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FINANZA:
QUANDO IL MEA CULPA ARRIVA TROPPO TARDI
01 Dicembre 2008 01:39 MILANO
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di Pierpaolo Scandurra ______________________________________________
Con una mossa a sorpresa nei
giorni scorsi Goldman Sachs ha deciso di esercitare, a soli
tredici mesi dal lancio, l’opzione di richiamo anticipato di uno
dei certificati più interessanti nel panorama dei benchmark
senza scadenza. La decisione fa seguito ad un progressivo
abbandono del mercato domestico da parte dell’emittente
americana, duramente colpita dalla crisi finanziaria dell’ultimo
anno, e lascia in braghe di tela quanti avevano deciso di
investire sui mercati di frontiera con un orizzonte temporale di
lungo termine.
E dire che il Next 11 Core 5 Open End certificates era stato
presentato come un’assoluta novità. Inedito per la struttura,
perché era il primo certificato a scadenza "aperta" emesso su un
indice azionario emergente, e per la particolarità dell’indice
sottostante, il certificato era stato emesso il 28 agosto 2007
ad un prezzo di 9,46 euro e successivamente, dal 16 ottobre
2007, aveva iniziato a quotare sul segmento dei Securities
Derivatives di Borsa Italiana.
Il certificato era stato emesso con la finalità di seguire senza
il vincolo temporale di una scadenza l’andamento di cinque degli
undici paesi emergenti considerati eredi , in termini di
prospettive di crescita e sviluppo, dei quattro paesi dell’area
Bric. La Global Research di Goldman Sachs aveva individuato nel
Bangladesh, la Corea del Sud, Egitto, Filippine, Indonesia,
Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Turchia e Vietnam gli undici
candidati a far faville negli anni a venire.
Tuttavia per la quotazione dell’Open End, era stato richiesto
dagli organi di controllo e di vigilanza, che l’indice venisse
limitato a soli cinque degli undici paesi: e così l’indice,
espresso in dollari americani, ha preso il nome di Next 11 –
Core 5. Ma contravvenendo a quanto era stato prospettato in fase
di emissione il benchmark Open End è stato ritirato dal mercato
dalla stessa emittente L’annuncio è arrivato al termine di un
periodo di profondo calo subito dall’indice : da inizio anno la
performance dell’indice Total Return è negativa per quasi
sessanta punti percentuali mentre dalla data di emissione del
certificato, allorchè l’indice quotava 129,09 punti, il ribasso
si è limitato al 54%. Soltanto il recupero del dollaro nei
confronti dell’euro delle ultime settimane ha permesso al
certificato, peraltro soggetto ad una commissione di gestione
annua dell’1,1% , di limitare il calo al 48%.
In tredici mesi di vita , oltre ad aver riportato una
performance decisamente negativa che tuttavia non si discosta
troppo da quelle di altri mercati sviluppati e ben più
capitalizzati, il certificato non ha mai registrato un
particolare interesse da parte del pubblico degli investitori.
Fatta eccezione per i primi cinque mesi di quotazione, durante i
quali sono stati scambiati circa 20.000 certificati per un
controvalore di poco meno di 200.000 euro , dal mese di aprile i
volumi si sono rarefatti. L’optional early redemption date,
ovvero la data di rimborso, è stata fissata per il giorno 17
novembre 2008 e il rimborso è stato fissato in 6,343 dollari (
4,985 euro al cambio di 1,2724 del 17 novembre).
Un vero e proprio flop dunque, non tanto per l’andamento
costantemente negativo, quanto piuttosto per un ritiro
anticipato che sa tanto di beffa.
Fonte
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www.certificatiederivati.it
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General
Motors:
please, lasciatela fallire
01 Dicembre 2008 02:02 MILANO - di Mario Seminerio
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Mentre General Motors e gli altri costruttori
automobilistici statunitensi continuano a bruciare liquidità a ritmi
infernali, il dibattito sul salvataggio dell’industria si polarizza
sempre più. Da un lato, i sostenitori di un intervento pubblico che
impedisca la distruzione di alcuni milioni di posti di lavoro,
diretti e indotti; dall’altro i critici di un modello di business,
quello di General Motors, basato da sempre su poderose relazioni
lobbystiche che suppliscono alla scarsa comprensione delle dinamiche
competitive globali. Nel mezzo, i costruttori europei, che temono
non solo e non tanto un effetto di spiazzamento delle proprie
produzioni causato dal soccorso pubblico americano, ma anche
l’inizio di una corsa alla protezione dei campioni nazionali
dell’auto, da cui tutti usciremmo perdenti.
General Motors nel terzo trimestre ha riportato una perdita di 2,5
miliardi di dollari, o 4,45 dollari ad azione, segnalando
disponibilità liquide al 30 settembre per 16,2 miliardi di dollari,
contro i 21 miliardi alla fine di giugno, ed un fabbisogno mensile
di 11 miliardi di dollari, dopo aver accumulato dal 2004 perdite per
73 miliardi di dollari. Con questa traiettoria, senza intervento
pubblico la compagnia difficilmente doppierà la boa del nuovo anno.
Secondo il CEO, Rick Wagoner - che continua a ribadire in modo
piuttosto sconcertante la necessità di preservare l’attuale
management - l’unica via è un prestito governativo simile a quello
che salvò Chrysler un trentennio fa. A suo giudizio,
l’amministrazione straordinaria fornita dal Chapter 11 avrebbe
invece "effetti devastanti" sull’azienda, sia perché il credit
crunch ha pressoché inaridito l’erogazione dei "debtor-in-possession
loans", i prestiti erogati alle imprese in ristrutturazione
controllata, sia perché porre in Chapter 11 un produttore di beni
durevoli di consumo di così elevato valore unitario finirebbe con lo
spaventare i consumatori, timorosi che la società possa finire in
liquidazione e le loro auto siano private di valore residuo di
mercato e di assistenza post-vendita.
Per questo motivo, secondo Wagoner ed i lobbysti del settore auto,
sarebbe preferibile un nuovo prestito federale, magari condizionato
a qualche ristrutturazione energy-saving di impianti e modelli.
Altri osservatori, più neutrali, hanno ipotizzato una qualche forma
di variazione su questo tema: ad esempio, ricorrere a forme di swap
tra debito e capitale azionario, con sacrifici pesanti chiesti agli
obbligazionisti, che vedrebbero il valore nominale dei loro bond
abbattuto all’attuale valore di mercato, ed oltre.
I problemi di General Motors e degli altri due costruttori
statunitensi sono noti, e sono riconducibili a due grandi tipologie:
deficit di visione strategica globale e oneri imposti dal
sistema-paese statunitense. Riguardo i secondi, nei giorni scorsi ha
fatto molto rumore il dato sul differenziale di costo del lavoro tra
un dipendente GM ed uno Toyota (o Nissan, o Honda) operante in
impianti localizzati negli Stati Uniti. Settanta dollari orari il
primo, una trentina il secondo.
In realtà, quel differenziale non deriva dal salario degli addetti
alle linee di montaggio (che è sostanzialmente allineato a circa 28
dollari l’ora), bensì soprattutto dagli oneri sanitari e
previdenziali che i costruttori americani sostengono a favore di
propri dipendenti, pensionati e loro coniugi superstiti. Già da un
paio d’anni la società si è spostata dagli onerosi piani
pensionistici a prestazioni definite ai cosiddetti 401(k), dove il
rischio grava interamente sul lavoratore, in caso di andamenti
sfavorevoli di mercato.
Anche sui piani sanitari, in attesa del loro ridisegno complessivo
per mano dell’Amministrazione Obama, le aziende statunitensi hanno
tentato di contenere i costi, con aumento di franchigia e della
quota di compartecipazione alla spesa da parte dell’assicurato.
Ma
per i costruttori di auto lo squilibrio è rimasto e si è aggravato,
a causa di grossolani errori strategici, e di un forte legame con il
potere politico.
Un dato su tutti: tra il 1998 e il 2007 General Motors ha investito
nel proprio core business 310 miliardi di dollari; nel corso di
questo periodo l’ammortamento degli impianti è stato pari a 128
miliardi di dollari; il che significa che, nell’ultimo decennio, 182
miliardi di dollari di capitale netto sono stati pompati in GM,
circa 1,5 miliardi di dollari al mese.
Per Ford i dati sono simili: 155 miliardi di investimento lordo, 8
miliardi di ammortamenti. Alla fine del 1998, la capitalizzazione di
mercato di GM era di 46 miliardi di dollari, quella di Ford di 71
miliardi. Oggi le due società sono sull’orlo della bancarotta, le
loro azioni sono ridotte a penny stocks, e saranno presto rimosse
dai principali indici azionari.
