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Sabato
06
Settembre 2008 |
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Martedì
09
Settembre 2008 |
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Mercoledì 10
Settembre 2008 |
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Venerdì 12
Settembre 2008 |
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Sabato 13
Settembre 2008 |
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Domenica 14
Settembre 2008 |
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BORSA:
SETTEMBRE E' UN MESE DAVVERO DA BUTTARE?
03 Settembre 2008 01:20 NEW YORK -
di Bernie Schaeffer ______________________________________________
Con l'ingresso nel mese di settembre, si affacciano i report
delle case di brokeraggio che evidenziano i pericoli di un
mese storicamente nefasto per il mercato azionario. In
effetti il Dow Jones ha chiuso in rialzo soltanto in un caso
su tre negli ultimi 50 anni; in media la performance del
mese è stata del -1.11%. Ma prima di buttare via il mese,
bisogna considerare questo: quattro degli ultimi cinque mesi
di settembre sono stati positivi per lo S&P, con rialzi del
2.5% nel 2006 e del 3.5% nel 2007.
Il calo della scorsa settimana ha trovato supporto in
prossimità dei 1260 punti, come ci si aspettava. I dati
macro positivi hanno sospinto il mercato verso l'alto, ma la
resistenza a 1300 punti è entrata di nuovo in gioco, con lo
S&P che venerdì ha ceduto. Questa è una soglia che gli
investitori devono monitorare con attenzione: se sarà
superata, il mercato trova resistenza a quota 1310, dove si
trova la media mobile a 80 giorni, il massimo di agosto e i
minimi di febbraio e marzo.
Il calendario dei dati è molto ricco questa settimana; in
ogni caso gli indicatori di sentiment continuano a suggerire
che il rapporto fra rendimento e rischio rimane favorevole
ai rialzisti in ottica di lungo periodo. I timori per
l'economia, che hanno raggiunto un apice all'inizio
dell'anno, devono ancora trovare il riscontro nei dati sul
PIL. Ciononostante i dubbi permangono, con gli investitori
che si attendono ulteriori svalutazioni nel settore
finanziario e con gli economisti che anticipano un
rallentamento dell'economia mondiale che inciderà sulla
crescita USA.
Troviamo interessante che l'ultima volta in cui lo S&P ha
toccato i 1300 punti, il 43% degli investitori monitorati da
American Association of Individual Investors erano bullish,
rispetto all'attuale 30%. Questo crescente scetticismo getta
le basi per futuri rialzi da parte del mercato, con denaro
addizionale che può affluire al mercato per indurre gli
indici a superare le resistenze.
Allo stesso tempo, gli indicatori di sentiment di breve
periodo si collocano su livelli ne' ottimistici ne'
pessimistici. La scorsa settimana abbiamo menzionato che il
CBOE Market Volatility Index (VIX) può essere visto come
basso, a fronte di una volatilità storica a 22.59 e con il
VIX a 18.89. Questa settimana, la volatilità storica a 20
giorni è scesa a 20.76, mentre il VIX è risalito, suggerendo
che non vi è eccessivo ottimismo o pessimismo fra gli
speculatori. Inoltre, la media a 10 giorni del rapporto fra
call e put sull'ISE si colloca a 141, ancora una volta non
riflettendo un sentiment estremo in un senso o nell'altro.
Fonte
-
www.smarttrading.it
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Indici
americani a rischio?
03 Settembre 2008 -
di phastidio ______________________________________________
Il rapporto prezzo-utile dell’indice Standard&Poor’s 500 si
è portato a poco meno di 26, massimo da dicembre 2003. Ciò
significa che gli investitori stanno prezzando un forte
recupero degli utili aziendali, circostanza che potrà
avvenire solo a conclusione del rallentamento congiunturale
americano e globale, evento che oggi appare piuttosto
improbabile. E’ auspicabile che la visione espressa dagli
investitori sia quella corretta, visto che l’ultima volta
che il rapporto di P/E ha toccato questo livello, l’indice
S&P500 ha successivamente “corretto” del 38 per cento.
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USA New York - S&P500 Index |
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Fonte
- Macromonitor
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Giri
di portafoglio
04 Settembre 2008 -
di Sara Silano ______________________________________________
Jeremy Siegel, professore di Finanza alla Wharton School
dell’Università di Pennsylvania, noto per la sua guida agli
investimenti (Stock for the long run) nella quale si pone
l’obiettivo di dimostrare come le azioni siano la miglior
scelta nel lungo periodo, è convinto che i mercati abbiano
toccato il fondo a metà luglio. Da allora, il petrolio ha
cominciato a scendere, perdendo oltre il 20%, mentre i
titoli finanziari sono saliti, soprattutto negli Stati
Uniti.
Quella di Siegel è un’affermazione forte, considerata
l’elevata incertezza che domina sui mercati. Il prezzo del
greggio è in calo, ma crescono i timori per il rallentamento
della crescita economica globale. Inoltre, il settore
bancario continua ad essere in sofferenza e il numero di
istituti in condizioni “critiche” è aumentato. Secondo la
Federal deposit insurance corporation americana, è passato
da 90 a 117 tra aprile e giugno.
Qualcosa, però, nell’ultimo mese è mezzo è cambiato. Molti
speculatori hanno smesso di scommettere sul rialzo del
petrolio e il ribasso dei titoli bancari. Secondo un
rapporto di Etf Securities, società specializzata negli Etc
(Exchange traded commodities) sulle materie prime, in estate
sono aumentati i flussi sugli strumenti short (ossia quelli
che consentono di puntare sulla discesa delle quotazioni) a
discapito di quelli che consentono di andare lunghi. E,
anche se a fine agosto il fenomeno si è ridotto, i volumi
rimangono ben più alti di quelli della primavera. D’altro
canto, andare “corti” sui finanziari è diventato più
difficile dopo che la Sec, l’autorità di vigilanza su Wall
Street, ha introdotto norme più severe a tutela degli
investitori.
A sostegno della sua ipotesi, Siegel spiega che le forti
svalutazioni realizzate dalle banche hanno determinato un
gap nelle valutazioni, ma se ci si concentra sui profitti
operativi (quelli derivanti dall’attività core delle
aziende), il rapporto tra prezzo e utili (price/earning) è
molto più basso rispetto alle passate crisi. Il suo è un
approccio fondamentale, focalizzato sugli indicatori
patrimoniali e reddituali delle società. Ma l’attuale fase
di mercato non può essere compresa considerando solo questo
aspetto. Come scrive Maurizio Novelli, global strategist di
Zest asset management, nella sua lettera mensile,
l’andamento di alcuni settori come le materie prime,
l’energia e i materiali di base è stato determinato in larga
parte da fattori economici, mentre i finanziari hanno
beneficiato delle ricoperture legate all’attenuarsi delle
pressioni speculative al ribasso.
In un contesto che non rimane facile da interpretare, i
gestori si stanno muovendo in ordine sparso nella
strutturazione del portafoglio. Secondo un’indagine di
Morningstar tra i migliori fund manager americani, alcuni
non credono nella fine del rally del settore energetico e
continuano a mantenere le loro posizioni; altri, invece,
preferiscono sottopesare le compagnie petrolifere o non
averle in portafoglio, nella convinzione che l’euforia che
ha spinto il comparto non abbia solidi fondamenti. Esistono
anche gestori che cominciano a guardare ad altre industrie
che non sono sotto i riflettori in questo momento, come
quella farmaceutica, le cui valutazioni, a loro dire, sono
scese troppo.
Fonte
-
MorningStar.it
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Le
Borse
e la paura del
terzo crollo
07 Settembre 2008 23:11
MILANO - di Giuseppe Turani
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Se la finanza internazionale
fosse una barca, si potrebbe dire che ci sarà da ballare ancora per
un bel po´. Il crollo di questi giorni, con perdite che nel giro di
una settimana si collocano fra il 3 e il 7 per cento, era stato
previsto e annunciato.
Aveva anche una specie di
nome in codice: "la seconda ondata". Dopo i crolli iniziali, si era
detto, arriverà la seconda ondata, una volta fatti un po´ di conti
dentro le banche. E è esattamente quello che è successo.
Adesso, si può star sicuri che le Borse si riprenderanno, prima o
poi. Di sicuro prima della fine dell´anno. E per almeno tre buone
ragioni: 1- Un rimbalzo tecnico è di fatto quasi inevitabile dopo le
cadute di queste giorni (e quelle che seguiranno a ruota).
2- Le grandi banche internazionali (le mani forti dei mercati, cioè)
sono stufe di dover passare le giornate a spiegare ai clienti perché
diventano ogni ora più poveri e perché loro, nonostante operatori
molto esperti, economisti e analisti in grande quantità, non sono
capaci di produrre qualche dollaro di plusvalenza.
3- Le stesse banche, infine, al 31 dicembre dovranno fare i loro
bilanci. E questo è stato un anno orribile. Tutti i presidenti di
banca preferirebbe dover scrivere un milione di volte "Sono un
asino" sulla lavagna piuttosto che mettersi a allineare le cifre del
proprio bilancio. Da qui la necessità, vitale, di dare una scrollata
verso l´alto ai listini, in modo da rendere meno spaventosi i
rendiconti di fine anno.
E quindi, visto che ci sono tutti questi elementi, non si sbaglia
nel dire che anche dalla seconda ondata si risalirà. Non subito, ma
si risalirà. E si correrà verso listini più umani e meno
terrorizzanti.
Naturalmente, per convincere il grosso pubblico a puntare qualche
fiches sul mercato borsistico, si dirà (con dovizia di analisi e di
expertise) che la crisi è finita, che il peggio è ormai alle spalle
e che si potrà guardare al futuro con una riconquistata (e meritata)
serenità. Anche perché, si dirà, ormai la ripresa economica è alle
porte, Europa e America hanno finito la penitenza, e si può
cominciare a puntare su economie che finalmente tornano a crescere,
a espandersi e a produrre profitti.
Ma saranno tutte bugie. Semplici e colossali bugie. In realtà,
dietro l´angolo si profila
già la terza ondata, cioè il terzo crollo. In termini di calendario
possiamo collocarlo verso febbraio-marzo, forse anche un po´ prima.
Insomma, subito dopo le feste. E la terza ondata arriverà perché non
è vero che la ripresa è vicina.
L´attuale stato di crisi (sempre che non si trasformi strada facendo
in qualcosa di peggio) è destinato a aggravarsi e a durare a lungo.
Oggi, di fatto abbiamo l´economia mondiale che tende alla crescita
zero. L´Europa e l´America ci sono già arrivate (o sono vicinissime)
e (novità) anche qualche paese emergente sta gettando la spugna.
Solo la Cina sembra decisa a resistere: che gli Dei dell´economia
l´assistano.
Oggi, gli ottimisti
collocano la svolta (nel senso dell´avvio di una ripresa
congiunturale) non prima dell´estate del 2009. Ma accanto a
questa previsione si premurano di spiegare che in giro ci sono
ancora molti fattori di instabilità: dalla Russia all´Iran, tanto
per dirne un paio. Inoltre, la nuova amministrazione americana non
entrerà in carica prima di febbraio e avrà bisogno di almeno qualche
mese prima di capire che cosa le conviene fare.
In sostanza, oggi il punto
di svolta è collocato (dagli ottimisti) verso la prossima estate, ma
con molte possibilità di slittare ancora in avanti.
L´America, si fa notare, probabilmente va a zero adesso, e, una
volta lì, bisognerà vedere quanto tempo ci metterà a tirarsene
fuori. Impresa che potrebbe rivelarsi più complicata del previsto.
Anche perché non è detto che una volta arrivata alla crescita zero,
si fermi lì. Potrebbe anche andare più sotto.
Pensare che in un clima del
genere (con l´economia mondiale a zero) le Borse possano scattare
verso l´alto, e "definitivamente", già a ottobre o novembre di
quest´anno, è un sogno o, più prosaicamente, una truffa.
A tutto questo si aggiunga
che la famosa crisi subprime, all´origine di tutto questo pasticcio,
molto probabilmente non ha finito di emanare i suoi gas velenosi.
Nel corso dell´ultimo anno ci hanno spiegato in almeno tre o quattro
occasioni che tutto era venuto a galla, e che tutto era finito. Ma
non era vero. Come sappiamo oggi, si trattava solo di bugie per
guadagnare tempo. E anche oggi, a oltre un anno dall´inizio di
quell´uragano, niente ci assicura che sia venuto tutto a galla.
Inoltre, non abbiamo ancora visto il "ridisegno" della finanza
internazionale, i cui perversi modi di funzionamento sono
all´origine della crisi di cui stiamo parlando.
Il virus, insomma, si aggira ancora fra di noi e è esattamente lo
stesso virus di un anno fa. C´è solo da sperare che, avendolo già
preso una volta, nessuno abbia più voglia di ripetere l´esperimento.
Ma la finanza internazionale è fatta da migliaia e migliaia di
persone, e non tutte hanno la testa esattamente sul collo. Insomma,
si ballerà ancora per un po´. E è meglio essere prudenti.
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Fonte
- La
Repubblica |
Come
capire
quando si tocca
il fondo
07 Settembre 2008 23:33
MILANO - di Alessandro Fugnoli*
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
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Nel suo primo anno la crisi
è stata un mostro a tre teste, stagnazione, inflazione e riduzione
della leva. La riduzione della leva, a sua volta, si è triforcata in
riduzione della leva immobiliare, di quella bancaria e di quella
personale. Un aspetto preoccupante è che le tre teste sono nate
ognuna con vita propria. Il rallentamento globale ci stava
tutto dopo cinque anni di crescita e non aveva bisogno
dell’inflazione o della riduzione della leva per manifestarsi,
perché bastava il pieno uso, non più espandibile, delle risorse
disponibili. L’inflazione, dal canto suo, è sembrata a un certo
punto avere anch’essa vita propria quando il rallentamento della
crescita ha tardato a smorzarla per via di shock da offerta sulle
materie prime (gli shock da offerta, come un embargo o un conflitto,
possono dare inflazione indipendentemente dal fatto che la crescita
ci sia o non ci sia). La riduzione della leva, dal canto suo, a un
certo punto c’è sempre e non è necessariamente causata dal
rallentamento della crescita. Spesso, anzi, il rallentamento è
proprio la riduzione della leva a causarlo (o, come in questo caso,
ad accelerarlo). Tre crisi
autocefale complicano tutto, perché non è detto che risolvendone una
si avviino a risoluzione anche le altre due. Vanno affrontate in
parallelo. E’ come combattere tre guerre insieme.
