molti Paesi in via di sviluppo. Le banche centrali sono nella difficile condizione di dover decidere politiche monetarie che contrastino il caro-vita importato dalle nazioni emergenti in un contesto di rallentamento della congiuntura.
Dopo cinque anni di rialzo ininterrotto, nel primo semestre l’indice Msci mondiale ha perso oltre il 18%, peggio ha fatto l’Europa (-20,6%), mentre il Giappone ha contenuto il ribasso intorno al 13%. Da gennaio, le categorie di fondi con rendimenti medi positivi sono tutte difensive. In particolare, i monetari e obbligazionari in franchi svizzeri hanno beneficiato di una divisa che è storicamente un porto sicuro e può contare su un quadro macro più solido rispetto ad altre aree sviluppate. Hanno guadagnato (+2%) anche i comparti specializzati in titoli inflation linked, che mettono al riparo dall’aumento dei prezzi, e in misura minore i prodotti di liquidità area euro (+1,4%).
Nell’ultimo trimestre, però, la situazione ai vertici della classifica per rendimenti è cambiata. Il forte rincaro del greggio ha infiammato i titoli energetici e, di conseguenza, i fondi specializzati nel settore (+15%) e nei Paesi produttori, in particolare l’America Latina e la Russia. Non sono invece avvenuti grandi cambiamenti nella parte bassa della classifica, con gli Azionari India e i finanziari fanalini di coda sia a tre che a sei mesi. Le vendite continuano a colpire le banche a causa della crisi creditizia, mentre la Borsa di Mumbai fa i conti con il rialzo dei tassi di interesse.
Secondo gli esperti, gli investitori devono prepararsi a navigare in acque agitate anche nella seconda parte dell’anno. Per farlo, El-Erian inviata ad “ascoltare” quello che il mercato ci sta dicendo. Guardando al passato, dice, le crisi asiatica, russa ed argentina negli anni Ottanta e Novanta e il collasso di Enron e WorldCom hanno reso più solidi i Paesi emergenti, in un caso, e il settore societario nell’altro, permettendo loro di opporre maggior resistenza alle turbolenze dell’ultimo anno. Per il comparto finanziario, si profilano analoghe “cure ricostituenti”.
Per il manager di Pimco, però, è un grave errore smettere di investire, piuttosto è importante decidere come gestire l’attuale fase, soprattutto valutare quale rischio si è disposti a correre e costruire il portafoglio coerentemente con esso. Inoltre, è necessario comprendere quanto gli eventi ciclici (come l’attuale) e i trend di lungo periodo incidono sul proprio patrimonio. Insomma, l’invito è a non cadere nella trappola degli schemi di breve termine dettati dall’emotività, perché i propri investimenti devono essere in grado di sopravvivere alle turbolenze future.
 
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

   E perfino il Papa perde e chiude i bilanci in rosso

10 Luglio 2008 00:46 SANTA SEDE - di WSI
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La Santa Sede chiude il 2007 con un bilancio in rosso. Il disavanzo netto alla fine dell'anno scorso risulta infatti pari a 9.067.960 euro. E' la prima volta da tre anni: nel 2004, 2005 e 2006 infatti i risultati erano stati positivi per un totale di 15.206.587 euro. I numeri sono stati diffusi dal Consiglio dei cardinali per i problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, che si è riunito la settimana scorsa.
Le entrate del Vaticano l'anno scorso hanno toccato quota 236.737.207 euro, mentre le uscite sono state superiori: 245.805.167 euro. E il risultato netto è quindi negativo.
Tre i capitoli presi in considerazione nel bilancio - attività istiuzionale, settore immobiliare e attività finanziaria: è quest'ultimo che ha originato l'inversione di tendenza. "Il settore si è chiuso con un avanzo netto di 1,4 milioni di euro contro 13,7 milioni di euro del 2006; si è avuta perciò una flessione di circa 12 milioni di euro, ascrivibile principalmente alla brusca ed assai accentuata inversione di tendenza nella fluttuazione dei tassi di cambio, soprattutto del dollaro statunitense". In lieve calo gli introiti da investimenti in titoli, in aumento invece gli investimenti nel comparto finanziario a breve termine. Insomma, è stato il supereuro a determinare il rosso delle finanze vaticane.
Il settore immobiliare "ha ottenuto un risultato positivo netto di 36,3 milioni di euro, superiore a quello registrato nel 2006 che si attestò a 32,3 milioni di euro. L'incremento in termini assoluti è di 4 milioni di euro, imputabile sia al maggior gettito delle locazioni, sia alle plusvalenze realizzate per la vendita di alcuni cespiti immobiliari. In aumento anche le spese dirette su immobili a reddito che da 15,4 milioni passano a 18,2 milioni di euro, con un aumento del 18%". Saldo negativo di 14,6 milioni di euro, poi, per Radio Vaticana e per l'Osservatore Romano. Quanto all'attività finanziaria della Curia romana, infine, sostanzialmente invariati sono stati i contributi degli episcopati (86.022.372 euro nel 2006, 86.143.257 euro nel 2007) e le spese (da 126,2 milioni di euro nel 2006 a 125,4 milioni di euro nel 2007.
Restano sostanzialmente stabili le voci riguardanti l'attività istituzionale della Santa Sede. Questo settore ingloba tutti i dicasteri della Curia Romana: Segreteria di Stato, Rappresentanze Pontificie, Congregazioni Romane, Pontifici Consigli, il Sinodo dei Vescovi e altri uffici. Dal momento che si tratta di organismi che assistono da vicino il Santo Padre nella sua missione di Pastore universale a servizio delle Chiese locali e a beneficio dell'intera umanità, essi non producono ricavi. Da qui il senso della disposizione che richiama i vescovi a venire incontro alle necessità della Santa Sede per sostenerne l'attività.
Nel 2007, oltre ad altri introiti di minore entità, i contributi arrivati da Conferenze Episcopali, Diocesi, Istituti religiosi, Istituzioni ed enti vari è rimasta sostanzialmente invariata ( 86.022.372 euro nel 2006, 86.143.257 nel 2007). Anche i costi dell'intero settore, direttamente connessi con l'attività della Curia Romana, sono rimasti sostanzialmente identici: si è passati da 126,2 milioni di euro nel 2006 a 125,4 milioni nel 2007. Profondo rosso invece, ma non è una novità, per due delle quattro istituzioni collegate con la Santa Sede: tra le "aziende mediatiche" del Papa, Radio Vaticana e Osservatore Romano sono in passivo mentre Libreria Editrice Vaticana e Centro Televisivo Vaticano sono in attivo. L'insieme di queste attività sono strettamente legate alla diffusione della voce e dell'immagine del Papa.
Il settore ha chiuso con un saldo negativo di 14,6 milioni di euro, riferibile sostanzialmente al deficit della Radio Vaticana e ai costi per "L'Osservatore Romano". Risultati positivi sono invece venuti dalla Tipografia Vaticana che ha chiuso il proprio bilancio con un avanzo di 1 milione di euro, dal Centro Televisivo Vaticano, con un avanzo di 458.754 e dalla Libreria Editrice Vaticana con un utile di 1,6 milioni di euro.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

Anche gli hedge piangono
 

10 Luglio 2008 17:04 -
di Macromonitor
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Nel primo semestre di quest’anno gli hedge funds hanno fatto segnare la peggior performance in quasi due decenni, a causa della crisi creditizia e del bear market azionario. La flessione semestrale, pari allo 0,75 per cento, è stata realizzata quasi completamente nel mese di giugno, che ha fatto segnare un meno 0,7 per cento, secondo i dati pubblicati da Hedge Fund Research, la società di Chicago specializzata nelle statistiche sui rendimenti dei fondi alternativi. Si tratta del peggior risultato nel primo semestre dall’inizio delle rilevazioni di questa serie storica, nel 1990. Finora, l’industria degli hedge ha realizzato solo un anno di ritorni negativi, il 2002, con meno 1,45 per cento.
Sempre secondo HFR, il settore ha attratto 16,5 miliardi di dollari di sottoscrizioni nette nel primo trimestre di quest’anno, contro i 30,4 del quarto trimestre 2007, mentre si rileva la sempre minore tolleranza alle perdite da parte degli investitori, che hanno aumentato il turnover tra gestori piuttosto che uscire dall’industria dei fondi alternativi. In dettaglio gli hedge fund azionari sono scesi in media del 3,3 per cento quest’anno, mentre quelli che investono in obbligazioni convertibili hanno lasciato sul terreno il 7,6 per cento in media. Decisamente migliori le performance medie dei fondi che investono su temi macroeconomici, in progresso di circa il 13 per cento da inizio anno.
 

