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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Micro USA/Settore Auto - Opinioni

General Motors: please, lasciatela fallire

Borse & Mercati - Strategie di portafoglio

Fugnoli: molto cash e bond a lunga scadenza

Borse & Mercati - Strategie di portafoglio

Riparto coi bond, poi di nuovo azioni

Borse & Mercati - Strategie di portafoglio

Guadagnare con la deflazione

Borse & Mercati - Strategie di portafoglio

Saldi di fine stagione

Fondi Hedge - Mercato italiano

Analisi; hedge 2009, voglia di riscossa contro ...

Sentiment Mercati - Gestori

Gestori pronti per un 2009 in recessione

Anno 2008 - Bilancio conclusivo e riassunto eventi

Orribile 2008 addio, peggior anno dal 1931

   
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ANSA   +++   01 Dicembre 2008 22:00 NEW YORK - WALL STREET TRACOLLA E TORNA ALLA REALTA', SELL FURIOSI SU S&P500 -9.00%   +++   02 Dicembre 2008 09:28 MILANO - Borsa: Asia crolla su effetto Wall Street   +++   04 Dicembre 2008 14:30 NEW YORK - USA: DISOCCUPAZIONE, SUSSIDI AL TOP DAL 1982   +++   05 Dicembre 2008 19:51 MILANO - Borsa: Venerdi' Nero, Europa brucia 180 miliardi  ++  WALL ST: RIALZO STREPITOSO CON ECONOMIA IN GINOCCHIO   +++   ANSA
 
  Martedì 02 Dicembre 2008   Mercoledì 03 Dicembre 2008   Venerdì 05 Dicembre 2008  
       
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GR1 RAI - 01 DIC ore 22:00

   

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GR1 RAI - 02 DIC ore 22:00

   

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GR1 RAI - 04 DIC ore 22:00

   

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FINANZA: QUANDO IL MEA CULPA ARRIVA TROPPO TARDI

01 Dicembre 2008 01:39 MILANO - di Pierpaolo Scandurra
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Con una mossa a sorpresa nei giorni scorsi Goldman Sachs ha deciso di esercitare, a soli tredici mesi dal lancio, l’opzione di richiamo anticipato di uno dei certificati più interessanti nel panorama dei benchmark senza scadenza. La decisione fa seguito ad un progressivo abbandono del mercato domestico da parte dell’emittente americana, duramente colpita dalla crisi finanziaria dell’ultimo anno, e lascia in braghe di tela quanti avevano deciso di investire sui mercati di frontiera con un orizzonte temporale di lungo termine.
E dire che il Next 11 Core 5 Open End certificates era stato presentato come un’assoluta novità. Inedito per la struttura, perché era il primo certificato a scadenza "aperta" emesso su un indice azionario emergente, e per la particolarità dell’indice sottostante, il certificato era stato emesso il 28 agosto 2007 ad un prezzo di 9,46 euro e successivamente, dal 16 ottobre 2007, aveva iniziato a quotare sul segmento dei Securities Derivatives di Borsa Italiana.
Il certificato era stato emesso con la finalità di seguire senza il vincolo temporale di una scadenza l’andamento di cinque degli undici paesi emergenti considerati eredi , in termini di prospettive di crescita e sviluppo, dei quattro paesi dell’area Bric. La Global Research di Goldman Sachs aveva individuato nel Bangladesh, la Corea del Sud, Egitto, Filippine, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Turchia e Vietnam gli undici candidati a far faville negli anni a venire.
Tuttavia per la quotazione dell’Open End, era stato richiesto dagli organi di controllo e di vigilanza, che l’indice venisse limitato a soli cinque degli undici paesi: e così l’indice, espresso in dollari americani, ha preso il nome di Next 11 – Core 5. Ma contravvenendo a quanto era stato prospettato in fase di emissione il benchmark Open End è stato ritirato dal mercato dalla stessa emittente L’annuncio è arrivato al termine di un periodo di profondo calo subito dall’indice : da inizio anno la performance dell’indice Total Return è negativa per quasi sessanta punti percentuali mentre dalla data di emissione del certificato, allorchè l’indice quotava 129,09 punti, il ribasso si è limitato al 54%. Soltanto il recupero del dollaro nei confronti dell’euro delle ultime settimane ha permesso al certificato, peraltro soggetto ad una commissione di gestione annua dell’1,1% , di limitare il calo al 48%.
In tredici mesi di vita , oltre ad aver riportato una performance decisamente negativa che tuttavia non si discosta troppo da quelle di altri mercati sviluppati e ben più capitalizzati, il certificato non ha mai registrato un particolare interesse da parte del pubblico degli investitori. Fatta eccezione per i primi cinque mesi di quotazione, durante i quali sono stati scambiati circa 20.000 certificati per un controvalore di poco meno di 200.000 euro , dal mese di aprile i volumi si sono rarefatti. L’optional early redemption date, ovvero la data di rimborso, è stata fissata per il giorno 17 novembre 2008 e il rimborso è stato fissato in 6,343 dollari ( 4,985 euro al cambio di 1,2724 del 17 novembre).
Un vero e proprio flop dunque, non tanto per l’andamento costantemente negativo, quanto piuttosto per un ritiro anticipato che sa tanto di beffa.

 

Fonte - www.certificatiederivati.it

 

 

 

 

 

 

  General Motors: please, lasciatela fallire

01 Dicembre 2008 02:02 MILANO - di Mario Seminerio

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Mentre General Motors e gli altri costruttori automobilistici statunitensi continuano a bruciare liquidità a ritmi infernali, il dibattito sul salvataggio dell’industria si polarizza sempre più. Da un lato, i sostenitori di un intervento pubblico che impedisca la distruzione di alcuni milioni di posti di lavoro, diretti e indotti; dall’altro i critici di un modello di business, quello di General Motors, basato da sempre su poderose relazioni lobbystiche che suppliscono alla scarsa comprensione delle dinamiche competitive globali. Nel mezzo, i costruttori europei, che temono non solo e non tanto un effetto di spiazzamento delle proprie produzioni causato dal soccorso pubblico americano, ma anche l’inizio di una corsa alla protezione dei campioni nazionali dell’auto, da cui tutti usciremmo perdenti.
General Motors nel terzo trimestre ha riportato una perdita di 2,5 miliardi di dollari, o 4,45 dollari ad azione, segnalando disponibilità liquide al 30 settembre per 16,2 miliardi di dollari, contro i 21 miliardi alla fine di giugno, ed un fabbisogno mensile di 11 miliardi di dollari, dopo aver accumulato dal 2004 perdite per 73 miliardi di dollari. Con questa traiettoria, senza intervento pubblico la compagnia difficilmente doppierà la boa del nuovo anno.
Secondo il CEO, Rick Wagoner - che continua a ribadire in modo piuttosto sconcertante la necessità di preservare l’attuale management - l’unica via è un prestito governativo simile a quello che salvò Chrysler un trentennio fa. A suo giudizio, l’amministrazione straordinaria fornita dal Chapter 11 avrebbe invece "effetti devastanti" sull’azienda, sia perché il credit crunch ha pressoché inaridito l’erogazione dei "debtor-in-possession loans", i prestiti erogati alle imprese in ristrutturazione controllata, sia perché porre in Chapter 11 un produttore di beni durevoli di consumo di così elevato valore unitario finirebbe con lo spaventare i consumatori, timorosi che la società possa finire in liquidazione e le loro auto siano private di valore residuo di mercato e di assistenza post-vendita.
Per questo motivo, secondo Wagoner ed i lobbysti del settore auto, sarebbe preferibile un nuovo prestito federale, magari condizionato a qualche ristrutturazione energy-saving di impianti e modelli. Altri osservatori, più neutrali, hanno ipotizzato una qualche forma di variazione su questo tema: ad esempio, ricorrere a forme di swap tra debito e capitale azionario, con sacrifici pesanti chiesti agli obbligazionisti, che vedrebbero il valore nominale dei loro bond abbattuto all’attuale valore di mercato, ed oltre.
I problemi di General Motors e degli altri due costruttori statunitensi sono noti, e sono riconducibili a due grandi tipologie: deficit di visione strategica globale e oneri imposti dal sistema-paese statunitense. Riguardo i secondi, nei giorni scorsi ha fatto molto rumore il dato sul differenziale di costo del lavoro tra un dipendente GM ed uno Toyota (o Nissan, o Honda) operante in impianti localizzati negli Stati Uniti. Settanta dollari orari il primo, una trentina il secondo.
In realtà, quel differenziale non deriva dal salario degli addetti alle linee di montaggio (che è sostanzialmente allineato a circa 28 dollari l’ora), bensì soprattutto dagli oneri sanitari e previdenziali che i costruttori americani sostengono a favore di propri dipendenti, pensionati e loro coniugi superstiti. Già da un paio d’anni la società si è spostata dagli onerosi piani pensionistici a prestazioni definite ai cosiddetti 401(k), dove il rischio grava interamente sul lavoratore, in caso di andamenti sfavorevoli di mercato.
Anche sui piani sanitari, in attesa del loro ridisegno complessivo per mano dell’Amministrazione Obama, le aziende statunitensi hanno tentato di contenere i costi, con aumento di franchigia e della quota di compartecipazione alla spesa da parte dell’assicurato. Ma per i costruttori di auto lo squilibrio è rimasto e si è aggravato, a causa di grossolani errori strategici, e di un forte legame con il potere politico.
Un dato su tutti: tra il 1998 e il 2007 General Motors ha investito nel proprio core business 310 miliardi di dollari; nel corso di questo periodo l’ammortamento degli impianti è stato pari a 128 miliardi di dollari; il che significa che, nell’ultimo decennio, 182 miliardi di dollari di capitale netto sono stati pompati in GM, circa 1,5 miliardi di dollari al mese.
Per Ford i dati sono simili: 155 miliardi di investimento lordo, 8 miliardi di ammortamenti. Alla fine del 1998, la capitalizzazione di mercato di GM era di 46 miliardi di dollari, quella di Ford di 71 miliardi. Oggi le due società sono sull’orlo della bancarotta, le loro azioni sono ridotte a penny stocks, e saranno presto rimosse dai principali indici azionari.
Che ne è stato di questi 465 miliardi di dollari? Con quella somma, per paradosso, GM e Ford avrebbero potuto chiudere i propri impianti e trasformarsi in una holding automobilistica planetaria, comprando tutte le azioni di Honda, Nissan, Toyota e Volkswagen. Hanno invece scelto di diversificare in modo disastroso, tentato alleanze mal concepite (vedi il collasso di DaimlerChrysler e la successiva scissione nelle due società costitutive), oppure di assumere dimensioni così elefantiache da poter invocare, come sta facendo Wagoner, il solito mantra del "troppo grande per fallire", prendendo in ostaggio dipendenti, pensionati, consumatori e fisco. Che fare, quindi? Per il Congresso a maggioranza Democratica Detroit è un simbolo, quasi un feticcio: difenderne ad ogni costo la sopravvivenza potrebbe assumere un valore ideologico. E certo le stime spaventose ed interessate di una distruzione di 2,5 milioni di posti di lavoro (concentrati peraltro in alcuni stati) proprio nel momento della più grave crisi economica dagli anni Trenta, rendono difficile valutare in modo non emotivo la gestione del salvataggio.
Ma la presidenza Obama si presenta come fortemente innovativa ed intenzionata a ristrutturare l’intero paese, portandolo fuori dalle sue contraddizioni e da un modello di sviluppo che si è dimostrato insostenibile. Difficile pensare che una legge di "riconversione ecologica", magari scritta sotto dettatura di Wagoner e soci, possa risolvere il problema. Allo stesso modo, per non incorrere nella "sindrome italiana" dell’assistenzialismo improduttivo che tiene in vita aziende decotte, sarebbe forse meglio dividere i 25 miliardi di dollari di aiuti già stanziati tra tutti i 2,5 milioni di lavoratori minacciati di licenziamento: farebbero 10.000 dollari a testa.
La parte del vuoto di offerta causato dalla scomparsa di uno o due costruttori di Detroit sarebbe colmata dai produttori efficienti rimasti, come dovrebbe avvenire in un’economia di mercato degna di questo nome, ed i fondi per il salvataggio potrebbero essere destinati a supporto di welfare per chi ha perso il lavoro e deve riqualificarsi, oltre che per le comunità colpite dalla crisi.
Ma anche senza giungere a questi auspicabili "estremi", resta l’opportunità di una effettiva ristrutturazione del modello economico degli Stati Uniti in direzione di maggiore competitività globale e minore sfruttamento dei contribuenti. Un modello che potrebbe essere esportato anche da noi. Per contro, se prevarranno le vecchie logiche lobbystiche ed i protezionismi che esse portano con sé, ci attendono tempi decisamente grami.
 