Che ne è stato di questi 465 miliardi di dollari? Con quella somma,
per paradosso, GM e Ford avrebbero potuto chiudere i propri impianti
e trasformarsi in una holding automobilistica planetaria, comprando
tutte le azioni di Honda, Nissan, Toyota e Volkswagen. Hanno invece
scelto di diversificare in modo disastroso, tentato alleanze mal
concepite (vedi il collasso di DaimlerChrysler e la successiva
scissione nelle due società costitutive), oppure di assumere
dimensioni così elefantiache da poter invocare, come sta facendo Wagoner, il solito mantra del "troppo grande per fallire", prendendo
in ostaggio dipendenti, pensionati, consumatori e fisco. Che fare,
quindi? Per il Congresso a maggioranza Democratica Detroit è un
simbolo, quasi un feticcio: difenderne ad ogni costo la
sopravvivenza potrebbe assumere un valore ideologico. E certo le
stime spaventose ed interessate di una distruzione di 2,5 milioni di
posti di lavoro (concentrati peraltro in alcuni stati) proprio nel
momento della più grave crisi economica dagli anni Trenta, rendono
difficile valutare in modo non emotivo la gestione del salvataggio.
Ma la presidenza Obama si presenta come fortemente innovativa ed
intenzionata a ristrutturare l’intero paese, portandolo fuori dalle
sue contraddizioni e da un modello di sviluppo che si è dimostrato
insostenibile. Difficile pensare che una legge di "riconversione
ecologica", magari scritta sotto dettatura di Wagoner e soci, possa
risolvere il problema. Allo stesso modo, per non incorrere nella
"sindrome italiana" dell’assistenzialismo improduttivo che tiene in
vita aziende decotte, sarebbe forse meglio dividere i 25 miliardi di
dollari di aiuti già stanziati tra tutti i 2,5 milioni di lavoratori
minacciati di licenziamento: farebbero 10.000 dollari a testa.
La parte del vuoto di offerta causato dalla scomparsa di uno o due
costruttori di Detroit sarebbe colmata dai produttori efficienti
rimasti, come dovrebbe avvenire in un’economia di mercato degna di
questo nome, ed i fondi per il salvataggio potrebbero essere
destinati a supporto di welfare per chi ha perso il lavoro e deve
riqualificarsi, oltre che per le comunità colpite dalla crisi.
Ma anche senza giungere a questi auspicabili "estremi", resta
l’opportunità di una effettiva ristrutturazione del modello
economico degli Stati Uniti in direzione di maggiore competitività
globale e minore sfruttamento dei contribuenti. Un modello che
potrebbe essere esportato anche da noi. Per contro, se prevarranno
le vecchie logiche lobbystiche ed i protezionismi che esse portano
con sé, ci attendono tempi decisamente grami.
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Fonte
- Libero Mercato |
Fugnoli:
molto cash e bond a lunga
scadenza
03 Dicembre 2008 01:21 MILANO - di Elena Bonanni
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Tre mesi fa era allarme inflazione, oggi l’incubo è la
deflazione. Un drastico cambio di orizzonte per chi deve gestire dei
risparmi. «In un certo senso le scelte d’investimento diventano più
semplici: scende tutto con l’eccezione di cash e bond governativi»,
risponde Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank.
Dott. Fugnoli, dopo esserci preoccupati per il carovita, d’ora in
avanti avremo il problema inverso? Se per deflazione intendiamo la
discesa dei prezzi in assoluto, non avremo più di qualche episodio:
uno di questi è stato il dato sui prezzi al consumo Usa di ottobre
che indica una discesa rispetto a settembre. Resta il fatto che
strutturalmente ci troviamo in un contesto incline alla deflazione
che funziona da spirale negativa.
Chi deve scegliere come investire i propri risparmi cosa deve fare?
In questo scenario scende il valore di tutti gli asset tranne il
cash. Il denaro contante, che di solito ha un rendimento nullo, con
una discesa dei prezzi del 10% vale il 10% in più in termini reali.
La cosa migliore sono perciò le obbligazioni governative con tasso
nominale superiore a zero o, ancora meglio, uno zero coupon.
Con quale durata? Se voglio mantenere il potere d’acquisto bastano i
Bot. Se invece punto al capital gain devo scegliere durate elevate
perché le scadenze lunghe equivalgono a una leva. In questo caso,
quindi, meglio durate più elevate possibili, per esempio un Btp
trentennale. O meglio ancora un Bund trentennale, perché nei momenti
di avversione al rischio aumenta lo spread e il Btp perde terreno
rispetto al Bund.
Perché è meglio uno zero coupon? Perché, per esempio, nel caso di un
Btp trentennale con cedola del 5% mi trovo ogni anno un dividendo
che può essere reinvestito probabilmente a tassi decrescenti, visto
il contesto recessivo. Al contrario, uno zero coupon con rendimento
trettennale del 5% blocca un rendimento implicito del 5% per
trent’anni.
Quali sono i rischi di spostarsi ora su durate più lunghe? Non ci
sono rischi elevatissimi. Potrebbe succedere che se fra qualche mese
rallentasse la discesa dell’economia, risalirebbero un po’ le Borse
e ci sarebbe un po’ di fuoriuscita dai bond lunghi governativi per
entrare nell’azionario. Ma non è detto che i bond debbano diventare
sconvenienti. Per esempio, i titoli di Stato giapponesi di lunga duration, nella situazione di deflazione che ha caratterizzato il
Paese, sono stati il migliore strumento d’investimento per tutta la
prima parte della crisi e poi si sono stabilizzati senza scendere.
Se dalla deflazione si passasse di nuovo all’inflazione, invece, ci
sarebbe il rischio di perdite in conto capitale: più tardi si vende
peggio è.
Quindi come muoversi? L’esaurimento dei rischi deflazionistici e di
recessione non è per domani mattina. Nella migliore ipotesi si esce
fra sei mesi. È chiaro che man mano che si avvicina l’ipotizzata
fine della crisi bisognerà ridurre la duration fino a portarla a
zero, passando per i bond di breve, per poi tornare alle azioni. In
ogni caso, ora vedo più valore nei bond europei che in quelli Usa:
questi ultimi sono già più avanzati nel processo di rivalutazione.
Ma le altre asset class sono tutte da buttare? Con la deflazione
scende tutto. Per chi vuole assumersi un rischio maggiore ci sono i
corporate bond. Infatti, dal momento che i tassi di interesse non
possono chiaramente andare sotto lo zero, se i prezzi scendessero in
termini assoluti i tassi reali esploderebbero e porterebbero a un
aumento dei default sul debito. Che a loro volta genererebbero altri
default. Quindi i corporate vanno bene solo per una scommessa
rischiosa. E comunque guarderei solo a quelli ad alto rating e ben
diversificati: in questo scenario i rischi di default aumentano dove
uno meno se lo aspetta.
E l’oro? È il tipico bene rifugio? L’oro ha tante anime. Un po’
segue il dollaro, un po’ l’andamento dell’economia. Si parla di bene
rifugio proprio perché in genere si trova sempre un driver. Ma in
deflazione è la situazione in cui ci sono meno spunti positivi.
L’oro funziona quando c’è inflazione o reflazione, ossia il
tentativo tramite immissione di moneta di aumentare il livello dei
prezzi. Che poi è quello che stanno facendo i governi. Quindi l’oro
potrebbe essere una asset su cui spostarsi successivamente. Per
quanto riguarda il rafforzamento attuale del dollaro, spiega solo i
movimenti di breve termine dell’oro e non quelli strutturali.
La deflazione può suggerire spunti a livello di scommesse valutarie?
In momenti di crisi aumenta l’avversione al rischio. Il che
significa la chiusura di operazioni di carry finanziario costruite
sui dollari, ovvero in passato ci si indebitava in dollari a basso
costo per investire in valute che rendevano di più. Ora il biglietto
verde beneficia così di un aspetto tecnico, perché per chiudere il
carry trade si comprano dollari per ripagare il debito. Questo vale
anche per le altre valute che permettono di finanziarsi a tassi
bassi, come franco svizzero e yen. L’aspetto tecnico in queste fasi
ha una forza relativa più forte dei fondamentali. Ma non è
consigliabile investire in valute solo su considerazioni tecniche:
il dollaro ha potuto rafforzarsi perché gli Usa stavano migliorando
la propria posizione sui conti con l’estero.
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Fonte
- Borsa&Finanza |
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Sabato
06
Dicembre 2008 |
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Domenica
07
Dicembre 2008 |
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Mercoledì 10
Dicembre 2008 |
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Riparto
coi bond, poi di nuovo azioni
03 Dicembre 2008 00:57 NEW
YORK - di David Kotok
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«Quanto può ancora peggiorare?», oppure «che altro mi può
capitare?». Proviamo a rispondere a queste domande, le più frequenti
dei clienti.
Tassi di interesse. Mi rifaccio a quanto accadde durante la Seconda
Guerra Mondiale: il T-bill a tre mesi arrivò allo 0,75%. Il T-bond a
lungo al 2%. A quei valori, la Fed assorbì l’intera offerta del
Tesoro, consentendo al Paese di sopportare lo sforzo bellico. Sarà
possibile fare altrettanto?
Secondo noi, i tassi del Tesoro sono già vicini a quei livelli,
perciò non possono scendere ancora. Semmai i tassi a lungo potranno
calare ancora solo se la Fed agirà di conseguenza, sia in maniera
diretta, sia stimolando un’azione analoga delle altre banche
centrali. La nostra strategia consiste nel comprare titoli
indicizzati all’inflazione.
Disoccupazione Durante la crisi del ’29 un americano su quattro si
trovò senza lavoro. Non è questa la situazione di oggi. Venerdì
uscirà il dato Usa: sarà attorno al 7%(contro l’8% europeo) destinato
a salire all’8% l’anno prossimo (il 9% nella Ue).