Fonte - Macromonitor


 

 

 

 

 

  Venerdì 11 luglio 2008   Sabato 12 luglio 2008   Mercoledì 16 luglio 2008  
       
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   Borsa:  non smontate baracca e burattini

11 Luglio 2008 13:58 MILANO - di Alessandro Fugnoli
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Il greggio per consegna dicembre 2013 tratta a 136 dollari. Se sia un prezzo interessante o meno non lo sappiamo, lo vedremo fra cinque anni. Diciamo solo che se pensate che nel prossimo periodo la crescita globale, superata la difficile fase apertasi un anno fa, riprenderà a un ritmo discreto, allora pagare adesso 136 dollari si rivelerà probabilmente un ottimo affare. Se invece pensate che il prezzo sarà più basso, allora dovete considerare l’ipotesi di vendere l’azionario e magari anche la casa, perché solo una lunga fase di stagnazione potrà farlo scendere in misura rilevante. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha appena pubblicato le sue stime a cinque anni sulla domanda e l’offerta globale di petrolio. L’Aie è una specie di Opec dei consumatori e raggruppa i principali paesi dell’area Ocse. E’ finanziata dai governi, che utilizzano le sue stime quando preparano i piani energetici nazionali e quando elaborano i documenti di programmazione economica a medio termine. Negli ultimi anni l’Aie ha sbagliato tutte le sue previsioni sul greggio, come del resto le hanno sbagliate il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e quasi tutti quelli che si sono cimentati in questo difficile esercizio. Con l’eccezione, bisogna riconoscerlo, di quei mattocchi del Peak Oil, una strana congrega di personaggi che sono quasi tutti ingegneri minerari e geologi e quasi mai economisti. Questi signori (che non vanno assolutamente confusi con gli ecologisti ed economisti alternativi del Club di Roma che negli anni Settanta fecero previsioni malthusiano-apocalittiche rivelatesi poi completamente sbagliate) se ne stanno da sempre nel loro angolino come il gruppetto di scienziati pazzarielli e cani sciolti di X-Files. Nessuno li ha mai presi troppo sul serio e loro, in cambio, si sono sempre fatti grosse risate sugli esperti ufficiali del settore tipo Dan Yergin del Cera).

Ora succede che l’Aie e Yergin si sono messi a dire le stesse cose di questi signori e cioè che nel 2013 la situazione del greggio sarà brutta, non come quella di adesso, ma molto di più. L’offerta salirà con grande fatica e avrà una qualità energetica più bassa di quella odierna. Il tutto a fronte di una domanda che, lasciata a sé stessa (e cioè non arginata da un prezzo crescente) tenderà a salire molto di più. I peak oiler ridono sotto i baffi. Notano che gli organismi ufficiali cominciano a fare i conti con la realtà, fanno le pulci qua e là (la quantità che sarà disponibile per noi, dicono, sarà in realtà più bassa di oggi, perché una parte crescente della produzione se la consumeranno direttamente i paesi produttori), aggiungono un Peak Gas ancora più grave del Peak Oil e ritengono che nel 2020 la situazione sarà ancora brutta, non come nel 2013, ma molto di più. Non vogliamo seguirli su questa strada e ci atteniamo al quadro proposto dall’Aie, sperando che sbagli come ha sbagliato in tutti questi anni, ma senza contarci troppo. Il quadro che emerge non è necessariamente catastrofico. Si può ragionevolmente sperare che i governi dei paesi consumatori, ora allertati (sia pure in grande ritardo) si diano da fare per trovare soluzioni alternative. l meno che si possa dire è però che il petrolio continuerà a remare contro la crescita globale al di là della crisi finanziaria e immobiliare in cui stiamo impantanandoci da un anno e in cui resteremo ancora parecchi mesi. La ripresa globale, presto o tardi, partirà, ma andrà avanti con il freno a mano tirato ancora per qualche anno. Insomma, mentre negli ultimi anni petrolio ed economia globale sono cresciuti insieme, da qui in avanti lo spazio di crescita se lo dovranno contendere. O continuerà ad apprezzarsi il greggio (e allora non ci sarà espansione) o il greggio si fermerà e lascerà respirare la crescita. Un terzo scenario, in cui non crescono né il greggio né l’economia potremmo vederlo nei prossimi mesi. Siamo infatti vicini a un punto di rottura.

L’economia globale non sembra pronta a reggere un greggio ancora più forte. Un greggio che arresta la sua corsa e si ferma sui livelli attuali, tuttavia, di per sé non sarà sufficiente a garantire un’uscita rapida dalla crisi. C’è infatti, non dimentichiamiolo, la crisi finanziaria-immobiliare che continua a produrre i suoi effetti negativi su occupazione, consumi, valore degli asset. Per le banche la stagnazione significa una minore qualità degli asset e una spinta alla loro liquidazione. A meno di miracoli la crisi finanziaria-immobiliare potrà terminare prima del suo decorso naturale solo con un atto politico, per il quale si dovrà aspettare come minimo primavera. L’atto politico sarà, negli Stati Uniti, l’acquisto pubblico di grandi quantità di asset bancari (in primo luogo mutui) e la ricapitalizzazione, sempre con soldi pubblici, delle banche. Sarà quello, probabilmente, il punto di svolta. Da qui a primavera si galleggerà, nello scenario base, molto vicini alla crescita zero. La Yellen dice che gli Stati Uniti riusciranno probabilmente a non avere trimestri a crescita negativa. Il mercato non ci crede più di tanto, ma non credeva nemmeno a Bernanke quando, tra gennaio e marzo, diceva che il primo semestre avrebbe avuto crescita positiva, come poi è stato. Lo scenario base vede un’ulteriore erosione del valore delle banche, ma presenta anche settori che riescono ancora a crescere, come parte della tecnologia, parte della chimica oltre, ovviamente, alle materie prime. Per i tassi non sembra esserci storia, nel secondo semestre, se non in Asia. L’Asia, del resto, rappresenta uno dei rischi verso il basso dello scenario di base, ma può tenere se, come si vede da qualche segnale in Cina, l’inflazione inizia a scendere, a partire da quella alimentare. L’altro rischio è l’Iran, su cui quanto meno è aperto uno spiraglio vero di trattativa, quel tanto che possa indurre gli Stati Uniti a frenare eventuali attacchi israeliani. In questa fase difficile il debito di qualità migliore, come dice El-Erian di Pimco, ha un rapporto rischio-opportunità migliore dell’equity, anche di qualità. Il profilo da mantenere è difensivo. Bear market rally di qualche rilievo non sono da escludere, ma richiedono, oltre al sentiment estremamente negativo che c’è già, una discesa del greggio sotto i 130 dollari. Chi ha cash non abbia fretta di spenderlo e lo tenga, nel caso, per l’anno prossimo.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank

 

 


 

   Per le borse,  sarà peggio del 2000-2003

11 Luglio 2008 01:13 LUGANO - di Corriere del Ticino
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Il ribasso del prezzo del petrolio e l’intenzione della banca centrale americana di estendere al 2009 le linee di credito di emergenza per le banche sono le ragioni del rimbalzo dell'altro giorno delle borse. La ripresa dei mercati azionari potrebbe durare alcuni giorni, ma è molto improbabile che segni un punto di svolta per i mercati.
La diminuzione del prezzo del petrolio non è per il momento tale da mutare le prospettive economiche. Solo una sua discesa sotto i 100 dollari il barile potrebbe avere un effetto tonificante sull’economia e sui mercati finanziari. Infatti per il momento non vi sono elementi certi per sostenere che è cominciato lo scoppio dell’enorme bolla speculativa che ha contribuito in modo decisivo all’esplosione del prezzo del greggio, anche se alcuni segnali potrebbero indurre a formulare questa ipotesi. Il segnale più importante è sicuramente rappresentato dal crescere della pressione politica volta a stroncare la speculazione sulle materie prime e sui generi alimentari.
Il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, ha proposto al G8 di aumentare in modo consistente i margini dei depositi oggi del 5% sui contratti future, il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha formalmente inoltrato a Bruxelles proposte di lotta contro la speculazione finanziaria, che hanno trovato orecchie attente sia da parte della presidenza francese sia da parte della Commissione europea. In campo è sceso anche il Congresso americano.
I provvedimenti in discussione tendono a dare maggiori poteri e personale aggiuntivo alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC), ad aumentare i margini dei depositi sui contratti future e a scoperchiare la scatola nera (il settore meno trasparente del mercato) degli swaps creati da Goldman Sachs e Morgan Stanley per permettere a fondi pensione, Hedge Funds e società petrolifere di scommettere tra di loro sull’andamento futuro del prezzo del greggio.