Fonte - Libero Mercato

 

 

 

 

  Fugnoli: molto cash e bond a lunga scadenza

03 Dicembre 2008 01:21 MILANO - di Elena Bonanni

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Tre mesi fa era allarme inflazione, oggi l’incubo è la deflazione. Un drastico cambio di orizzonte per chi deve gestire dei risparmi. «In un certo senso le scelte d’investimento diventano più semplici: scende tutto con l’eccezione di cash e bond governativi», risponde Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank.
Dott. Fugnoli, dopo esserci preoccupati per il carovita, d’ora in avanti avremo il problema inverso? Se per deflazione intendiamo la discesa dei prezzi in assoluto, non avremo più di qualche episodio: uno di questi è stato il dato sui prezzi al consumo Usa di ottobre che indica una discesa rispetto a settembre. Resta il fatto che strutturalmente ci troviamo in un contesto incline alla deflazione che funziona da spirale negativa.
Chi deve scegliere come investire i propri risparmi cosa deve fare? In questo scenario scende il valore di tutti gli asset tranne il cash. Il denaro contante, che di solito ha un rendimento nullo, con una discesa dei prezzi del 10% vale il 10% in più in termini reali. La cosa migliore sono perciò le obbligazioni governative con tasso nominale superiore a zero o, ancora meglio, uno zero coupon.
Con quale durata? Se voglio mantenere il potere d’acquisto bastano i Bot. Se invece punto al capital gain devo scegliere durate elevate perché le scadenze lunghe equivalgono a una leva. In questo caso, quindi, meglio durate più elevate possibili, per esempio un Btp trentennale. O meglio ancora un Bund trentennale, perché nei momenti di avversione al rischio aumenta lo spread e il Btp perde terreno rispetto al Bund.
Perché è meglio uno zero coupon? Perché, per esempio, nel caso di un Btp trentennale con cedola del 5% mi trovo ogni anno un dividendo che può essere reinvestito probabilmente a tassi decrescenti, visto il contesto recessivo. Al contrario, uno zero coupon con rendimento trettennale del 5% blocca un rendimento implicito del 5% per trent’anni.
Quali sono i rischi di spostarsi ora su durate più lunghe? Non ci sono rischi elevatissimi. Potrebbe succedere che se fra qualche mese rallentasse la discesa dell’economia, risalirebbero un po’ le Borse e ci sarebbe un po’ di fuoriuscita dai bond lunghi governativi per entrare nell’azionario. Ma non è detto che i bond debbano diventare sconvenienti. Per esempio, i titoli di Stato giapponesi di lunga duration, nella situazione di deflazione che ha caratterizzato il Paese, sono stati il migliore strumento d’investimento per tutta la prima parte della crisi e poi si sono stabilizzati senza scendere. Se dalla deflazione si passasse di nuovo all’inflazione, invece, ci sarebbe il rischio di perdite in conto capitale: più tardi si vende peggio è.
Quindi come muoversi? L’esaurimento dei rischi deflazionistici e di recessione non è per domani mattina. Nella migliore ipotesi si esce fra sei mesi. È chiaro che man mano che si avvicina l’ipotizzata fine della crisi bisognerà ridurre la duration fino a portarla a zero, passando per i bond di breve, per poi tornare alle azioni. In ogni caso, ora vedo più valore nei bond europei che in quelli Usa: questi ultimi sono già più avanzati nel processo di rivalutazione.

Ma le altre asset class sono tutte da buttare? Con la deflazione scende tutto. Per chi vuole assumersi un rischio maggiore ci sono i corporate bond. Infatti, dal momento che i tassi di interesse non possono chiaramente andare sotto lo zero, se i prezzi scendessero in termini assoluti i tassi reali esploderebbero e porterebbero a un aumento dei default sul debito. Che a loro volta genererebbero altri default. Quindi i corporate vanno bene solo per una scommessa rischiosa. E comunque guarderei solo a quelli ad alto rating e ben diversificati: in questo scenario i rischi di default aumentano dove uno meno se lo aspetta.
E l’oro? È il tipico bene rifugio? L’oro ha tante anime. Un po’ segue il dollaro, un po’ l’andamento dell’economia. Si parla di bene rifugio proprio perché in genere si trova sempre un driver. Ma in deflazione è la situazione in cui ci sono meno spunti positivi. L’oro funziona quando c’è inflazione o reflazione, ossia il tentativo tramite immissione di moneta di aumentare il livello dei prezzi. Che poi è quello che stanno facendo i governi. Quindi l’oro potrebbe essere una asset su cui spostarsi successivamente. Per quanto riguarda il rafforzamento attuale del dollaro, spiega solo i movimenti di breve termine dell’oro e non quelli strutturali.
La deflazione può suggerire spunti a livello di scommesse valutarie? In momenti di crisi aumenta l’avversione al rischio. Il che significa la chiusura di operazioni di carry finanziario costruite sui dollari, ovvero in passato ci si indebitava in dollari a basso costo per investire in valute che rendevano di più. Ora il biglietto verde beneficia così di un aspetto tecnico, perché per chiudere il carry trade si comprano dollari per ripagare il debito. Questo vale anche per le altre valute che permettono di finanziarsi a tassi bassi, come franco svizzero e yen. L’aspetto tecnico in queste fasi ha una forza relativa più forte dei fondamentali. Ma non è consigliabile investire in valute solo su considerazioni tecniche: il dollaro ha potuto rafforzarsi perché gli Usa stavano migliorando la propria posizione sui conti con l’estero.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  Sabato 06 Dicembre 2008   Domenica 07 Dicembre 2008   Mercoledì 10 Dicembre 2008  
       
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  Riparto coi bond, poi di nuovo azioni

03 Dicembre 2008 00:57 NEW YORK - di David Kotok

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«Quanto può ancora peggiorare?», oppure «che altro mi può capitare?». Proviamo a rispondere a queste domande, le più frequenti dei clienti.
Tassi di interesse. Mi rifaccio a quanto accadde durante la Seconda Guerra Mondiale: il T-bill a tre mesi arrivò allo 0,75%. Il T-bond a lungo al 2%. A quei valori, la Fed assorbì l’intera offerta del Tesoro, consentendo al Paese di sopportare lo sforzo bellico. Sarà possibile fare altrettanto?
Secondo noi, i tassi del Tesoro sono già vicini a quei livelli, perciò non possono scendere ancora. Semmai i tassi a lungo potranno calare ancora solo se la Fed agirà di conseguenza, sia in maniera diretta, sia stimolando un’azione analoga delle altre banche centrali. La nostra strategia consiste nel comprare titoli indicizzati all’inflazione.
Disoccupazione Durante la crisi del ’29 un americano su quattro si trovò senza lavoro. Non è questa la situazione di oggi. Venerdì uscirà il dato Usa: sarà attorno al 7%(contro l’8% europeo) destinato a salire all’8% l’anno prossimo (il 9% nella Ue).
Non dimentichiamo che il tasso di disoccupazione tende a salire anche dopo che la recessione ha toccato il suo apice e già si palesano i sintomi della ripresa. Per questo si deve stare alla larga dal settore consumi. In aggiunta ci vorranno anni per veder ripartire l’immobiliare.
Mercato del credito. In sei settimane, dopo il crack di Lehman, è andato in fumo il 25% circa della capitalizzazione dei mercati azionari. Le perdite per i bond con un rating sono state del 10% almeno. Questo ha creato una situazione eccezionale, condizionata da spread denaro/lettera assolutamente anormali. Perciò, siamo compratori di bond, ma solo dopo un attento esame delle emissioni: la stagione dell’euforia o della fiducia nel rating è finita.

Borse. Il fondo del mercato ora sembra più solido. Ma non si sa quanto: il Pil Usa, e non solo quello, rallenta. Ma il valore aggregato delle azioni quotate è ben inferiore al Pil. Cosa che, in genere, è un’ottima occasione d’acquisto. Credo che di qui a fine anno il mercato abbia un potenziale al rialzo. Non ci sono segnali visibili di una ripresa ma è credibile che gli stimoli monetari e fiscali potranno alimentarla nel corso del 2009.
Non penso ad un periodo di deflazione di 3-5 anni. Per questo, ritengo che sia il momento di comprare, tramite Etf. Asset allocation. In genere il mix più efficiente a lungo termine prevede 70% in azioni, il resto in bond. Nell’ultimo anno non ha funzionato però né la strategia in bond che in azioni. Solo il cash e T-bond hanno guadagnato nell’era post Lehman.
Ma adesso? Abbiamo azzerato il cash per puntare al 50% in azioni (meno del range medio) e il resto in bond, per sfruttare lo spread insolitamente elevato. La grande Depressione. Chi pensa ad una riedizione della Great Depresion contesta le nostre scelte.
Io non credo ad una crisi anni Trenta per due motivi: a) quella stagione fu dominata dal protezionismo; b) allora le banche centrali strinsero i cordoni del credito. Allora ci volle l’elezione di Roosevelt, nel 1933 per cambiare politica. Oggi sono bastate un paio di settimane dopo il crack di Lehman. C’è anche chi mi chiede: «Ma non sei spaventato per l’inflazione che verrà?». Adesso no. Il problema è curare il credit crunch prima, il mercato azionario poi. Per il credit crunch si vedono già i segnali della convalescenza.
 

Fonte - Finanza&Mercati

 

 

 

 

 

 

COME PERDERE I PROPRI SOLDI E RIMANERE BEFFATI

04 Dicembre 2008 01:15 TORINO - di Marina Imberti
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In Italia, e nel mondo in generale, manca l'esercizio del controllo da parte degli Organi di Vigilanza. A partire dalla questione Argentina ai default che sono seguiti nel 2003 (citiamo i nostri di Cirio e Parmalat ma nel 2003 sono stati oltre 600 i default obbligazianari), nessuno si è preoccupato di come vengano effettuate le operazioni di investimento, di quale criterio venga adottato dalle Banche nelle proposte di investimento alla clientela.
Questo perchè dove si può "far cassa" forse sono in molti a dividere una torta golosa, sempre a danni del risparmio, che ha perso il suo valore sostanziale quale patrimonio sociale, scheletro dell'economia. Nel contezioso risparmiatori - banche, emergono solo i casi più eclatanti, tuttavia legali e magistrati tendono ad applicare la normativa civilistica, che è molto generica e spesso favorisce le Banche le quali si sottraggono così alle specifiche normative CONSOB, al TUF, e se la cavano spesso con un Pater, Ave e Gloria e con una "mancia" al risparmiatore.
La crisi in corso non può essere risolta solo con misure riparatorie e con il subentro al debito delle Banche con i soldi degli Stati, cioè con i nostri. La verità è che la globalizzazione è partita senza regole ed oggi, per uscirne davvero, il sistema internazionale VA NORMATO a tutela del risparmio, dei produttori, dei consumatori e di tutto il futuro dell'economia.
Vedo che invece le soluzioni puntano sulla stampa di moneta e sull'emissione di debito pubblico da un lato, dall'altro sull'emissione di prestiti obbligazionari di Banche e sul premio alla liquidità che le banche sono disposte a pagare, illudendo il risparmio tradito con un alto rendimento a discapito della considerazione del rischio.
Sono rimasta basita nel vedere che la CONSOB ieri metteva la parola fine all'essenzialità del rating sull'emissione di nuovi prestiti obbligazionari. E' ben vero che il rating "drogato", "venduto" è una pessima informazione. Tuttavia il toglierne l'essenzialità NON E' la corretta soluzione al problema. E' come dire che in un mondo di ladri si deve depenalizzare il furto!
Si tenga presente che tutta l'economia è retta e supportata dal sistema bancario, attraverso il quale transita l'operatività più consistente dell'industria produttiva. Il controllo sulle banche è un controllo diretto su tutta l'economia. Il deprezzamento delle azioni bancarie, atto a produrre una forte sottocapitalizzazione in un momento di forte indebitamento, mette in crisi i bilanci pubblici dei Governi che, nonostante le dichiarazioni di intenti, si troveranno ad affrrontare gravi difficoltà negli anni futuri.
NESSUNO pensa che questa situazione sia stata provocata ad arte per mettere in fibrillazione il sistema bancario, per eseguire in un prossimo futuro quella "spesa" al prezzo delle patate che consentirà il controllo globale attraverso le banche, e quindi il controllo del sistema? Signori: i parametri di Maastricht andranno spostati, l'Europa non ha un riconoscimento giuridico, è un unione monetaria che rischia veramente di dare il giro!
Se vuoi scrivere un commento su questo intervento o sulla questione delle fallimentari polizze Index legate alle banche islandesi clicca qui.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 