Non dimentichiamo che il tasso di disoccupazione tende a salire
anche dopo che la recessione ha toccato il suo apice e già si
palesano i sintomi della ripresa. Per questo si deve stare alla
larga dal settore consumi. In aggiunta
ci vorranno anni per veder
ripartire l’immobiliare.
Mercato del credito. In sei settimane, dopo il crack di Lehman, è
andato in fumo il 25% circa della capitalizzazione dei mercati
azionari. Le perdite per i bond con un rating sono state del 10%
almeno. Questo ha creato una situazione eccezionale, condizionata da
spread denaro/lettera assolutamente anormali. Perciò,
siamo
compratori di bond, ma solo dopo un attento esame delle emissioni:
la stagione dell’euforia o della fiducia nel rating è finita.
Borse. Il fondo del mercato ora sembra più solido. Ma non si sa
quanto: il Pil Usa, e non solo quello, rallenta. Ma il valore
aggregato delle azioni quotate è ben inferiore al Pil. Cosa che, in
genere, è un’ottima occasione d’acquisto. Credo che di qui a fine
anno il mercato abbia un potenziale al rialzo. Non ci sono segnali
visibili di una ripresa ma è credibile che gli stimoli monetari e
fiscali potranno alimentarla nel corso del 2009.
Non penso ad un periodo di deflazione di 3-5 anni. Per questo,
ritengo che sia il momento di comprare, tramite Etf. Asset
allocation. In genere il mix più efficiente a lungo termine prevede
70% in azioni, il resto in bond. Nell’ultimo anno non ha funzionato
però né la strategia in bond che in azioni. Solo il cash e T-bond
hanno guadagnato nell’era post Lehman.
Ma adesso? Abbiamo azzerato il cash per puntare al 50% in azioni
(meno del range medio) e il resto in bond, per sfruttare lo spread
insolitamente elevato. La grande Depressione. Chi pensa ad una
riedizione della Great Depresion contesta le nostre scelte.
Io non credo ad una crisi anni Trenta per due motivi: a) quella
stagione fu dominata dal protezionismo; b) allora le banche centrali
strinsero i cordoni del credito. Allora ci volle l’elezione di
Roosevelt, nel 1933 per cambiare politica. Oggi sono bastate un paio
di settimane dopo il crack di Lehman. C’è anche chi mi chiede: «Ma
non sei spaventato per l’inflazione che verrà?». Adesso no. Il
problema è curare il credit crunch prima, il mercato azionario poi.
Per il credit crunch si vedono già i segnali della convalescenza.
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Fonte
- Finanza&Mercati |
COME PERDERE
I PROPRI SOLDI E RIMANERE BEFFATI
04 Dicembre 2008 01:15 TORINO
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di Marina Imberti ______________________________________________
In Italia, e nel mondo in generale, manca l'esercizio
del controllo da parte degli Organi di Vigilanza. A partire
dalla questione Argentina ai default che sono seguiti nel 2003
(citiamo i nostri di Cirio e Parmalat ma nel 2003 sono stati
oltre 600 i default obbligazianari), nessuno si è preoccupato di
come vengano effettuate le operazioni di investimento, di quale
criterio venga adottato dalle Banche nelle proposte di
investimento alla clientela.
Questo perchè dove si può "far cassa" forse sono in molti a
dividere una torta golosa, sempre a danni del risparmio, che ha
perso il suo valore sostanziale quale patrimonio sociale,
scheletro dell'economia. Nel contezioso risparmiatori - banche,
emergono solo i casi più eclatanti, tuttavia legali e magistrati
tendono ad applicare la normativa civilistica, che è molto
generica e spesso favorisce le Banche le quali si sottraggono
così alle specifiche normative CONSOB, al TUF, e se la cavano
spesso con un Pater, Ave e Gloria e con una "mancia" al
risparmiatore.
La crisi in corso non può essere risolta solo con misure
riparatorie e con il subentro al debito delle Banche con i soldi
degli Stati, cioè con i nostri. La verità è che la
globalizzazione è partita senza regole ed oggi, per uscirne
davvero, il sistema internazionale VA NORMATO a tutela del
risparmio, dei produttori, dei consumatori e di tutto il futuro
dell'economia.
Vedo che invece le soluzioni puntano sulla stampa di moneta e
sull'emissione di debito pubblico da un lato, dall'altro
sull'emissione di prestiti obbligazionari di Banche e sul premio
alla liquidità che le banche sono disposte a pagare, illudendo
il risparmio tradito con un alto rendimento a discapito della
considerazione del rischio.
Sono rimasta basita nel vedere che la CONSOB ieri metteva la
parola fine all'essenzialità del rating sull'emissione di nuovi
prestiti obbligazionari. E' ben vero che il rating "drogato",
"venduto" è una pessima informazione. Tuttavia il toglierne
l'essenzialità NON E' la corretta soluzione al problema. E' come
dire che in un mondo di ladri si deve depenalizzare il furto!
Si tenga presente che tutta l'economia è retta e supportata dal
sistema bancario, attraverso il quale transita l'operatività più
consistente dell'industria produttiva. Il controllo sulle banche
è un controllo diretto su tutta l'economia. Il deprezzamento
delle azioni bancarie, atto a produrre una forte
sottocapitalizzazione in un momento di forte indebitamento,
mette in crisi i bilanci pubblici dei Governi che, nonostante le
dichiarazioni di intenti, si troveranno ad affrrontare gravi
difficoltà negli anni futuri.
NESSUNO pensa che questa situazione sia stata provocata ad arte
per mettere in fibrillazione il sistema bancario, per eseguire
in un prossimo futuro quella "spesa" al prezzo delle patate che
consentirà il controllo globale attraverso le banche, e quindi
il controllo del sistema? Signori: i parametri di Maastricht
andranno spostati, l'Europa non ha un riconoscimento giuridico,
è un unione monetaria che rischia veramente di dare il giro!
Se vuoi scrivere un commento su questo intervento o sulla
questione delle fallimentari polizze Index legate alle banche
islandesi clicca qui.
Fonte
- La Stampa
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Guadagnare con la
deflazione
04 Dicembre 2008 01:31 MILANO - di Jacopo Dettoni
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«Deflazione: che non accada qui!». Si intitola così un
vecchio discorso di Ben Bernanke sul rischio di una spirale
ribassista dei prezzi. Correva l’anno 2002. Ironia della sorte,
Bernanke, che nel frattempo è passato da governatore «semplice» a
presidente della Fed, combatte oggi contro lo stesso spauracchio.
Con una sola differenza: allora si trattava di un esercizio teorico
da emerito professore, adesso è in ballo lo stato di salute
dell’economia Usa. Sì, perché la deflazione è già realtà. E nei
numeri si intravedono le prime pericolose conferme.
Gli indizi lasciati sul campo dallo stesso Bernanke sono comunque
molto espliciti: la Federal Reserve sta seguendo con precisione le
indicazioni che il suo presidente in pectore, proprio nel novembre
2002, descriveva nel paragrafo «Curare la deflazione». In soli sei
mesi si è dunque passati dal rischio di perdere il controllo
dell’inflazione al problema opposto: lo sboom delle materie prime,
unitamente al rallentamento dell’economia globale, sta provocando un
avvitamento verso il basso dei prezzi, dalle tinte ancora fosche ma
inconfondibili. Muta lo scenario, mutano le strategie di
investimento. L’ipotesi deflazione mette fuori gioco azioni e commodity, mentre accresce l’appeal di reddito fisso e cash.
Caso per caso, è tuttavia opportuno fare dei distinguo. I gestori
obbligazionari preferiscono titoli governativi ai corporate. Dal
canto loro, i forex strategist puntano su dollaro e yen, mentre il
destino dell’euro è controverso. E
se proprio si cerca l’equity,
meglio rimanere lontani da ciclici e small cap. I dubbi tuttavia non
mancano. Per alcuni la deflazione sarà solo un fenomeno temporaneo
destinato a svanire già dal 2010. Per altri si affermerà invece come
un fenomeno strutturale.
MINACCIA GIAPPONESE.
Del resto, il virus della deflazione è il più
temuto dai mercati finanziari. Per osservare i sintomi basta tornare
al «lost decade», al decennio perduto del Giappone: crescita piatta,
disoccupazione e stress finanziario. Il tutto propiziato da una calo
generalizzato e duraturo dei prezzi al consumo: dal 1995 al 2005 il
tasso d’inflazione si è mantenuto costantemente al di sotto dello
zero. Corriamo dunque lo stesso rischio?
A detta della Cassandra più autorevole del momento, quel Nouriel
Roubini che finora non ne ha sbagliata una, la risposta è sì. «Vista
la severa recessione globale - scrive Roubini dalle colonne del suo
Rge Monitor - la deflazione sarà presto realtà negli Stati Uniti, in
Giappone, in Svizzera, nel Regno Unito e anche nell’Eurozona».
Le
ragioni? «Il crollo della domanda globale - precisa Roubini -
ridurrà il prezzo di beni e servizi nonché quello delle materie
prime, mentre la crescente disoccupazione allevierà le pressioni sul
fronte salariale».