Il mercato degli swaps, che non è sottoposto ad alcuna regolamentazione e che è molto opaco, è però quello in cui operano gli operatori finanziari ed è quello che ha determinato gran parte dell’impennata dei prezzi delle materie prime. Basti ricordare che la stessa CFTC sostiene che l’85% degli investimenti negli indici delle materie prime avviene al di fuori dei mercati regolamentati dei futures. La crescente pressione politica può indurre a sospettare che i «padroni» di questi mercati potrebbero desiderare un calo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime per scongiurare il pericolo che cambiamenti delle norme rovinino il giocattolo che rende tanti soldi.
Se si eccettua l’incognita di una forte caduta del prezzo del petrolio, non vi è alcun motivo che possa spingere al rialzo le borse. Infatti, l’intenzione della Federal Reserve di estendere all’anno prossimo le linee di credito di emergenza è semplicemente un’ulteriore conferma che la crisi del sistema bancario è tutt’altro che superata.
Anzi, nei prossimi giorni assisteremo all’estensione di questa crisi al vasto mondo delle banche americane di medie e piccole dimensioni e assisteremo ai dibattiti politici sulla ricapitalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, ossia le due grandi agenzie parastatali americane, che attraverso l’erogazione di ipoteche o di garanzie sulle ipoteche concesse da altri istituti detengono la metà del totale dei mutui ipotecari americani. Che la crisi bancaria sia tutt’altro che superata lo dicono anche gli stessi mercati: basti guardare ai tassi sul mercato interbancario che stano tornando ai livelli massimi.
In realtà, non vi è ragione alcuna per cui i mercati azionari, già in pieno «bear market», debbano scendere meno di quanto calarono all’indomani dello scoppio della bolla delle cosidette dot.com, ossia dal marzo del 2000 all’aprile del 2003. La situazione attuale è ben più grave di quella dell’inizio di questo decennio.
Allora non vi era una crisi del mercato immobiliare americano, che si aggrava sempre più e che si sta allargando ad altri paesi (Spagna, Gran Bretagna ed Irlanda); allora non vi era una crisi del sistema bancario internazionale; allora il petrolio costava poco più di 20 dollari il barile; e allora le banche centrali avevano maggiore spazio di manovra, poiché l’inflazione non dava alcun segno di vita. Inoltre, oggi, oltre al chiaro rallentamento dell’economia statunitense, cominciano a moltiplicarsi i dati che segnano la prossima entrata in recessione di Spagna e Gran Bretagna e i segnali che anche l’economia tedesca comincia a perdere colpi.
Questa crisi, che è stata causata dalle follie della nuova ingegneria finanziaria, è solo agli inizi ed è destinata ad essere molto lunga. Infatti non si può uscire da questa crisi senza aver smaltito gran parte dell’enorme bolla del credito creata in questi anni. Ad esempio, il risanamento dei bilanci bancari richiederà molto tempo, che si allungherà ulteriormente per il prevedibile aumento delle sofferenze dovuto al forte rallentamento economico. In queste condizioni non vi è alcun motivo perché questo calo delle borse sia di proporzioni inferiori a quello dell’inizio di questo decennio.
 

Fonte - Corriere del Ticino


 

 

 

 

 

FANNIE MAE & FREDDIE MAC: ORMAI VALGONO ZERO
 

11 Luglio 2008 17:04 NEW YORK  -
di ANSA
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L'analista Jon Najarian di OptionMonster ritiene che le due societa’ di mutui ipotecari saranno in grado di sopravvivere alla tempesta subprime ma che il valore delle relative azioni e’ ormai nullo.
"Non c’e’ bisogno di leggere tra le righe. E’ chiaro che il governo rilevera’ entrambe le aziende in quanto non potra’ lasciar evaporare 5 mila miliardi di dollari in mutui" ha affermato l’esperto. "Ma per gli azionisti queste azioni sono ormai carta straccia".
Il valore delle due societa' di e' dimezzato nell'arco di poche ore: Fannie Mae e Freddie Mac perdono rispettivamente il 39,60% a 7,97 dollari e il 46,75% a 4,26 dollari. Il titolo Fannie Mae ha perso l'80% del proprio valore dall'inizio dell'anno, quello Freddie Mac l'87%.
Secondo Bloomberg, Fannie Mae e Freddie Mac dovrebbero registrare in bilancio perdite e svalutazioni per circa $77 miliardi prima che il governo americano sia costretto a intervenire con un salvataggio pubblico, stando a uno studio degli analisti di Fox-Pitt Kelton e Friedman, Billings, Ramsey & Co. Le due agenzie para-governative hanno gia' raccolto circa $20 miliardi per coprire le perdite dovute al piu' alto tasso di bancarotte e mancati pagamenti di rate nel settore immobiliare.
Fannie e Freddie detengono o garantiscono oltre $5 trilioni di mutui, pari a circa la metà del totale delle ipoteche immobiliari negli Stati Uniti. Un'insolvenza provocherebbe un crack di dimensioni devastanti per l'intero mercato finanziario Usa e mondiale.
 

Fonte - ANSA


 

 

 

 

Materie prime, la bolla sta per scoppiare?
 

15 Luglio 2008 16:02 MILANO -
di Marco Caprotti
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La bolla delle materie prime rischia di scoppiare. L’allarme viene lanciato dagli analisti, secondo cui è arrivato il momento di essere cauti quando si inseriscono commodity nel portafoglio. I primi segnali di rallentamento del comparto sono evidenti: l’indice Gsci di settore, che da inizio anno (e calcolato in euro) ha guadagnato il 31,7%, nell’ultimo mese (fino al 15 luglio) ha registrato un progresso dello 0,48%. E questo nonostante il prezzo del petrolio abbia fatto segnare nuovi record.
“L’idea di aggiungere altre materie prime nei portafogli sta tentando sempre più investitori”, scrive in uno studio Christine Benz, analista di Morningstar secondo cui, solo a maggio, i fondi legati all’energia e alle commodity sono riusciti a raccogliere 4 miliardi di dollari di nuovi asset. “Del resto si tratta del tipo di investimento che dà tranquillità nei momenti di crisi del mercato immobiliare e di crescita dell’inflazione”.
Dall’inizio del 2002 fino a due mesi fa l’indice Gsci di categoria ha guadagnato, mediamente il 20% all’anno contro il +5% fatto segnare dall’S&P500. Secondo l’analista, tuttavia, dopo questa corsa è arrivato il momento di fare alcune considerazioni a mente lucida. “Divento molto nervosa quando tutti gli investitori si buttano a capofitto sulla stessa asset class”, continua il report. “Non posso fare a meno di domandarmi se ormai sia stato spremuto tutto il guadagno possibile. Ma c’è anche un altro fattore che mi preoccupa: gli hedge fund sono stati fra i maggiori scommettitori sulle commodity. Se dovessero iniziare a cambiare idea o a ritirare i loro soldi per renderli agli investitori, le fortune delle materie prime e delle società ad esse collegate potrebbero subire un rovescio. Infine, c’è da considerare che il continuo aumento dei prezzi, prima o poi, farà diminuire la domanda di energia e di altri materiali di base”.

Le stesse preoccupazioni sono state espresse da diversi money manager che hanno partecipato all’ultima Morningstar Conference di Chicago. Alcuni di quelli che hanno guadagnato di più con le materie prime, hanno deciso di intascare i profitti e investire in altri settori, come ad esempio nei farmaceutici. Dal punto di vista operativo, quindi, cosa conviene fare? “Indubbiamente le commodity rappresentano un ottimo mezzo di diversificazione” risponde Benz. “Tuttavia bisogna prima fare un attento check-up del portafoglio per capire cosa c’è dentro. Anche se un fondo non è specializzato sulle materie prime, magari ha all’interno già diverse aziende legate alle commodity perché il gestore ha deciso di seguire il trend di questi anni. Un metodo per scoprirlo è quello di verificare i rendimenti: se un portafoglio in particolare ha fatto meglio degli altri, ci sono buone possibilità che abbia seguito questa strada. Una eccessiva diversificazione, a questo punto sarebbe dannosa perché aumenterebbe in maniera incontrollabile la volatilità degli investimenti”.
 

Fonte - MorningStar.it


 

 

 

 

   Suicidi e boom di divorzi,  la crisi sconvolge gli USA

17 Luglio 2008 09:30 NEW YORK - di Maurizio Molinari
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Un suicidio e molti divorzi: l’onda lunga della crisi dei mutui invade le famiglie dei manager dell’alta finanza, scatenando danni a catena. La crisi dei mutui ha la sua prima vittima, nel senso letterale del termine con il top manager Scott Coles, 48 anni, brillante titolare di una importante società di mutui in Arizona, che si è suicidato lasciandosi alle spalle una bancarotta valutata in diverse centinaia di milioni di dollari.
Al momento in cui si tolse la vita, circa un mese fa, gli inquirenti avevano immaginato un atto di disperazione dovuto all’improvviso divorzio dalla moglie neanche trentenne ma gli accertamenti eseguiti portano ora a disegnare ben altro scenario. All’origini del gesto disperato c’è il fatto che la Mortgages Ldt di Coles non trovava più capitali a causa della crisi dei mutui e le esposizioni accumulate avevano portato a porre le premesse di una bancarotta, poi puntualmente dichiarata il 24 giugno, che neanche il ricorso al Chapter 11 - l’amministrazione controllata - avrebbe consentito di gestire o superare. Da stella del gotha economico dell’Arizona, Coles stava per precipitare nella miseria.
Da qui la scelta del proprietario di scrivere una lettera d’addio, indossare un elegante smoking e impiccarsi sopra il letto ex-matrimoniale come scelta estrema per non dover assistere all’inesorabile crollo dell’impero immobiliare che aveva contribuito a creare facendo crescere di molto la piccola azienda ereditata dal padre, che l’aveva fondata nel 1963. «Scott Coles era molto ambizioso, voleva essere più grande della sua stessa vita, si considerava il creatore di Phoenix» ha detto di lui al «Wall Street Journal» Malcom Jozoff, che gli fu amico e anche partner in molti investimenti di successo.
L’ambizione di Coles è lo specchio di quanto avvenuto in Arizona negli ultimi venti anni: Phoenix si è trasformata in uno dei polmoni della crescita economica nazionale grazie al massiccio arrivo di cittadini da altri Stati, che hanno fatto lievita a dismisura il mercato immobiliare portando al boom dei mutui. La drammatica scomparsa trasforma ora la sua parabola nello spettro che assilla numerosi manager alle prese con il crollo del mercato nazionale dei mutui.