E’ probabile che il secondo
anno di crisi sia un mostro con due sole teste, la stagnazione e la
riduzione della leva. E’ probabile, e non certo, perché la terza
testa, l’inflazione, è tramortita ma non è ancora caduta. La
cattiva notizia, sull’inflazione, è che il petrolio è gravemente
indebolito, ma non domato. Dietro a Gustav ci sono già in arrivo
Hanna, Josephine e Ike, in quella che si profila come una stagione
meteo particolarmente pericolosa. C’è poi l’incognita geopolitica.
Non la Russia, che è semmai una questione di medio-lungo termine,
quanto l’Iran. Nei prossimi due mesi Israele si interrogherà a fondo
con primarie, congressi e forse elezioni che avranno al centro la
questione iraniana. La buona notizia, sempre sull’inflazione, è che
i termini del rapporto tra domanda e offerta sono cambiati con
straordinaria rapidità nell’ultimo periodo non solo per il petrolio,
ma per tutte le materie prime (l’ultima strenua resistenza, quella
dell’acciaio, sta iniziando a cedere).
Nel mondo si consumano 87
milioni di barili al giorno. Negli ultimi mesi la domanda americana
è crollata di un milione, quella cinese è salita di 500mila mentre
l’offerta Opec è salita di quasi un milione, grazie ad Arabia
Saudita (che ha già riempito le casse e fatto il budget per
quest’anno) e all’Iran (che ha bisogno di soldi). Ci sono ovviamente
delle incognite sul petrolio. Oltre a quelle già citate ci si
può chiedere quanto a lungo durerà la riduzione dei consumi in
America e l’aumento di produzione saudita. Si può però scommettere
che crescita tendente a zero e disoccupazione verso il 6 per cento
terranno bassa la domanda negli Stati Uniti, mentre dal lato
dell’offerta i sauditi forzeranno i loro pozzi ancora per qualche
tempo. L’essere passati da un mostro tricipite a un mostro bicipite
è stato accolto con comprensibile sollievo dai mercati e dalle
banche centrali. Si è
diffusa poi l’impressione che anche le altre due teste potessero
essere meno minacciose di quanto si era pensato. La stagnazione è
apparsa smentita efficacemente dal 3.3 per cento di crescita
annualizzata del Pil americano nel secondo trimestre. Quanto alla
riduzione della leva, il rallentamento della discesa dei prezzi
delle case ha fatto pensare a una fine più vicina del circolo
vizioso tra prezzi in discesa e pignoramenti. In realtà le
due teste rimaste sono destinate a fare loro la forza persa dalla
terza e si profilano come avversari formidabili per i prossimi mesi.
La crescita, infatti, è
destinata a indebolirsi fino a raggungere lo zero. Parliamo
dell’America, perché Europa e Giappone a zero ci sono già e ci
rimarranno. Anche gli
emergenti sono in rapida perdita di velocità (impressionante il
crollo coreano) e solo la Cina, ci si augura, manterrà una velocità
sostenuta.
Quanto alla terza testa, la
riduzione della leva, bisogna fare un discorso separato per ognuna
delle sue tre componenti. La prima a manifestarsi un anno fa, la
riduzione della leva immobiliare attraverso il default sui mutui e
la restituzione della casa alla banca, è forse anche la prima che si
avvierà a conclusione, perdendo gradualmente virulenza. Il
motivo è semplice. La liquidazione dell’asset è brutale e rapida. Il
privato proprietario non può abbellire il bilancio, rateizzare la
svalutazione, classificare a livello 3 la sua casa o
ricapitalizzarsi. Se non ce la fa (o se non gli conviene continuare
a pagare il mutuo) restituisce la casa alla banca e se ne va in
affitto. Certo, i vari piani di rinegoziazione assistita varati da
Congresso e amministrazione limitano qua e là i danni, ma in
generale la riduzione della leva si fa nel modo più veloce, il
default. Come dice Ethan
Harris di Lehman, la crisi immobiliare è già al 65 per cento del suo
percorso. La seconda riduzione della leva, quella dei consumatori
(che sono a debito non solo per la casa, ma per essersi fatti
prestare i soldi per il Suv che non vale più niente, per la crociera
ai Caraibi, per l’università dei ragazzi, per il dentista e il
giardiniere) si aggraverà per l’aumento della disoccupazione, ma
sarà se non altro alleviata dalla discesa del costo della benzina e
del riscaldamento. In più, mentre la leva immobiliare va ridotta
immediatamente, quella sui consumi verrà accorciata nell’arco di
qualche anno, con tempi diluiti.
Quella che preoccupa di più
è la terza componente, la riduzione della leva delle banche.
Qui le cose potrebbero accelerare. Il fenomeno ha due aspetti, uno
spettacolare e l’altro insidioso. Quello spettacolare sono le
insolvenze delle banche. Finora, in America, sono state 11, ma sulla
lista d’osservazione del Fdic ce ne sono più di cento e il numero
potrebbe anche crescere. Le insolvenze faranno notizia e
spaventeranno ogni tanto i mercati, ma saranno, si spera, limitate a
banche regionali e locali.
Il problema insidioso riguarderà però tutte le banche che
sopravviveranno, grandi o piccole non importa, e sarà il credit
crunch. Di credit crunch si parla da un anno ma finora, per vari
motivi, non se ne è visto molto. Adesso, però, il fenomeno sta
prendendo velocità e continuerà ad aggravarsi. Sui prestiti
personali è già molto evidente. Due anni fa si andava a cercare la
gente a cui prestare soldi, oggi chi si azzarda a chiederli viene
radiografato, scannerizzato e indagato e in più, se degno, deve
pagare tassi ben più alti di quelli in uso ancora un anno fa.
Quanto alle imprese, il
credit crunch si fa ogni giorno più evidente. Fortunatamente in
molti settori la posizione finanziaria è ancora buona, ma anche alla
migliore impresa del mondo capita di dovere rifinanziare un debito
che arriva a scadenza. Certo, se la banca non rinnova il
finanziamento l’impresa si rivolge al mercato, ma il mercato attua
anch’esso il suo credit crunche fa pagare tassi crescenti anche ai
debitori migliori. In pratica il mondo con l’inflazione in ritirata
non va considerato molto migliore del mondo in cui l’inflazione era
vivace, ma era almeno compensata da una crescita non ancora
azzerata. Il fatto che si possa intravedere l’attenuazione di
qualche fenomeno negativo nel corso dei prossimi mesi non deve
indurre a prendere nuovi rischi.
Lo sappiamo che i mercati
toccano il fondo uno o due trimestri prima della ripresa della
crescita, ma questa ripresa (che oltretutto non si profila certo
spettacolare) è di là da venire. Come ha detto oggi Rosengren della
Fed, le elezioni ritardano la soluzione politica della crisi e
bisognerà aspettare l’estate del 2009 per vedere un’accelerazione
nel processo di superamento dei problemi.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero |
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Rassegna Cronologica
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15 -
16 -
17 -
18 -
19 Settembre 2008 +++
Lehman
Blotels?
12 Settembre 2008 -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Nella ridda di dati
macroeconomici parzialmente contrastanti fra loro, continua
la tempesta sul settore finanziario. La sensazione è che per
ogni voce di salvataggio di una istituzione finanziaria,
un’altra veda le proprie quotazioni cominciare a
precipitare.
Sul fronte positivo, le voci arrivano per Lehman Brothers e
Washington Mutual, le pecore nere della settimana. La
notizia di oggi, riportata dal Financial Times online,
sarebbe quella di un interessamento per Lehman Brothers da
parte di un consorzio formato dalla maxibanca commerciale
USA Bank of America, dal fondo di private equity J.C.Flowers
e dalla China Investment Corporation, fondo sovrano della
Repubblica popolare cinese. Washington Mutual, la banca
americana forse più esposta ai mercati immobiliari USA
maggiormente in crisi, sarebbe invece nel mirino di JPMorgan,
che ha già ritirato quello che rimaneva di Bear Stearns.
Purtroppo, per ogni possibile ( e per ora soltanto teorica)
soluzione, sorgono nuovi problemi. Oggi è la volta di
Merrill Lynch, il cui CDS sta esplodendo rapidamente, e del
gigante assicurativo AIG, le cui azioni stanno affondando
altrettanto rapidamente. E la giostra continua a girare, con
una domanda: per quante altre istituzioni saranno pronte le
ciambelle di salvataggio lanciate dalla Fed e dal Tesoro
USA, ossia i finanziamenti agevolati sinora forniti
generosamente agli acquirenti di istituzioni in difficoltà?
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USA New York -
Comparazione probabilità
default LEHMAN |
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Fonte
- Macromonitor
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Lehman:
I PIU' GRANDI CRACK FINANZIARI DELLA STORIA /SCHEDA
15 Settembre 2008 16:16 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 15 SET -
All'inizio fu la 'finanza creativa', che piegò ex colossi di
telefonia ed energia, convertitisi a banche d'affari
specializzate in derivati rischiosi. Ora è il turno della
crisi dei mutui subprime, che si è abbattuta sul comparto
finanziario mondiale, dando vita al più grande fallimento
della storia. Nell'ultimo decennio sono stati molti gli
esempi di bancarotte multimiliardarie, ma quella da 640
miliardi di dollari annunciata oggi da Lehman Brothers
supera in maniera esponenziale i fallimenti di Worldcom ed
Enron, le due crisi più eclatanti verificatesi negli Stati
Uniti del post 11 settembre. Quando portò i libri in
tribunale dopo essere stata scoperta a falsificare i propri
bilanci, l'ex multinazionale delle telecomunicazioni
WorldCom denunciò asset per quasi 104 miliardi di dollari,
mentre il gruppo energetico Enron mise sul tavolo attività
per oltre 63 miliardi di dollari. Al termine di processi
ampiamente pubblicizzati, i vertici dei due gruppi vennero
duramente colpiti sul piano giudiziario: Bernard Ebbers di
WorldCom deve scontare 25 anni di prigione, uno in più di
Jeffrey Skilling, a.d. di Enron. Esce dal podio dei maggiori
fallimenti, la società assicurativa Conseco, che nel 2002,
anche a seguito del crollo delle borse a seguito degli
attacchi terroristici alle torri gemelle, crollò sotto il
peso dei debiti raccolti in una campagna acquisti che durava
dal 1990. Un discorso a parte merita Texaco, che alla fine
del 1987 dovette dichiarare bancarotta per l'impossibilità
di depositare una cauzione da 11 miliardi di dollari,
necessaria per ricorrere in appello contro la rivale Penzoil,
che la accusava di averle sottratto illegalmente la Getty
Oil Company. Conseco e Texaco dichiararono attività in
bilancio rispettivamente per 61,4 e 35,9 miliardi di
dollari. Molto lontani i più grandi fallimenti della storia
italiana recente. Il crack Parmalat della fine del 2003
portò ad un buco di circa 14 miliardi di euro, mentre il
fallimento di Cirio nacque dal default di 1,125 miliardi di
euro di obbligazioni che diventarono carta straccia da un
giorno all'altro. Ecco una classifica dei primi dieci
fallimenti per valore di attività denunciate in Tribunale (I
valori sono in miliardi di dollari).
================================================================
GRUPPO VALORE ASSET DATA
----------------------------------------------------------------
1) LEHMAN BROTHERS 639 15/09/2008 2) WORLDCOM 103,9
21/07/2002 3) ENRON 63,4 02/12/2001 4) CONSECO 61,4
18/12/2002 5) TEXACO 35,9 12/04/1987 6) Financial Corp of
America 33,9 09/09/1988 7) Refco 33,3 17/10/2005 8) IndyMac
Bancorp 32,7 11/07/2008 9) Global Crossing 30,2 28/01/2002
10)Calpine 27,2 20/12/2005 (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Lehman:
150 ANNI IN FUMO, DALL'ALABAMA A TIMES SQUARE /ANSA
15 Settembre 2008 16:32 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 15 SET - Fondata
nel 1850 in Alabama, Lehman Brothers, è nata dalla
partnership tra Henry, Emanuel e Mayer Lehman, emigrati
dalla Germania. Colpita duramente dalla crisi dei mutui
subprime Lehman ha visto la propria capitalizzazione andare
letteralmente a picco quest'anno. A febbraio 2007 le azioni
della società valevano 83,3 dollari ad azione, venerdì
scorso la quotazione oscillava sui 3,65 dollari, mentre oggi
il tracollo definitivo ha portato il valore del titolo a 31
centesimi. UNA STORIA LUNGA 150 ANNI, DALL'ALABAMA A NY - La
prima attività è quella di Henry Lehman che nel 1844 apre un
piccolo negozio a Montgomery, in Alabama. Sei anni dopo i
fratelli Emanuel e Mayer ne seguono le orme, dando vita alla
Lehman Brothers. E' nel 1858 che i tre fratelli di origine
tedesca fanno il grande salto e si trasferiscono a New York,
dove commerciano in cotone. Negli anni '80 Lehman,
specializzata in commercio materie prime, si espande nelle
attivita' finanziarie diventando una vera merchant bank. Nel
1887 diventa membro della New York Stock Exchange. DAL
COTONE ALLE COMPAGNIE AEREE - Nei primi decenni del '900
Lehman diversifica le sue attivita' e sostiene lo sviluppo
dell'industria cinematografica, del trasporto aereo e delle
telecomunicazioni. Nel 1929 nasce la Lehman Brothers
Corporation. La banca resiste alla Grande Depressione e
negli anni '30 finanzia i grandi investimenti per la ricerca
di petrolio. Nei decenni successivi e' la volta
dell'industria automobilistica, del trasporto aereo e delle
telecomunicazioni. Nei primi anni '70 vengono aperte le sedi
di Londra e Tokyo, attive fino ad oggi. Non e' però tutto
oro quello che luccica: la morte dell'ultimo erede della
dinastia Lehman, Robert, e le difficoltà dell'economia,
lasciano Lehman in difficoltà. Nel 1973 Peter Peterson,
responsabile del commercio nell' amministrazione Nixon,
viene chiamato a guidare il gruppo per evitare la
bancarotta. Nel 1977 Lehman e Kuhn Loeb si fondono. L'ERA
AMERICAN EXPRESS - Nel 1984 American Express compra Lehman
Brothers, fusa con Shearson. Nel 1986 la banca viene quotata
a Londra e due anni dopo a Tokyo. Dieci anni dopo
l'acquisizione da parte di Amex, Lehman torna indipendente.