 

  Guadagnare con la deflazione

04 Dicembre 2008 01:31 MILANO - di Jacopo Dettoni

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«Deflazione: che non accada qui!». Si intitola così un vecchio discorso di Ben Bernanke sul rischio di una spirale ribassista dei prezzi. Correva l’anno 2002. Ironia della sorte, Bernanke, che nel frattempo è passato da governatore «semplice» a presidente della Fed, combatte oggi contro lo stesso spauracchio. Con una sola differenza: allora si trattava di un esercizio teorico da emerito professore, adesso è in ballo lo stato di salute dell’economia Usa. Sì, perché la deflazione è già realtà. E nei numeri si intravedono le prime pericolose conferme.
Gli indizi lasciati sul campo dallo stesso Bernanke sono comunque molto espliciti: la Federal Reserve sta seguendo con precisione le indicazioni che il suo presidente in pectore, proprio nel novembre 2002, descriveva nel paragrafo «Curare la deflazione». In soli sei mesi si è dunque passati dal rischio di perdere il controllo dell’inflazione al problema opposto: lo sboom delle materie prime, unitamente al rallentamento dell’economia globale, sta provocando un avvitamento verso il basso dei prezzi, dalle tinte ancora fosche ma inconfondibili. Muta lo scenario, mutano le strategie di investimento. L’ipotesi deflazione mette fuori gioco azioni e commodity, mentre accresce l’appeal di reddito fisso e cash.
Caso per caso, è tuttavia opportuno fare dei distinguo. I gestori obbligazionari preferiscono titoli governativi ai corporate. Dal canto loro, i forex strategist puntano su dollaro e yen, mentre il destino dell’euro è controverso. E se proprio si cerca l’equity, meglio rimanere lontani da ciclici e small cap. I dubbi tuttavia non mancano. Per alcuni la deflazione sarà solo un fenomeno temporaneo destinato a svanire già dal 2010. Per altri si affermerà invece come un fenomeno strutturale.

MINACCIA GIAPPONESE. Del resto, il virus della deflazione è il più temuto dai mercati finanziari. Per osservare i sintomi basta tornare al «lost decade», al decennio perduto del Giappone: crescita piatta, disoccupazione e stress finanziario. Il tutto propiziato da una calo generalizzato e duraturo dei prezzi al consumo: dal 1995 al 2005 il tasso d’inflazione si è mantenuto costantemente al di sotto dello zero. Corriamo dunque lo stesso rischio?
A detta della Cassandra più autorevole del momento, quel Nouriel Roubini che finora non ne ha sbagliata una, la risposta è sì. «Vista la severa recessione globale - scrive Roubini dalle colonne del suo Rge Monitor - la deflazione sarà presto realtà negli Stati Uniti, in Giappone, in Svizzera, nel Regno Unito e anche nell’Eurozona». Le ragioni? «Il crollo della domanda globale - precisa Roubini - ridurrà il prezzo di beni e servizi nonché quello delle materie prime, mentre la crescente disoccupazione allevierà le pressioni sul fronte salariale».
Risultato: un calo generale dei prezzi, appunto. In questo scenario, tutte le asset class sono destinate a soffrire, eccezion fatta per cash e reddito fisso. Il perché è presto detto: in deflazione, i tassi reali d’interesse tendono a crescere. Molto semplicemente: se i prezzi scendono a un tasso del 2% annuo, possedere un bond che rende il 4% significa portare a casa un rendimento netto del 6 per cento. Questo vale per le scadenze più brevi e ancora di più per quelle più lunghe. A questo punto è però importante non fare di tutta l’erba un fascio. Di fronte a tassi reali crescenti, i debitori vedono aggravarsi nel tempo l’onere del loro debito e così aumenta il rischio di default. Un rischio che oggi, viste le limitate possibilità di rifinanziamento, è quanto mai concreto. Sarebbe allora un azzardo farsi ingolosire dai tassi reali crescenti, soprattutto parlando di corporate bond.

CIAMBELLA DI SALVATAGGIO. «Sui titoli governativi - spiega Emanuele Ravano, condirettore per l’Europa delle strategie Pimco - crediamo che la scadenza più interessante sia quella a cinque anni. Questo perché le banche centrali non solo dovranno abbassare, e di molto, i tassi di riferimento. Dovranno anche impegnarsi pubblicamente a non alzarli per due o tre anni». A questo proposito, il citato discorso del 2002 di Bernanke non lascia adito a dubbi: «Una volta che i tassi di riferimento sono già stati azzerati, come si può fare per stimolare un calo dei tassi a lungo termine (necessario per riattivare la domanda aggregata, ndr)? Una strada è quella di impegnarsi pubblicamente e in modo credibile a mantenere i tassi a zero per un prefissato periodo di tempo».
Come dimostrano le parole di Ravano, il mercato sembra aver già interiorizzato questa strategia. Negli Usa i future scommettono su Fed Funds allo 0,50% entro fine anno, livello dal quale non dovrebbero muoversi fino alla seconda metà del 2009. Nuovi e duraturi tagli arriveranno anche in Europa: gli economisti si attendono che la Bce riduca il costo del denaro dall’attuale 3,25% all’1,75% e lo mantenga invariato per almeno sei mesi; la Bank of England dovrebbe invece agire più rapidamente, con i tassi che sono attesi all’1,50% - al momento sono al 3% - già dai primi mesi del 2009, per poi rimanere invariati per buona parte del 2009 stesso.
«D’altra parte - aggiunge Ravano - ad andare sulle scadenze più lunghe si corre il rischio d’incappare nel problema opposto: l’inflazione. Questo perché, se i governi avranno successo nel rilanciare l’economia, i prezzi torneranno a crescere». Insomma, scadenze lunghe, ma pronti a cambiare cavallo. Per Nicola Pegoraro, responsabile investimenti di Carige Am, le scadenze più lunghe presentano anche un’altra incognita: «È inevitabile che i grandi programmi di spesa pubblica varati per rilanciare l’economia metteranno pressione sui titoli a lungo termine. Soprattutto negli Usa, dove per forza di cose i volumi di emissione saranno notevolissimi». Sciolto il nodo dell’orizzonte temporale, rimane da vedere se un governativo vale l’altro o se, invece, è meglio ragionarci sopra.
«In Eurozona - precisa Ravano - la deflazione rischia di aumentare le divergenze nella performance economica dei vari Paesi membri. Non è un segreto quanto la situazione debitoria e il grado di produttività varino da caso a caso. Credo dunque che verranno penalizzati i Paesi meno competitivi, come l’Italia, a scapito di quelli meglio posizionati, come la Germania. Lo spread tra i governativi in euro è quindi destinato a crescere ancora. Riguardo invece ai Treasury, il recente rally dimostra quanto gli operatori abbiano preso atto dell’impegno della Fed contro la deflazione. Inoltre, una delle possibili misure che devono ancora essere adottate riguarda proprio l’acquisto da parte del Tesoro stesso di Treasury, così da appiattire ulteriormente la curva dei tassi».
Pegoraro crede invece che la situazione in Eurozona offra spunti diversi: «Ci sono Paesi che sono stati estremamente penalizzati. L’Italia è tra questi. Basta guardare allo spread sul decennale: il Btp rende il 4,45%, mentre il Bund il 3,25 per cento. Credo sia esagerato, infatti non vedo un rischio di esplosione del caso italiano. Non si dimentichi che rimaniamo tra i Paesi meno toccati dalla crisi, perlomeno nel comparto finanziario».
C’è invece accordo sul rischio implicito nei corporate bond. «Compriamo solo quelli su cui è stata apposta una garanzia pubblica esplicita (banche a grandi istituzioni finanziarie) o implicita (General Electric)», spiega Ravano: «Per il resto, meglio non tentare di speculare sulla recessione». «Siamo di fronte a un tipo di rischio imprevedibile e difficilmente diversificabile», aggiunge Pegoraro: «Un piccolo portafoglio fai-da-te rischia di avere effetti disastrosi. È allora preferibile rimanere sul mercato con l’investimento in fondi obbligazionari».

CASH E VALUTE. Chi non vuole prendere rischi sul mercato obbligazionario può sempre rimanere liquido. Anche in questo caso, a maggior ragione al cospetto di uno scenario deflazionistico, occorre procedere con senno. «La Bce sarà costretta a tagliare ancora i tassi», spiega Roberto Mialich, Forex strategist di Unicredit: «L’euro potrà dunque soffrire ancora. In particolare, credo che difficilmente l’euro-dollaro potrà evitare un nuovo calo. Lo vedo intorno a quota 1,15. Sugli altri cambi lo scenario è più complicato. Lo yen mi sembra privilegiato per il continuo smantellamento di posizioni di carry trade. Il rapporto con la sterlina potrebbe invece rimanere stabile, se non addirittura apprezzarsi, perché i problemi dell’economia britannica rischiano di essere più seri di quelli in Europa. Le monete ruggenti degli esportatori di materie prime – Australia, Nuova Zelanda, Canada, Norvegia – dovrebbero infine perdere nuovo terrreno perché le quotazioni delle commodity sono stimate in continuo calo».
Si tratta comunque di uno scenario che prende forma sull’ipotesi di una deflazione moderata e confinata al solo 2009. Qualora invece si rivelasse strutturale, verrebbe tutto ribaltato. «In un caso estremo - continua Mialich - la Bce dovrà abbassare i tassi al massimo: floor al 2%, ma non escludo sorprese, e tenerli lì per molto tempo. A quel punto l’euro rischierebbe di essere percepito come funding currency su movimenti di carry trade e perderebbe terreno anche sulle monete degli esportatori di materie prime».
A parte bond e cash, se deflazione sarà, tutte le altre asset class ne faranno le spese. «In deflazione - interviene Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - anno bene solo le società che continuano a fare ricavi piuttosto che utili. Sono i ricavi la variabile che ci può indicare se l’azienda terrà meglio». È comunque scettica sull’ipotesi di fondo Manuela Maccia, strategist di Bnp Paribas: «I prezzi di alcune asset class caleranno, ma non credo che questo calo sarà generale e duraturo. Detto questo, chi voglia esporsi all’attuale volatilità del mercato azionario, lo faccia con un approccio value, privilegiando titoli anti-ciclici e large cap».
Che dire infine delle commodity? «Le quotazioni dell’oro - risponde Michael Palatiello di Wings Partners - potranno contare sulla sua natura di bene rifugio. Anche le soft commodity, soprattutto quelle legate alla produzione di biocarburanti, come i semi di soia, stanno tenendo. Il petrolio invece potrebbe scendere ancora. Ma prevedo che entro un paio d’anni possa tornare sui 120 dollari al barile. Anche perché, oltre a una possibile ripresa della domanda, la capacità produttiva soffrirà del blocco completo dei progetti di esplorazione al quale stiamo assistendo».
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

  Sabato 13 Dicembre 2008   Martedì 16 Dicembre 2008   Mercoledì 17 Dicembre 2008  
       
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  Saldi di fine stagione

08 Dicembre 2008 22:28 MILANO - di Max Malandra

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Sono bastati pochi mesi per ribaltare l’indole dei banchieri centrali di tutto il mondo. Pochi mesi nei quali l’inflazione si è rivelata solo uno spauracchio, mentre la recessione è diventata realtà. E così gli inflessibili falchi si sono riscoperti docili colombi. Una mutazione che non ha risparmiato i puri, nelle voliere dell’Eurotower. Con il taglio senza precedenti di giovedì scorso - 75 punti base - Jean Claude Trichet e soci si sono lasciati alle spalle anni di proclami contro l’inflazione e hanno inaugurato, anche in eurozona, la nuova fase di politica monetaria: i tassi scenderanno ancora - a detta di molti sotto del 2% - e rimanere fermi a lungo.
È quanto il mercato dei bond governativi già suggerisce. Del resto, che sulle scadenze brevi i rendimenti si muovessero all’unisono dopo le mosse delle Banche centrali era prevedibile. Ma che i rendimenti dei titoli decennali, o addirittura trentennali, facessero altrettanto sembrava un azzardo. Eppure, negli Usa, come in Gran Bretagna e in Germania, la remunerazione dei governativi a dieci anni è sui minimi dal secondo dopoguerra. Insomma, se non è una bolla poco ci manca.
Il punto è che gli investitori non vogliono correre rischi. A parte fidarsi di alcuni Stati. A farne le spese è stato il mercato dei corporate bond: la scarsa domanda ha affossato anche i prezzi dei titoli di maggior qualità e scadenze ravvicinate. La differenza di rendimento tra societari e governativi si è dunque allargata a dismisura, portando alla luce opportunità che, anche di questi tempi, allettano chi ha più fegato.