Risultato: un calo generale dei prezzi, appunto. In questo scenario,
tutte le asset class sono destinate a soffrire, eccezion fatta per
cash e reddito fisso. Il perché è presto detto: in deflazione, i
tassi reali d’interesse tendono a crescere. Molto semplicemente: se
i prezzi scendono a un tasso del 2% annuo, possedere un bond che
rende il 4% significa portare a casa un rendimento netto del 6 per
cento. Questo vale per le scadenze più brevi e ancora di più per
quelle più lunghe. A questo punto è però importante non fare di
tutta l’erba un fascio. Di fronte a tassi reali crescenti, i
debitori vedono aggravarsi nel tempo l’onere del loro debito e così
aumenta il rischio di default. Un rischio che oggi, viste le
limitate possibilità di rifinanziamento, è quanto mai concreto.
Sarebbe allora un azzardo farsi ingolosire dai tassi reali
crescenti, soprattutto parlando di corporate bond.
CIAMBELLA DI SALVATAGGIO.
«Sui titoli governativi - spiega Emanuele Ravano, condirettore per l’Europa delle strategie Pimco - crediamo
che la scadenza più interessante sia quella a cinque anni. Questo
perché le banche centrali non solo dovranno abbassare, e di molto, i
tassi di riferimento. Dovranno anche impegnarsi pubblicamente a non
alzarli per due o tre anni». A questo proposito, il citato discorso
del 2002 di Bernanke non lascia adito a dubbi: «Una volta che i
tassi di riferimento sono già stati azzerati, come si può fare per
stimolare un calo dei tassi a lungo termine (necessario per
riattivare la domanda aggregata, ndr)? Una strada è quella di
impegnarsi pubblicamente e in modo credibile a mantenere i tassi a
zero per un prefissato periodo di tempo».
Come dimostrano le parole di Ravano, il mercato sembra aver già
interiorizzato questa strategia. Negli Usa i future scommettono su
Fed Funds allo 0,50% entro fine anno, livello dal quale non
dovrebbero muoversi fino alla seconda metà del 2009. Nuovi e
duraturi tagli arriveranno anche in Europa: gli economisti si
attendono che la Bce riduca il costo del denaro dall’attuale 3,25%
all’1,75% e lo mantenga invariato per almeno sei mesi; la Bank of
England dovrebbe invece agire più rapidamente, con i tassi che sono
attesi all’1,50% - al momento sono al 3% - già dai primi mesi del
2009, per poi rimanere invariati per buona parte del 2009 stesso.
«D’altra parte - aggiunge Ravano - ad andare sulle scadenze più
lunghe si corre il rischio d’incappare nel problema opposto:
l’inflazione. Questo perché, se i governi avranno successo nel
rilanciare l’economia, i prezzi torneranno a crescere». Insomma,
scadenze lunghe, ma pronti a cambiare cavallo. Per Nicola Pegoraro,
responsabile investimenti di Carige Am,
le scadenze più lunghe
presentano anche un’altra incognita: «È inevitabile che i grandi
programmi di spesa pubblica varati per rilanciare l’economia
metteranno pressione sui titoli a lungo termine. Soprattutto negli
Usa, dove per forza di cose i volumi di emissione saranno
notevolissimi». Sciolto il nodo dell’orizzonte temporale, rimane da
vedere se un governativo vale l’altro o se, invece, è meglio
ragionarci sopra.
«In Eurozona - precisa Ravano - la deflazione rischia di aumentare
le divergenze nella performance economica dei vari Paesi membri. Non
è un segreto quanto la situazione debitoria e il grado di
produttività varino da caso a caso. Credo dunque che
verranno
penalizzati i Paesi meno competitivi, come l’Italia, a scapito di
quelli meglio posizionati, come la Germania. Lo spread tra i
governativi in euro è quindi destinato a crescere ancora. Riguardo
invece ai Treasury, il recente rally dimostra quanto gli operatori
abbiano preso atto dell’impegno della Fed contro la deflazione.
Inoltre, una delle possibili misure che devono ancora essere
adottate riguarda proprio l’acquisto da parte del Tesoro stesso di
Treasury, così da appiattire ulteriormente la curva dei tassi».
Pegoraro crede invece che la situazione in Eurozona offra spunti
diversi: «Ci sono Paesi che sono stati estremamente penalizzati.
L’Italia è tra questi. Basta guardare allo spread sul decennale: il
Btp rende il 4,45%, mentre il Bund il 3,25 per cento. Credo sia
esagerato, infatti non vedo un rischio di esplosione del caso
italiano. Non si dimentichi che rimaniamo tra i Paesi meno toccati
dalla crisi, perlomeno nel comparto finanziario».
C’è invece accordo sul rischio implicito nei corporate bond.
«Compriamo solo quelli su cui è stata apposta una garanzia pubblica
esplicita (banche a grandi istituzioni finanziarie) o implicita (General
Electric)», spiega Ravano: «Per il resto, meglio non tentare di
speculare sulla recessione». «Siamo di fronte a un tipo di rischio
imprevedibile e difficilmente diversificabile», aggiunge Pegoraro:
«Un piccolo portafoglio fai-da-te rischia di avere effetti
disastrosi. È allora preferibile rimanere sul mercato con
l’investimento in fondi obbligazionari».
CASH E VALUTE.
Chi non vuole prendere rischi sul mercato
obbligazionario può sempre rimanere liquido. Anche in questo caso, a
maggior ragione al cospetto di uno scenario deflazionistico, occorre
procedere con senno. «La Bce sarà costretta a tagliare ancora i
tassi», spiega Roberto Mialich, Forex strategist di Unicredit:
«L’euro potrà dunque soffrire ancora. In particolare, credo che
difficilmente l’euro-dollaro potrà evitare un nuovo calo. Lo vedo
intorno a quota 1,15. Sugli altri cambi lo scenario è più
complicato. Lo yen mi sembra privilegiato per il continuo
smantellamento di posizioni di carry trade. Il rapporto con la
sterlina potrebbe invece rimanere stabile, se non addirittura
apprezzarsi, perché i problemi dell’economia britannica rischiano di
essere più seri di quelli in Europa. Le monete ruggenti degli
esportatori di materie prime – Australia, Nuova Zelanda, Canada,
Norvegia – dovrebbero infine perdere nuovo terrreno perché le
quotazioni delle commodity sono stimate in continuo calo».
Si tratta comunque di uno scenario che prende forma sull’ipotesi di
una deflazione moderata e confinata al solo 2009. Qualora invece si
rivelasse strutturale, verrebbe tutto ribaltato. «In un caso estremo
- continua Mialich - la Bce dovrà abbassare i tassi al massimo:
floor al 2%, ma non escludo sorprese, e tenerli lì per molto tempo.
A quel punto l’euro rischierebbe di essere percepito come funding
currency su movimenti di carry trade e perderebbe terreno anche
sulle monete degli esportatori di materie prime».
A parte bond e cash, se deflazione sarà, tutte le altre asset class
ne faranno le spese. «In deflazione - interviene Tommaso Federici,
gestore di Banca Ifigest - anno bene solo le società che continuano
a fare ricavi piuttosto che utili. Sono i ricavi la variabile che ci
può indicare se l’azienda terrà meglio». È comunque scettica
sull’ipotesi di fondo Manuela Maccia, strategist di Bnp Paribas: «I
prezzi di alcune asset class caleranno, ma non credo che questo calo
sarà generale e duraturo. Detto questo, chi voglia esporsi
all’attuale volatilità del mercato azionario, lo faccia con un
approccio value, privilegiando titoli anti-ciclici e large cap».
Che dire infine delle commodity? «Le quotazioni dell’oro - risponde
Michael Palatiello di Wings Partners - potranno contare sulla sua
natura di bene rifugio. Anche le soft commodity, soprattutto quelle
legate alla produzione di biocarburanti, come i semi di soia, stanno
tenendo. Il petrolio invece potrebbe scendere ancora. Ma prevedo che
entro un paio d’anni possa tornare sui 120 dollari al barile. Anche
perché, oltre a una possibile ripresa della domanda, la capacità
produttiva soffrirà del blocco completo dei progetti di esplorazione
al quale stiamo assistendo».
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Fonte
- Borsa&Finanza |
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Sabato 13
Dicembre 2008 |
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Martedì 16
Dicembre 2008 |
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Mercoledì 17
Dicembre 2008 |
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Saldi
di fine stagione
08 Dicembre 2008 22:28 MILANO - di Max Malandra
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Sono bastati pochi mesi per ribaltare l’indole dei banchieri
centrali di tutto il mondo. Pochi mesi nei quali l’inflazione si è
rivelata solo uno spauracchio, mentre la recessione è diventata
realtà. E così gli inflessibili falchi si sono riscoperti docili
colombi. Una mutazione che non ha risparmiato i puri, nelle voliere
dell’Eurotower. Con il taglio senza precedenti di giovedì scorso -
75 punti base - Jean Claude Trichet e soci si sono lasciati alle
spalle anni di proclami contro l’inflazione e hanno inaugurato,
anche in eurozona, la nuova fase di politica monetaria: i tassi
scenderanno ancora - a detta di molti sotto del 2% - e rimanere
fermi a lungo.