Se lui ha perduto la vita a causa della crisi finanziaria, altri manager stanno perdendo le mogli. A rivelarlo sono le notizie che rimbalzano da Wall Street conquistando i titoli dei tabloid di Manhattan, secondo i quali il crollo del credito e la diminuzione dei profitti hanno portato negli ultimi 12 mesi ad un significativo aumento del numero dei divorzi, soprattutto nelle aree della Grande Mela dove si concentrano i redditi più alti. Un avvocato di New York ha rivelato di aver ricevuto dalla moglie la richiesta di separazione a seguito del crollo del reddito annuale da 20 milioni a 8 milioni. Per arginare la situazione questo manager ha da un lato chiesto all’avvocato di guadagnare tempo e dall’altro ha preso soldi in prestito per regalare alla moglie abiti e vacanze di lusso.
Uno dei principi del foro di Manhattan, l’avvocato Raoul Felder che rappresentò Larry Fortensky nel divorzio da Elizabeth Taylor, afferma che le «separazioni dei super ricchi» sono aumentate da 250 a 300 nell’ultimo anno, registrando il maggiore balzo in avanti dal 1980. A confermare i guai famigliari dei residenti più ricchi di New York è anche Kenneth Muellen, psicoterapista dell’East Village molto popolare fra banchieri e magnati, secondo il quale «la crisi del credito sta diventando per loro qualcosa di molto serio, come il gioco d’azzardo, il bere o il sesso, in grado di distruggere vite e famiglie».
Ciò che colpisce, aggiunge Nancy Chemtob, altro avvocato esperto di cause matrimoniali, è come la «crisi del credito» si sia trasformata in una delle «motivazioni portate da un coniuge per separarsi dall’altro», spiegando che provoca malumori, violenze casalinghe e «abbandoni» creando una spirale che distrugge la vita coniugale. Essendo venuti meno i molti milioni dollari che finora la sostenevano.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

  Giovedì 17 luglio 2008   Sabato 19 luglio 2008   Giovedì 24 luglio 2008  
       
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Borse a buon mercato. Ma solo in apparenza
 

18 Luglio 2008 16:20 MILANO  -
di Marco Caprotti
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Anche se la settimana per le Borse mondiali non è stata nera come le precedenti, è ancora presto per dire se si intravede, se non proprio una luce, almeno un bagliore alla fine del tunnel. L’indice Msci World nell’ultima ottava (e calcolato in euro) ha perso lo 0,5%. E lo scenario nel quale si stanno muovendo operatori e listini non è dei migliori.

A livello globale il comparto azionario in questi giorni viene trattato con uno sconto del 20% rispetto ai massimi toccati nel 2007, togliendo anche le ultime remore a chi ancora si ostina a non voler pronunciare la parola Orso. L’inflazione, sempre a livello mondiale, è cresciuta quasi del 6%, toccando il tasso massimo dal 1999. La produzione industriale delle maggiori economie, intanto, continua a rallentare. Insomma, secondo i tradizionali standard di valutazione, il mercato equity sembrerebbe a buon prezzo.
Ma, appunto, secondo gli analisti è solo un’impressione. “L’azionario è stato colpito da una crescita economica che va a rilento, previsioni di rallentamento dei profitti, aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse. Tutte condizioni che difficilmente miglioreranno nei prossimi mesi”, spiega una nota di Henderson Global Investors. “I principali indicatori segnalano che la crescita industriale, almeno in Europa, si indebolirà ancora. L’equity non appare così a buon mercato se la congiuntura continuerà rallentare e ci saranno altri tagli alle stime di crescita degli utili”.

Stati Uniti
L’indice Msci North America, nell’ultima settimana ha perso circa lo 0,2%. Le sedute sono state ancora condizionate dalle notizie, a volte contraddittorie, sul futuro di Fannie Mae e Freddie Mac. I due colossi dei mutui da qualcuno venivano dati per spacciati a causa delle perdite in bilancio, mentre il presidente degli Stati Uniti George W. Bush e quello della Federal Reserve Ben Bernanke si sono sgolati a furia di ripetere che la situazione è tranquilla. In caso contrario ci sarebbe stato un intervento da parte del governo per salvare la situazione.
In questo clima sono stati accolti con un sospiro di sollievo gli ultimi dati arrivati da Citigroup, uno dei gruppi finanziari più colpiti dalla crisi dei subprime. Nel secondo trimestre le perdite (dopo le svalutazioni) sono state pari a 2,5 miliardi di dollari. Gli analisti, che si aspettavano un risultato negativo di 3,6 miliardi, si sono quindi affrettati a consigliare ai loro clienti di acquistare il titolo della banca. La situazione, insomma è confusa, ma, secondo alcuni operatori, offre ancora delle opportunità “Il mercato azionario americano continuerà a presentarsi difficile”, recita una nota di Union Investment. “D’altro canto si cominciano a intravedere quotazioni che possono rivelarsi interessanti, così come interessante è l’attenzione da parte di alcuni fondi sovrani. Inoltre, in un periodo che va dai sei ai 12 mesi ci potrebbe essere un miglioramento della generale situazione economica degli Usa. In questo scenario, per gli operatori orientati a investimenti a lungo termine le correzioni dei corsi possono essere sfruttate come favorevoli opportunità d’entrata sul mercato”.

Europa
L’indice Msci del Vecchio continente nell’ultima ottava ha perso circa lo 0,75%. La situazione è complicata anche in Europa: l’inflazione in crescita (4%), unita alla stagnazione economica ha fatto rispolverare il termine di stagflazione che, almeno da queste parti, non si sentiva dagli anni ‘70. Questo complica tutto, soprattutto le prossime decisioni della Banca centrale. L’istituto monetario ha appena alzato i tassi di interesse portandoli al 4,25%. La crescita dei prezzi, del resto, si fa sentire e potrebbe peggiorare.
In Germania, quelli alla produzione secondo l’ufficio federale di statistica a giugno sono cresciuti del 6,7% rispetto al mese precedente. Si tratta del balzo maggiore degli ultimi 26 anni e potrebbe portare a nuove strette. “Il mercato sconta attualmente un unico rialzo di 0,25% in autunno che riteniamo comunque non realistico salvo ulteriori impennate nei prezzi delle materie prime” dice una nota di Pictet Funds. La Bce dovrebbe per ora essere soddisfatta del contenimento, già in parte visibile, delle aspettative di inflazione osservabili sui mercati finanziari”. Le notizie su Citigroup arrivate dagli Stati Uniti, intanto, hanno riportato un po’ di tranquillità sul fronte dei titoli finanziari, mentre il ritracciamento del prezzo del petrolio ha fatto partire qualche ordine di vendite sulle azioni auto.

Asia
L’indice Msci della regione nelle ultime cinque sedute ha perso circa il 2,4%. Come sempre le incertezze di Usa ed Europa si amplificano nel continente asiatico. Gli investitori, oltre che sulle potenzialità di crescita dell’area (che nel lungo termine, dicono, restano intatte), si interessano sempre di più all’aspetto degli utili.
E un rallentamento dei mercati di sbocco, inevitabilmente incide sui bilanci delle società che esportano. “L’atteggiamento delle aziende è cambiato”, spiega Matthew Vaight, co-manager del fondo M&G Asian Fund. “I consigli di amministrazione sono sempre più consapevoli dell’importanza di soddisfare le esigenze degli azionisti”. Gli fa eco il suo collega Michael Godfrey: “Oltre ai cambiamenti esterni, cerchiamo anche opportunità di investimento in società che migliorano gli utili come risultato di un’evoluzione interna”.
Scende, intanto anche il mercato del Giappone. L’indice Msci del Sol levante nell’ultima settimana ha perso l’1,7%. Il calo del prezzo del petrolio, spiegano gli operatori, ha fatto crollare i titoli delle società di servizi e di esplorazioni. Il tutto, in uno scenario macroeconomico che, i più ottimisti, definiscono “ancora zoppicante”.

 

Fonte - Morning Star .it


 

 

 

 

   Azionario, smontare le posizioni lunghe ?