Richard Fuld è nominato presidente e amministratore
delegato. DA WALL STREET A TIMES SQUARE - Nel 2000, a 150
anni dalla fondazione, Lehman è ormai nello S&P 500. Nel
2001, dopo gli attentati dell'11 settembre, il quartier
generale della società si sposta dal sud di Manhattan a
midtown, sulla settima avenue, a un passo da Times Square.
GLI EFFETTI DEL CICLONE SUBPRIME - Dallo scoppio della crisi
dei mutui, nell'estate del 2007, Lehman effettua
svalutazioni complessive per 13,8 miliardi di dollari. Lo
scorso aprile la banca è costretta a raccogliere capitali
per 4 miliardi di dollari. In giugno, un nuovo aumento per 6
miliardi. ULTIMO TRIMESTRE A PICCO - Lehman chiude il terzo
trimestre 2008 con perdite per 3,9 miliardi di dollari
(-5,92 dollari per azione) contro un utile netto record di
4,2 miliardi di dollari registrato nel 2007. IL PIU' GRANDE
CRAC DELLA STORIA - Con un debito pari a circa 613 miliardi
di dollari, quello di Lehman costituisce il fallimento più
grande mai registrato nel mondo finanziario. La banca ha
battuto anche il crack di Worldcom. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Lehman:
I NOVE MESI CHE L'HANNO MESSA IN GINOCCHIO/CRONOLOGIA
15 Settembre 2008 17:34 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 15 set -
Lehman Brothers getta la spugna dopo poco più di un secolo e
mezzo. Un tracollo che si è consumato in soli nove mesi. -
13 DICEMBRE 2007: annuncia un utile record di 4,2 miliardi
di dollari, in controtendenza rispetto ai suoi principali
concorrenti che iniziano a registrare perite in seguito alla
crisi dei mutui subprime. - 17 GENNAIO 2008: annuncia il
licenziamento di 1.300 dipendenti. - 29 GENNAIO: annuncia un
aumento del dividendo e un piano di buy back su 100 milioni
di azioni. - 10 MARZO 2008: Arrivano nuovi tagli
occupazionali, escono altri 1.400 dipendenti. - 16 MARZO
2008: le autorità americane organizzano il salvataggio di
Bear Stearns da parte di JpMorgan. Lehman diviene la più
piccola delle banche d'investimento di Wall Street. - 17
MARZO 2008: Il mercato scommette che Lehman sarà la prossima
vittima della crisi e il titolo inizia a scendere. - 18
MARZO 2008: annuncia un utile trimestrale di 489 milioni di
dollari e liquidità per 34 miliardi di dollari. - 31 MARZO
2008: fa appello al mercato per reperire nuovi capitali per
3 miliardi di dollari. - 1 APRILE 2008 2008: l'operazione
successo e Lehman raccoglie 4 miliardi. - 9 APRILE 2008:
annuncia la liquidazione di tre dei suoi fondi di
investimento. - 2 GIUGNO 2008 - Standard and Poor's taglia
il rating. - 3 GIUGNO 2008: il titolo è sotto pressione e
inizia la sua caduta sulla scia dei timori di perdite
record. - 9 GIUGNO 2008: vengono pubblicati in anticipo
risultati trimestrali preliminari, che rivelano una perdita
di 2,8 miliardi di dollari. Si tratta del primo rosso da
quando Lehman é sbarcata in borsa nel 1994. - 12 GIUGNO
2008: Erin Callan, direttore finanziario, e Joseph Gregory,
direttore operativo, lasciano la società. - 16 GIUGNO 2008:
L'amministratore delegato Richard Fuld dichiara di aver
assunto le iniziative necessarie per raddrizzare la
situazione. - 18 AGOSTO 2008: continua a perdere in borsa e
si diffondono indiscrezioni sulla possibilità che Lehman
cederà la propria banca di investimento. - 20 AGOSTO 2008:
Il Financial Times rivela che ha trattato, senza successo,
la cessione del 50% dei propri titoli a investitori
asiatici. - 2 SETTEMBRE 2008: La sud coreana Kdb conferma di
essere in trattative per entrare nel capitale di Lehman. - 8
SETTEMBRE 2008: Lehman promette un piano strategico per il
18 settembre. - 9 SETTEMBRE 2008: Il titolo sprofonda sulla
scia della fine delle trattative con Kdb. - 10 SETTEMBRE
2008: annuncia una perdita trimestrale pari a 3,9 miliardi
di dollari e misure destinate a consolidare il bilancio,
compreso il licenziamento di 1.500 dipendenti. - 11
SETTEMBRE 2008: in borsa cede il 42% e il Tesoro e la Fed
prendono in mano il dossier per cercare di risolvere la
situazione. - 12 SETTEMBRE 2008: La Fed di New York convoca
i maggiori banchieri per cercare di organizzare il
salvataggio. - 15 SETTEMBRE 2008: con il ritiro di Barclays
e di Bank of America la caccia al cavaliere bianco finisce
in un buco nell'acqua ed è costretta a dichiarare il
fallimento. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Mercoledì 17
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Sempre
più a rischio
16 Settembre 2008 13:32
LUGANO - di Alfonso Tuor
________________________________________
Il fallimento di Lehman
Brothers dà un impressionante colpo di accelerazione alla crisi del
credito che da più di un anno sconvolge l’economia mondiale. Il
mancato salvataggio della quarta banca di investimento americana
potrebbe rivelarsi un errore dell’amministrazione Bush che sarà
ricordato nella storia. Esso rischia di far avvitare l’intero
sistema finanziario e di infliggere un ulteriore grave colpo
all’economia reale. Si può certamente dire che a New York nelle
frenetiche discussioni di questa fine settimana si è registrata una
svolta in quella che era chiamata la crisi dei mutui subprime.
Il salvataggio della Merrill
Lynch con la sua acquisizione da parte di Bank of America,
l’annuncio dell’aumento a 200 miliardi di dollari della liquidità
che la Federal Reserve fornirà al sistema bancario e la creazione di
un fondo dotato di 70 miliardi di dollari per garantirsi a vicenda
la liquidità da parte delle dieci maggiori banche internazionali,
tra cui figurano anche UBS e Credit Suisse, non bastano per
riportare la calma sul mercato interbancario e sul mercato dei
capitali. Infatti il fallimento di Lehman Brothers, il
maggiore della storia, incrina la convinzione diffusa nei mercati
che lo Stato non avrebbe mai permesso la bancarotta di un grande
istituto finanziario (come sembrava indicare il salvataggio della
Bear & Stearns).
La rottura di questo «patto tacito» è destinata a far esplodere il
costo del rifinanziamento delle banche e soprattutto di quelle in
difficoltà. L’ulteriore aumento dei costi di rifinanziamento del
sistema bancario (e non solo di quello americano) spingerà da un
canto gli istituti a restringere drasticamente il volume dei crediti
concessi e dall’altro farà salire i tassi richiesti per concedere
dei prestiti. Il fallimento della Lehman attraverso questi canali
accentuerà la frenata dell’economia americana e anche di quella
europea.
Ieri questi meccanismi (che
si vedranno invece all’opera nelle prossime settimane) sono stati in
parte oscurati dalle massicce iniezioni di liquidità da parte delle
banche centrali, tra cui anche la nostra Banca Nazionale, che hanno
irrorato a piene mani di capitali freschi il sistema bancario.
La frenata dell’economia è poi destinata a far lievitare le perdite
delle banche, i cui bilanci sono già appesantiti dalle perdite sui
titoli legati al mercato immobiliare e dall’enorme quantità di
strumenti, che ora vengono definiti «tossici», creati dalla nuova
ingegneria finanziaria.
Inoltre questa drammatica
fine settimana spingerà i mercati ad individuare le prossime vittime
della crisi. Tra i candidati figurano la AIG, la più grande
assicurazione del mondo, la Washington Mutual, una grande cassa di
risparmio attiva nei mutui ipotecari, la Citigroup, che è stata
domenica spodestata del titolo di maggiore banca del mondo da Bank
of America, alcune banche britanniche, tra cui Royal Bank of
Scotland e HBOS, e la svizzera UBS.
Per suffragare queste
previsioni è necessario mettere a fuoco ancora due aspetti. Il primo
riguarda le conseguenze del fallimento della Lehman sul sistema
finanziario. La banca di investimento americana aveva un
bilancio di 613 miliardi di dollari, ciò vuol dire che aveva
concesso crediti e aveva altre attività corrispondenti a questa
somma. Queste attività della Lehman venivano finanziate prendendo a
prestito sul mercato interbancario, sul mercato monetario e su
quello dei capitali. Ora coloro che hanno finanziato la Lehman in
qualsiasi modo vedono questi soldi svanire e dovranno attendere la
fine della procedura fallimentare per recuperarne un’esigua parte.
Gli effetti non si limitano
però solo all’evaporazione di più di 600 miliardi di dollari, poiché
la Lehman era una banca di investimento attiva nei diversi mercati:
era controparte in molte operazioni finanziarie (dai derivati ai
Credit Default Swap).
Dunque vi sono altre perdite prevedibili, oltre alla crisi degli
Hedge Funds che lavoravano con Lehman e che si ritrovano chiuse le
linee di credito. È pertanto troppo presto per poter valutare il
costo complessivo del maggiore fallimento della storia.
Il secondo aspetto è quello
macroeconomico. L’amministrazione Bush ha voluto chiaramente inviare
il messaggio che lo Stato non è disposto a salvare tutte le banche
in crisi. Questo principio è totalmente condivisibile, ma
nella situazione attuale i costi della sua applicazione per l’intera
economia rischiano di essere estremamente elevati. Se, come è
prevedibile, aumenteranno i costi di rifinanziamento del sistema
bancario, questa decisione imprime una forte accelerazione alla
crisi sia a livello finanziario sia a livello di economia reale.
Per rendere l’idea: ci si
allontana da una prospettiva di una crisi lenta alla giapponese per
avvicinarsi ad uno scenario simile a quello degli anni Trenta,
anche se gli strumenti di politica economica oggi a disposizione di
autorità politiche e monetarie fanno escludere una ripetizione della
Grande Depressione. È comunque certo che sull’economia mondiale
ritorna lo spettro della deflazione che aveva già agitato i sonni
dei banchieri centrali all’inizio di questo decennio.
 |
Fonte
- Corriere del Ticino |
Crisi
USA: fuse, fatte fallire o nazionalizzate
16 Settembre 2008 14:58
MILANO - di Giovanni Zibordi
________________________________________
AIG è la maggiore
assicurazione americana con polizze vendute a decine di milioni di
persone, di cui molte in Asia ed Europa e ha 1.070 miliardi di
passività e attività a bilancio.
In tre mesi è passata da
società solida e sana alla quasi bancarotta, come se le
Generali di colpo sparissero senza avere avuto frodi contabili o una
guerra che spieghino le perdite, perchè un'assicurazione a
differenza di una banca non fallisce quasi mai. American
International Group Inc. è come le Generali in America, si suppone
che ti assicuri con un istituzione regolata in modo serio e che,
visto che ti assicura da rischi vari, sia sicura.
American International Group
Inc. però ha creato e venduto qualcosa come 400 miliardi (non
milioni) di CDS, credit default swap di cui una parte sono su bonds
legati agli immobili e sono bestie difficili da valutare quando i
mercati vanno in palla per cui non può venderle o dire "valgono
tot".
Se vendi cento miliardi di derivati che proteggono dal rischio di
credito a migliaia di istituzioni finanziarie nel mondo vendi
oggetti strani, non sono polizze assicurative e non sono bonds, sono
contratti tra due controparti in cui se un bonds a sua volta legato
a un pool di mutui dovesse andare in default sei "assicurato" dalla
controparte che secondo certe formule ti paga un premio.
AIG ha già ammesso 18
miliardi di perdite su questi CDS ma per le nuove regole contrabili
devi segnare ogni trimestre a bilancio il valore supposto corrente
ANCHE SE NON CI SONO TRANSAZIONI DI MERCATO per cui ora di colpo con
dei mercati che liquidano malamente questi asset è fritta, avrebbe
altri asset immobiliari e partecipazioni e società da vendere ma non
puoi liquidare per 20 miliardi in due giorni.
Qui il problema è che i
ribassisti che hanno affondato Bear Sterns, Fannie Mae, Freddie Mac,
Lehmah Brothers, Washington Mutual (anche se questa è ancora viva)
l'hanno spinta da 20 dollari a un minimo di 1.6 ieri prima che
chiudesse a 4-5 dollari IN DUE GIORNI e le agenzie di rating quando
vedono che il titolo crolla del 90% automaticamente si mettono in
movimento e ti abbassano il rating. E se ti abbassano il rating il
costo dei CDS su di te aumenta e così dei tuoi finanziamenti e sei
finito.