È quanto il mercato dei bond governativi già suggerisce. Del resto,
che sulle scadenze brevi i rendimenti si muovessero all’unisono dopo
le mosse delle Banche centrali era prevedibile. Ma che i rendimenti
dei titoli decennali, o addirittura trentennali, facessero
altrettanto sembrava un azzardo.
Eppure, negli Usa, come in Gran
Bretagna e in Germania, la remunerazione dei governativi a dieci
anni è sui minimi dal secondo dopoguerra. Insomma, se non è una
bolla poco ci manca.
Il punto è che gli investitori non vogliono correre rischi. A parte
fidarsi di alcuni Stati. A farne le spese è stato il mercato dei
corporate bond: la scarsa domanda ha affossato anche i prezzi dei
titoli di maggior qualità e scadenze ravvicinate. La differenza di
rendimento tra societari e governativi si è dunque allargata a
dismisura, portando alla luce opportunità che, anche di questi
tempi, allettano chi ha più fegato.
LA CRISI. Era un mercato molto liquido. «Era»: perché negli ultimi
due o tre mesi la crisi di liquidità ha volatilizzato gli operatori,
rarefatto i flussi, allargato gli spread. «Abbiamo assistito a una
vera e propria fuga verso la qualità, che ha portato all’abbandono
del comparto corporate a favore dei governativi - conferma Francesca Cerminara, gestore obbligazionario di Zenit Sgr - E anche su quei
bond societari ancora scambiati, gli spread si sono allargati a
dismisura».
Un differenziale che vale sia in termini di ampiezza fra denaro e
lettera sui book di negoziazione, sia in generale come maggior
rendimento richiesto rispetto alle obbligazioni governative.
«In
pratica questo aumento di spread sconta non un normale rischio
specifico che caratterizza singole società o singoli settori, ma
piuttosto un rischio sistemico che coinvolge tutto il debito
corporate - spiega Cerminara - È evidente che siamo in una fase di
fortissimo pessimismo, che potrebbe durare ancora per un po’ di
tempo, ma è altrettanto vero che forse stiamo scontando un
disfattismo probabilmente eccessivo: il mondo non dovrebbe finire
nei prossimi due anni. Non ci saranno miglioramenti per ancora un
anno minimo, ma poi la situazione dovrebbe tornare a normalizzarsi».
LIQUIDITÀ E REPRICING.
Intanto negli ultimi 12 mesi si è capito qual
è l’asset più prezioso al momento: la liquidità. «Tuttavia le
continue manovre espansive delle Banche Centrali stanno riducendo i
rendimenti dei tassi monetari - ribatte Adam Cordery, gestore
obbligazionario di Schroders - I conti di deposito saranno sempre
meno remunerati e questo costituirà un altro buon motivo per
investire in bond corporate». E il prossimo anno la richiesta di
denaro da parte delle imprese sarà ingente in quanto sono attesi in
scadenza parecchi bond e prestiti bancari: con rendimenti richiesti
ben superiori a quelli in scadenza. Ecco perché parecchie società,
da Eni a Finmeccanica, da E.On a Bmw e Centrica, nelle ultime
settimane si sono affacciate sul mercato primario.
«È stata una finestra importante per vari motivi - spiega Corrado
Capacci, gestore di Compam Fund Sicav - Innanzitutto per i
rendimenti che sono decisamente interessanti. In secondo luogo
perché si è dato luogo al cosiddetto repricing. In pratica le nuove
emissioni hanno fornito la misura reale di quel che si attende il
mercato dai vari settori in termini di rendimento». Meglio quindi
puntare su primario o sul secondario?
«Non esiste una risposta univoca - spiega Capacci - Il primario ha
il vantaggio di assegnare un prezzo fisso e certo, mentre sul
secondario gli spread, specialmente negli ultimi tempi so6no molto
ampi. D’altra parte molte società per accelerare i tempi e ridurre i
costi preferiscono rivolgersi solo al mercato degli istituzionali e
non al pubblico retail, fatto che richiederebbe una serie di
adempimenti normativi più stringenti».
Tuttavia il mercato appare estremamente interessante dal punto di
vista dell’investitore: «Gli attuali rendimenti illustrano molto
bene perché siamo così positivi su questa asset class - interviene
Cordery - Il mercato stima livelli di negatività come probabilmente
nel 1929, ma non mi sembra questo il caso.
Una recessione è sicura,
ma salvo rari casi detenere obbligazioni sarà molto redditizio.
Puntando, per chi ha un profilo di rischio più elevato, anche sugli
high yield. Magari non direttamente ma attraverso fondi di
investimento, che quantomeno possono diversificare il rischio
specifico, trattenendo solo quello sistemico».
SCEGLIERE I BOND.
Ci sono quindi almeno tre passaggi per selezionare
un bond. Naturalmente è meglio sceglierli in euro per evitare rischi
sul versante valutario. Innanzitutto si può puntare sul mercato
primario acquistando prestiti obbligazionari in sottoscrizione, ma
la strada, come visto, è spesso sbarrata al risparmiatore privato.
In questo caso è meglio allora dirigersi sul mercato secondario
guardando a quei settori che di recente sono già stati oggetto di
nuove emissioni. E poi alla liquidità dei titoli.
«Occorre fare attenzione sia ai quantitativi scambiati sia allo
spread fra proposte in acquisto e in vendita per evitare che una
buona parte del rendimento venga mangiata da un’operazione di
acquisto mal eseguita - mette in guardia Francesca Cerminara - In
ogni caso non è un mercato adatto a chi vuole fare trading
sull’obbligazionario proprio a causa degli spread, decisamente
troppo ampi: occorre investire cifre di cui non si ha necessità, in
quanto il rendimento migliore lo si ottiene portando a scadenza i
bond». Infine il terzo passaggio è quello della scelta del comparto
di riferimento.
«Meglio puntare sulle utility e, per chi ha un profilo di rischio
più aggressivo, anche sulle auto - consiglia Francesca Cerminara -
Le prime viaggiano in media con un rendimento di 300 punti base
superiore ai governativi, le altre sui 600 basis point.
A metà
strada si situano le tlc, che garantiscono uno yield del 4%
superiore ai titoli di Stato; in questo caso, però, sarebbe meglio
aspettare che le nuove emissioni provvedano a far valere il fenomeno
del repricing anche sui bond quotati». E le possibilità sono
innumerevoli, visto che obbligazioni in euro vengono regolarmente
emesse anche da società europee e statunitensi, da British Telecom a
National Grid, da Bat a Imperial Tobacco e Ge.
Infine la grande incognita del settore bancario? Vale la pena farci
un pensierino? «A mio parere sì - conclude Francesca Cerminara -
offre un extra rendimento di circa 200 punti base e gode di una
sorta di garanzia implicita da parte degli Stati. Unica accortezza è
scegliere prestiti obbligazionari con scadenza 2-3 anni e
soprattutto non subordinati».
OCCASIONI SPECULATIVE. Sul mercato secondario si possono trovare
bond per qualunque profilo di rischio, dai più sicuri (ad esempio le
emissioni Bei) ai più rischiosi. Ma anche all’interno della
categoria investment grade le occasioni speculative non mancano. «Un
esempio molto significativo è il bond Fiat febbraio 2013 cedola
6,625% - spiega Capacci - Attualmente passa di mano a 70:
considerando le cedole e il rimborso a 100, il rendimento
complessivo è del 90%, quello annuo a scadenza supera il 17 per
cento. Lo consiglierei a un investitore con un profilo di rischio
abbastanza alto, nonostante il rating S&P sia ancora investment
grade (è BBB-, ndr). Certo, ci si assume il rischio di entrare in un
comparto nel bel mezzo di una crisi - conclude Capacci - ma perché
si arrivi al default dell’obbligazione occorre assumere che fallisca
la più grande azienda italiana».
 |
Fonte
- Borsa&Finanza |
JULIUS BAER,
UNA MORTE IMPROVVISA AL TOP
08 Dicembre 2008 08:08 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Alex Widmer, Ceo della piu' grande banca privata svizzera, è
deceduto improvvisamente. La notizia ha dato la stura a rumors
insistenti che parlano di suicidio.
Alex Widmer, chief executive di Bank Julius Baer, una figura di
assoluta prominenza nel settore bancario svizzero e mondiale, e'
morto improvvisamente all'eta' di 52 anni, si legge in un
comunicato di Julius Baer. Secondo una fonte interpellata da
Reuters amici vicini alla famiglia di Widmer hanno detto che il
banchiere si sarebbe suicidato.
Diversi siti web svizzeri tra cui 20 Minuten hanno citato due
fonti anonime indipendenti che hanno confermato si sarebbe
trattato di un caso di suicidio. La polizia elvetica si e'
rifiutata di fare commenti sulla morte di Widmer.
Julius Baer, la piu' grande banca della Svizzera specializzata
in "wealth management", con radici che risalgono al 19esimo
secolo, ha il suo quartier generale a Zurigo e gestisce oltre
$300 miliardi in assets per facoltosi investitori privati e
istituzionali.
Un portavoce della banca ha detto che non c'e' alcun legame tra
la morte di Widmer e le attivita' correnti del gruppo
finanziario, pur declinando di fornire ulteriori informazioni
sulle cause dell'improvviso decesso del banchiere, specificando
che si tratta di una questione privata.