LA CRISI. Era un mercato molto liquido. «Era»: perché negli ultimi due o tre mesi la crisi di liquidità ha volatilizzato gli operatori, rarefatto i flussi, allargato gli spread. «Abbiamo assistito a una vera e propria fuga verso la qualità, che ha portato all’abbandono del comparto corporate a favore dei governativi - conferma Francesca Cerminara, gestore obbligazionario di Zenit Sgr - E anche su quei bond societari ancora scambiati, gli spread si sono allargati a dismisura».
Un differenziale che vale sia in termini di ampiezza fra denaro e lettera sui book di negoziazione, sia in generale come maggior rendimento richiesto rispetto alle obbligazioni governative. «In pratica questo aumento di spread sconta non un normale rischio specifico che caratterizza singole società o singoli settori, ma piuttosto un rischio sistemico che coinvolge tutto il debito corporate - spiega Cerminara - È evidente che siamo in una fase di fortissimo pessimismo, che potrebbe durare ancora per un po’ di tempo, ma è altrettanto vero che forse stiamo scontando un disfattismo probabilmente eccessivo: il mondo non dovrebbe finire nei prossimi due anni. Non ci saranno miglioramenti per ancora un anno minimo, ma poi la situazione dovrebbe tornare a normalizzarsi».

LIQUIDITÀ E REPRICING. Intanto negli ultimi 12 mesi si è capito qual è l’asset più prezioso al momento: la liquidità. «Tuttavia le continue manovre espansive delle Banche Centrali stanno riducendo i rendimenti dei tassi monetari - ribatte Adam Cordery, gestore obbligazionario di Schroders - I conti di deposito saranno sempre meno remunerati e questo costituirà un altro buon motivo per investire in bond corporate». E il prossimo anno la richiesta di denaro da parte delle imprese sarà ingente in quanto sono attesi in scadenza parecchi bond e prestiti bancari: con rendimenti richiesti ben superiori a quelli in scadenza. Ecco perché parecchie società, da Eni a Finmeccanica, da E.On a Bmw e Centrica, nelle ultime settimane si sono affacciate sul mercato primario.
«È stata una finestra importante per vari motivi - spiega Corrado Capacci, gestore di Compam Fund Sicav - Innanzitutto per i rendimenti che sono decisamente interessanti. In secondo luogo perché si è dato luogo al cosiddetto repricing. In pratica le nuove emissioni hanno fornito la misura reale di quel che si attende il mercato dai vari settori in termini di rendimento». Meglio quindi puntare su primario o sul secondario?
«Non esiste una risposta univoca - spiega Capacci - Il primario ha il vantaggio di assegnare un prezzo fisso e certo, mentre sul secondario gli spread, specialmente negli ultimi tempi so6no molto ampi. D’altra parte molte società per accelerare i tempi e ridurre i costi preferiscono rivolgersi solo al mercato degli istituzionali e non al pubblico retail, fatto che richiederebbe una serie di adempimenti normativi più stringenti».
Tuttavia il mercato appare estremamente interessante dal punto di vista dell’investitore: «Gli attuali rendimenti illustrano molto bene perché siamo così positivi su questa asset class - interviene Cordery - Il mercato stima livelli di negatività come probabilmente nel 1929, ma non mi sembra questo il caso. Una recessione è sicura, ma salvo rari casi detenere obbligazioni sarà molto redditizio. Puntando, per chi ha un profilo di rischio più elevato, anche sugli high yield. Magari non direttamente ma attraverso fondi di investimento, che quantomeno possono diversificare il rischio specifico, trattenendo solo quello sistemico».

SCEGLIERE I BOND. Ci sono quindi almeno tre passaggi per selezionare un bond. Naturalmente è meglio sceglierli in euro per evitare rischi sul versante valutario. Innanzitutto si può puntare sul mercato primario acquistando prestiti obbligazionari in sottoscrizione, ma la strada, come visto, è spesso sbarrata al risparmiatore privato. In questo caso è meglio allora dirigersi sul mercato secondario guardando a quei settori che di recente sono già stati oggetto di nuove emissioni. E poi alla liquidità dei titoli.
«Occorre fare attenzione sia ai quantitativi scambiati sia allo spread fra proposte in acquisto e in vendita per evitare che una buona parte del rendimento venga mangiata da un’operazione di acquisto mal eseguita - mette in guardia Francesca Cerminara - In ogni caso non è un mercato adatto a chi vuole fare trading sull’obbligazionario proprio a causa degli spread, decisamente troppo ampi: occorre investire cifre di cui non si ha necessità, in quanto il rendimento migliore lo si ottiene portando a scadenza i bond». Infine il terzo passaggio è quello della scelta del comparto di riferimento.
«Meglio puntare sulle utility e, per chi ha un profilo di rischio più aggressivo, anche sulle auto - consiglia Francesca Cerminara - Le prime viaggiano in media con un rendimento di 300 punti base superiore ai governativi, le altre sui 600 basis point. A metà strada si situano le tlc, che garantiscono uno yield del 4% superiore ai titoli di Stato; in questo caso, però, sarebbe meglio aspettare che le nuove emissioni provvedano a far valere il fenomeno del repricing anche sui bond quotati». E le possibilità sono innumerevoli, visto che obbligazioni in euro vengono regolarmente emesse anche da società europee e statunitensi, da British Telecom a National Grid, da Bat a Imperial Tobacco e Ge.
Infine la grande incognita del settore bancario? Vale la pena farci un pensierino? «A mio parere sì - conclude Francesca Cerminara - offre un extra rendimento di circa 200 punti base e gode di una sorta di garanzia implicita da parte degli Stati. Unica accortezza è scegliere prestiti obbligazionari con scadenza 2-3 anni e soprattutto non subordinati».

OCCASIONI SPECULATIVE. Sul mercato secondario si possono trovare bond per qualunque profilo di rischio, dai più sicuri (ad esempio le emissioni Bei) ai più rischiosi. Ma anche all’interno della categoria investment grade le occasioni speculative non mancano. «Un esempio molto significativo è il bond Fiat febbraio 2013 cedola 6,625% - spiega Capacci - Attualmente passa di mano a 70: considerando le cedole e il rimborso a 100, il rendimento complessivo è del 90%, quello annuo a scadenza supera il 17 per cento. Lo consiglierei a un investitore con un profilo di rischio abbastanza alto, nonostante il rating S&P sia ancora investment grade (è BBB-, ndr). Certo, ci si assume il rischio di entrare in un comparto nel bel mezzo di una crisi - conclude Capacci - ma perché si arrivi al default dell’obbligazione occorre assumere che fallisca la più grande azienda italiana».
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

 

JULIUS BAER, UNA MORTE IMPROVVISA AL TOP

08 Dicembre 2008 08:08 NEW YORK - di WSI
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Alex Widmer, Ceo della piu' grande banca privata svizzera, è deceduto improvvisamente. La notizia ha dato la stura a rumors insistenti che parlano di suicidio.
Alex Widmer, chief executive di Bank Julius Baer, una figura di assoluta prominenza nel settore bancario svizzero e mondiale, e' morto improvvisamente all'eta' di 52 anni, si legge in un comunicato di Julius Baer. Secondo una fonte interpellata da Reuters amici vicini alla famiglia di Widmer hanno detto che il banchiere si sarebbe suicidato.
Diversi siti web svizzeri tra cui 20 Minuten hanno citato due fonti anonime indipendenti che hanno confermato si sarebbe trattato di un caso di suicidio. La polizia elvetica si e' rifiutata di fare commenti sulla morte di Widmer.
Julius Baer, la piu' grande banca della Svizzera specializzata in "wealth management", con radici che risalgono al 19esimo secolo, ha il suo quartier generale a Zurigo e gestisce oltre $300 miliardi in assets per facoltosi investitori privati e istituzionali.
Un portavoce della banca ha detto che non c'e' alcun legame tra la morte di Widmer e le attivita' correnti del gruppo finanziario, pur declinando di fornire ulteriori informazioni sulle cause dell'improvviso decesso del banchiere, specificando che si tratta di una questione privata.
Il successore di Widmer sara' Hans de Gier, ex Ceo di Julius Baer Group fino al settembre 2008, quando lascio' l'incarico per concentrasi sul suo ruolo di chairman dell'hedge fund GAM. Si tratta di una scelta interna che potrebbe diventare permanente, visto che de Gier conosce molto bene Julius Baer ed e' cittadino svizzero.
Il titolo Julius Baer ha perso circa -60% nel 2008, per le preoccupazioni del mercato relative al deflusso di capitali dall'hedge fund GAM, in forte accelerazione soprattutto in ottobre. Secondo Reuters Julius Baer ha negato i rumors che darebbero per imminente una vendita del fondo GAM in una fase di obbligatoria ristrutturazione nella quale il focus strategico della banca ricadrebbe ancora una volta sul "wealth management". Si tratta infatti del settore che in tempi recenti ha registrato i maggiori progressi, soprattutto grazie ai problemi dell'acerrima rivale UBS, alle prese con la giustizia Usa e con una ricapitalizzazione da parte del governo elvetico, dopo maxiperdite di decine di miliardi.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

MARCHIONNE DRACONIANO

08 Dicembre 2008 13:04 MILANO - di Corsera
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Il mondo dell'auto potrebbe venire trasformato dalla crisi economica come mai prima d'ora. «La nostra strategia delle alleanze industriali mirate era un metodo per arrivare a un certo tipo di aggregazione. Ma vista la situazione dei mercati e quel che ci aspetta in futuro, quanto fatto finora non basta. Per fare soldi bisogna produrre almeno 5,5-6 milioni di veicoli all'anno. È quindi necessario fare delle aggregazioni, in un modo o in un altro» sottolinea l'amministratore delegato del Gruppo Fiat Sergio Marchionne in una intervista pubblicata oggi sul quindicinale dell'industria dell'auto «Automotive News Europe».
LA NUOVA PROSPETTIVA - Marchionne definisce la sua visione «molto draconiana» ma a suo avviso «al termine di questo ciclo di crisi, diciamo tra 24 mesi, resteranno i seguenti protagonisti indipendenti: un costruttore americano, uno tedesco, uno europeo-giapponese con una significativa estensione negli Stati Uniti, uno giapponese, uno cinese e un altro potenziale europeo». «I Wal-Mart del mondo dell'auto (la più grande catena di supermercati del mondo che vende prodotti a basso costo ndr), e Fiat Group Automobiles è uno di questi, devono convenire che in futuro - dice - sarà richiesto un nuovo modello di business, ben diverso da quello attuale, dove l'indipendenza non è più sostenibile. Visti i livelli degli investimenti richiesti per lanciare nuovi modelli, non è pensabile che tutti gli attuali protagonisti del settore conservino la loro indipendenza».
NUOVI MODELLI - Nell'intervista Marchionne sottolinea infine che sta lavorando per «fare in modo che Fiat Group Automobiles sia al sicuro perchè ha buoni marchi e un buon management». «Sto tirando i freni su tutto - ha sottolineato Marchionne - sto tirando i freni su nuovi modelli il cui sviluppo non è ancora arrivato all'80% o al 90%. La nuova Alfa 147 uscirà sul mercato, questo è sicuro, ma se mi chiedete se investirò in un nuovo Suv per l'Alfa la risposta è no».
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