Perchè crolla ora ? Perchè domenica con Lehman Brothers la FED e il
Tesoro per la prima volta hanno rifiutato di usare soldi pubblici
lasciandola fallire calcolando che avere simultaneamente Merrill
Lynch comprata a premio del 60% sarebbe stato sufficiente.
Hanno sbagliato i calcoli invece, perchè i mercati mondiali sono
colati a picco e ogni crac di borsa apre altre falle per cui AIG,
UBS in Svizzera, Washington Mutual e HBOS in Inghilterra che venerdì
erano ancora OK, martedi' erano sul punto di fare crac anche loro.
E' quindi vitale che AIG
venga salvata e non occorre nemmeno veramente denaro pubblico in
senso stretto, è una società che ha sempre guadagnato e piena di
asset e se le dai qualche mese in un clima meno di panico "liquida-asset"
e si rimette (se la crisi si approfondisce però no, perchè i CDS
reagiscono alla continua caduta delle case).
In ogni caso la FED e il Tesoro hanno sbagliato a lasciare saltare
Lehman, solo tre giorni fa si parlava di aiutare AIG con un prestito
di 20 miliardi e in due giorni di panico dei mercati mondiali ora si
parla di 70-80 miliardi (sono stati alla fine $85 miliardi). Man
mano che qualcuno liquida perchè fallisce poi altri asset e i
derivati a loro collegati nel mondo vanno svalutati e quindi Lehman
sta creando perdite a catena e tutti di colpo rifiutano credito e si
rifugiano nei buoni del tesoro, i tassi sui bonds bancari salgono
ecc... la spirale si avvita su se stessa e si allarga sempre.
Mercoledi' mattina a meno che non abbiano perso il senno faranno un
mega prestito ponte di almeno 70 miliardi a AIG perchè se fallisse
ci sarebbero perdite per decine di istituzioni e altri fallimenti.
Hanno rischiato moltissimo già a lasciar fallire Lehman con 600
miliardi di passività a bilancio, hanno bluffato forse per far
vedere che fanno solo interventi mirati come Fannie Mae, ma non c'è
una garanzia statale per tutti in modo da ridurre il rischio per il
dollaro, forse.
L'unico lato positivo è che
ora sono state fuse, nazionalizzate o fatte fallire un bel numero di
grosse società, oltre a decine di brokers di mutui e decine di
banche piccole, Bear Stearns, Fannie Mae, Freddie Mac, Merrill Lynch
e Lehman Brothers e poi persino AIG. E nonostante questo i mercati
russi, cinesi e asiatici in genere sono implosi (la Cina perde -66%,
la Russia ha perso -17% ieri, Hong Kong che è una borsa matura ha
perso -46% dal massimo) ma l'indice S&P 500 tutto sommato e' a 1.200
dopo un massimo a 1.600 un anno fa e il dollaro è fuori pericolo.
Occorre però ricordare che nella crisi del 1929-1932 fallirono
migliaia di piccole banche ma nessuna grande banca come invece sta
succedendo ora ogni settimana.
 |
Fonte
- Cobraf |
Mercati,
paure come ai tempi di Hitler
19 Settembre 2008 12:51
PECHINO - di Federico Rampini
________________________________________
Il panico sul mercato del
credito ha raggiunto livelli che non si erano più visti dai giorni
più bui della Seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo di tanti
patrimoni la fuga dei risparmiatori verso un "rifugio sicuro" - come
i buoni del Tesoro americani - ha prodotto un risultato incredibile:
i rendimenti sui Treasury Bonds degli Stati Uniti sono crollati
(0,03% i buoni trimestrali) al livello più basso dai tempi dei raid
aerei della Luftwaffe sulla capitale inglese. Questo fuggi
fuggi verso la sicurezza infligge dei danni incalcolabili non solo
alle finanze ma all'economia reale.
Nessuno si fida più della
solvibilità della controparte: i prestiti fra banche in Europa e
negli Stati Uniti sono quasi congelati. La paura dei crac a catena
sta intaccando per la prima volta il valore dei fondi comuni
monetari: sono investimenti considerati liquidi quasi come
dei conti correnti, tranquilli, "da buon padre di famiglia".
Dall'epicentro originario di Wall Street il disastro si è dilatato
sprigionando conseguenze sul tenore di vita di intere nazioni. I
tassi sui mutui sono rincarati anche in Italia. La recessione
americana ha bloccato la crescita europea, colpisce le prospettive
di chi cerca lavoro. I fondi pensione, ormai diffusi nel mondo
intero compresa l'Italia, sono esposti a perdite pesanti che
ridurranno il tenore di vita dei futuri pensionati.
Anche i risparmiatori più
cauti sono vulnerabili: la "finanza esoterica" ha infilato i suoi
titoli-spazzatura ovunque, gli inviti alla calma dei nostri
banchieri e dei nostri assicuratori vanno presi con beneficio
d'inventario; sono validi solo fino alla prossima sorpresa.
Il Welfare semi-privato si morde la coda: i fondi pensione per
tamponare le loro perdite hanno speculato al ribasso nel tentativo
di recuperare qualcosa nel crollo generale. Così sono diventati
parte di quella "orda selvaggia" che ha contribuito al crac: la
banca d'affari Morgan Stanley ha dovuto contattare direttamente i
gestori delle maggiori casse previdenziali americane, per
scongiurarli di cessare le puntate ribassiste contro il suo titolo.
La speculazione al ribasso è
nel mirino delle autorità di Borsa, a cominciare dall'organo di
vigilanza di Wall Street, la Securities and Exchange Commission
(Sec). Nell'emergenza la Sec ha varato nuove regole contro la
"vendita allo scoperto" (l'operazione in cui un investitore
prende in prestito un'azione che non ha per venderla subito, poi
ricomprarla in futuro scommettendo che costerà meno, e restituire il
prestito guadagnando sulla differenza). Le misure tecniche per
scoraggiare la speculazione ribassista sono state invocate
dall'American Bankers Association e da diversi politici del
Congresso di Washington. Tutti a caccia degli "untori", gli avvoltoi
che si avventano su nuove prede da scarnificare tra le grandi banche
quotate in Borsa.
Ma la speculazione al ribasso in questo contesto è fisiologica e
inarrestabile. Dov'erano invece l'associazione dei banchieri,
dov'erano i legislatori del Congresso, quando i loro interventi
avrebbero potuto colpire le cause primarie di questa crisi? Nel
disastro globale di questi giorni ciò che sconcerta è la totale
assenza di misure preventive. Questa crisi, nella sua forma acuta e
palese è ormai vecchia di 15 mesi: il collasso dei titoli legati ai
mutui subprime iniziò a fine giugno del 2007. Inoltre c'è chi
l'aveva visto arrivare molto prima, e non si tratta di "profeti"
eterodossi e marginali ma di protagonisti centrali del sistema.
Warren Buffett, il secondo
miliardario più ricco degli Stati Uniti, gestore del colosso
finanziario Berkshire di Omaha, nel 2002 dichiarava: "I titoli
derivati sono armi di distruzione di massa". Sul sistema di regole e
controlli aggiungeva: "Nessuna banca centrale ha il compito di
prevenire i crac a cascata nei derivati e nelle assicurazioni".
Dunque uno dei finanzieri più influenti del pianeta, regolarmente
chiamato a testimoniare al Congresso e al Senato di Washington nelle
audizioni sulla politica economica, aveva avvisato i guardiani del
mercato. Più esplicito di così non poteva essere.
Quelle parole oggi suonano come un terribile atto di accusa per
governi, banche centrali, authority di vigilanza. Negli Stati Uniti
e in Europa. Nulla è veramente cambiato nell'architettura portante
della finanza globale, dal 2002 a oggi. Nessuna riforma radicale è
stata varata neppure negli ultimi 15 mesi, quando la crisi era ormai
visibilissima e stava dispiegando i suoi effetti letali, dapprima al
rallentatore, poi in una sequenza sempre più frenetica di
catastrofi.
Dare addosso alla
speculazione ribassista oggi è una misura patetica, un'autentica
presa in giro: è il malato che in un impeto d'ira spezza il
termometro che gli sta indicando la sua febbre. Ben altri sono i
limiti che andavano decisi. Il mondo dei derivati è rimasto
un universo parallelo, un sistema bancario-ombra dove non vigono le
stesse regole e gli stessi controlli imposti all'attività creditizia
ordinaria. Gli hedge fund continuano a essere una giungla selvaggia.
I titoli strutturati, i misteriosi contratti di copertura dal
rischio-fallimento che hanno travolto il colosso Aig, tutto questo
bubbone è stato lasciato ipertrofizzare.
I banchieri centrali si
incontravano nei convegni dell'Fmi a Washington, o della Bri a
Basilea, e si scambiavano dotte relazioni sulla "necessità" di
correggere le falle del sistema. Di quegli studi sono pieni gli
archivi delle banche centrali. Compresi i lavori della task force
sui rischi sistemici guidata dal nostro Mario Draghi.
Ma le conseguenze concrete finora sono state pressoché nulle.
Abbiamo una finanza globale ma non abbiamo una vigilanza globale. I
gestori di patrimoni immensi hanno continuato a operare in zone
grigie di lassismo, irresponsabilità, impunità. I mercati sono
interconnessi a livello planetario, ma le regole e i controlli sono
un paesaggio frammentario e balcanizzato. Il panico di questi giorni
è un terribile fallimento delle autorità di sistema, che paghiamo
tutti.
Anche nelle colpe vi è una
gerarchia e un ordine. Il primo imputato è l'establishment
americano, da Wall Street alla classe politica legata a filo doppio
agli interessi delle grandi lobby del denaro. L'America vive da anni
sotto l'egemonia culturale di uno slogan che fu lanciato da Ronald
Reagan, poi ripreso dai Bush padre e figlio, infine riciclato con
ardore dal duo McCain-Palin in questa campagna elettorale: "Lo Stato
non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema".
E' questa l'ideologia che ha
teorizzato i benefici del laissez-faire. E' stata fatta propria
anche da Alan Greenspan, al timone della Federal Reserve per ben 17
anni, il massimo teorico della capacità dei mercati di
autoregolarsi. Greenspan ha continuato a difendere
quell'ideologia fino a poche settimane fa, salvo improvvisamente
cambiare tono e definire la crisi attuale come "la più grave da un
secolo". Il suo successore e l'Amministrazione Bush ora
nazionalizzano a tutto spiano. Questa crisi travolge le ideologie e
sposta di colpo il terreno su cui si combatte la battaglia
presidenziale americana.
Ma il 4 novembre è lontano;
il gennaio 2009 in cui il nuovo presidente Usa assumerà i poteri è
lontanissimo. Di qui ad allora il bilancio dei danni potrà essersi
aggravato. L'Europa e il resto del mondo non possono permettersi di
aspettare.
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Fonte
- La
Repubblica |
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30
Settembre 2008 ++
Crisi
bancaria
e accanimento
terapeutico
22 Settembre 2008 06:11
MILANO - di Eugenio Benetazzo
________________________________________
Once we were bankers, cioè una volta eravamo banchieri, così si
presenteranno tra dieci anni davanti ad una pinta di birra in un
qualche squallido pub di alcolizzati, molti consiglieri di
amministrazione di istituti di credito e di banche d'affari che sono
destinati a fallire nei prossimi trimestri. Ormai le prime pagine
dei giornali si sprecano con titoli sempre più drammatici del tipo
siamo innanzi ad un altro 29, i mercati collassano come nel 29,
panico in borsa come nel 29 e così via ricalcando su questo stile.
E pensare che quando due anni fa scrissi prima, Duri e Puri:
Aspettando un nuovo 1929, e successivamente, Best Before: Preparati
al peggio, venni letteralmente bannato come un ridicolo
catastrofista e censurato da quasi tutti i forum finanziari per il
pessimismo ostentato. A distanza di due anni adesso fanno tutti a
gara a scimmiottare il mio pensiero, i miei avvertimenti ed i miei
consigli: andate a vedervi come in Marzo di quest'anno preannunciavo
il fallimento di tre banche americane con largo anticipo ! Ma per
quanto si sforzino di tentare di dare una spiegazione tecnicamente
raffinata ed inattacabile, la maggior parte di questi giornalisti,
analisti e trader di borsa non fa altro che dimostrarsi un mero
replicante di notizie clonate ed apprese di sfuggita dalla
televisione o lette avidamente in qualche redazionale economico.
Non siamo innanzi ad un altro 1929, ma già come scrivevo con
inaspettato anticipo nel 2006, abbiamo di fronte un nuovo 1929,
ovvero uno scenario macroeconomo di crisi globale che non ha
precedenti storici e che non si può spiegare riduttivamente
ancorandosi ai vecchi ed obsoleti modelli econometrici. Dalla
Northern Rock alla Indymac, dalla Bear Stearns alla Fannie Mae,
dalla Lehman Brothers alla AIG, troviamo un denominatore in comune:
più grande è la banca, più la probabilità che essa sia stata oggetto
di contagio finanziario tende ad aumentare.
Già qui individuiamo un primo elemento distintivo: il 1929 vide una
carneficina di piccoli istituti di credito cascare uno dietro
l'altro quasi ad effetto domino, mentre i grandi colossi bancari di
allora rimanevano relativamente immuni dal crash economico. Nel 2008
assistiamo ad una caratteristica situazionale esattamente opposta:
più sono ridotte le dimensioni della banca, più elevata diventa la
presunzione di stabilità finanziaria.
Questo è una naturale conseguenza della gestione ordinaria
dell'attività bancaria per un piccolo istituto di credito: infatti
difficilmente quest'ultimo ha spinto all'estremo l'erogazione dei
mutui ad intervento integrale, difficilmente ha rapporti ed
interessi strategici con le grandi realtà bancari e difficilmente,
infine, ha ideato e progettato prodotti finanziari strutturati con
il fine unico di ottenere ingenti facili profitti e sodomizzare
contemporaneamente con grande eleganza la propria clientela. Ecco perchè ho sempre appoggiato, per esempio, il circuito del credito
cooperativo (attenzione però che nel cesto ci potrebbe essere sempre
qualche isolata mela marcia).