25 Luglio 2008 13:40 MILANO  - di Alessandro Fugnoli
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Ci sono tre analogie e tre differenze tra il bear market rally di Bear Stearns di marzo-aprile e quello di Fannie e Freddie iniziato la settimana scorsa. La prima analogia riguarda il tipo di climax ribassista che nei due casi ha preceduto il recupero. Si è trattato di un allineamento perverso di elementi macro (rischi di recessione e rialzo del petrolio) sopra i quali hanno fermentato timori crescenti di implosione completa del sistema finanziario.
Avevamo scritto in marzo che per i mercati una recessione equivale di per sé a una malattia cronica a decorso lento alla quale ci si può in qualche modo adattare gradualmente. L’implosione finanziaria equivale invece a un infarto che può essere fatale per chi agisce a leva ma può anche arrecare danni gravissimi a istituzioni e persone innocenti (si pensi ai depositanti delle banche) esattamente come un’automobile guidata ad altissima velocità che, sbandando, vada a travolgere una folla di passanti sul marciapiede.
Se in marzo era in gioco tutto il sistema delle controparti istituzionali che avevano rapporti con Bear Stearns, per Fannie e Freddie il mercato ha visto messa in questione la credibilità complessiva degli Stati Uniti come debitore e la tenuta dell’architettura finanziaria globale.
Nei due casi la reazione dei policy maker è stata all’altezza della sfida e ha combinato efficacia, pragmatismo, rispetto per le regole di fondo del mercato e minimizzazione dei costi (quanto meno upfront) per il contribuente. Nei due casi il mercato ha reagito come il condannato a morte che riceve la grazia a cinque minuti dall’esecuzione e si è abbandonato, dopo qualche attimo di incredulità e di stupore, a un comprensibile entusiasmo, alimentato ovviamente dalle cospicue posizioni short da ricoprire e dal cash accumulato nelle settimane precedenti dal real money.
Nei due casi la razionalizzazione del rally si è spinta a ipotizzare il peggio alle spalle. Tra il peggio alle spalle e il meglio a portata di mano c’è un salto logico che in marzo fu compiuto su ampia scala e che oggi qualcuno sta cominciando a fare.
La seconda analogia tra marzo e oggi è che i rally di sollievo hanno ricevuto supporto, nei giorni successivi al punto d’inversione, da utili trimestrali giudicati meno atroci del previsto per le banche e i ciclici e non così mediocri come da attese per gli esportatori (dall’America al resto del mondo o dall’Europa all’Asia o all’America Latina).
La terza analogia è nella discesa del greggio che ha accompagnato il rally dei risky asset (borse, crediti, dollaro) con notevole simmetria, mitigando i timori d’inflazione e rafforzando l’idea del peggio alle spalle. La discesa del greggio, nei due casi, si spiega in parte con la sua natura di unico posto in cui nascondersi in un contesto di caduta generalizzata dei corsi. Nel momento in cui i corsi recuperano, l’hedge sul greggio viene smontato.

Sulla base di queste tre analogie si potrebbe concludere che questo rialzo ha diritto a un’ampiezza almeno pari a quello di marzo-aprile, che fu dell’11 per cento per l’S&P 500 (da 1280 a 1426). Si potrebbe perfino aspirare a qualcosa di più, almeno in linea teorica, perché il punto di partenza questa volta è più basso e perché la discesa del greggio si sta profilando più ampia di quella di marzo-aprile.
Ci sono però, tra marzo e oggi, anche tre differenze e tutte e tre, almeno potenzialmente, rendono più fragile il profilo di questo rialzo. La prima differenza è nelle aspettative sul quadro macro. In marzo si pensava a una seconda metà dell’anno positiva per l’America (grazie ai rimborsi fiscali) e si era nel pieno di un primo trimestre molto forte per l’Europa e per il Giappone.
Oggi si constata che i rimborsi fiscali, grazie anche alla rapidità con cui sono stati effettuati, stanno producendo effetti sui consumi progressivamente minori per cui i mesi da qui a fine anno, a meno di un’ulteriore forte caduta del prezzo della benzina, vedranno consumi americani a crescita zero o negativa. Quanto all’Europa, l’idea del decoupling è stata abbandonata e l’orizzonte dei prossimi 12 mesi si presenta debole, di poco sopra allo zero. L’Asia, dal canto suo, deve cominciare a pensare ai suoi problemi d’inflazione e i suoi tassi di crescita, pur restando nel complesso molto buoni, ne risentiranno.
La seconda differenza sta nelle prospettive per il petrolio. La discesa in corso ha tre ragioni. Una, lo smontaggio delle posizioni lunghe che dovevano bilanciare le perdite subite sull’azionario, l’abbiamo detta. La seconda è il fallimento del tentativo di toccare i 150 dollari, che ha indotto i lunghi dell’ultima ora a chiudere e mettersi al ribasso. La terza, la più importante, è il ridimensionamento dei timori sull’Iran.
E’ stato scritto che con il prezzo di un biglietto aereo per Ginevra per Nicholas Burns (che ha assistito sabato ai negoziati sul nucleare) gli Stati Uniti hanno fatto scendere il prezzo del petrolio del 15 per cento (da 147 a 124), tanto quanto forse farebbe un piano energetico da decine di miliardi di dollari.
C’è però un problema. Gli Stati Uniti hanno dato all’Iran 15 giorni di tempo per dire sì o no. Magari la scadenza sarà prorogata, ma se alla fine l’Iran ribadirà la sua intenzione di andare avanti, la situazione potrà improvvisamente apparire ancora più a rischio di una settimana fa, quando ancora rimaneva una carta da giocare. Anche l’Europa, a quel punto, farebbe fatica a fare finta di continuare a credere a una disponibilità iraniana.
La terza differenza tra marzo e oggi, infine, è proprio che c’è stato il rally di marzo e noi che viviamo in luglio sappiamo che quel rally che sembrava preludere a un’inversione duratura o quanto meno a una stabilizzazione è in realtà finito e si è poi trasformato in un ribasso ancora più inquietante. In altre parole abbiamo perso l’innocenza. Facciamo fatica a dirci che il peggio è alle spalle dopo essercelo detto in marzo e avere visto il peggio arrivare di nuovo in luglio.
Questo significa che questo rialzo, se avrà dall’Iran e dal petrolio il permesso di proseguire, sarà più incerto e prudente e assumerà un carattere di stabilizzazione, più che di esuberante recupero. Se così fosse non sarebbe male.

Abbiamo davanti mesi di consumi in rallentamento, di prezzi delle case in ribasso, di espansione globale debole e di riduzione ulteriore della leva del sistema bancario. La speranza è che il prezzo del greggio (sul quale rimaniamo molto positivi a medio termine) fletta ancora e si riporti ai livelli d’inizio anno. Se così fosse già in settembre vedremmo un’inflazione in progressiva attenuazione (con l’headline che converge sul core, e non il contrario come si è temuto in tutti questi mesi). Lo spazio di manovra per le banche centrali aumenterebbe.
Quanto detto, più la prospettiva in primavera di una soluzione più radicale della crisi immobiliare e finanziaria con la nuova legislatura negli Stati Uniti, permetterebbe di attraversare il difficile secondo semestre senza troppi danni, smentendo ancora una volta le previsioni di recessione.
Il dollaro beneficia del recupero dei risky asset ma, come abbiamo detto più volte, non c’è da farsi troppe illusioni. Sui bond governativi la debolezza di questi giorni riflette il travaso verso l’equity e ignora il miglioramento delle prospettive sull’inflazione grazie alla discesa del greggio.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank

 

 

 

 

FANNIE E FREDDIE: LASCIATELE FALLIRE
 

27 Luglio 2008 18:10 NEW YORK  -
di WSI
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Uno degli ex governatori regionali della Federal Reserve, William Poole, sostiene che Fannie Mae e Freddie Mac non solo sono "inutili", ma dovrebbero essere lasciate fallire perche' nelle condizioni in cui sono distorgono il mercato finanziario. Poole lo ha scritto in un articolo sul New York Times.
Fannie Mae e Freddie Mac non sono essenziali per il mercato dei mutui, scrive Poole, e se fossero messe in liquidazione ordinatamente, il mercato rileverebbe il loro business senza problemi. Fannie e Freddie esistono oggi per provvedere garanzie per le "mortgage-backed securities" scambiate sul mercato, un business che e' sostanzialmente quello di un'assicurazione.
E' importante liquidare le due agenzie para-governative, anche perche' e' pericoloso mantenere questo loro ruolo dominante in un mercato con solo due operatori. Sarebbe molto meglio avere varie aziende in concorrenza tra loro, dice Poole. Qualsiasi sia l'ammontare totale di un salvataggio pubblico, visto che Fannie e Freddie sono oggi tecnicamente insolventi (il valore stimato delle passivita' supera il valore stimato degli assets) e anche se il salvataggio fosse di "soli" $25 miliardi, la vera questione non e' l'immediata sopravvivenza di questi due giganti malati, ma il loro futuro di lungo termine. Al momento le due agenzie distorgono il mercato al punto che il debito pubblico nazionale degli Stati Uniti, che di solito viene calcolato in circa $5 trilioni, di fatto sale con Fannie e Freddie a $10 trilioni.
C'e' stato gia' un esempio di come gli Stati Uniti possano vivere tranquillamente senza Fannie e Freddie, senza che ci fossero problemi al mercato dei mutui immobiliari, scrive l'ex governatore della Fed. Dopo uno scandalo finanziario nel 2005, le autorita' diedero una stretta feroce alle attivita' delle due agenzie. Il debito nazionale relativo ai mutui residenziali sali' di $1.176 trilioni quell'anno, anche se la quota di Fannie e Freddie sali' solo di $169 miliardi, appena il 14.4% del totale. In sostanza, il mercato nel 2005 a mala pena si accorse che i concorrenti privati delle due agenzie para-governative avevano garantito o emesso l'85% dell'aumento dei mutui immobiliari in totale.
 