Il successore di Widmer sara' Hans de Gier, ex Ceo di Julius
Baer Group fino al settembre 2008, quando lascio' l'incarico per
concentrasi sul suo ruolo di chairman dell'hedge fund GAM. Si
tratta di una scelta interna che potrebbe diventare permanente,
visto che de Gier conosce molto bene Julius Baer ed e' cittadino
svizzero.
Il titolo Julius Baer ha perso circa -60% nel 2008, per le
preoccupazioni del mercato relative al deflusso di capitali
dall'hedge fund GAM, in forte accelerazione soprattutto in
ottobre. Secondo Reuters Julius Baer ha negato i rumors che
darebbero per imminente una vendita del fondo GAM in una fase di
obbligatoria ristrutturazione nella quale il focus strategico
della banca ricadrebbe ancora una volta sul "wealth management".
Si tratta infatti del settore che in tempi recenti ha registrato
i maggiori progressi, soprattutto grazie ai problemi
dell'acerrima rivale UBS, alle prese con la giustizia Usa e con
una ricapitalizzazione da parte del governo elvetico, dopo
maxiperdite di decine di miliardi.
Fonte
- WallStreetItalia
MARCHIONNE
DRACONIANO
08 Dicembre 2008 13:04 MILANO
-
di Corsera ______________________________________________
Il mondo dell'auto potrebbe venire trasformato dalla
crisi economica come mai prima d'ora. «La nostra strategia delle
alleanze industriali mirate era un metodo per arrivare a un
certo tipo di aggregazione. Ma vista la situazione dei mercati e
quel che ci aspetta in futuro, quanto fatto finora non basta.
Per fare soldi bisogna produrre almeno 5,5-6 milioni di veicoli
all'anno. È quindi necessario fare delle aggregazioni, in un
modo o in un altro» sottolinea l'amministratore delegato del
Gruppo Fiat Sergio Marchionne in una intervista pubblicata oggi
sul quindicinale dell'industria dell'auto «Automotive News
Europe».
LA NUOVA PROSPETTIVA - Marchionne definisce la sua visione
«molto draconiana» ma a suo avviso «al termine di questo ciclo
di crisi, diciamo tra 24 mesi, resteranno i seguenti
protagonisti indipendenti: un costruttore americano, uno
tedesco, uno europeo-giapponese con una significativa estensione
negli Stati Uniti, uno giapponese, uno cinese e un altro
potenziale europeo». «I Wal-Mart del mondo dell'auto (la più
grande catena di supermercati del mondo che vende prodotti a
basso costo ndr), e Fiat Group Automobiles è uno di questi,
devono convenire che in futuro - dice - sarà richiesto un nuovo
modello di business, ben diverso da quello attuale, dove
l'indipendenza non è più sostenibile. Visti i livelli degli
investimenti richiesti per lanciare nuovi modelli, non è
pensabile che tutti gli attuali protagonisti del settore
conservino la loro indipendenza».
NUOVI MODELLI - Nell'intervista Marchionne sottolinea infine che
sta lavorando per «fare in modo che Fiat Group Automobiles sia
al sicuro perchè ha buoni marchi e un buon management». «Sto
tirando i freni su tutto - ha sottolineato Marchionne - sto
tirando i freni su nuovi modelli il cui sviluppo non è ancora
arrivato all'80% o al 90%. La nuova Alfa 147 uscirà sul mercato,
questo è sicuro, ma se mi chiedete se investirò in un nuovo Suv
per l'Alfa la risposta è no».
Fonte
-
Corriere della Sera
STAMPA ALLA CORDE,
FALLISCE IL GRUPPO TRIBUNE
08 Dicembre 2008 20:34 NEW YORK
-
di La Repubblica ______________________________________________
E' ufficiale. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago
Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l'accesso alle
procedure di in bancarotta a fronte di debiti per 13 miliardi di
dollari. Lo ha reso noto la testata capofila sul suo sito web.
La società acquistata nel dicembre 2007 per 8 miliardi di
dollari dal magnate immobiliare Sam Zell, ha assunto gli esperti
della società Lazard, per ricorrere agli strumenti previsti
dalle leggi sulla bancarotta per proteggersi dai creditori. Il
gruppo ha già messo in vendita la squadra di baseball dei
Chicago Cubs e ha già venduto il quotidiano newyorkese Newsday.
Le voci sul possibile ricorso della Tribune Co. alle procedure
previste dal cosiddetto Chapter 11 erano circolate nel fine
settimana, dopo che nella sede di Chicago erano arrivati
consulenti della Lazard.
Ma il gruppo Tribune non è il solo in cattive acque. E' sempre
più crisi per la stampa americana che deve fare i conti con il
calo della pubblicità e delle vendite. Più del 20 per cento del
settore editoriale ha problemi finanziari, secondo le stime del
Wall Street Journal, e il calo del 15 per cento della pubblicità
(cartacea e online) registrato dal settore nei primi nove mesi
dell'anno non sembra solo il frutto della recessione.
Gli analisti vedono una crisi strutturale e si aspettano una
riorganizzazione complessiva, con fusioni, tagli e scelte
dolorose. I media americani sono considerati da Wall Street
ancora troppo frammentati: l'editore più potente, Gannet (UsaToday),
controlla per esempio il 13,6 per cento della circolazione dei
quotidiani e gli esperti vedono spazio per accorpamenti. Non
manca chi ipotizza per i media piani di salvataggio simili a
quelli per i quali Detroit sta battendo cassa in Congresso, ma è
una possibilità che appare lontana. Nel frattempo, di fronte
all'emergenza, ogni gruppo tenta la propria strada.
Il New York Times ha deciso di accendere un ipoteca sulla nuova
nuova sede realizzata da Renzo Piano. Il Nyt, che controlla
anche il Boston Globe oltre all'International Herald Tribune, ha
reso noto sul proprio sito di voler di ipotecare la propria per
raccogliere 225 milioni di dollari di liquidità.
Il gruppo, che in realtà possiede solo il 58% del grattacielo di
52 piani sulla Ottava Avenue completato nel novembre del 2007,
deve far fronte a due linee di credito di 400 milioni ciascuna.
Di queste, una scadrà a maggio. Recentemente l'agenzia di rating
Standard & Poor's ha abbassato la valutazione sulla solidità del
gruppo e Moody's si prepara a fare altrettanto. Dall'inizio
dell'anno il titolo del Nyt ha perso oltre metà del suo valore.
In Florida un altro gigante dei media, McClatchy, terzo gruppo
editoriale degli Usa forte di 30 quotidiani, secondo
indiscrezioni cerca acquirenti per il Miami Herald, offrendo non
solo il quotidiano, ma anche il patrimonio immobiliare che lo
accompagna, a partire dalla sede del giornale affacciata sull'
Oceano. L'Herald, che ha una diffusione media di 210.000 copie,
ha vinto 19 premi Pulitzer: un'ulteriore conferma che la qualità
non è una garanzia contro il fallimento.
Ma la crisi offre anche nuove opportunità a chi resta solido. La
Cnn, reduce da una stagione elettorale che l'ha vista regina
degli ascolti, con conseguente aumento dei profitti
pubblicitari. Il network fondato da Ted Turner nei giorni scorsi
ha lanciato una sfida alla Associated Press e alla sua redazione
planetaria (4.000 giornalisti sparsi in 243 uffici in 97 paesi
del mondo). La CNN si offrirà come agenzia di stampa a basso
costo ai giornali che ritengono l'abbonamento alla AP troppo
costoso.
Nello stesso tempo, però, la stessa Cnn sta tagliando: ha fatto
rumore nel mondo dei media americani l'annuncio che verrà
cancellata l'intera redazione scienza e ambiente, compreso il
responsabile Miles O'Brien, un veterano della CNN e uno dei
volti più noti del network.
Fonte
- La
Repubblica
CRISI:
LA SCANDALOSA AIG CONTINUA A PERDERE SOLDI
10 Dicembre 2008 17:02 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
E' indecente la gestione dei fondi da parte del gruppo
assicurativo salvato in extremis dal governo Usa con un'
iniezione da $150 miliardi. La societa' ha perso altri $10
miliardi in trading speculativo.
Il gruppo assicurativo American International Group deve alle
grosse banche d’investimento di Wall Street un ammontare pari a
$10 miliardi legato ad operazioni di trading speculativo.
Il debito non e’ dovuto a contratti stipulati per la protezione
degli asset detenuti dalle banche o da altri investitori contro
il rischio di default, bensi’ ad investimenti indipendenti dall’attivita’
di assicurazione della societa’, scoperti essere scommesse su
derivati legati ai mercati dei mutui subprime, dell’immobiliare
e dei corporate bonds.
Tale debito non e’ ricoperto dai fondi governativi ricevuti nei
giorni scorsi e gia’ utilizzati per ricoprire le perdite sui CDO
(Collaterilized Debt Obligation – Obbligazioni Correlate al
Debito), creando cosi’ un nuovo allarme di liquidita’ per il
gruppo che continua ad operare in una situazione disastrata.
Fonte
- ANSA
ALERT MERCATO ORSO:
CALO TERRIFICANTE SU AZIONARIO
10 Dicembre 2008 20:19 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
A sostenerlo e' lo strategist Russell Napier che gia' nel 2002
aveva previsto l'impennata del greggio. Il tremendo ribasso fino
al punto di 'bottom' (fondo) potrebbe spingere l'indice S&P500
a...