Per ritornare in argomento sappiate comunque che la crisi è solo
all'inizio, tutt'altro che passata ! Pensate all'estate scorsa,
quando iniziarono le prime avvisaglie dei subprime statunitensi: dai
media nazionali ci venne subito raccontato che non ci si doveva
preoccupare in quanto l'Europa più di tanto non era coinvolta. Le
stime iniziali sulle perdite presunte ammontavano a circa 250 MLD di
dollari. Oggi siamo ad oltre i 2000 MLD.
Generalmente gli Stati Uniti anticipano gli altri mercati con
sei/nove mesi, perciò è presumibile aspettarsi nei prossimi mesi
momenti poco incoraggianti anche per la situazione finanziaria in
Europa. Tanto per dare qualche spunto di riflessione portiamo ad
esempio il caso sovietico con il governo russo che è dovuto
intervenire per sostenere le prime tre banche del paese: non da meno
si è deciso di congelare le quotazioni di borsa per due giorni
consecutivi.
In Europa chi con certezza se la sta passando molto male sono il
Regno Unito e la Spagna. Per il primo si sta vivendo un momento di
forte preoccupazione per le sorti di HBOS (Halifax Bank of
Scotland), la più antica e prestigiosa banca inglese, mentre la
Spagna sta vivendo la peggior crisi immobiliare della sua storia.
Molto presto anche nel paese della paella ci scapperà il morto.
A sentire gli insiders degli Uffici Legali, anche l'Italia non se la
passa così bene come le discutibili rassicurazioni del Presidente
del Consiglio a Porta a Porta darebbero a pensare. Solo nella mia
regione ci sono alcuni istituti di credito con oltre 5.000 contratti
di mutuo di ultima generazione in sofferenza, alcuni sono riusciti a
cartolarizzarli (scaricando quindi su di voi il rischio di default),
altri li hanno ancora sul groppone. Prestate attenzione a
sottoscrivere prodotti di liquidità con tassi di interesse molti
allettanti: rappresentano il disperato tentativo di drenare
liquidità dal mercato.
Lo stesso Draghi ha cambiato in meno di sei mesi le sue posizioni e
convinzioni sulla crisi in atto. Voglio riportarvi un esempio
emblematico che mi ha visto partecipe in prima persona: tre mesi fa
una prestigiosa (si fa per dire) ed imponente banca italiana non mi
ha consentito di incassare per contanti un suo assegno CIRCOLARE di
1.500 euro sostenendo che non aveva liquidità sufficiente in cassa,
invitandomi pertanto a tornare il giorno successivo. I dipendenti
della filiale pensavano fosse una candid camera, ma quando mi hanno
sentito chiamare il 112 per verbalizzare lo stato di insolvenza,
improvvisamente hanno fatto spuntare fuori una mazzetta di banconote
da 5 euro e qualche blister di monete da 2 euro e si sono
letteralmente messi a contare sull'unghia euro su euro !
La crisi assumerà presto anche un altro volto quando inizierà ad
emergere anche il marcio del sistema industriale anch'esso drogato e
sovralimentato dal debito facile e dalle promesse illusorie del
turbocapitalismo sfrenato. Il ridimensionamento dei fidi e delle
esposizioni debitorie con il rientro forzato dagli scoperti sta già
facendo le sue vittime. Solo nella provincia di Vicenza tre recenti
casi eclatanti di imminente default industriale hanno già colpito
grandi aziende leader di mercato, passando dal settore tessile a
quello metalmeccanico.
La Cassa Integrazione che colpisce migliaia di lavoratori e lo
spettro dell'insoluto quotidiano che inquieta il sonno di
imprenditori si occuperanno di fare il resto, andando ad alimentare
l'altra faccia della crisi quella socioeconomica. Persino
Confindustria ormai non riesce più a nascondere la gravità
dell'attuale periodo storico, sottolineando come il nostro paese sia
in piena recessione, purtroppo di natura strutturale e non ciclica
come ci vogliono erroneamente convincere i media.
L'effetto detonatore finale tuttavia lo dovrebbero dare i Credit
Default Swaps ovvero i CDS, per non dilungarmi eccessivamente con
terminologie tecniche troppo noiose, li potete considerare come
sofisticate polizze assicurative che coprono il rischio per un
sottoscrittore di un obbligazione che la stessa non venga poi
onorata alla scadenza prestabilita. Ecco quindi come si spiega il
comportamento discriminatorio della FED riguardo ai recenti
fallimenti e salvataggi: alcune banche sono state nazionalizzate
(quindi il popolo americano si è preso in quel posto le perdite
capitalizzando gli istituti), mentre altre sono state abbandonate al
loro destino.
Questa strategia discriminatoria è stata implementata sapendo
benissimo che ci saranno altre banche da salvare nei prossimi
trimestri e soprattutto perchè il fallimento di alcuni istituti come
Fannie Mae o Freddie Mac avrebbe comportato perdite per successivi
rimborsi assicurativi legati ai CDS notevolmente superiori agli
aiuti federali. La Fed e le altre banche centrali non so fino a dove
si spingeranno: ormai è una consuetudine ascoltare da più di un anno rumors del tipo sono state imesse ingenti iniezioni di liquidità per
stabilizzare il sistema.
Questo tipo di notizia viene presentata come se fosse una fenomenale
medicina per tutti i mali del sistema, ma purtroppo non è così ! Più
si vuole intervenire a sostegno del malato moribondo, più si
acconsentirà di farlo sopravvivere intubato ed alimentato
artificialmente. Solo una crisi dalle conseguenze ingestibili,
proprio come quella che stiamo vivendo, potrà gettare le basi e le
condizioni per ridisegnare e riorganizzare completamente ripartendo
da zero sia il sistema monetario che quello di accesso al credito.
Ma questo comporterebbe decretare la fine della globalizzazione e
della intoccabile influenza dei potenti banchieri del pianeta, a
strepitoso vantaggio di tutti i popoli della Terra.
 |
Fonte
- eugeniobenetazzo.com |
I
TRUCCHI USA
NON FERMERANNO LA BUFERA
22 Settembre 2008 14:05 MILANO -
di Geminello Alvi ______________________________________________
Gli espedienti ai quali Sec e
Tesoro degli Stati Uniti si sono votati confermano che
giovedì scorso la situazione dei mercati non era più
soltanto seria, era disperata. Eppure quanti su tanti
giornali spiegano la crisi paiono volersene dimenticare a
memoria. E per un rimbalzo da borse alla cinese, ovvero
finte, hanno ceduto troppo all’euforia. Mentre invece gli
espedienti tentati restano per molti versi discutibili, e
forse di precaria efficacia. Del resto tant’è: questo è il
pressappochismo sortito da anni in cui si sono stampati più
dollari che tappi di Coca-Cola. Per carità tralascio di
citare che cosa tanti economisti hanno scritto fino
all’altro ieri. Lasciamo stare; vediamo invece quali rischi
di incoerenza e quanti margini di inefficacia vi siano nel
gesto americano. Bastasse davvero solo di vietare le vendite
allo scoperto per risolvere le crisi finanziarie saremmo
tutti a posto: neppure ci sarebbe stata la Grande Crisi
degli Anni Trenta. Pure Hoover, 31° presidente degli Stati
Uniti, era ossessionato dalle vendite al ribasso, che
giudicava complotti. Finì nel ridicolo, perse le elezioni.
Fa bene dunque McCain a non voler ripetere i suoi errori, e
a chiedere la rimozione di Cox, presidente del Sec. Anni fa
la Securities and Exchange Commission permise di alzare il
livello di debito delle banche ora fallite, esagerando il
rialzo. Per decreto ora invece blocca la principale delle
scommesse al ribasso, con un atto che resta dubitabile.
Infatti i short selling bloccati, lasciando gonfiati i vari
valori finanziari, possono aggravarne il tracollo al loro
sblocco. Inoltre vietando vendite allo scoperto si tampona
la crisi, ma s’inaridisce una fonte di liquidità: in una
situazione già illiquida si chiude uno dei canali di
ricopertura. Vari titoli poi, come quelli sulle carte di
credito, ne sono pericolosamente esclusi. Infine il divieto
è di molto complicato dall’esistenza d’altri generi di
scommesse al ribasso scambiate tra investitori direttamente,
non in Borsa. Insomma questo mercato truccato di una Wall
Street evoluta Shanghai, coi suoi corsi manipolati dallo
Stato, tampona forse la crisi, ma non è detto la risolva.
C’è poco da fare: il ritorno alla salute richiede prima o
poi inevitabile una distruzione vera di valori fittizi. E
perciò anche l’altra misura, quella di creare un fondo
mostruoso del Tesoro, in cui infilare mutui e crediti
cartaccia, è disputabile nei suoi effetti. Dovrebbe
acquisire a prezzi scontati valori enormi, mai prima
pensati, tali da elevare di un sol colpo del 5% il debito
Usa. E però in tal maniera si rischia pure il congelamento
di valori fittizi, ovvero non remunerabili: l’esito
giapponese degli anni ’90. I dubbi non finiscono: quanti
abusi si verificheranno nella stima dei prezzi ai quali
questa cartaccia sarà comprata coi soldi dei contribuenti. A
prezzarli non sarà infatti un mercato che si è sospeso.
Insomma siamo alla commedia di un liberismo finto, usato per
speculare al rialzo, ma che si sospende al ribasso, e di una
globalizzazione che allora è stata solo una
americanizzazione. Diviene lecito a chiunque, temo, chiamare
truffa, gli imbrogli di borsa per via dei quali gli Usa si
sono mantenuti almeno dalla presidenza Clinton in un livello
di consumi innaturali. E con che esito alla fine? Mercati
finanziari americani sotto tutela dello Stato; alla cinese.
Appunto alla comunista: coi guadagni incassati poi da pochi,
ma pagati da tutti. Von Hayek, i liberisti veri, predicavano
ben altro: di mai stampare moneta in eccesso. Il contrario
di quanto s’è purtroppo, e troppo a lungo, plaudito per
anni.
Fonte
- Il Giornale
|
Crisi,
per chi suona la
campana in Europa
23 Settembre 2008 02:53
MILANO - di
Stefano Righi
________________________________________
Con il listino ridotto a una marmellata, la via della sopravvivenza
per le banche di tutto il mondo sta in una rapida riconversione
verso una strategia «pane e burro». Menù basic, suggerisce il Wall
Street Journal, da prima mattina, tutto proteine e carboidrati. Il
tempo della nouvelle cousine, che sui mercati finanziari si
traduceva con derivati, opzioni e prodotti dalle complesse
architetture, è finito. Almeno per ora non è più di moda. In attesa
dell’immancabile ritorno del vintage , ora le banche sono chiamate a
maggior concretezza.
L’uragano che ha scosso Wall Street ha innegabili riflessi europei:
le banche piccole e grandi di casa nostra hanno rapporti commerciali
con le big americane. Comprano i loro prodotti, li vendono sul
mercato italiano, realizzano operazioni assieme. Anche le industrie
non sono esenti dal contagio. Finmeccanica aveva proprio Lehman nel
consorzio di garanzia del suo prossimo aumento di capitale. Ora
dovrà trovarsi un altro partner, anche se non sarà difficile
individuare una istituzione finanziaria che partecipi al consorzio.
I punti di contatto non mancano, eppure le differenze tra Europa e
Usa sono profonde, ad iniziare dalla complessità della struttura
finanziaria: la quantità di pane e burro che viene messa ogni giorno
in tavola rispetto all’insieme delle pietanze in stile nouvelle
cousine.
Ed è per questo che sebbene i mercati siano in questo periodo
dominati da un senso di panico diffuso — alimentato dalle vendite
impostate in automatico dai software al servizio dei gestori e
nessuno voglia più avere in portafoglio nulla che assomigli a
un’azione di una banca o di una compagnia di assicurazioni — le
differenze non permettono di confondere i due lati dell’Atlantico,
che restano lontanissimi. La diversità sostanziale è il peso,
all’interno degli istituti di credito, del settore dell’investment
banking rispetto all’attività caratteristica della banca.
Con i tassi interbancari in crescita, con il senso di fiducia
reciproca in rapida diminuzione anche tra i professionisti del
credito, la sopravvivenza sul mercato può essere assicurata solo a
chi riesce ad approvvigionarsi direttamente dalla propria clientela.
E in questo le banche europee ed italiane hanno una particolare
vocazione, tanto che le operazioni di garanzia della clientela
annunciate la scorsa settimana da Mediolanum e Unipol vanno lette
proprio in questa ottica di tutela di una fonte di business.
Lehman infatti non ha registrato perdite superiori ai concorrenti,
ma ha pagato per la mancanza di una base di raccolta propria,
fattore che invece sta salvando (anche se a carissimo prezzo) la
svizzera Ubs. Tanto che non è un caso se il giorno dopo il crac
l’inglese Barclays — che ha raccolta propria — si è fatta avanti per
comperare l’investment banking di Lehman.
Dopo la fase di concentrazione del sistema italiano, quello che è
accaduto in Germania nell’ultimo anno appare significativo: hanno
iniziato i francesi del Crédit Mutuel acquisendo per 7,7 miliardi di
dollari le attività retail di Citigroup. All’inizio di questo mese
Allianz ha fatto in modo che la sua controllata Dresdner si fondesse
con Commerzbank creando un gruppo da 1.500 sportelli e 11 milioni di
clienti. E infine Deutsche bank ha messo sul tavolo 3 miliardi di
euro pur di mettere le mani sugli 850 sportelli e i 14,5 milioni di
clienti di Deutsche Post.