Fonte - WallStreetItalia.com


 

 

 

 

Merrill, mutui e macerie
 

30 Luglio 2008 19:10 -
di Macromonitor
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Merrill Lynch & Co., la terza più grande casa d’investimento degli Stati Uniti, procederà ad un aumento di capitale per 8,5 miliardi di dollari e venderà 30,6 miliardi di dollari di obbligazioni ad un quinto del loro valore nominale, nel tentativo di rafforzare il proprio merito di credito, prostrato dale perdite sui mutui. Temasek Holdings, il fondo sovrano di Singapore divenuto il maggior azionista di Merrill dopo l’acquisto di una partecipazione in dicembre, acquisterà altri 3,4 miliardi di dollari di azioni, e riceverà da Merrill circa 2,5 miliardi di dollari per compensare le perdite subite sul precedente investimento. La casa d’investimento statunitense procederà inoltre nel terzo trimestre ad ulteriori svalutazioni per 5,7 miliardi di dollari.
Dal momento dell’insediamento dell’attuale Chief Executive Officer, John Thain, lo scorso dicembre, Merrill ha raccolto capitale azionario per 30 miliardi di dollari, nello sforzo di tenere il passo con le continue svalutazioni di crediti ipotecari. Il mese scorso l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha tagliato il merito di credito di Merrill da A+ ad A, annunciando la possibilità di ulteriori declassamenti. La ricapitalizzazione rappresenta evidentemente una pesante penalizzazione per gli attuali azionisti, che subiranno una forte diluizione (le nuove azioni determineranno infatti un aumento del 36 per cento nel numero delle azioni circolanti rispetto allo scorso 30 giugno), mentre gli obbligazionisti potrebbero (ma il condizionale è d’obbligo) vedere almeno la stabilizzazione del continuo deterioramento del merito di credito della casa d’investimento, che li ha finora pesantemente penalizzati.
Nel tentativo di fare cassa Merrill nelle ultime settimane ha venduto la propria partecipazione nell’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, incassando 4,43 miliardi di dollari, accettando un sacrificio di prezzo rispetto all’obiettivo d’incasso, fissato a giugno in 5 miliardi di dollari. Recentemente sono stati inoltre conclusi accordi per la cessione del ramo d’azienda specializzato in amministrazione di fondi comuni, Financial Data Services, per 3,5 miliardi di dollari.
Merrill ha anche proceduto a vendere 30,6 miliardi di dollari di collateralized bond obligations (CDO), per soli 6,7 miliardi di dollari, il 22 per cento circa del valore nominale. Il compratore è un’affiliata dell’investment manager texano Lone Star. A conferma del fatto che sui titoli finanziari la stagione dei saldi non è ancora finita, sarà la stessa Merrill Lynch a fornire circa il 75 per cento del finanziamento del prezzo d’acquisto, con una propria linea di credito. E’ interessante notare che il finanziamento è garantito unicamente dai titoli venduti, il che significa che Merrill assorbirà l’eventuale perdita sui CDO che ecceda 1,68 miliardi di dollari. La cessione di tali CDO darà origine ad un’ulteriore svalutazione trimestrale ante-imposte di 4,4 miliardi di dollari nel terzo triemstre. Meno di due settimane fa Merrill annunciava svalutazioni su CDO per il secondo trimestre pari a 3,5 miliardi di dollari.
Da inizio anno Merrill ha perso circa il 55 per cento del proprio valore azionario. Solo Lehman Brothers ha perso di più all’interno dell’indice Amex Securities Broker/Dealer, con un calo di circa il 77 per cento.
Le continue ricapitalizzazioni di Merrill Lynch sono avvenute in parallelo con le rassicurazioni della società riguardo l’adeguatezza della propria base di capitale. Ma evidentemente l’entità dei crediti da svalutare e la scarsa propensione alla trasparenza (comportamento comune a tutti gli intermediari finanziari e creditizi dall’inizio della crisi dei mutui, un anno fa, ed alla base degli elevati tassi interbancari, indotti da incertezza sulla solvibilità) è sostanzialmente superiore alle previsioni. All’inizio della crisi Merrill Lynch aveva sui propri libri obbligazioni collateralizzate per circa 50 miliardi di dollari. Ad oggi ne sono rimasti circa 8,88 miliardi di dollari. I CDO incidono per 27 miliardi di dollari su un totale di svalutazioni per 41 miliardi di dollari. Un dato che fornisce la misura del danno provocato dalla crisi dei mutui e dei prodotti strutturati ad essi legati.
 

Fonte - Macromonitor


 

 

 

 

  Sabato 19 luglio 2008   Martedì 22 luglio 2008   Giovedì 31 luglio 2008  
       
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   L’industria che verrà

17 Luglio 2008 16:36 MILANO - di Sara Silano
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Gli investitori hanno ragionevoli motivi per essere insoddisfatti dei rendimenti dei fondi italiani, ma esiste un 25% di strumenti che può competere con gli esteri. E sono quelli con un portafoglio prevalentemente azionario e un profilo di rischio/rendimento più efficiente. A sostenerlo è Marcello Messori, presidente di Assogestioni, sulla base di uno studio, curato dal neonato ufficio studi dell’associazione di cui è responsabile Alessandro Rota e presentato in un incontro dal tema “Problemi aperti nel settore del risparmio gestito”.

Le performance da sole, però, non sono sufficienti per spiegare una crisi strutturale, cominciata nel 2001, che ha accelerato nell’ultimo anno per effetto del calo dei mercati. Messori indica due altri fattori: l’inefficiente allocazione temporale dei portafogli, per cui gli investitori si sono persi l’intero ciclo di rialzo delle Borse cominciato nel 2003, e gli eccessivi costi di distribuzione che si sono mangiati tutto il valore aggiunto generato dalla gestione.
Colpa dei produttori che hanno sfornato fondi a capitale protetto e garantito anziché azionari o dei collocatori che hanno indirizzato i risparmiatori verso porti sicuri o, ancora, di questi ultimi che, dopo la doccia fredda del 2000, non hanno più voluto avvicinarsi alle azioni, sintomo di una ancora scarsa educazione finanziaria? Tutti e tre hanno delle responsabilità e la crisi si può superare se ognuno fa la sua parte. Il tavolo convocato dalla Banca d’Italia tra istituti di credito e società di gestione dovrebbe pubblicare a breve la ricetta suggerita per far ripartire l’industria. Assogestioni, dal canto suo, ha già avanzato alcune proposte, come la rimozione delle disparità fiscali e regolamentari rispetto ad altri prodotti, l’introduzione di incentivi per gli investimenti di lungo termine e diversificati, la classificazione dei fondi aperti come servizi di default per la loro semplicità e trasparenza, l’evoluzione del mercato verso una varietà di forme proprietarie e di rapporti tra produzione e distribuzione che incentivino la concorrenza.
Il recupero di competitività è un passo obbligato non solo per migliorare la qualità dei servizi offerti agli investitori e far emergere l’eccellenza, ma anche per affrontare le nuove sfide che pone l’apertura del mercato europeo. La direttiva Ucits IV darà il “passaporto europeo” alle società di gestione, per cui non saranno più necessarie divisioni operative nei diversi Paesi, ma potrà essere gestito tutto dalla sede centrale (con l’eccezione dei servizi di banca depositaria), con il supporto, per le realtà più piccole, di operatori specializzati nei servizi amministrativi, di controllo e marketing.

L’offerta italiana deve migliorare sia aumentando la qualità della gestione dei prodotti esistenti che gestiscono 269 miliardi di euro dei risparmiatori (quelli con cinque stelle di Rating Morningstar sono meno del 3% contro una media europea del 10%), sia innovando in due direzioni. La prima è stata indicata dal presidente di Assogestioni, ossia la combinazione dell’aspetto previdenziale e di quello finanziario in fondi semplici adatti ad accompagnare l’investitore lungo il suo ciclo di vita (negli Stati Uniti è acceso il dibattito sulla costruzione di portafogli che tengano conto di questo aspetto).
La seconda, più di nicchia, è legata alle nuove opportunità che derivano dalla Ucits III in termini di maggior flessibilità e di uso di strategie simili a quelle degli strumenti alternativi. Nel documento di consultazione sui cosiddetti eligible asset, la Banca d’Italia propone di etichettare i fondi di nuova generazione come “sofisticati” e impone l’uso di modelli adeguati di controllo del rischio. A questo proposito, come osserva Carlo Camperio Ciani, amministratore delegato di Casa4funds sulla base della sua esperienza in Lussemburgo e Svizzera, il VaR (value at risk) è l’indicatore statistico riconosciuto come più oggettivo, ma è auspicabile anche l’adozione di misure che permettano di valutare la coerenza della strategia con quanto previsto dal prospetto informativo. E’ altresì necessario che i prodotti complessi siano venduti a chi è in grado di comprenderli e di sostenere la maggior rischiosità e non diventino uno specchietto per le allodole, come accaduto in passato per altri strumenti “di moda”.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

Etf fedeli ed economici
 

22 Luglio 2008 11:35 MILANO  -
di Sara Silano
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Secondo uno studio di Morningstar, il grado di passività è elevato e il costo competitivo anche con lo spread.
Sara Silano | 22/07/2008 11.35 | Invia Articolo per E-mail | Copyright | Aggiungi ai preferiti
Replicanti, gli Exchange traded fund (Etf) non lo sono solo sulla carta. Secondo uno studio realizzato da Morningstar, i fondi indicizzati quotati presentano un alto tasso di fedeltà al paniere di riferimento, che si riflette in rendimenti sostanzialmente allineati. Inoltre, hanno costi medi complessivi inferiori ai fondi comuni tradizionali, soprattutto a quelli destinati alla clientela privata.
La ricerca, commissionata da Eurizon Capital, è stata condotta sugli Etf quotati a Piazza Affari, specializzati sulle principali aree geografiche (Europa, Asia, Stati Uniti, emergenti e globali) e sugli obbligazionari governativi euro. Sono stati esclusi gli strumenti che investono in società a medio/piccola capitalizzazione e le materie prime, i settoriali, gli strutturati e altri Etf di nuova generazione.