I mercati azionari globali potrebbero essere soggetti ad un
ulteriore, terrificante crollo, secondo lo strategist di CLSA,
Russell Napier, che e’ giunto a tale conclusione analizzando la
teoria della Q di Tobin. Questa (che prende il nome dal premio
Nobel per l’economia James Tobin) mette a confronto il valore di
mercato delle aziende con il costo delle rispettive parti
costituenti, riuscendo cosi’ a misurare la differenza tra il
capitale desiderato e quello effettivamente posseduto.
Il rapporto mostra che l’indice S&P500 tratta ancora a livelli
troppo elevati in relazione al costo di sostituzione degli asset:
sebbene il calo del 40% dai recenti massimi abbia spinto il
listino al di sotto del livello di riferimento, la storia
insegna che e’ necessaria un’ulteriore contrazione che tenga
conto della deflazione. Attenzione!!! Questo potrebbe
significare un proseguimento del ribasso per l’S&P500 pari a
-55% dagli attuali livelli, fino in area 400 entro il 2014.
Napier afferma: "la Q e’ scesa sui livelli medi, tuttavia non
sempre trova supporto in tale area. Solitamente continua a
scendere al di sotto nelle lunghe fasi di mercato orso".
In riferimento all’azionario statunitense essa e’ scesa a 0.7
punti dal picco di 2.9 toccato nel 1999; un valore di 0.3 ha
sempre segnalato la fine del trend ribassista. Cio’ e’ accaduto
nelle fasi di mercato orso del 1921, ’32, ’49 e ’82. Napier non
ha dubbi: la storia si ripetera’.
Fonte
- ANSA
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Analisi;
hedge 2009, voglia di riscossa contro
sfiducia privati
11 Dicembre 2008 14:44 - di Reuters
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Dopo il terremoto dei
mercati finanziari e l'ondata di riscatti di quest'anno, l'industria
dei fondi hedge si affaccia al 2009 con più vincoli all'uso della
leva, ma meno concorrenti e quindi maggiori opportunità. Ne sono
convinti alcuni protagonisti del settore presenti in Italia,
fiduciosi che l'industria saprà fare fronte alla riluttanza della
clientela privata a impegnarsi nuovamente in investimenti illiquidi.
"All'inizio sicuramente il 2009 avrà strascichi del 2008", ha detto
a Reuters Michele Pacciana, responsabile per l'Italia della leader
mondiale quotata del settore Man Investments (Man Group). "Il
mercato deve trovare un equilibrio nuovo, ma le opportunità sono
ampiamente superiori a quelle che abbiamo mai visto negli ultimi 4-5
anni", aggiunge il manager, che si aspetta buone performance dalle
strategie convertible arbitrage, equity market neutral, managed
futures e global macro. In un mercato che è in generale meno
"affollato", il consigliere di amministrazione di Hedge Invest SGR,
Stefano Bestetti, sottolinea la
scomparsa delle banche di
investimento. "E' questo il fatto epocale, erano loro i competitor
formidabili dei fondi hedge perché facevano le loro stesse strategie
con un uso della leva impressionante", sottolinea. Ora, "essendoci
meno player, le strategie più dipendenti dall'uso della leva come
quelle 'relative value' potranno anche funzionare con una leva più
bassa", spiega Bestetti. Anche la strategia più in voga tra i
gestori italiani, la long/short equity, dovrebbe regalare
soddisfazioni. "Questo è un mercato che non si vede dagli anni '90:
è un mercato da stock pickers", afferma Massimo Maurelli, presidente
di AIMA (associazione dei gestori alternativi) in Italia, ottimista
anche per la strategia convertible arbitrage. Ma Pacciana avverte:
"Perché il long/short vada bene il deleveraging deve essere finito,
non ci devono essere condizioni di panico e divieti sullo short
selling". In Italia, in particolare, non è possibile "andare corti"
su nessun titolo a Piazza Affari fino al 31 dicembre, ma alcuni
protagonisti dell'industria temono che il divieto possa essere
prorogato.
PERDITE INFERIORI AL MERCATO MA CLIENTELA PRIVATA
SPAVENTATA Tartassati dai riscatti e rimasti in molti casi di colpo
senza prime broker, alla fine i fondi speculativi, secondo gli
addetti all'industria, hanno retto bene ai contraccolpi.
"Gli hedge
stanno dimostrando di reggere meglio delle banche e credo che il
loro peso sia infinitesimale rispetto alla potenza di fuoco delle
banche con i loro book pieni di titoli tossici", sottolinea Carlo
Gentili, co-fondatore di Nextam Partners. Ma in futuro, avverte un
banchiere, i vincoli di lock-up tipici degli hedge potrebbero essere
un decisivo deterrente per i sottoscrittori, almeno per quelli
privati. "Il problema grosso è l'illiquidità dell'investimento",
sottolinea il banchiere, che ha chiesto di restare anonimo. "Con un
ordine di vendere dato oggi esci al Nav di 3 mesi dopo". Da inizio
anno gli hedge in Italia hanno perso oltre 6 miliardi di euro,
secondo i dati provvisori a fine novembre di Assogestioni. Secondo
Gentili, il decreto del governo che disciplina i riscatti di questi
fondi suona un campanello di allarme e chiama ad un ripensamento in
particolare di quei fondi di fondi che ora si scoprono investiti in
prodotti estremamente illiquidi, tanto da avere difficoltà nei
rimborsi. La speranza di Gentili è che "il provvedimento governativo
non venga utilizzato dai fondi di fondi italiani che per loro natura
si sono sempre dichiarati conservativi".
RIPENSARE LA
COMMERCIALIZZAZIONE DEGLI HEDGE Per Maurelli,
il problema "nasce
dalla clientela soprattutto privata che non è informata o che non ha
capito e che quindi, presa dal panico, sta uscendo o sta cercando di
farlo", spiega, dicendosi favorevole ad un aumento di trasparenza e
informazione. In sintonia Bestetti, secondo il quale l'industria
deve ripensarsi solo a livello di commercializzazione dei prodotti,
evitando la clientela retail ma dimezzando l'attuale soglia minima
di investimento di 500.000 euro. I fondi hedge "devono essere
presentati come strumenti di medio termine capaci di preservare dai
momenti difficili del mercato ma non si può chiedere, nell'anno
peggiore dal 1929, di avere rendimenti positivi", sottolinea il
consigliere di Hedge Invest. Il settore hedge che sopravviverà alla
crisi, secondo Maurelli, sarà più piccolo - dimensionalmente e
numericamente - ma più solido. "Non appena l'industria comincerà a
produrre rendimenti positivi, il trend di crescita ricomincerà anche
più forte che nel passato". Non è escluso un raddoppio degli asset
in gestione, "a 3.000 miliardi, nei prossimi 3-5 anni", aggiunge.
Simone Chelini, managing director di Albatross Fund (Unifortune AM
sgr) punta proprio il dito contro un aumento degli Aum (asset under
management) spesso non coerente con la strategia del fondo, pratica
diffusa prima dalla crisi per far salire proporzionalmente le
commissioni dei gestori. D'altra parte, secondo Bestetti,
l'industria non deve rivisitare la remunerazione variabile dei
gestori per attirare sottoscrittori, perchè quest'ultima è già
sottoposta al "high water mark", cioè è dovuta solo se sono
recuperate le perdite pregresse. Per aggirare la clausola azzerando
tutto, tuttavia, basta chiudere il fondo e aprirne uno nuovo. Il
patrimonio dei 270 fondi speculativi italiani, pari a 36,6 miliardi
a gennaio, è sceso a circa 25 miliardi di euro a fine novembre
secondo i dati provvisori di Assogestioni. A livello mondiale gli
asset in gestione si sono ridotti a 1.560 miliardi di dollari a fine
ottobre, secondo Hedge Fund Research, le dimensioni più piccole
raggiunte dall'industria dal dicembre 2006.
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Fonte
- Reuters |
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Giovedì 18
Dicembre 2008 |
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Venerdì 19
Dicembre 2008 |
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Sabato 20
Dicembre 2008 |
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Gestori
pronti per un 2009 in recessione
11/12/2008 10.44 - di Sara Silano
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Per il 2009, l’84% dei gestori intervistati da Morningstar
nell’ultimo sondaggio mensile dipinge uno scenario recessivo,
caratterizzato da bassi livelli produttivi, aumento della
disoccupazione, riduzione dei tassi di interesse e minor inflazione.
Solo il 16% delle case di investimento interpellate prevede una
ripresa, ma nessuno si attende una depressione, ossia una crisi
economica ancor più grave e simile a quello che accade nel 1929. I
mercati azionari devono ancora digerire completamente la situazione
congiunturale e per questo motivo rimarranno volatili nella prima
parte del nuovo anno. Successivamente, dovrebbero ripartire,
anticipando la risalita dell’economia. Borse europee senza forze
Quasi il 67% dei gestori prevede che i mercati del Vecchio
continente continuino ad oscillare, anche violentemente, intorno
agli attuali livelli nei primi sei mesi del 2009. Sono pochi,
infatti, i motivi per essere ottimisti, perché l’economia è in
frenata e gli utili aziendali sono previsti in calo. Gli
intervistati giudicano positivamente la politica espansiva
intrapresa dalla Banca centrale europea, che ha proseguito con il
ribasso dei tassi, scesi al 2,5% e sono convinti che la diminuzione
dell’inflazione favorisca ulteriori tagli nei prossimi mesi.