STAMPA ALLA CORDE, FALLISCE IL GRUPPO TRIBUNE

08 Dicembre 2008 20:34 NEW YORK - di La Repubblica
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E' ufficiale. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l'accesso alle procedure di in bancarotta a fronte di debiti per 13 miliardi di dollari. Lo ha reso noto la testata capofila sul suo sito web.
La società acquistata nel dicembre 2007 per 8 miliardi di dollari dal magnate immobiliare Sam Zell, ha assunto gli esperti della società Lazard, per ricorrere agli strumenti previsti dalle leggi sulla bancarotta per proteggersi dai creditori. Il gruppo ha già messo in vendita la squadra di baseball dei Chicago Cubs e ha già venduto il quotidiano newyorkese Newsday. Le voci sul possibile ricorso della Tribune Co. alle procedure previste dal cosiddetto Chapter 11 erano circolate nel fine settimana, dopo che nella sede di Chicago erano arrivati consulenti della Lazard.
Ma il gruppo Tribune non è il solo in cattive acque. E' sempre più crisi per la stampa americana che deve fare i conti con il calo della pubblicità e delle vendite. Più del 20 per cento del settore editoriale ha problemi finanziari, secondo le stime del Wall Street Journal, e il calo del 15 per cento della pubblicità (cartacea e online) registrato dal settore nei primi nove mesi dell'anno non sembra solo il frutto della recessione.
Gli analisti vedono una crisi strutturale e si aspettano una riorganizzazione complessiva, con fusioni, tagli e scelte dolorose. I media americani sono considerati da Wall Street ancora troppo frammentati: l'editore più potente, Gannet (UsaToday), controlla per esempio il 13,6 per cento della circolazione dei quotidiani e gli esperti vedono spazio per accorpamenti. Non manca chi ipotizza per i media piani di salvataggio simili a quelli per i quali Detroit sta battendo cassa in Congresso, ma è una possibilità che appare lontana. Nel frattempo, di fronte all'emergenza, ogni gruppo tenta la propria strada.
Il New York Times ha deciso di accendere un ipoteca sulla nuova nuova sede realizzata da Renzo Piano. Il Nyt, che controlla anche il Boston Globe oltre all'International Herald Tribune, ha reso noto sul proprio sito di voler di ipotecare la propria per raccogliere 225 milioni di dollari di liquidità.
Il gruppo, che in realtà possiede solo il 58% del grattacielo di 52 piani sulla Ottava Avenue completato nel novembre del 2007, deve far fronte a due linee di credito di 400 milioni ciascuna. Di queste, una scadrà a maggio. Recentemente l'agenzia di rating Standard & Poor's ha abbassato la valutazione sulla solidità del gruppo e Moody's si prepara a fare altrettanto. Dall'inizio dell'anno il titolo del Nyt ha perso oltre metà del suo valore.
In Florida un altro gigante dei media, McClatchy, terzo gruppo editoriale degli Usa forte di 30 quotidiani, secondo indiscrezioni cerca acquirenti per il Miami Herald, offrendo non solo il quotidiano, ma anche il patrimonio immobiliare che lo accompagna, a partire dalla sede del giornale affacciata sull' Oceano. L'Herald, che ha una diffusione media di 210.000 copie, ha vinto 19 premi Pulitzer: un'ulteriore conferma che la qualità non è una garanzia contro il fallimento.
Ma la crisi offre anche nuove opportunità a chi resta solido. La Cnn, reduce da una stagione elettorale che l'ha vista regina degli ascolti, con conseguente aumento dei profitti pubblicitari. Il network fondato da Ted Turner nei giorni scorsi ha lanciato una sfida alla Associated Press e alla sua redazione planetaria (4.000 giornalisti sparsi in 243 uffici in 97 paesi del mondo). La CNN si offrirà come agenzia di stampa a basso costo ai giornali che ritengono l'abbonamento alla AP troppo costoso.
Nello stesso tempo, però, la stessa Cnn sta tagliando: ha fatto rumore nel mondo dei media americani l'annuncio che verrà cancellata l'intera redazione scienza e ambiente, compreso il responsabile Miles O'Brien, un veterano della CNN e uno dei volti più noti del network.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

CRISI: LA SCANDALOSA AIG CONTINUA A PERDERE SOLDI

10 Dicembre 2008 17:02 NEW YORK - di ANSA
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E' indecente la gestione dei fondi da parte del gruppo assicurativo salvato in extremis dal governo Usa con un' iniezione da $150 miliardi. La societa' ha perso altri $10 miliardi in trading speculativo.
Il gruppo assicurativo American International Group deve alle grosse banche d’investimento di Wall Street un ammontare pari a $10 miliardi legato ad operazioni di trading speculativo.
Il debito non e’ dovuto a contratti stipulati per la protezione degli asset detenuti dalle banche o da altri investitori contro il rischio di default, bensi’ ad investimenti indipendenti dall’attivita’ di assicurazione della societa’, scoperti essere scommesse su derivati legati ai mercati dei mutui subprime, dell’immobiliare e dei corporate bonds.
Tale debito non e’ ricoperto dai fondi governativi ricevuti nei giorni scorsi e gia’ utilizzati per ricoprire le perdite sui CDO (Collaterilized Debt Obligation – Obbligazioni Correlate al Debito), creando cosi’ un nuovo allarme di liquidita’ per il gruppo che continua ad operare in una situazione disastrata.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

ALERT MERCATO ORSO: CALO TERRIFICANTE SU AZIONARIO

10 Dicembre 2008 20:19 NEW YORK - di ANSA
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A sostenerlo e' lo strategist Russell Napier che gia' nel 2002 aveva previsto l'impennata del greggio. Il tremendo ribasso fino al punto di 'bottom' (fondo) potrebbe spingere l'indice S&P500 a...
I mercati azionari globali potrebbero essere soggetti ad un ulteriore, terrificante crollo, secondo lo strategist di CLSA, Russell Napier, che e’ giunto a tale conclusione analizzando la teoria della Q di Tobin. Questa (che prende il nome dal premio Nobel per l’economia James Tobin) mette a confronto il valore di mercato delle aziende con il costo delle rispettive parti costituenti, riuscendo cosi’ a misurare la differenza tra il capitale desiderato e quello effettivamente posseduto.
Il rapporto mostra che l’indice S&P500 tratta ancora a livelli troppo elevati in relazione al costo di sostituzione degli asset: sebbene il calo del 40% dai recenti massimi abbia spinto il listino al di sotto del livello di riferimento, la storia insegna che e’ necessaria un’ulteriore contrazione che tenga conto della deflazione. Attenzione!!! Questo potrebbe significare un proseguimento del ribasso per l’S&P500 pari a -55% dagli attuali livelli, fino in area 400 entro il 2014.
Napier afferma: "la Q e’ scesa sui livelli medi, tuttavia non sempre trova supporto in tale area. Solitamente continua a scendere al di sotto nelle lunghe fasi di mercato orso".
In riferimento all’azionario statunitense essa e’ scesa a 0.7 punti dal picco di 2.9 toccato nel 1999; un valore di 0.3 ha sempre segnalato la fine del trend ribassista. Cio’ e’ accaduto nelle fasi di mercato orso del 1921, ’32, ’49 e ’82. Napier non ha dubbi: la storia si ripetera’.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Analisi; hedge 2009, voglia di riscossa contro sfiducia privati

11 Dicembre 2008 14:44 - di Reuters

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Dopo il terremoto dei mercati finanziari e l'ondata di riscatti di quest'anno, l'industria dei fondi hedge si affaccia al 2009 con più vincoli all'uso della leva, ma meno concorrenti e quindi maggiori opportunità. Ne sono convinti alcuni protagonisti del settore presenti in Italia, fiduciosi che l'industria saprà fare fronte alla riluttanza della clientela privata a impegnarsi nuovamente in investimenti illiquidi. "All'inizio sicuramente il 2009 avrà strascichi del 2008", ha detto a Reuters Michele Pacciana, responsabile per l'Italia della leader mondiale quotata del settore Man Investments (Man Group). "Il mercato deve trovare un equilibrio nuovo, ma le opportunità sono ampiamente superiori a quelle che abbiamo mai visto negli ultimi 4-5 anni", aggiunge il manager, che si aspetta buone performance dalle strategie convertible arbitrage, equity market neutral, managed futures e global macro. In un mercato che è in generale meno "affollato", il consigliere di amministrazione di Hedge Invest SGR, Stefano Bestetti, sottolinea la scomparsa delle banche di investimento. "E' questo il fatto epocale, erano loro i competitor formidabili dei fondi hedge perché facevano le loro stesse strategie con un uso della leva impressionante", sottolinea. Ora, "essendoci meno player, le strategie più dipendenti dall'uso della leva come quelle 'relative value' potranno anche funzionare con una leva più bassa", spiega Bestetti. Anche la strategia più in voga tra i gestori italiani, la long/short equity, dovrebbe regalare soddisfazioni. "Questo è un mercato che non si vede dagli anni '90: è un mercato da stock pickers", afferma Massimo Maurelli, presidente di AIMA (associazione dei gestori alternativi) in Italia, ottimista anche per la strategia convertible arbitrage. Ma Pacciana avverte: "Perché il long/short vada bene il deleveraging deve essere finito, non ci devono essere condizioni di panico e divieti sullo short selling". In Italia, in particolare, non è possibile "andare corti" su nessun titolo a Piazza Affari fino al 31 dicembre, ma alcuni protagonisti dell'industria temono che il divieto possa essere prorogato.

PERDITE INFERIORI AL MERCATO MA CLIENTELA PRIVATA SPAVENTATA Tartassati dai riscatti e rimasti in molti casi di colpo senza prime broker, alla fine i fondi speculativi, secondo gli addetti all'industria, hanno retto bene ai contraccolpi. "Gli hedge stanno dimostrando di reggere meglio delle banche e credo che il loro peso sia infinitesimale rispetto alla potenza di fuoco delle banche con i loro book pieni di titoli tossici", sottolinea Carlo Gentili, co-fondatore di Nextam Partners. Ma in futuro, avverte un banchiere, i vincoli di lock-up tipici degli hedge potrebbero essere un decisivo deterrente per i sottoscrittori, almeno per quelli privati. "Il problema grosso è l'illiquidità dell'investimento", sottolinea il banchiere, che ha chiesto di restare anonimo. "Con un ordine di vendere dato oggi esci al Nav di 3 mesi dopo". Da inizio anno gli hedge in Italia hanno perso oltre 6 miliardi di euro, secondo i dati provvisori a fine novembre di Assogestioni. Secondo Gentili, il decreto del governo che disciplina i riscatti di questi fondi suona un campanello di allarme e chiama ad un ripensamento in particolare di quei fondi di fondi che ora si scoprono investiti in prodotti estremamente illiquidi, tanto da avere difficoltà nei rimborsi. La speranza di Gentili è che "il provvedimento governativo non venga utilizzato dai fondi di fondi italiani che per loro natura si sono sempre dichiarati conservativi".