Back to basic, urlano a Wall Street. Tornate alle origini,
all’essenziale. Ed è questo il segnale di un profondo cambiamento in
atto nelle strategie delle aziende bancarie. Un cambiamento i cui
prodromi si manifestarono con la vicenda Northern Rock: dopo un anno
pochi hanno imparato la lezione. Le banche italiane, dal canto loro,
escono meno danneggiate dalla bufera in funzione di una particolare
arretratezza dei loro sistemi di investimento: un ritardo risultato
provvidenziale.
Dieter Rampl, presidente della più grande banca con sede in Italia,
Unicredit, dopo le assicurazioni del suo amministratore delegato
Alessandro Profumo — che però poco hanno rassicurato i mercati — ha
sottolineato che l’andamento in Borsa del titolo dipende dalla
cattiva congiuntura internazionale. Unicredit nel dicembre scorso
quotava sopra i 6 euro. La scorsa settimana è stato scambiato a
3,09. È quella la distanza che resta da recuperare. Tre euro di
credibilità.
D’altro canto, l’intero mestiere di banchiere è basato su
credibilità e fiducia. E quando sarà passato l’uragano le banche
avranno molto da lavorare per recuperare. Non solo in Borsa. Perché
il clima economico, non solo finanziario, continua a concedere pochi
spazi all’ottimismo. In Italia le previsioni di Euler Hermes —
società del gruppo Allianz che si occupa di assicurazione dei
crediti — indicano 500 fallimenti in più quest’anno rispetto al
2007. Fallimenti che raddoppieranno in Spagna, aumenteranno del 10
per cento in Francia e cresceranno in maniera sensibile sia nel
Regno Unito che negli Usa.
È confrontandosi con questa realtà che le banche, una volta calmate
le acque, dovranno cercare di recuperare credibilità nell’agire e
solidità nei bilanci. Facendo i conti con una economia in
recessione, con aziende in crisi, con risparmiatori spennati e
angosciati dalle rate del mutuo. Non sarà facile.
 |
Fonte
- Corriere della Sera |
HEDGE FUNDS: E' IL LORO TURNO,
VALANGA DI RISCATTI
23 Settembre 2008 17:57 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Centinaia di hedge funds sono (o
stanno per esseere) travolti da una quantita' senza
precedenti di riscatti da parte degli investitori, per via
della crisi finanziaria che sta scuotendo Wall Street. Cade
cosi' un altro caposaldo della finanza irresponsabile che ha
portato il sistema al collasso.
I riscatti in molti fondi sono possibili solo alla fine del
trimestre successivo a quello in cui e' stata fatta la
richiesta, per cui, secondo gli insiders del settore, i
milioni di dollari di perdite non si vedranno per un po' di
tempo. Ha pesato ovviamente anche il divieto deciso dalla
Sec qualche giorno fa di operare al ribasso con vendite "naked
short", cioe' fatte senza possedere i titoli, una delle
pratiche piu' in uso da parte di aggressivi gestori di hedge
funds; ma anche una di quelle che piu' fa scandalizzare la
gente comune, perche' moralmente bieca e distruttiva, per i
suoi interessi puramente speculativi.
La lista degli hedge funds che sono gia' saltati e' arrivata
a 81 (gestiti da 51 societa') da quando e' cominciata la
crisi dei mutui subprime nell'agosto dell'anno scorso,
secondo The Hedge Fund Implode-O-Meter (HFI). Il picco
storico di fallimenti negli ultimi 10 anni e' stato di 14,
compresi i colossi come Long-Term Capital Management e
Amaranth, secondo un articolo dell'Independent di Londra.
Secondo EuroHedge, una societa' che raccoglie dati sugli
hedge funds, nei primi sei mesi del 2008 sono stati lanciati
272 nuovi fondi, il minimo assoluto degli ultimi nove anni.
Nello stesso semestre 243 fondi sono stati liquidati, il
piu' alto numero in assoluto di fallimenti in un periodo di
sei mesi.
Nouriel Roubini, il professore della New York University che
e' uno dei piu' apocaliitici cantori del disastro in corso
sui mercati, dice che il peggio deve ancora venire, per gli
hedge funds. Roubini sostiene che ci sara' un aumento dei
riscatti da parte degli investitori e ci sara' anche un
terremoto sulla regolamentazione di questi fondi, al momento
fuori da ogni legge, regola, controllo e supervisione delle
autorita' monetarie e di borsa.
"Il prossimo stadio sara' una fuga degli investitori da
migliaia di hedge fund ad alto leverage", scrive Roubini sul
suo blog. Dopo un periodo di lock-up (in cui non possono
redimere le quote) gli investitori chiederanno il riscatto
dei propri capitali su base trimestrale. Per questo una fuga
dagli hedge funds e' altamente possibile. Centinaia di fondi
piccoli e giovani che hanno preso rischi eccessivi con
altissimo leverage e che sono gestiti malamente potrebbero
collassare. Un terremoto poderoso di questo settore
eccessivamente gonfiato e' altamente probabile nei prossimi
due anni".
Fonte
- WallStreetItalia.com
|
Medico cura te stesso: la lezione
di Washington Mutual per i fondi di private equity
27 Settembre 2008 11:56 NEW YORK -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il fallimento di Washington
Mutual non ha soltanto spazzato via decine di miliardi di
dollari, ma anche una fetta del patrimonio di David
Bonderman e del colosso di private equity TPG.
Si tratta della dimostrazione che i fondi di private equity
hanno bisogno di una forte dose della loro stessa medicina.
Il fondo TPG aveva investito la rispettabile somma di 1,85
miliardi di dollari soltanto 5 mesi fa. Non si tratta,
ovviamente, della prima volta in cui un fondo di private
equity deve accettare pesanti perdite: i guadagni stellari
per cui sono spesso duramente criticati vengono percepiti
anche grazie a rischi ingenti.
Le società di gestione di fondi di private equity non sono
“locuste”, come li definì a suo tempo uno sciagurato
politicante tedesco, ma investitori con elevato appetito per
il rischio e, almeno di norma, pronti a sostenere un team
con le necessarie competenze manageriali per ristrutturare
aziende sottovalutate. Si tratta di investitori che pagano
con i propri soldi gli errori che fanno, al contrario di
certi politicanti portati al “salvataggio” con le chiappe ed
il portafoglio altrui.
Il caso TPG evidenzia tuttavia uno dei problemi derivanti
dall’evoluzione di alcuni fondi di private equity: al di là
della normale incertezza nelle valutazioni di un
investimento, quando il fondo di private equity controlla
totalmente l’azienda, questi rischi possono essere gestiti
in prima persona ed in maniera diretta. Quando , come nel
caso di TPG e di Washington Mutual, si limita a divenire un
investitore seppure rilevante, la formula funziona meno bene
- e le conseguenze possono essere catastrofiche. Un lezione
importante ed un paradosso: il successo dei fondi di private
equity è dovuto alla capacità di ristrutturare aziende,
focalizzandole sui punti di eccellenza. Adesso sono i
colossi del settore ad avere perso concentrazione,
gettandosi nell’investimento “passivo” ed in attività più
consone ad altri intermediari finanziari per investire la
valanga di denaro attirata dalle ottime performance del
passato.
Che sia ora di una ristrutturazione delle società di
gestione di fondi di private equity - da parte degli stessi
team inviarti a ripulire le aziende controllate?
Fonte
- Macromonitor
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La crisi arriva (ufficialmente) in
Europa
29 Settembre 2008 12:00 NEW YORK -
di Phastidio ______________________________________________
I governi europei intervengono
per salvare Bradford & Bingley, Fortis e Hypo Real Estate
AG, ultime vittime delle onde sismiche che la crisi del
credito statunitense sta trasmettendo in tutto il mondo. Il
Tesoro britannico ha nazionalizzato Bradford & Bingley, il
più grande prestatore ipotecario ai proprietari terrieri del
paese, mentre i governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo
hanno impegnato 11,2 miliardi di euro per salvare Fortis. La
Germania ha concesso un prestito a Hypo.
La stretta creditizia sta colpendo l’economia europea, con
la crescita britannica ai minimi da inizio anni Novanta, e
le 15 nazioni dell’Area Euro ormai prossime alla recessione
anche in senso tecnico. Il rischio di una spirale in cui la
crisi di credito e l’economia iniziano ad autoalimentarsi,
dando origine ad inasprimenti dei costi di indebitamento ed
ulteriore indebolimento dell’espansione è molto elevato.
Per contrastare il collasso della sua maggiore banca, il
Belgio procederà ad acquisire il 49 per cento della
divisione bancaria belga di Fortis per 4,7 miliardi di euro,
mentre l’Olanda pagherà 4 miliardi di euro per un
equivalente pacchetto azionario del ramo olandese della
banca. Il Lussemburgo farà lo stesso (sempre per competenza
territoriale) attraverso un prestito convertibile di 2,5
miliardi di euro.
Bradford & Bingley è stata salvata dopo che la stretta
creditizia ne ha reso pressoché impossibile l’operatività: i
depositi della banca ammontavano a poco più della metà dei
prestiti in essere, creando una pericolosa dipendenza del
finanziamento da mercati dei capitali ormai congelati da
paura e sospetto. Il Banco Santander, il più grande
prestatore spagnolo, pagherà 612 milioni di sterline,
inclusa un’infusione di capitale di 208 milioni, per
acquisire la rete di 197 filiali ed i 20 miliardi di
sterline di depositi di circa 2,7 milioni di clienti. Il
governo britannico si farà carico di circa 14 miliardi di
sterline per rendere possibile il trasferimento dei depositi
della clientela al Santander, e di circa 4 miliardi di
sterline per garantire i depositi eccedenti l’importo
garantito di 35.000 sterline. In cambio, il governo di
Londra avrà diritto ad acquisire gli eventuali incassi
derivanti da cessione di asset della banca.
Fonte
- Macromonitor
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Wachovia, gigante finanziario
dell’America profonda, sparisce dopo 227 anni
29 Settembre 2008 17:57 NEW YORK -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Wachovia, gigante finanziario
dell’America profonda, sparisce dopo 227 anni
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Wachovia è appena stata commissariata ufficiosamente e
venduta a CItigroup. Si tratta di un altro evento epocale
per il sistema finanziario americano: insieme a Wells Fargo,
Wachovia è una delle banche più antiche d’America ed un
caposaldo di Main Street, una banca insomma che non si è mai
mischiata troppo alle banche d’Affari di Wall Street, ma che
paga ora come altri nomi ben più spericolati.
Leggendo il comunicato ufficiale, si comprende come
l’accordo sia frutto di una mediazione del FDIC,
l’equivalente americano del fondo interbancario di tutela
dei depositi, che negli USA ha il potere di commissariare le
banche che non riescano a tutelare i depositanti.
I numeri sono enormi: Wachovia era l’azienda americana
numero 46 ed era il risultato della fusione fra alcune delle
banche commerciali più grandi ed antiche d’America. La
filiale Wachovia di Philadelphia era attiva
ininterrottamente dal 1781, rendendola la banca più antica
in funzione, sino ad oggi e le due banche “fondatrici”,
First Union e Qchovia, sono sempre stati capisaldi
dell’attività bancaria “tradizionale”, lontana dai grandi
centri finanziari delle due coste e ben radicata nelle medie
città industriali, un’attività fatta di prestiti ad aziende
e mutui ai privati. Le speculazioni di Wall Street sono
arrivate qui assai attenuate, erano parte del business di
prestito e copertura, non il cuore dell’azienda. Non è
bastato per salvarli.
Wachovia is currently ranked number 46 on the Fortune 500
list for 2007,[21] with $46.8 billion in revenue, and is the
fourth largest bank holding company in the United States,
with banking centers in 15 east coast states and Washington,
D.C.Wachovia provides brokerage services through a
subsidiary, Wachovia Securities. Wachovia also has an asset
management division, operating as Evergreen Investmentsin
the United States and as Wachovia Global Asset Management
abroad.
First Union Corporation had its beginning as Union National
Bank on June 2, 1908. [...] The company traces its history
to 1781, when the first bank in the United States was
chartered as Bank of North America.[7]Wachovia continues to
run a branch in Philadelphia that has operated since its
inception in 1781, making it the longest continuously
operated branch in America.
Legacy Wachovia Corporation traced its history to 1879, when
it was established as the Wachovia National Bank in
Winston-Salem, North Carolina..
Fonte
- Macromonitor
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Saranno
gli obbligazionisti
a pagare il conto
Alitalia?
04 Settembre 2008 16:21
TORINO - di Beppe Scienza
________________________________________
Un salvataggio sulla pelle dei risparmiatori? I giochi non sono
ancora tutti fatti, ma c’è qualcosa che stride nel piano Fenice, a
prescindere da ogni simpatia o antipatia politica. Sarà anche vero
che non è un fallimento, ma allora bisogna che qualcuno lo spieghi
agli obbligazionisti dell’Alitalia, che temono di fare la fine di
quelli della Parmalat. D’altronde a rigore di termini pure la
Parmalat non è fallita. Infatti ai creditori importa solo
relativamente il tipo di procedura concorsuale in cui incappano, che
può essere un fallimento in senso stretto, la Legge Marzano o una
sua modifica. Quel che conta è quanto recuperano del loro credito.
Debt to equity. Per cominciare molti obbligazionisti si chiedono se
non era meglio proprio una procedura alla Parmalat, magari con
qualche adattamento della legge Marzano, ma conservandone l’impianto
generale. Con essa gli attivi e i passivi vengono separati e i
secondi congelati. Intanto il commissario manda avanti l’attività
della società, procedendo a una riduzione del personale, se è il
caso (e per l’Alitalia questo nessuno lo nega). Ma poi gli
obbligazionisti diventano azionisti della società risanata: è il
cosiddetto debt to equity. Sarebbero quindi loro, al posto o insieme
a Roberto Colaninno e soci, ad attendersi un’altra redditività dai
capitali che hanno messo, nolenti o volenti, nella nuova Alitalia.