Quanto sono fedeli
Per definizione gli Etf sono fondi passivi che replicano un indice nella sua composizione e nei suoi pesi. Esistono, tuttavia, fattori che possono incidere sul tasso di fedeltà, quali la revisione periodica dei benchmark, le difficoltà di accesso ad alcuni mercati e la minor liquidità di altri.
L’analisi, condotta su 56 Etf, ha mostrato, però, che gli scostamenti, misurati come volatilità dei rendimenti differenziali rispetto al benchmark (tracking error volatility) sono minimi. Nell’ultimo anno, tra gli strumenti con i valori più elevati ci sono gli azionari Usa, che hanno risentito dell’alleggerimento delle posizioni nel settore finanziario, uno dei più rappresentati nell’indice S&P 500, dopo la crisi dei mutui subprime (quelli di bassa qualità).
Da gennaio, l’extra-performance degli Etf rispetto ai rispettivi benchmark è stata in media di -0,13%, una variazione troppo esigua per poter affermare che rendono meno degli indici di riferimento. Solo il 13,7% dei replicanti ha fatto peggio, di oltre 50 punti base, soglia considerata discriminante, perché differenziali inferiori sono attribuibili ai flussi di acquisto o altri fattori che possono provocare divergenze temporanee. I risultati non sono molto diversi se si considerano orizzonti più lunghi, come gli ultimi dodici mesi. I fondi più fedeli sono gli obbligazionari governativi euro e una delle spiegazioni più plausibili è la minor volatilità dell’indice sottostante, composto da titoli di Stato con un buon rating. Un altro aspetto importante è la liquidità del paniere replicato. Ad esempio, gli Etf sul DJ Eurostoxx50, l’indice delle 50 società a maggior capitalizzazione europee, sono più allineati rispetto a quelli che replicano panieri più ampi o particolari (etici, ad alto dividendo, ecc.).

Se al Ter aggiungi lo spread...
Il costo, che è tra i principali accusati dei deludenti risultati dei fondi comuni tradizionali, non incide, invece, sulle performance e sul tasso di fedeltà degli Etf. Infatti, tanto gli strumenti meno onerosi quanto quelli più cari mostrano uno scostamento medio prossimo allo zero. Il costo sembra, invece, essere una discriminante per quanto riguarda i volumi (gli strumenti con commissioni minori hanno scambi, in termini di controvalore, superiori), ma su questi incidono i flussi degli investitori istituzionali, che usano gli Etf nella costruzione dei portafogli per coprire aree strategiche, come ad esempio l’Euro-zona o gli Stati Uniti.
Il minor costo rispetto ai fondi tradizionali è stato uno dei fattori che ha favorito lo sviluppo del mercato italiano, che nell’ultimo anno ha visto crescere del 48% gli scambi in termini di controvalore, nonostante la crisi delle Borse. Ma gli Etf sono davvero sempre meno costosi? Generalmente il confronto avviene sul Ter (Total expense ratio o indice di spesa medio), dal momento che gli Etf non hanno commissioni di ingresso, uscita e switch (per acquistarli si sostiene un costo di negoziazione che dipende dall’intermediario, come per una qualsiasi azione). Tuttavia, essendo strumenti quotati, esiste un altro “onere”, rappresentato dallo spread (differenziale) tra prezzi di acquisto e di vendita (bid-ask).

Lo studio, che ha riguardato 87 Etf quotati a Piazza Affari e si è basato sui dati di spread forniti da Borsa italiana, ha messo in luce che, anche aggiungendo al Ter questa variabile, la spesa complessiva è inferiore a quella media dei fondi collocati tra i clienti privati (sono invece leggermente più competitive le classi riservate agli istituzionali e specializzate su aree particolari come i mercati emergenti).
Gli Etf meno costosi sono quelli di prima generazione, mentre gli ultimi, quantitativi, fondamentali e strutturati, hanno costi superiori. Il confine con i fondi è più sottile non solo a livello di strategie, ma anche di commissioni.
Ha collaborato Marco Frittajon, analista di Morningstar.
L'articolo è stato pubblicato sul CorrierEconomia del 14 luglio.
 

Fonte - MorningStar.ir e CorrierEconomia


 

 

 

 

   Rischio-Italia sui mercati

25 Luglio 2008 09:32 ROMA - di Massimo Giannini
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I cittadini tedeschi sono preoccupati. L'indice Ifo sulla fiducia delle imprese è crollato ai livelli più bassi dall'11 settembre, e la cancelliera Angela Merkel li ha informati che la Germania non riuscirà ad evitare la "tempesta perfetta" che sta sconvolgendo l'economia finanziaria, e che nel 2009 produrrà i suoi effetti negativi sull'economia reale: la crescita di quest'anno non raggiungerà l'obiettivo del 2,2%.
Cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che di fronte al "disaster capitalism" celebrato da Naomi Klein si ritrovano con un indice Isae sulla fiducia delle imprese già ai livelli peggiori dal 2001 e con un Prodotto lordo a crescita zero? La manovra approvata dalla Camera non può confortarli. Dispone la "quantità" del risanamento, ma non propone la "qualità" dello sviluppo.
C'è un "caso Europa", che ormai non si può più sottovalutare. Lehman Brothers parla per la prima volta di rischio-recessione nell'Eurozona. Ma da qualche settimana sui mercati c'è anche un "caso Italia", che ormai non si può più nascondere.
Il Bollettino economico della Banca d'Italia aveva registrato, tra l'inizio di aprile e i primi giorni di luglio, una riduzione del premio di rischio sui titoli italiani. Il differenziale di rendimento tra le obbligazioni emesse da società non finanziarie con elevato merito di credito e i titoli di Stato era sceso di 0,3 punti percentuali, un calo addirittura maggiore di quello registrato dagli emittenti di altri Peasi europei. Ma nelle ultime due settimane lo spread tra i nostri Bpt decennali e i Bund tedeschi ha ripreso impercettibilmente ma inesorabilmente a crescere, tra i 50 e i 60 punti base.

In un mercato già di per sé volatile, gli operatori internazionali non si fidano di un Paese che non sembra in grado di risolvere i suoi problemi, endemici e sistemici, già ricordati da Mario Draghi nella sua audizione in Parlamento il 2 luglio scorso: indebitamento strutturale in aumento (più 0,6% al netto delle una tantum), spesa corrente in tensione (per la prima volta oltre il 40% del Pil), produttività in caduta libera (nel privato e soprattutto nel pubblico impiego), costo del lavoro per unità di prodotto in ascesa costante (più 4,5% tra inizio 2007 e primo trimestre 2008).
Ma c'è un altro termometro, che riflette con inquietudine crescente il grafico della "febbre italiana" di queste settimane. È il prezzo dei "Credit default swap", cioè le polizze di assicurazione sottoscritte dagli investitori che vogliono ricoprirsi dai rischi di insolvenza sui titoli obbligazionari emessi da un Paese.
Nel mese di luglio, sui mercati, il costo dei "Cds" nell'Eurozona è schizzato alle stelle per tutti i bond messi in circolazione dagli Stati con i tassi di crescita più bassi, le finanze pubbliche più critiche e i sistemi bancari più esposti. Dal 5 giugno scorso, giorno dell'allarme inflazione lanciato dal presidente della Banca centrale europea Trichet, assicurare un pacchetto di titoli di debito italiani del valore di 10 milioni di euro costa 15 mila euro in più.
Peggio dell'Italia, tra i 15 di Eurolandia, va solo la Grecia, con un "rincaro" di 16 mila euro, mentre vanno un po' meglio il Portogallo (più 14 mila euro), la Spagna (più 13 mila euro) e l'Irlanda (più 10 mila euro). A reggere l'urto restano solo la Germania (con un aumento di mille euro) e in parte la Francia (più 3 mila euro).
Cosa significa tutto questo? Il nostro Paese, suo malgrado, è tornato ad essere un sorvegliato speciale in Europa. È l'anello debole di una catena che non si può più spezzare (è irrealistica l'ipotesi che l'Italia esca dal sistema monetario europeo) ma che ci può soffocare (ogni aumento dei tassi di interesse deciso dalla banca centrale aumenta il costo già esponenziale del nostro debito pubblico).