RIPENSARE LA COMMERCIALIZZAZIONE DEGLI HEDGE Per Maurelli, il problema "nasce dalla clientela soprattutto privata che non è informata o che non ha capito e che quindi, presa dal panico, sta uscendo o sta cercando di farlo", spiega, dicendosi favorevole ad un aumento di trasparenza e informazione. In sintonia Bestetti, secondo il quale l'industria deve ripensarsi solo a livello di commercializzazione dei prodotti, evitando la clientela retail ma dimezzando l'attuale soglia minima di investimento di 500.000 euro. I fondi hedge "devono essere presentati come strumenti di medio termine capaci di preservare dai momenti difficili del mercato ma non si può chiedere, nell'anno peggiore dal 1929, di avere rendimenti positivi", sottolinea il consigliere di Hedge Invest. Il settore hedge che sopravviverà alla crisi, secondo Maurelli, sarà più piccolo - dimensionalmente e numericamente - ma più solido. "Non appena l'industria comincerà a produrre rendimenti positivi, il trend di crescita ricomincerà anche più forte che nel passato". Non è escluso un raddoppio degli asset in gestione, "a 3.000 miliardi, nei prossimi 3-5 anni", aggiunge. Simone Chelini, managing director di Albatross Fund (Unifortune AM sgr) punta proprio il dito contro un aumento degli Aum (asset under management) spesso non coerente con la strategia del fondo, pratica diffusa prima dalla crisi per far salire proporzionalmente le commissioni dei gestori. D'altra parte, secondo Bestetti, l'industria non deve rivisitare la remunerazione variabile dei gestori per attirare sottoscrittori, perchè quest'ultima è già sottoposta al "high water mark", cioè è dovuta solo se sono recuperate le perdite pregresse. Per aggirare la clausola azzerando tutto, tuttavia, basta chiudere il fondo e aprirne uno nuovo. Il patrimonio dei 270 fondi speculativi italiani, pari a 36,6 miliardi a gennaio, è sceso a circa 25 miliardi di euro a fine novembre secondo i dati provvisori di Assogestioni. A livello mondiale gli asset in gestione si sono ridotti a 1.560 miliardi di dollari a fine ottobre, secondo Hedge Fund Research, le dimensioni più piccole raggiunte dall'industria dal dicembre 2006.
 

Fonte - Reuters

 

 

 

 

  Giovedì 18 Dicembre 2008   Venerdì 19 Dicembre 2008   Sabato 20 Dicembre 2008  
       
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  Gestori pronti per un 2009 in recessione

11/12/2008 10.44 - di Sara Silano

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Per il 2009, l’84% dei gestori intervistati da Morningstar nell’ultimo sondaggio mensile dipinge uno scenario recessivo, caratterizzato da bassi livelli produttivi, aumento della disoccupazione, riduzione dei tassi di interesse e minor inflazione. Solo il 16% delle case di investimento interpellate prevede una ripresa, ma nessuno si attende una depressione, ossia una crisi economica ancor più grave e simile a quello che accade nel 1929. I mercati azionari devono ancora digerire completamente la situazione congiunturale e per questo motivo rimarranno volatili nella prima parte del nuovo anno. Successivamente, dovrebbero ripartire, anticipando la risalita dell’economia. Borse europee senza forze
Quasi il 67% dei gestori prevede che i mercati del Vecchio continente continuino ad oscillare, anche violentemente, intorno agli attuali livelli nei primi sei mesi del 2009. Sono pochi, infatti, i motivi per essere ottimisti, perché l’economia è in frenata e gli utili aziendali sono previsti in calo. Gli intervistati giudicano positivamente la politica espansiva intrapresa dalla Banca centrale europea, che ha proseguito con il ribasso dei tassi, scesi al 2,5% e sono convinti che la diminuzione dell’inflazione favorisca ulteriori tagli nei prossimi mesi.

Wall Street aspetta Obama
Rispetto all’Europa, gli Stati Uniti possono contare su un elemento catalizzatore in più, il piano per rilanciare la ripresa annunciato dal neo eletto presidente, Barack Obama, che si affianca alla politica molto espansiva della Federal Reserve e agli interventi già realizzati dal Governo. Tuttavia, Wall Street deve ancora fare i conti con una recessione che sarà più lunga del previsto e una crisi creditizia che non si è ancora esaurita. Per il 57% dei gestori, la Borsa rimarrà volatile ancora per buona parte del prossimo anno. La percentuale di ottimisti, tuttavia, è superiore rispetto all’Europa (il 33% contro il 23,8%), perché molti sono convinti che l’America uscirà dalla fase attuale prima. Inoltre, il mercato a stelle e strisce è il più difensivo tra quelli sviluppati.

Il Giappone divide i gestori
Nell’ultimo mese si sono dimezzati gli ottimisti sulla Borsa di Tokyo, passando dal 62% di novembre al 33%. Come spiega Cristiano Busnardo, amministratore delegato di Société Générale asset management Italia sim, il mercato nipponico ha registrato una correzione più forte rispetto all’occidente a causa della forte correlazione con l’economia globale (il settore ciclico pesa per metà sull’indice Nikkei) e del forte apprezzamento dello yen. Inoltre è molto sensibile ai flussi di investimento stranieri e ai rischi legati all’economia cinese. Secondo alcuni gestori, Tokyo sarà la peggiore Borsa nel 2009, secondo altri, invece, offre valutazioni molto attraenti. La metà degli intervistati, comunque, non si attende grandi variazioni rispetto ai livelli attuali.

Bond, continua la ricerca di qualità
Con l’inflazione che fa meno paura, la Banca centrale europea è ora focalizzata sulla situazione economica e potrebbe ridurre ulteriormente i tassi di interesse. Di conseguenza, i prezzi obbligazionari sono destinati a salire, spinti anche dalla forte domanda di bond di qualità. Tuttavia, la politica di emissioni aggressive potrebbe penalizzare le parti lunghe della curva. Il mercato rimarrà volatile nei prossimi mesi per il 62% dei gestori, mentre il 38% prevede un incremento delle quotazioni. Il discorso è analogo per il mercato americano, per il quale circa la metà dei gestori mantiene un atteggiamento neutrale.

Il dollaro tiene duro
Per il 47,7% dei gestori, la divisa americana continuerà ad apprezzarsi nei confronti dell’euro nella prima metà del 2009. Esiste, però, un po’ di preoccupazione per l’aumento del debito pubblico, che potrebbe penalizzare il dollaro se le misure varate dal Governo non riusciranno a risollevare l’economia. Il biglietto verde beneficia anche del rimpatrio dei capitali e della riduzione del differenziale dei tassi tra Stati Uniti ed Europa. Per il 33% degli intervistati, comunque, non bisogna attendersi grandi scostamenti dagli attuali livelli.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 2 e il 9 dicembre, 21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Consultinvest, DekaBank, Eurizon Capital, Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Henderson Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Maxos sim, Pioneer Im, Sgam, Sella Gestioni, Standard Chartered Bank, Union Investment, Vontobel.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

PETROLIO, LA SAGA DEGLI IDIOTI: GOLDMAN PASSA DA UN TARGET DI $200 A $30

12 Dicembre 2008 14:19 LONDRA - di Reuters
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Il petrolio è sceso sotto i 45 dollari al barile, con i mercati finanaziari globali appesantiti dalla mancata approvazione del piano di emergenza da 14 miliardi di dollari per il settore auto Usa. Goldman Sachs ha inoltre previsto che il prezzo del greggio potrebbe arrivare fino a 30 dollari al barile.
Da notare che Goldman Sachs, che nella prima meta' del 2008 era la "numero 1" al mondo nel trading di greggio (prima di trasformarsi in banca commerciale per via della crisi) a giugno aveva lanciato un target price di $200 per il barile di petrolio. Simili cambiamenti di giudizio la dicono lunga sull'inaffidabilita' dei target price (manipolabili e manipolati) da parte di banche e finanziarie; e anche sull'accelerazione paurosa della crisi mondiale.
Intorno alle 13,40 il futures a gennaio sul Nymex cede 3,16 dollari scambiando a 44,82 dollari al barile, mentre l'analoga scadenza sul Brent perde 3,19 dollari a 44,20 dollari. Il cattivo stato di salute dei colossi dell'auto come General Motors e Chrysler illustra la serietà del rallentamento economico mondiale, che ha colpito la domanda di greggio.
"Il brusco calo della domanda di petrolio mondiale nel quarto trimestre del 2008, con l'intensificarsi del credit crunch, ora minaccia di spingere il prezzo del petrolio sotto i 40 dollari al barile nel breve termine", scrive Goldman Sachs in uno studio. Secondo la banca il prezzo potrebbe scendere fino a 30 dollari.
La banca americana ha anche sottolineato come un ulteriore taglio di 2 milioni di barili al giorno da parte dell'Opec - misura che potrebbe essere decisa nella riunione del 17 dicembre in Algeria - sia necessario. Anche la banca francese BNP Paribas ha tagliato le stime per il prezzo del greggio nel 2009, portandole a 53 dollari al barile contro i 75 di una precedente valutazione.

 

Fonte - Reuters

 

 

ALLARME HEDGE FUNDS, DOPO IL CRACK MADOFF

14 Dicembre 2008 22:49 MILANO - di Monica D'Ascenzo
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A 48 ore dall'esplosione del caso Madoff è ancora difficile quantificare gli effetti che la truffa del secolo avrà sui fondi di fondi hedge. Una cosa, però, è già chiara: il crack di Madoff rischia di scatenare un effetto domino sui gestori delle più importanti piazze finanziarie europee, da Londra a Ginevra, da Madrid a Milano. In cifre, il falò da 50 miliardi di dollari acceso a Wall Street potrebbe mandare in fumo il 5% degli asset europei dei fondi di fondi hedge.
Per quanto riguarda l'Italia, i rapporti con Madoff sono certi, ma il danno subito dagli investitori è difficile da quantificare: c'è chi parla di un'esposizione complessiva di oltre 3 miliardi, ma dai gestori non arrivano conferme.
Sul sito web di Pioneer del gruppo UniCredit, ad esempio, è scritto che «sostanzialmente tutti» i 280 milioni di dollari del fondo Primeo Select sono stati investiti sui fondi di Madoff. Dalla società fanno sapere che «come molti altri asset manager Pioneer Alternative Investments (Pai) sta valutando il potenziale impatto di questa situazione: Pai non è un investitore diretto in Madoff, ma alcuni fondi sono esposti indirettamente tramite feeder funds».
Il danno, se ci sarà, potrebbe riguardare solo in minima parte gli investitori privati: «Questi fondi sono distribuiti principalmente a investitori istituzionali e wholesale. L'esposizione per i clienti retail è molto limitata e pari a zero in Italia. Continueremo a monitorare la situazione, per assicurare che vengano messe in atto tutte le procedure necessarie a rappresentare gli interessi dei nostri clienti », prosegue la fonte di Pioneer.
Stesso discorso per il Banco Popolare, socio in Aletti Gestielle Alternative di Union Bancaire Privée, la banca svizzera coinvolta nel caso Madoff per un'esposizione valutata in oltre un miliardo di euro.
Il gruppo bancario italiano ha fatto sapere che si tratta di «un impatto minimo nei nostri fondi di fondi hedge». Ma anche in questo caso, le cifre non vengono fornite. Un caso tutto da accertare riguarda la Fim, la società londinese di advisory gestita da due manager italiani, Federico Ceretti e Carlo Grosso. Secondo alcune indiscrezioni, la Fim avrebbe investito somme molto ingenti per conto di clienti italiani in Kingate, un hedge della galassia Madoff con asset per 2,8 miliardi di dollari: ebbene, la sorte di queste risorse è quanto meno incerta. In questa situazione confusa, molte società di gestione si sono affrettate a tranquillizzare i propri investitori.
Hedge Invest, della famiglia Manuli, ha inviato una email a tutti i suoi clienti: «Caro Investitore - è scritto nella lettera - in seguito alla notizia dell'arresto di Bernard Madoff, Ceo di Madoff Investment Securities, società di brokeraggio operativa presso il New York Stock Exchange e advisor di alcuni fondi hedge (tra i quali ci risultano i seguenti: Kingate, Fairfield Sentry, M&B Equity Plus, M&B LIF US Equity Luxalpha, Thema International, Herald Fund, Dakota Global Investment e Rafale Partners Inc) vi confermiano di non avere esposizione in nessun portafoglio o fondo supervisionato dalla stessa società».
Anche Albertini Syz ha scritto ai clienti: «Gentili investitori, facendo riferimento alla notizia diffusa relativa alla Madoff Investment Securities LLC e alle numerose richieste a noi pervenute (...) desideriamo comunicare che Albertini Syz SGR non ha alcuna esposizione a fondi ricollegabili a Madoff Investment Securities LLC». Dello stesso tenore la mail di Kairos, il fondo del finanziere Paolo Basilico, che ha negato esposizioni con Madoff. In Svizzera, dove la situazione appare molto più tesa, il fondo di fondi hedge Harcourt ha detto di non avere «alcuna esposizione con fondi feeder legati a Madoff» e quindi di non essere stato toccato «da questo presunto caso di frode».
Ciò che sorprende tutti in questa storia sono comunque i segnali inascoltati. In particolare, molti risk manager dei fondi guardavano con sospetto il fatto che gli investimenti non avvenissero attraverso una banca depositaria, che comunque rappresenta una garanzia, ma direttamente con l'asset management della società di Madoff, Bmis. Altro fattore sospetto era il rendimento mensile costante, sempre alto indipendentemente dai movimenti del mercato.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