Merita ricordare che i creditori della Parmalat ricevettero azioni
del valore nominale di un euro, il cui prezzo di mercato si
stabilizzò però presto sopra i 2 €, anche a prescindere dalle
quotazioni molto più alte delle prime settimane, in qualche modo
anomale. L’exploit dei 3,02 € in primissima battuta delle
contrattazioni il 6 ottobre 2005 dipese anche dai ritardi nella
consegna dei titoli.
Ma ai possessori del prestito Alitalia 7,5% 2010 è stato precluso di
avvantaggiarsi del futuro probabile buon andamento della società. Il
trattamento che riceveranno dipenderà soprattutto dal prezzo a cui
il commissario Augusto Fantozzi venderà le attività della società:
aerei, slot, terreni, marchio, avviamento ecc.
Corrono però voci che il ricavato non sarebbe sufficiente, nel qual
caso dovrebbe intervere il fondo per i crac finanziari, su cui
Libero Mercato ha riferito accuratamente più volte, anche di
recente.
L’offerta di Air France. Alcuni dicono che i risparmiatori abbiano
una memoria da elefante, anche se sussiste qualche dubbio sulla
validità generale di tale regola. Non sono però richieste
particolari doti mnemoniche per rordarsi quanto offriva neanche sei
mesi fa Air France, cioè l’85 per cento del nominale delle
obbligazioni e l’equivalente in titoli Air France di 0,10 euro ogni
azione. Tanto per completare il discorso la tabellina che segue ????
riporta anche gli ultimi prezzi prima che la Borsa Italiana
sospendesse i titoli il 3-6-2008.
Si può definire il piano Fenice la meraviglie delle meraviglie,
magari potrà anche esserlo per la compagnia aerea in sé, ma come
reagirà un risparmiatore? Se a conti fatti otterrà meno di 85 euro
per cento di nominale, avrà fondati motivi per prendersela con chi
ha fatto saltare l’accordo coi cugini d’Oltralpe. Anzi, a ben vedere
è il Tesoro che avrebbe ceduto il suo credito ai francesi all’85%.
Quasi tutti gli altri possessori di obbligazioni se le sarebbero
tenute per incassare il 100% a scadenza, escludendo un fallimento di
Air France nell’arco dei prossimi due anni.
Un affare per altri. Merita aggiungere en passant che molto
probabilmente una compagnia aerea straniera, Air France o un’altra,
magari non acquisirà subito il controllo, ma riuscirà a mettere non
uno zampino ma un piede nella nuova società, senza pagare lo scotto
di accollarsi neppure una quota del suo debito obbligazionario, che
Air France si era offerta di rilevare in toto. Inoltre, visti i toni
patriottici dell’impresa, perché Banca Intesa non ha pensato di
permettere ai risparmiatori italiani di rischiare anche loro i
propri soldi sottoscrivendo azioni di assoluta minoranza della nuova
Alitalia che sta per nascere dal piano Fenice?
Le azioni Alitalia. Più complesso il caso degli azionisti. Per
cominciare qui il prezzo previsto dall’offerta pubblica d’acquisto (opa)
annunciata da Air France è un termine di paragone non significativo.
L’offerta di scambio azionario, valutando 0,10 euro ogni azione
Alitalia, avrebbe permesso al Tesoro di acquisire un pacchetto
azionario, anziché nulla come adesso, ma era priva di interesse per
un investitore di minoranza. Infatti in quei frangenti in Borsa il
titolo batteva sugli 0,40-0,50 euro. Chi lo comprava o comunque se
lo teneva, anziché semmai venderlo e comprare azioni Air France, non
faceva conto di darlo all’opa. Pensava piuttosto che le quotazioni
sarebbero salite, una volta risanata la società.
Un caso a parte, su cui voglio muoversi associazioni di consumatori
di matrice sindacale, sono poi quei dipendenti diventati azionisti
per aver sottoscritto le azioni offertegli a condizioni
relativamente vantaggiose. Come tutti quanti hanno mantenuto in
portafoglio azioni della compagnia italiana cosiddetta di bandiera,
anche loro ci hanno rimesso pesantemente. Sul fatto però che
(moralmente) gli spetti un indennizzo, le opinioni sono molto
discordanti. È infatti presumibile che le azioni della società siano
scese così tanto anche per il livello delle loro retribuzioni. Con
una battuta trita e volgare viene da dire che è difficile avere la
botte piena e la moglie ubriaca.
Perdite pubbliche. Il direttore di questo giornale, Oscar Giannino,
ha giustamente osservato riguardo al costo dei dipendenti in esubero
da Alitalia che "quando i debiti li ha fatti una compagnia di Stato,
non si vede perché e come non se li debba accollare chi li ha fatti.
A spese di noi tutti" (26-8-2008, pag. 5). Ciò vale anche e a
maggior ragione per le obbligazioni. Mentre infatti un dipendente
non può cambiare senza problemi l’azienda dove lavorare, un
risparmiatore può farlo coi suoi investimenti. Se in particolare ha
scelto le obbligazioni Alitalia, con rendimenti alti ma non
stratosferici, è perché si sentiva garantito dall’azionista pubblico
e soprattutto dalle continue dichiarazioni dei suoi amministratori.
Infatti costoro, nominati dal Tesoro, hanno sempre fatto riferimento
e indotto i risparmiatori a fare affidamento sulla continuità
aziendale.
Né ora sono sufficienti dichiarazioni d’intenti di esponenti del
governo, quale per esempio il ministro delle infrastrutture Altero
Matteoli (AN) che riguardo agli obbligazionisti ha detto il
27-8-2008 che esso "intende tutelarli, scongiurando un nuovo caso
Parmalat".
In ogni caso distinguere gli obbligazionisti fra piccoli e meno
piccoli cozza col dettato dell’articolo 47 della Costituzione che
afferma che "la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte
le sue forme", senza riferirsi solo al piccolo risparmio. Tale
restrizione sarebbe giustificata semmai per le azioni, interpretando
in tal senso l’aggettivo popolare del secondo comma che aggiunge che
essa "favorisce l’accesso del risparmio popolare a [...]
l’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese".
Conti dormienti. Dal governo è stato annunciato il ricorso al
nascente fondo alimentato dai cosiddetti conti dormienti. Le norme
relative sono state migliorate rispetto alla bozza iniziale e
comunque il principio a monte è condivisibile. È meglio che sia lo
Stato a disporre di soldi dimenticati, anziché finiscano a essere le
banche ad appropriarsene.
Per funzionare per l’Alitalia dovrà essere opportunamente formulato
il regolamento applicativo, cosa ovviamente possibile. Tale fondo
era stato pensato per le vittime di illeciti finanziari come nel
caso di Cirio e Parmalat, ma nulla vieta di estenderne l’utilizzo a
una fattispecie diversa.
Certo che gli italiani si erano disabituati ai crac a danno degli
obbligazionisti. Sono passati oltre sei anni da quando andò a gambe
all’aria la Cirio di Sergio Cragnotti e poco meno di cinque dal
default della Parmalat di Calisto Tanzi. Vi sarà ora una nuova
puntata con decine di migliaia di vittime di un altro dissesto, per
giunta di una società del settore pubblico e proprio con Giulio
Tremonti ministro dell’economia? Oppure, in un modo o nell’altro, i
loro risparmi verranno salvati e/o reintegrati?
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Fonte
- Libero Mercato |
Mutui,
il decalogo per
un atterraggio morbido
11 Settembre 2008 02:00
MILANO - di Corriere della Sera
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Rate che tornano, finalmente, sopportabili, ma con il rischio che la
schiavitù del mutuo si allunghi, finendo per spendere più del
previsto. E’ il rebus che deve risolvere chi ha stipulato entro il
28 maggio 2008 un mutuo variabile e ha ricevuto in questi giorni una
lettera dalla propria banca. Con la lettera, che attua l’intesa
Abi/governo, viene proposta la rinegoziazione del mutuo.
L’operazione riporta al 2006 la lancetta dei tassi, con forti sconti
sulla rata, ma non è priva di rischi. La scelta è complessa: ecco un
decalogo per decidere con consapevolezza.
1 Come viene ricalcolato il valore della rata in base all’accordo
Abi/governo?
Per i mutui stipulati prima del 2007 si fa la media dei tassi pagati
nel 2006. Questo valore diventa il nuovo tasso con cui viene
determinata la rata rinegoziata che risulterà così più bassa di
quella odierna: in media il tasso si riduce di oltre un punto e
mezzo. Per i mutui partiti dal 2007, la rata rinegoziata sarà uguale
a quello della prima rata pagata. La nuova rata rimarrà costante per
tutta la durata contrattuale originaria del mutuo. Non si tratta,
però, di un regalo, ma di una dilazione di pagamento: il piano di
ammortamento originario rimane valido e ogni mese la banca calcola
quanto il cliente avrebbe dovuto pagare. Se la vecchia rata risulta
più alta, quanto si risparmia grazie alla rinegoziazione, viene
addebitato in un conto di appoggio. Se invece la rata originaria
risulta più bassa, cioè se i tassi dovessero scendere, l’eccedenza
pagata andrà a ridurre il debito. In pratica il conto di appoggio si
gonfierà e sgonfierà in base all’andamento futuro del costo del
denaro. Nel momento in cui il conto di debito avesse valore zero si
torneranno a pagare le rate secondo il piano originario. Ma si
tratta di un’ipotesi remota.
2 Come si restituiscono i soldi finiti sul conto di debito?
Se alla scadenza originaria del mutuo vi sono ancora somme a debito,
ipotesi molto probabile, queste si trasformano a loro volta in un
mutuo, di rata uguale a quella rinegoziata e al tasso minore tra
quello previsto dal prestito originario e quello rinegoziato. Sul
conto vengono anche addebitati interessi annui calcolati sulla base
dell’Eurirs 10 anni (parametro finanziario che serve per i mutui a
tasso fisso) aumentato dello 0,50%. Ai valori attuali significa
circa il 5,5%. Le banche hanno però la facoltà di offrire condizioni
più favorevoli, come ad esempio annullare o ridurre questa
maggiorazione.
3 Quanto può durare l’ulteriore fase di rimborso?
Questa è la vera incognita della rinegoziazione. Non solo non è
preventivabile l’entità dell’allungamento, ma l’operazione, in caso
di salita dei tassi soprattutto nei primi anni, potrebbe rivelarsi
davvero pericolosa: su mutui lunghi, un aumento anche di un solo
punto del costo del denaro può portare a una dilazione nel rimborso
anche di venti o più anni. Un vero risparmio c’è solo se i tassi
cominciassero a scendere quasi subito e in misura consistente.
4 Da quando parte il ricalcolo delle rate?
Il cliente ha tre mesi dalla ricezione della lettera per aderire.
Dall’assenso si devono calcolare altri tre mesi per avere la nuova
rata. In pratica si partirà tra gennaio e febbraio 2009.
5 Che cosa si deve fare se non si vuole aderire alla rinegoziazione?
Nulla. Non è nemmeno necessario manifestare il proprio rifiuto.
6 Le lettere inviate dalle banche sono lunghe e complicate. A che
cosa stare attenti?
Soprattutto a due cose: la prima a capire bene di quanto scenderà la
rata rispetto ad oggi, la seconda è non confondere le elaborazioni
che la lettera contiene come elementi contrattuali. Attenzione
soprattutto a non cadere in equivoci nella lettura delle simulazioni
di durata: se una tabella riporta ad esempio il dato che al
verificarsi di determinate condizioni il rimborso del conto di
debito avviene in 120 mesi, quel numero va sempre aggiunto alla
durata originaria. Rinegoziando il mutuo con l’accordo Abi-ministero
la durata minima del finanziamento, salvo estinzione anticipata,
rimane quella originaria mentre, lo ribadiamo, quella massima è
sconosciuta.
7 Che cosa succede se non sono state pagate una o più rate?
La banca deve proporre lo stesso la rinegoziazione. Le somme non
pagate e gli interessi di mora entrano nel conto accessorio.
8 A chi conviene aderire alla proposta della banca per rinegoziare
il mutuo?
Sostanzialmente a chi non ce la fa proprio più a pagare la rata
attuale e ancor di più se è già in una situazione di morosità. E’
una soluzione non molto conveniente, ma praticabile, per chi ha un
mutuo di breve durata. La rinegoziazione è assolutamente
sconsigliabile per chi invece ha un finanziamento con durata residua
di venti o più anni, a meno che non si trovi veramente con l’acqua
alla gola.
9 Quali sono le altre alternative a disposizione?
La surroga e la sostituzione. Con la prima la titolarità
dell’ipoteca passa a un’altra banca che offre condizioni
migliorative. I costi sono ridotti e in molti casi pari a zero: la
procedura, però, è ancora farraginosa e non sempre è facile trovare
una banca disposta ad accollarsi il mutuo. Con la sostituzione viene
estinto il vecchio mutuo e se ne fa un altro. In questo caso bisogna
mettere in conto spese per qualche migliaio di euro, ma si ha la
massima flessibilità. In entrambe le ipotesi lo sconto che si
ottiene è inferiore alla rinegoziazione, ma la durata del mutuo
resta certa.
10 E che cosa succede se non si fa nulla?
Se la rata è ampiamente sostenibile è un’opzione da considerare:
comunque vadano i tassi l’esborso complessivo per far fronte alla
rinegoziazione sarà sempre superiore a quello che si registra
lasciando le cose come stanno.
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Fonte
- Corriere della Sera |
ANTITRUST:
ABI-PATTI CHIARI IN MIRINO, AVVIA ISTRUTTORIA
12 Settembre 2008 18:19 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 12 SET -
L'Antitrust ha deciso di aprire un un'istruttoria nei
confronti dell'Abi e del consorzio Patti Chiari. Al centro
degli accertamenti "gli accordi interbancari predisposti
dall'Abi per regolare alcuni servizi di pagamento, come gli
assegni", per i quali si dovrà verificare se non
"costituiscano un'intesa in grado di restringere la
concorrenza". L'istruttoria - si legge in una nota del
Garante - "riguarda anche le condizioni sui giorni di valuta
e di disponibilità delle somme per la clientela finale
definite su alcuni di tali servizi dal consorzio Patti
Chiari". (ANSA).