L'euro ci ha salvato, come ripete Lorenzo Bini Smaghi: "Se non fossimo nella moneta unica - secondo il membro italiano del board della Bce - oggi ci ritroveremmo nel baratro in cui cademmo nel 1992". Ma l'ombrello dell'euro non può bastare. Per questo la manovra economica triennale che da oggi passa all'esame del Senato è palesemente deficitaria, come denunciato dal governatore di Via Nazionale. Nel primo anno ruota tutta intorno agli aumenti delle entrate, e nei due anni successivi si affida a un piano di riduzione delle spese quasi interamente affidato al conto capitale (cioè agli investimenti), agli enti locali (che saranno costretti a ridurre il perimetro del Welfare) e ai ministeri (che di perdere il "portafoglio" non ne vogliono sapere).
La nave europea non va. E noi siamo, ancora una volta, la zavorra. Lo dice oggi il Fondo monetario, che ha appena rivisto il suo outlook. Lo dirà il 7 agosto la stessa Bce, nell'ultimo consiglio prima delle vacanze. L'"allerta" sull'Italia e sull'impennata dei premi sui suoi "Credit default swap" non è un complotto delle tecnocrazie senza popolo. È nei fatti: lo ha lanciato il Financial Times tre giorni fa. Il "warning" della bibbia del capitalismo finanziario internazionale è caduto nell'indifferenza generale.
Si capisce che nel governo nessuno raccolga questi segnali. Berlusconi considera la magistratura "un cancro da estirpare", e ovviamente è troppo preso dalla sua rituale "caccia alle toghe". Tremonti giudica la speculazione "una peste del XXI secolo", e naturalmente è troppo impegnato nella sua virtuale "caccia agli untori". Ma i mercati globali sanno valutare i pericoli. Le istituzioni finanziarie sanno giudicare le politiche. Sarà banale, ma mai come stavolta si può dire che chi semina vento raccoglierà tempesta.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

   I buoni della Posta battono i Fondi 48 a 5

29 Luglio 2008 14:41 TORINO - di Beppe Scienza
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Com’è possibile che da inizio 2008 siano usciti dai fondi d’investimento italiani solo 70 miliardi di euro? Anziché alzare alti lai per deprecare la cosiddetta fuga dai fondi, questa è la vera domanda da porsi.
Sorvoliamo sulla questione che tale dato andrebbe preso con le molle. Proviene infatti dalla principale organizzazione dell’industria patria del risparmio gestito (Assogestioni), che indiscutibilmente è un soggetto di parte. Pare per esempio che trascuri, per incompetenza o furbizia, i flussi dovuti alla distribuzione di proventi. Possiamo considerarlo comunque indicativo dell’ordine di grandezza di un fenomeno, che è sconcertante appunto per le sue limitate dimensioni.
Sulla base dei danni che il risparmio gestito ha provocato e provoca ai risparmiatori italiani, c’era da aspettarsi ben altro. Cioè un’uscita in massa dei circa 1.000 miliardi che continua ad avere sotto le sue grinfie, salvo qualche decina di miliardi, gestiti magari benino.

Rendimenti vicini allo zero.  Il periodo esaminato è molto significativo: a metà giugno 1998 parte la cosiddetta tassazione dei capital gain, sei mesi dopo arriva l'euro sui mercati finanziari, contemporaneamente vengono riorganizzate le categorie dei fondi, molti cambiamo tipologia ecc.
Ebbene, sono dieci anni che i clienti dei fondi guadagnano in media lo 0,5% l’anno, cioè praticamente nulla. Quasi come aver tenuto i soldi sotto il mattone. Bastava lasciarli su un libretto postale, un conto di deposito ecc. per ottenere di più.
Se infatti consideriamo 193.627 lire, ovvero l’equivalente di 100 €, investiti a metà 1998 nei fondi comuni italiani, scopriamo che in media a metà 2008 erano diventati la bellezza di 105,1 €. Lo dicono gli indici generali dei fondi elaborati dalla Fideuram. Di nuovo è una fonte di parte, ma possiamo escludere che i dati siano stati taroccati per farli apparire peggiori che nella realtà; semmai sono stati abbelliti.
Singoli fondi si sono discostati da tale performance, ma essa indica che per la maggior parte essi hanno registrato perdite più o meno pesanti o, nei casi migliori, guadagni nominali irrisori. Il dato medio è poi significativo per le gestioni patrimoniali in fondi (Gpf) che di regola vengono confezionate mescolando decine di fondi dalle politiche di gestione alquanto diversificate.
Il peggio è che in termini reali la stragrande maggior parte dei clienti dei fondi ci ha rimesso di brutto. Ragionando in potere d’acquisto, essi avevano 100 € e si sono ritrovati a fine giugno scorso con più solo 84 €. Ciò significa un –16% (meno sedici per cento).

Distruggere ricchezza. C’è veramente da non crederci, in quanto tale perdita non è dipesa dall’andamento dei mercati finanziari. È tutta colpa dei gestori e ovviamente delle banche, assicuratori, promotori finanziari ecc. che gli hanno dato in pasto al risparmio gestito così tanti soldi, raccolti fra i propri clienti. Si stima infatti che esso abbia messo le mani sul 40% della ricchezza finanziaria degli italiani.
Se però il cliente dei fondi comuni in media non ha guadagnato quasi nulla neppure in termini monetari, tutt’altri risultati ha ottenuto il suo amico, il suo collega, sua madre ecc. che non si erano spossessati dei propri risparmi. Anche con competenze modestissime e impegno minimo, nello stesso periodo hanno di regola incrementato il proprio gruzzoletto o magari il proprio ingente patrimonio. Il risparmio gestito è infatti democratico: proporzionalmente danneggia il ricco erede circa quanto erode i 20 o 30 mila euro del piccolo risparmiatore.
Vediamo le performance dei più significativi investimenti mobiliari dei risparmiatori italiani. Tutti hanno reso di più: i Bot, i Cct, i Btp, in media le stesse azioni italiane e persino i buoni fruttiferi postali. Questo è il colmo: la proverbiale vecchietta, che poi magari era un ingegnere trentenne, ha ottenuto il 48% anziché il 5%.
Sono migliori i rendimenti nel decennio anche per le azioni europee (+1,6% netto l’anno) e invece negativi per quelle americane (-0,7%), che non sono certo l’investimento tradizionale prevalente di un normale risparmiatore italiano. Insomma, comunque la si giri, si giunge a conclusioni analoghe a quelle delle pregevoli ricerche dell’ufficio studi di Mediobanca, diretto da Fulvio Coltorti. La gestione professionale del risparmio funziona così, bellezza!
Rigirare la frittata. Perché, malgrado l’evidenza dei fatti e contro la propria convenienza, così pochi riescono a liberarsi dai lacci e lacciuoli che li tengono imbrigliati nel risparmio gestito? In parte sono frenati da trappole contrattuali, quali le furbesche commissioni di uscita dai fondi, o dalla convinzione infondata che sia sbagliato smobilizzare un investimento in perdita.
Poi ce la mettono tutta molti organi d’informazione. Ecco per esempio Marco Liera che proprio nell’ottobre 1998 nel libro "Investire in fondi comuni" del Sole 24 Ore (ISBN 88-7187-908-2) dava ordini ai risparmiatori italiani: "I fondi comuni azionari non sono autobus dai quali si entra e si esce a piacimento: richiedono fedeltà assoluta!" (pag. 51, in neretto). Come dire? Ammettiamo che uno si accorga che il suo fondo è gestito malissimo, che da anni perde mentre gli altri guadagnano ecc. Ebbene, deve continuare a rimetterci per far contenti i giornalisti confindustriali.

Impiegati di banca e promotori sono poi esperti nel manipolare la realtà quando il cliente manifesta la propria insoddisfazione. Esiste tutta una serie di tecniche per fargli credere che le perdite sono imputabili a sue scelte sbagliate, quando invece sono regolarmente dovute a inettitudine o malversazioni di gestori e intermediari vari, nonché ai consigli dannosi fornitigli.
L’industria del risparmio gestito ha addirittura forzato una disciplina, cioè la finanza comportamentale, al fine di rigirare meglio le carte in tavola e ribaltare sui risparmiatori le responsabilità del suo fallimento.
Padroni dei propri soldi. È vero che al deflusso dai fondi comuni, sostanzialmente iniziato nel 2007, concorrono pure altre cause. Da un lato i travasi pilotati verso fondi di diritto estero, ancor meno trasparenti, soggetti ad ancor minori controlli e svantaggiati fiscalmente in caso di perdite. Dall’altro quelli verso altri prodotti-trappola del risparmio gestito, a volte persino un poco peggiori (obbligazioni strutturate, formule pseudo-previdenziali ecc.).
È però un fatto che, a fronte di anni e anni di perdite o di rendimenti prossimi allo zero, i risparmiatori incominciano a capire che l’errore sta nel manico. E la soluzione migliore è riprendere in mano il controllo dei propri quattrini, per metterli titoli di stato, buoni postali indicizzati all’inflazione ecc. o addirittura anche solo in conti di deposito (Conto Arancio, Banco di Santander, Chebanca ecc.). Questo però non lo dicono i tanti giornalisti ed economisti in quota al risparmio gestito.
 

 

Fonte - Libero Mercato