CRISI HEDGE FUNDS: CITADEL CONGELA I RISCATTI

15 Dicembre 2008 17:05 NEW YORK - di Reuters
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Citadel Investment Group, una delle maggiori societa' di gestione Usa di hedge funds, ha inviato durante il weekend una lettera ai clienti annunciando di aver bloccato i riscatti almeno fino a marzo 09. Performance: -47%.
Citadel Investment Group, una delle maggiori societa' di gestione Usa di hedge funds, ha inviato durante il weekend una lettera ai clienti firmata dal presidente e fondatore Ken Griffin, con l'annuncio di aver bloccato tutti i riscatti almeno fino al marzo 2009.
La decisione e' stata presa per "la continua volatilita' del mercato", ha fatto sapere la portavoce di Citadel, Katie Spring dalla sede di Chicago. Il congelamento dei riscatti riguarda i due fondi Kensington e Wellington.
"Riconosciamo che una sospensione dei riscatti puo' aver un impatto sui nostri investitori, specialmente quelli che hanno gia' obbligazioni finanziarie a cui far fronte per proprio conto", si legge nella lettera di Griffin. Ai primi di novembre il gruppo Citadel gestiva circa $18 miliardi. Aveva fatto registrare una performance positiva ogni anno dal lancio nel 1990, ma dopo la crisi degli ultimi mesi e lo scandalo Madoff nessuno si fida piu' di questi rendimenti stellari del passato.
Citadel ha registrato un calo del 13% a novembre, il che ha fatto crollare la perdita dall'inizio dell'anno a -47%, stando a un dispaccio di Reuters del 4 dicembre scorso. Decine di importanti hedge funds hanno di recente posto drastiche restrizioni alla richiesta di riscatti da parte dei clienti. Se nella norma un investitore puo' riscattare i propri capitali in media in 90 giorni, l'attuale arco di tempo si e' allargato adesso a 6 mesi. Cio' significa che ancora non si sono viste tutte le pressioni ribassiste sia sul comparto dei fondi sia sui portafogli azionari posseduti dagli stessi fondi.

 

Fonte - Reuters

 

 

PETROLIO: ANCHE MERRILL LYNCH E' SHORT ($25)

16 Dicembre 2008 16:49 NEW YORK - di ANSA
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Entro la fine del prossimo anno le quotazioni dell'oro nero potrebbero dimezzarsi rispetto agli attuali livelli. Ma finita la recessione, la domanda risalira'.
Anche gli analisti di Merrill Lynch stimano ora un ulteriore deprezzamento dell’oro nero che, entro il prossimo anno, potrebbe dimezzarsi dagli attuali livelli. Il nuovo prezzo obiettivo della banca per il 2009 e’ ora pari a $25 al barile, tuttavia, il ritracciamento potrebbe essere piu’ veloce del previsto ed avere una durata inferiore delle attese.
Gli stessi analisti notano infatti che la crescita mondiale si attestera’ al 2.2% nel prossimo anno per poi schizzare al 4.8% entro il 2001. Cio’ provochera’ inevitabilmente un incremento della domanda per greggio e prodotti petroliferi che potrebbe riportare le quotazioni di petrolio a $150 nel giro di due, massimo tre anni.
La banca ha cambiato il target price almeno quattro volte quest’anno, in risposta alla repentina variazione delle condizioni di mercato, alla luce della recessione che sta interessando le economie globali.
"Cio’ che ci ha spinto a cambiare le nostre prospettive e’ stata l’esplosione del ciclo del credito. E qualora l’economia cinese dovesse peggiorare, allora non ci sono dubbi sul fatto che i prezzi potrebbero scendere addirittura al di sotto dei $25." "E’ un po’ come dire che se la temperature scende, fuori fara’ freddo".
Nei giorni scorsi erano state Goldman Sachs e Deutsche Bank a ridurre le stime sulle quotazioni di greggio per i prossimi mesi.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

 

  Orribile 2008 addio, peggior anno dal 1931

27 Dicembre 2008 18:15 MILANO - di Il Sole 24 Ore

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Il 2008 rischia di essere per Wall Street l'anno più nero di tutti i tempi. A tre giorni dalla fine delle contrattazioni di quest'anno l'indice Standard & Poor's è in calo del 40,6% dalla chiusura del 2007. In pratica gli mancano soltanto una o due giornate negative per superare il -47,1% del 1931, l'anno in cui si è registrato il peggior andamento borsistico di tutti i tempi. Secondo l'indice Dow Jones Wilshire 5000, quest'anno i listini statunitensi bruceranno la cifra record di 7.300 miliardi di dollari.
Subprime e non solo. Tutto è cominciato con la crisi del settore immobiliare Usa e in particolare con quella dei subprime, che ha contagiato il settore finanziario, conducendo prima al credit crunch, la paralisi della liquidità creditizia, e poi alla recessione. Le borse hanno fatto da catalizzatore di questa tempesta economica e finanziaria, che non ha ancora finito di imperversare e che ha drammaticamente cambiato il panorama di Wall Street. Alcuni dei pilastri su cui si reggeva il grattacielo della finanza Usa non hanno retto. Prima è toccato a Bear Stearns, poi ad Aig, il gigante delle assicurazioni, che il governo Usa ha dovuto nazionalizzare.

Tra Lehman e Madoff. A seguire, è arrivato il crollo di Lehman Brothers, dietro al quale, con un impressionante effetto a catena, forse inizialmente sottovalutato dalle autorità Usa, tutto il mondo dorato delle grandi banche d'affari americane, si è sbriciolato nell'arco di pochi mesi. Goldman Sachs e Merrill Lynch hanno dovuto rinunciare al loro status di investment bank per trasformarsi in normali holding bancarie e cercare protezione dietro all'ombrello della Fed.
Le banche centrali di tutto il mondo hanno cercato di rimettere in moto il sistema finanziario internazionale, paralizzato dalla crisi, con gigantesche immissioni di liquidità e tagliando i tassi fin quasi a quota zero. Poi, quando la crisi dal sistema finanziario è passata all'economia reale, allargandosi dagli Usa a tutto il mondo, prosciugando i consumi e innestando la retromarcia alla crescita produttiva, è toccato ai governi nazionali mettere in campo colossali piani di aiuti.
Gli Usa hanno avviato il Tarp, un programma di stabilizzazione del sistema finanziario da 700 miliardi di dollari, che ultimamente la Casa Bianca ha accettato, a denti stretti, di allargare anche al comparto dell'auto, per evitare il fallimento di General Motors e Chrysler. Come se non bastasse a peggiorare il quadro è arrivata nell'ìultimo spicchio dell'anno la gigantesca truffa finanziaria di Bernard Madoff, l'ex presidente del Nasdaq, che ha bruciato 50 miliardi di dollari con la sua società finanziaria.
La ricetta di Obama. Il presidente eletto Barack Obama, che s'insedierà il prossimo 20 gennaio, ha già detto che intende varare un altro piano di stimoli all'economia, che molti esperti stimano tra i 700 e gli 850 miliardi di dollari, il cui obiettivo dovrà essere quello di creare almeno 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro.

Intanto anche il Giappone e la Cina hanno messo in campo due piani di aiuti all'economia da oltre 800 miliardi di dollari l'uno, mentre l'Europa sta faticosamente cercando di mettere assieme risorse e la commissione Ue ha predisposto un piano da 200 miliardi di euro, pari all'1,5% del Pil dei 27 Paesi membri, che il Fmi ha già definito insufficiente.
Gli osservatori internazionali parlano di una crisi globale di proporzioni mai viste prime, definita la peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta.
In queste ultime sessioni che mancano alla fine dell'anno, non si è visto nessun rally di fine anno, o di 'santa Claus' per i mercati azionari, segno, secondo gli analisti, che si prepara un 2009 ancora più nero del 2008 e quindi un nuovo drastico ridimensionamento della capitalizzazione di borsa dei titoli quotati.

La prossima settimana si prevedono scambi leggeri in Borsa e poi, martedì 30 dicembre, arriveranno i dati del Conference board sulla fiducia dei consumatori Usa a dicembre. Mentre venerdì 2 gennaio, verranno diffusi i dati Usa dell'indice Ism manifatturiero di dicembre, previsti ancora in calo e ben al di sotto dei 50 punti e cioè del livello che separa una fase di contrazione da una di espansione dell'economia. 
 

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

L'eclisse della borsa di Tokyo

30 Dicembre 2008 09:43 - di Miaeconomia
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La recessione picchia dura anche in Asia, e se la Cina deve fare i conti con un brusco rallentamento dopo anni di corsa sfrenata, in
Giappone tornano i fantasmi della crisi economica degli anni '90, che fino a dodici mesi fa sembrava poter diventare un ricordo. E invece nel 2008 la crisi globale ha fatto sentire il suo effetto anche nel paese del Sol Levante, e la borsa lo ha dimostrato chiaramente: l'indice Nikkei della Borsa di Tokyo ha chiuso il 2008 con la peggior caduta annuale in percentuale della sua storia: -42,12 per cento. Gli investitori hanno massacrato le azioni dei grandi gruppi esportatori giapponesi. Le vendite hanno riguardato in particolare il settore delle automobili, i cui produttori hanno visto crollare le loro previsioni di benefici a causa della caduta della domanda negli Stati Uniti e in Europa e per l'apprezzamento galoppante dello yen su dollaro e euro.

Il numero uno mondiale Toyota ha perso la metà (-51,92 per cento) del suo valore di Borsa nel corso dell'anno concluso. Colpito dalla caduta del mercato statunitense, il gruppo prevede di subire nell'esercizio 2008-2009, che termina a fine marzo, la prima perdita della sua storia.

Le perdite sono state ancora più spettacolari per alcuni suoi concorrenti, come Nissan o Mazda, che hanno perso circa tre quarti del loro valore di mercato. Forti perdite anche per tutti i gruppi più dipendenti dalle esportazioni, come Nikon o Citizen.
Il gigante dell'elettronica Sony ha visto le sue azioni perdere il 69 per cento, la banca Mitsubish Ufj Financial Group il 47,56 per cento.

Nell'insieme dell'anno 2008, l'indice faro del mercato azionario giapponese ha registrato una perdita secca di 6.448,22 punti, pari al
42,12 per cento. Si tratta della più pesante caduta in percentuale su un anno dell'indice Nikkei dalla sua introduzione nel 1949. Per numero di punti, tuttavia, la più pesante perdita mai registrata resta quella registrata nell'anno nero del 1990, quando il Nikkei era precipitato perdendo 15.067,16 punti, pari al 38,71 per cento rispetto al 1989. Il Nikkei aveva già perso l'11,13 per cento nel 2007 dopo quattro anni di rialzi. Mentre il più ampio indice Topix su tutto il 2008 ha perso 616,44 punti, pari a 41,77 per cento.