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LEHMAN:
CONSUMATORI, PRONTI A CITARE ABI E BANKITALIA
17 Settembre 2008 14:18 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 17 SET - Le
associazioni dei consumatori Adusbef e Federconsumatori sono
pronte a citare in giudizio Abi e Bankitalia "per aver
indotto i risparmiatori a fidarsi delle obbligazioni Lehman
Brothers". E' quanto si legge in una nota, secondo la quale
"mentre il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi,
continua a rassicurare i risparmiatori ed i mercati in
merito alla tranquillità delle banche italiane 'affatto
coinvolte' nella tempesta finanziaria, dai sub-prime al
crack del secolo di 640 miliardi di dollari, Unicredit e
Intesa San Paolo, hanno cominciato per primi a dare ai
propri clienti il triste annuncio: 'Gentile Signora/e, a
causa del fallimento di Lehman Brothers, le sue obbligazioni
non renderanno le cedole promesse e non le sara' rimborsato
il capitalé". Secondo le associazioni si tratta di un
"totale fallimento", anche delle "distratte se non colluse
autorità di vigilanza, delle agenzie di rating e delle
banche che le hanno appioppato ai clienti, ma soprattutto di
Patti Chiari, il progetto dell'Abi e di talune associazioni
dei consumatori". Per il consorzio dell'Abi, proseguono i
consumatori, "che sarà chiamato a rispondere in giudizio per
danni ai risparmiatori investitori, mentre non sono
affidabili alcuni titoli di Stato italiani, come i BTP a
lunga scadenza, i titoli Lemhan erano affidabilissimi",
conclude la nota. (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Venerdì 19
Settembre 2008 |
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Sabato 20
Settembre 2008 |
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Polizze
e Fondi, che fare se c'è il marcio
Lehman
18 Settembre 2008 16:21
MILANO - di Giuditta Marvelli
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E se anche il mio portafoglio avesse il mal di Lehman? Ecco che cosa
occorre sapere per non perdere la bussola e la serenità in questi
primi momenti: dalle azioni alle obbligazioni, dalle polizze unit
linked alla posizione dei gestori italiani di fondi comuni e casse
previdenziali.
Sono azionista della merchant bank che ha portato i libri in
tribunale. Che cosa succede ai miei titoli? Le azioni sono andate a
zero. E se, come sembra ormai sicuro, non arriverà un cavaliere
bianco disposto a salvare Lehman dal vero e proprio fallimento, per
il capitale di rischio non c'è più nulla da fare. I soci, a
differenza dei creditori, in queste situazioni rischiano il tutto
per tutto. E perdono.
Che cosa c'è nel futuro di chi ha le obbligazioni della banca? I
creditori, a differenza dei soci azionisti, sono quelli a cui
toccherà di diritto dividersi il valore rimasto dopo la vendita
degli asset stabilita dalla procedura fallimentare. Ci sono diversi
tipi di obbligazioni: quelle senior, che potrebbero ricevere anche
la metà o più del valore nominale, e quelle invece meno garantite,
che potrebbero ricevere molto poco. O anche nulla. Forse si può
cominciare a chiedere all'intermediario che ha venduto
l'obbligazione di che razza è esattamente il titolo che si è
acquistato. Per sapere quanto si recupererà è invece decisamente
presto.
Ho letto tutto il prospetto della polizza index linked che ho
comprato due anni fa e ho scoperto che Lehman è tra i fabbricatori
del prodotto. Che devo fare? I prodotti strutturati con dentro un
«veicolo » firmato da Lehman sono tanti e di molti tipi diversi.
Secondo una prima ricognizione ci sono una cinquantina di polizze
agganciate ai mercati azionari che sarebbero garantite non da chi le
ha vendute ai risparmiatori ma dalla banca americana in via di
fallimento. Il rischio di perdere tutto in questo caso è quasi una
certezza. In altri casi — che evidentemente oggi risultano più
fortunati del precedente — potrebbe esserci il collocatore a fare da
garante. O per obbligo da prospetto. O perché qualche intermediario
potrebbe decidere di rimborsare di tasca propria i clienti (magari
solo in parte) per non perdere la faccia e la credibilità. Diverso
il discorso per le polizze unit linked, cioè quelle che utilizzano i
fondi comuni per la parte finanziaria, che non hanno quasi mai il
capitale garantito. In questo caso chi le ha acquistate non ha mai
ricevuto promesse di rivedere almeno il capitale investito.
Ho sentito dire che anche i fondi pensione e i fondi comuni
potrebbero avere degli investimenti in azioni e obbligazioni di
Lehman? Che succederà? In genere i portafogli dei fondi sono molto
diversificati, cioè investono in una pluralità di azioni e bond e
quindi una singola società non pesa mai troppo nel conto finale. La
speranza è che questo sia vero per tutti e che nessun gestore avesse
posizioni esagerate sulla banca d'affari. I primi dati non parlano
di casi preoccupanti, soprattutto nei prodotti delle sgr italiane.
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Fonte
- Corriere della Sera |
Index
Linked, chi le ha corre grossi rischi
23 Settembre 2008 02:40
MILANO - di
Roberto Bagnoli
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L' unica speranza è che le compagnie si mettano una mano sul cuore,
e l'altra sul portafoglio. Lo faranno Unipol e Mediolanum, due fra
le più coinvolte, che si accolleranno tutte o parte delle perdite
accusate dai propri assicurati. Il dissesto di Lehman Brothers
provocherà un conto molto pesante per migliaia di clienti che hanno
acquistato una polizza vita index linked garantita dalla banca
d'affari americana. E si può scommettere sul fatto che la stragrande
maggioranza di loro lo ha fatto credendo di sottoscrivere un
prodotto senza rischi e a capitale garantito.
Unipol (insieme alla controllata Aurora) riconoscerà alla scadenza
il premio versato. Mediolanum, più genericamente, ha dichiarato che
farà qualcosa per andare incontro ai propri assicurati.
«Le index linked che hanno come sottostante titoli di Lehman
Brothers sono pari in totale a circa 1,5 miliardi di euro, di cui la
stragrande maggioranza con rischio a carico degli assicurati —
spiega Marcella Frati, director di Nmg financial service consulting,
una società di consulenza specializzata nel settore assicurativo —.
Calcolando che per questi prodotti il premio medio è di circa 20mila
euro, il problema dovrebbe riguardare almeno 70-75mila clienti».
Il conto sarà in ogni caso molto pesante: Superbonus III di Allianz
Ras quotava 75,620 euro il 9 settembre: una settimana dopo valeva
poco più di un terzo, 28,730 euro. Alcune compagnie, come Axa e
gruppo Unipol, hanno comunicato che la quotazione delle polizze che
hanno come sottostante Lehman Brothers è sospesa; altre, come Bcc
Vita o Assimoco Vita, che potrebbero verificarsi ritardi nella
quotazione stessa.
In pratica diventa impossibile (o molto difficile) chiedere il
riscatto, vale a dire la risoluzione anticipata del contratto. «Ma
questa soluzione non è consigliabile, perché espone a perdite
considerevoli — risponde Frati —. Conviene aspettare soprattutto se
la scadenza non è ravvicinata".
In ogni caso, quale che sia l'esito finale, il fallimento di Lehman
Brothers è solo l'ultima vicenda che getta un'ombra molto pesante su
un prodotto, le index linked, con una diffusione molto ampia: in
base ai dati dell'Ania, nei primi sette mesi del 2008 hanno raccolto
5,6 miliardi di euro.
Polizze di nome ma davvero poco di fatto, perché si tratta di
prodotti complicati e rischiosi, una scommessa sui mercati azionari
con un paracadute che spesso non si apre. E un'indagine conoscitiva
avviata ad aprile dall’Isvap aveva evidenziato una novantina di
prodotti a potenziale rischio. «Nelle index linked la prestazione
finale è agganciata all'andamento di indici di Borsa o di panieri di
titoli azionari — spiega Frati —.
La polizza consiste in un’obbligazione strutturata formata da un
derivato e da uno zero coupon: il primo garantisce la rivalutazione
legata alle performance dell'indice di riferimento, il secondo il
rimborso del valore nominale corrispondente al premio versato o
l'eventuale rendimento minimo. Nella quasi totalità dei casi le
garanzie non sono prestate direttamente dalle assicurazioni, ma
dalla società che emette l'obbligazione strutturata. Il pericolo di
insolvenza, quindi, è a carico del cliente».
Quello che, appunto, succederà nel crac di Lehman Brothers. «In
alcuni casi le index linked possono rappresentare un utile
diversificazione — dice Fabrizio Premuti, responsabile assicurativo
di Adiconsum — ma devono essere sottoscritte da clienti consapevoli,
informati sui rischi e sulla volatilità che le caratterizzano. Oggi
i sottoscrittori devono essere avvertiti quando perdono più del 30%
rispetto al valore originario: questa soglia dev'essere abbassata,
spesso s'interviene quando ormai è troppo tardi».
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Fonte
- Corriere della Sera |
CRISI MUTUI:
TREMONTI, FRUTTO DEL PATTO DIABOLICO USA-ASIA
23 Settembre 2008 10:00 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
ROMA, 23 SET -"E' difficile dire
se sarà più efficace il freno alla speculazione o
l'iniezione di denaro pubblico ma è comunque facile notare
che nel momento presente di mercato finanziario non ce n'é
più molto. Non è la fine del mondo, è la fine di un mondo.
Nessuno sano di mente può pensare che si tratti della fine
del capitale o del capitalisino". A 'leggere' così il day
after della crisi del crac che ha sconvolto i mercati
americani e mondiali è il ministro dell'Economia, Giulio
Tremonti, in un colloquio con Il Foglio proprio nel momento
in cui il governo degli Stati Uniti vara il piano in tre
mosse destinato a rassicurare i mercati: il freno imposto a
Wall Street, dove in borsa sono state vietate le operazioni
allo scoperto perché speculative; la normalizzazione delle
ultime due banche di investimento rimaste; e poi l'ultimo
mega piano di salvataggio pubblico annunciato dall'
amministrazione Bush. "Alcune medicine - dice - hanno
aggravato la malattia, lo sgravio fiscale non ha funzionato:
doveva sostenere i consumi, ma il crash nasce proprio
dall'eccesso di consumi a debito". "Per capire cos'é
successo e cosa sta succedendo - spiega Tremonti -
bisognerebbe rileggere (o leggere!) il Faust di Goethe, la
più fantastica storia sulla trasformazione della ricchezza,
sul suo passaggio dal materiale all'immateriale". "Per fare
la globalizzazione è stata firmata una cambiale
mefistofelica. Come tutte le cambiali, come quella di
Mefistofele, anche la cambiale della tecno-finanza è ora
arrivata a scadenza. Il patto diabolico è stato siglato a
due, tra America ed Asia. La globalizzazione non poteva
essere fatta così di colpo se non facendola a debito". Per
il ministro la crisi era possibile prevederla con largo
anticipo: bastava leggere le carte geografiche. Bastava
sentire il pulsare della storia. Ma c'era anche qualcosa di
più banale, qualcosa con evidenza empirica. Almeno questo
poteva, anzi senza forse, essere oggetto delle valutazioni
scientifiche degli economisti. Era sufficiente - spiega
ancora - guardare i bilanci delle mega-banche globali per
vedere che stavano in piedi in base a un effetto di pura
illusione finanziaria: "non era necessario, ripeto, leggere
le carte geografiche, era sufficiente leggere i bilanci. Nei
bilanci delle mega banche la leva finanziaria, il leverage
come lo chiamano gli economisti, era in un rapporto di 20 o
30 a 1, più o meno prossimo al margine statistico di vincita
al casinò. E per questo il banco è saltato". Difficile dire
come uscire dalla tempesta finanziaria del secolo, spiega
ancora Tremonti: "abbiamo prodotto regole che possono essere
negative fino a diventare suicide, regole inutili o dannose.
Mentre non abbiamo ancora le regole che invece servirebbero
per riportare fiducia. Definire queste regole non é compito
del mercato, è compito degli Stati". E' la nuova Bretton
Woods che il ministro auspica, un nuovo quadro di regole
incardinato nel diritto internazionale da trattati
vincolanti per tutti. Un'iniziativa politica che deve essere
portata avanti a livello sovranazionale,
intergovernativo.(ANSA).
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CRISI MUTUI:
ADUSBEF, 100.000 RISPARMIATORI CON BOND LEHMAN
24 Settembre 2008 11:05 ROMA -
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 24 SET - I
risparmiatori italiani che hanno nel loro portafoglio
investimenti in titoli legati alla Lehman sono "oltre
100.000". E' quanto calcola l'Adusbef che punta il dito
contro Unicredit e Intesa "che hanno emesso obbligazioni
Lehman per 3,2 miliardi di euro" nonostante "la situazione
pre-fallimentare fosse sotto gli occhi di tutti". Le stesse
banche - sempre secondo il presidente dell'Adusbef Elio
Lannutti - "hanno spinto polizze Index e Unit Linked
infarcite di Lehman Brothers". "Adusbef avvierà - annuncia
l'associazione dei consumatori in una nota - anche un'azione
civile contro le banche e le colluse autorità vigilanti per
l'ennesimo episodio di risparmio tradito. Stimiamo che tra i
bond e le polizze, piazzate dalle assicurazioni e dalle
banche negli sportelli bancari, i risparmiatori coinvolti
nei titoli Lehman, diventati carta straccia, possono
superare il numero di 100.000". (ANSA).
Fonte
- ANSA
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Sabato 27
Settembre 2008 |
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Domenica 28
Settembre 2008 |
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Martedì 30
Settembre 2008 |
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