 

Fonte - Miaeconomia

 

 

Borsa Francoforte chiude 2008 in calo 40,4%

30 Dicembre 2008 14:43 - di Reuters
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Borsa Francoforte chiude 2008 in calo 40,4%,Infineon il peggiore
FRANCOFORTE (Reuters) - La borsa di Francoforte ha archiviato il 2008 in ribasso del 40,4% a 4.810,20 punti, la seconda peggiore performance annua della propria storia ventennale dopo quella del 2002 (-44%). La perdita del Dax si confronta con il rialzo del 22,3% messo a segno l'anno scorso. Il titolo più venduto è stato il produttore di semiconduttori Infineon (-88,1%), seguito da Commerzbank (-74,7%) e da Deutsche Postbank (-74,5%). In controtendenza Volkswagen, balzata del 60,2% sui piani di rafforzamento di Porsche nel capitale della casa automobilistica. Il 2008 è stato anche l'anno in cui l'indice ha registrato cinque delle dieci peggiori sedute della propria storia, con perdite giornaliere superiori al 7%. Resta tuttavia inviolato il record negativo del 16 ottobre 1989 quando il Dax lasciò sul terreno in un solo giorno il 13%. La borsa di Francoforte ha chiuso alle 14 e le contrattazioni resteranno ferme fino al 2 gennaio.

 

Fonte - Reuters

 

 

Petrolio: nel 2008 prezzi -60%, calo record da 25 anni

31 Dicembre 2008 09:17 ROMA - di ANSA
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Bloomberg, e' il primo ribasso annuale dal 2001
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Nel 2008 i prezzi del petrolio hanno registrato un calo record: -60%. Si tratta del primo calo annuale dopo il 2001. In quell'occasione i prezzi del greggio diminuirono del 26%. Secondo la Bloomberg quello attuale e' il maggiore calo da sempre, ovvero da quando iniziarono le contrattazioni nel 1983, 25 anni fa.
 

Fonte - ANSA

 

 

Borsa Hong Kong chiude il 2008 in calo del 48,3%

31 Dicembre 2008 09:36 HONG KONG - di ANSA
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A Sydney il ribasso nell'anno solare e' stato del 41,3%
(ANSA) - HONG KONG, 31 DIC - La Borsa di Hong Kong ha chiuso il 2008 con un calo annuale del 48,3%, il peggior risultato degli ultimi 34 anni. L'indice Hang Seng ha terminato la seduta odierna in rialzo del'1,1%, guadagnando 151,98 punti a quota 14.387,48. A Sydney, la Borsa ha invece perso nell'intero anno solare il 41,3%. La seduta odierna si e' chiusa con un rialzo dell'1,9% per l'indice S&P/ASX200, che ha guadagnato 68,1 punti a quota 3.722,3.
 
 

Fonte - ANSA

 

 

Oro: in 2008 guadagna 4%, cresce per ottavo anno consecutivo

31 Dicembre 2008 10:11 ROMA - di ANSA
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Nel 2009 possibile nuova crescita grazie a perdurare della crisi
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Successo anche quest'anno - ed e' l'ottavo consecutivo - per l'oro, il bene rifugio nei periodi di crisi: nel 2008 ha guadagnato il 4%. Le quotazioni hanno anche segnato a marzo un record assoluto: 1.032,70 dlr l'oncia. Nel solo mese di dicembre le quotazioni dell'oro sono aumentate del 13%. Il perdurare della crisi economica e le tensioni geopolitiche potrebbero consentire alle quotazioni dell'oro un'ulteriore crescita anche nel 2009. E' quanto stimano analisti interpellati da Bloomberg.

 

Fonte - ANSA

 

 

LA BORSA DI MILANO HA PERSO META' DEL VALORE

31 Dicembre 2008 14:52 TORINO - di ANSA
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Solo 7 titoli chiudono il 2008 in positivo 12 hanno bruciato più dell’80 per cento. Piazza Affari ha visto fortemente ridotto il suo peso rispetto al prodotto interno. In calo anche il volume delle contrattazioni.
Non c’è molto di buono da dire sul 2008 della Borsa a Milano. Solo sette titoli hanno chiuso in positivo, per il resto è un pianto greco. Piazza Affari ha perso metà del suo valore e ha visto fortemente ridotto il suo peso rispetto al prodotto interno. In calo anche il volume delle contrattazioni. Ovviamente i listini si riprenderanno, ma nessuno sa prevedere quando, e molti analisti avvertono: attenti, anche se le quotazioni sono molto scese, non è che adesso i titoli costino poco, costano semplicemente l’arrosto che valgono, quello che hanno perso era solo fumo. Quindi non ci sono grandi affari in giro da cogliere, al momento, se non selezionando con attenzione. Cominciamo da chi è andato bene. Bastogi nel 2008 ha aumentato il valore del 47,9%. La seguono Nova Re (+41,7%), Landi Renzo (+38,9%), Ansaldo Sts (+18,7%), Lazio (+12,5%), Ergo Previdenza (+12,3%) e Gas Plus (+6,1%). Fra i titoli peggiori, quelli di dodici società hanno perso più dell’80% di capitalizzazione: la maglia nera Cell Therapeutics ha ceduto il 99,4%, Eutelia il 91,3% e Risanamento l’86,8%. Guardando alle cifre aggregate, l’indice S&P/Mib ha perso il 49,5% che corrisponde a una capitalizzazione dimezzata delle società quotate: il valore complessivo dei titoli è crollato dai 731 miliardi di fine 2007 ai 372 attuali. Sono spariti 359 miliardi. Diminuisce anche il peso della Borsa nell’economia italiana: il rapporto capitalizzazione/Pil passa dal 47,8% del 2007 (già in calo dal 52,8% del 2006) al 23,4%. È molto aumentata la volatilità degli indici: dal 12,5% del 2007 al 30,5% dell’anno che si chiude. Ottobre è stato il mese più volatile nella storia di Piazza Affari, con un livello del 69,1%. Male anche il volume gli scambi: quelli azionari sono scesi da 1572 a 1028 miliardi di euro (-34,6%), con una media giornaliera caduta da 6,2 a 4,1 miliardi. I contratti scambiati sono stati 69,2 milioni, in regresso del 4,6%. La Borsa italiana stenta a decollare anche come numero di società quotate: nel 2008 sono state appena 300, persino in calo rispetto al numero (già basso) di 307 nell’anno prima. Una nota tecnica importante: la Consob ha prorogato al 31 gennaio, ma allentandoli, i vincoli sulle vendite allo scoperto. Il divieto continua a esserci per i titoli di banche, assicurazioni e società sotto aumento di capitale. Per le altre società torna la possibilità di vendere titoli presi a prestito: basta averne la disponibilità.

 

Fonte - ANSA

 

 

Borsa, un 2008 da dimenticare

31 Dicembre 2008 19:47 NEW YORK - di Miaeconomia
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Il 2008 è un anno da dimenticare, non ancora ai livelli del crollo del 1929 ma solo perché le autorità pubbliche di mezzo mondo hanno iniettato sui mercati enormi risorse monetarie per dare una mano a banche, assicurazioni e altri colossi quotati in pesantissima crisi di liquidità.
Così nell'ultima seduta di ieri, alla chiusura dei mercati il Mibtel ha registrato un saldo negativo, rispetto al primo gennaio, pari al 48,5%, l'SPMib ha lasciato il 49,5%. In pratica nel giro di un anno sono stati spazzati via 4mila miliardi di euro, così Piazza Affari adesso in termmini di capitalizzazione vale un quarto del Prodotto interno lordo italiano. Solo un anno fa pesava per circa il 48% del Pil.
E con un mercato sempre più sottile per capitalizzazione, accade che le oscillazioni di indici e singole azioni diventino sempre più violente. Non a caso la volatilità dell’indice Mib è passata dal 12,5% del 2007 al 30,5% del 2008.
Con il passare dei mesi è diventata storia ordinaria vedere gli indici oscillare come un pendolo impazzito. La variazione positiva più elevata dell'indice Mibtel (+8,26%) è stata raggiunta lunedì 13 ottobre, quella negativa (-9,24%) venerdì 10 ottobre, apèena tre giorni prima.
E vista la tempesta che si è abbattuta sui titoli del settore bancario, non stupisce che Unicredit sia stata l’azione più scambiata sia per controvalore, con un totale di 163,2 miliardi di euro (15,9% del totale), sia in termini di contratti con 5,4 milioni di contratti (7,8% del totale).
su questa linea Piazza Affari è tra i peggiori mercati azionari dell'anno, ma gli altri non sono certo andati lontano.A Parigi l'indice Cac40 ha lasciato dall'inizio dell'anno il 42,7%, a Francoforte il Dax è arretrato a sua volta nel 2008 del 40,37% mentre l'Ftse100 di Londra si ferma a -31,97%.
Situazione pesante anche a Wall Street, dove l'indice Dow Jones chiude il saldo annuale a -34,65%, l'SP500 ha perso quasi il 40%, bisogna tornare ai primi Anni 30 per vedere performance dello stesso livello per il mercato azionario statunitense.

 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

Crisi: si interrompe dopo 18 anni crescita hedge fund

31 Dicembre 2008 19:42 NEW YORK - di ANSA
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Fondi speculativi alle prese con performance negative e riscatti
(ANSA) - NEW YORK, 31 DIC - Si interrompe dopo 18 anni la crescita degli hedge fund a causa di un mix tra performance negative e riscatti da parte degli investitori. I fondi speculativi ammontano a 1.500 miliardi di dollari alla fine di ottobre, cioe' 500 mln in meno rispetto all'anno precedente. Solo a novembre, gli investitori hanno ritirato 32 miliardi di dollari. A dicembre la cifra dei riscatti potrebbe salire a 80 miliardi.

 

Fonte - ANSA

 

 

Allarme rosso per le banche Usa

31 Dicembre 2008 20:22 NEW YORK - di Miaeconomia
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Nel terzo trimestre le banche e le casse di risparmio degli Stati Uniti hanno sofferto un calo utili del 94 per cento ed ora sembrano orientate a chiudere il quarto trimestre del 2008 con la prima perdita di bilancio trimestrale dal 1990, quando il rosso di bilancio fu pari a 2,3 miliardi di dollari.
Questo lo sconsolante quadro che emerge da un rapporto pubblicato dal Wall Street Journal, che ricorda come le circa 8.300 istituzioni finanziarie i cui depositi sono garantiti dall'agenzia federale Federal Deposit Insurance Corp (FDIC) hanno terminato il terzo trimestre con utili complessivi pari a 1,7 miliardi di dollari, come detto, in calo di ben il 94 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
E le cose sono peggiorate nel corso del quarto trimestre. In generale, anche le stime per il 2009 non sono affatto ottimistiche, se si considera che gli esperti hanno già rivisto al ribasso l'outlook di molte banche, sia grandi che piccole. Il pericolo, spiegano gli esperti del settore, è rappresentato soprattutto dal rialzo del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, che provocherà un calo dei consumi e che renderà anche molto difficile per i cittadini Usa riuscire a rimborsare le rate dei mutui o di altri debiti contratti. Di conseguenza, gran parte dei crediti erogati dalle istituzioni finanziarie potrebbe diventare inesigibile, costringendo le banche ad accantonare più riserve per tutelarsi da perdite future: e questo potrebbe tradursi ovviamente in un'ulteriore erosione dei profitti, se non in perdite di bilancio.
I miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti ha erogato al settore finanziario avranno dunque poco effetto nel riuscire ad arginare la crisi. Da quando è stato approvato il fondo di salvataggio da 700 miliardi di dollari, il governo Usa ha proceduto a un'iniezione di liquidità in più di 130 istituzioni finanziarie per un valore di 169 miliardi di dollari. I finanziamenti erogati sembrano però non bastare, a fronte della mole dei problemi con cui le banche sono alle prese.

Da segnalare che nel corso di quest'anno sono fallite in tutto 25 banche; quanto è peggio però è che secondo le stesse autorità di controllo Usa almeno altre 200 banche rischiano tuttora il collasso. La migliore ipotesi, affermano molti esperti, è che le banche toccheranno il fondo verso la metà del 2009 quando l'economia inizierà finalmente a uscire dal tunnel della recessione. Ma i "forse" in questo periodo buio dell'economia globale sembrano essere d'obbligo.

 

Fonte - Miaeconomia