Wall Street aspetta Obama
Rispetto all’Europa, gli Stati Uniti possono contare su un elemento
catalizzatore in più, il piano per rilanciare la ripresa annunciato
dal neo eletto presidente, Barack Obama, che si affianca alla
politica molto espansiva della Federal Reserve e agli interventi già
realizzati dal Governo. Tuttavia, Wall Street deve ancora fare i
conti con una recessione che sarà più lunga del previsto e una crisi
creditizia che non si è ancora esaurita.
Per il 57% dei gestori, la
Borsa rimarrà volatile ancora per buona parte del prossimo anno. La
percentuale di ottimisti, tuttavia, è superiore rispetto all’Europa
(il 33% contro il 23,8%), perché molti sono convinti che l’America
uscirà dalla fase attuale prima. Inoltre, il mercato a stelle e
strisce è il più difensivo tra quelli sviluppati.
Il Giappone divide i gestori
Nell’ultimo mese si sono dimezzati gli ottimisti sulla Borsa di
Tokyo, passando dal 62% di novembre al 33%. Come spiega Cristiano Busnardo, amministratore delegato di Société Générale asset
management Italia sim, il mercato nipponico ha registrato una
correzione più forte rispetto all’occidente a causa della forte
correlazione con l’economia globale (il settore ciclico pesa per
metà sull’indice Nikkei) e del forte apprezzamento dello yen.
Inoltre è molto sensibile ai flussi di investimento stranieri e ai
rischi legati all’economia cinese.
Secondo alcuni gestori, Tokyo
sarà la peggiore Borsa nel 2009, secondo altri, invece, offre
valutazioni molto attraenti. La metà degli intervistati, comunque,
non si attende grandi variazioni rispetto ai livelli attuali.
Bond, continua la ricerca di qualità
Con l’inflazione che fa meno paura, la Banca centrale europea è ora
focalizzata sulla situazione economica e potrebbe ridurre
ulteriormente i tassi di interesse. Di conseguenza, i prezzi
obbligazionari sono destinati a salire, spinti anche dalla forte
domanda di bond di qualità. Tuttavia, la politica di emissioni
aggressive potrebbe penalizzare le parti lunghe della curva.
Il
mercato rimarrà volatile nei prossimi mesi per il 62% dei gestori,
mentre il 38% prevede un incremento delle quotazioni. Il discorso è
analogo per il mercato americano, per il quale circa la metà dei
gestori mantiene un atteggiamento neutrale.
Il dollaro tiene duro
Per il 47,7% dei gestori, la divisa americana continuerà ad
apprezzarsi nei confronti dell’euro nella prima metà del 2009.
Esiste, però, un po’ di preoccupazione per l’aumento del debito
pubblico, che potrebbe penalizzare il dollaro se le misure varate
dal Governo non riusciranno a risollevare l’economia. Il biglietto
verde beneficia anche del rimpatrio dei capitali e della riduzione
del differenziale dei tassi tra Stati Uniti ed Europa. Per il 33%
degli intervistati, comunque, non bisogna attendersi grandi
scostamenti dagli attuali livelli.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 2 e il 9 dicembre,
21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti
sul territorio, che contano per circa l’85% degli asset gestiti in
Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Banca Profilo, Bipiemme
Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Consultinvest, DekaBank,
Eurizon Capital, Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Henderson
Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Maxos sim,
Pioneer Im, Sgam, Sella Gestioni, Standard Chartered Bank, Union
Investment, Vontobel.
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Fonte
-
MorningStar.it |
PETROLIO, LA SAGA DEGLI IDIOTI:
GOLDMAN PASSA DA UN TARGET DI $200 A $30
12 Dicembre 2008 14:19 LONDRA
-
di Reuters ______________________________________________
Il petrolio è sceso sotto i 45 dollari al barile, con i mercati
finanaziari globali appesantiti dalla mancata approvazione del
piano di emergenza da 14 miliardi di dollari per il settore auto
Usa. Goldman Sachs ha inoltre previsto che il prezzo del greggio
potrebbe arrivare fino a 30 dollari al barile.
Da notare che Goldman Sachs, che nella prima meta' del 2008 era
la "numero 1" al mondo nel trading di greggio (prima di
trasformarsi in banca commerciale per via della crisi) a giugno
aveva lanciato un target price di $200 per il barile di
petrolio. Simili cambiamenti di giudizio la dicono lunga sull'inaffidabilita'
dei target price (manipolabili e manipolati) da parte di banche
e finanziarie; e anche sull'accelerazione paurosa della crisi
mondiale.
Intorno alle 13,40 il futures a gennaio sul Nymex cede 3,16
dollari scambiando a 44,82 dollari al barile, mentre l'analoga
scadenza sul Brent perde 3,19 dollari a 44,20 dollari. Il
cattivo stato di salute dei colossi dell'auto come General
Motors e Chrysler illustra la serietà del rallentamento
economico mondiale, che ha colpito la domanda di greggio.
"Il brusco calo della domanda di petrolio mondiale nel quarto
trimestre del 2008, con l'intensificarsi del credit crunch, ora
minaccia di spingere il prezzo del petrolio sotto i 40 dollari
al barile nel breve termine", scrive Goldman Sachs in uno
studio. Secondo la banca il prezzo potrebbe scendere fino a 30
dollari.
La banca americana ha anche sottolineato come un ulteriore
taglio di 2 milioni di barili al giorno da parte dell'Opec -
misura che potrebbe essere decisa nella riunione del 17 dicembre
in Algeria - sia necessario. Anche la banca francese BNP Paribas
ha tagliato le stime per il prezzo del greggio nel 2009,
portandole a 53 dollari al barile contro i 75 di una precedente
valutazione.
Fonte
- Reuters
ALLARME HEDGE FUNDS,
DOPO IL CRACK MADOFF
14 Dicembre 2008 22:49 MILANO
-
di Monica D'Ascenzo ______________________________________________
A 48 ore dall'esplosione del caso Madoff è ancora
difficile quantificare gli effetti che la truffa del secolo avrà
sui fondi di fondi hedge. Una cosa, però, è già chiara: il crack
di Madoff rischia di scatenare un effetto domino sui gestori
delle più importanti piazze finanziarie europee, da Londra a
Ginevra, da Madrid a Milano. In cifre, il falò da 50 miliardi di
dollari acceso a Wall Street potrebbe mandare in fumo il 5%
degli asset europei dei fondi di fondi hedge.
Per quanto riguarda l'Italia, i rapporti con Madoff sono certi,
ma il danno subito dagli investitori è difficile da
quantificare: c'è chi parla di un'esposizione complessiva di
oltre 3 miliardi, ma dai gestori non arrivano conferme.
Sul sito web di Pioneer del gruppo UniCredit, ad esempio, è
scritto che «sostanzialmente tutti» i 280 milioni di dollari del
fondo Primeo Select sono stati investiti sui fondi di Madoff.
Dalla società fanno sapere che «come molti altri asset manager
Pioneer Alternative Investments (Pai) sta valutando il
potenziale impatto di questa situazione: Pai non è un
investitore diretto in Madoff, ma alcuni fondi sono esposti
indirettamente tramite feeder funds».
Il danno, se ci sarà, potrebbe riguardare solo in minima parte
gli investitori privati: «Questi fondi sono distribuiti
principalmente a investitori istituzionali e wholesale.
L'esposizione per i clienti retail è molto limitata e pari a
zero in Italia. Continueremo a monitorare la situazione, per
assicurare che vengano messe in atto tutte le procedure
necessarie a rappresentare gli interessi dei nostri clienti »,
prosegue la fonte di Pioneer.
Stesso discorso per il Banco Popolare, socio in Aletti Gestielle
Alternative di Union Bancaire Privée, la banca svizzera
coinvolta nel caso Madoff per un'esposizione valutata in oltre
un miliardo di euro.
Il gruppo bancario italiano ha fatto sapere che si tratta di «un
impatto minimo nei nostri fondi di fondi hedge». Ma anche in
questo caso, le cifre non vengono fornite. Un caso tutto da
accertare riguarda la Fim, la società londinese di advisory
gestita da due manager italiani, Federico Ceretti e Carlo
Grosso. Secondo alcune indiscrezioni, la Fim avrebbe investito
somme molto ingenti per conto di clienti italiani in Kingate, un
hedge della galassia Madoff con asset per 2,8 miliardi di
dollari: ebbene, la sorte di queste risorse è quanto meno
incerta. In questa situazione confusa, molte società di gestione
si sono affrettate a tranquillizzare i propri investitori.
Hedge Invest, della famiglia Manuli, ha inviato una email a
tutti i suoi clienti: «Caro Investitore - è scritto nella
lettera - in seguito alla notizia dell'arresto di Bernard Madoff,
Ceo di Madoff Investment Securities, società di brokeraggio
operativa presso il New York Stock Exchange e advisor di alcuni
fondi hedge (tra i quali ci risultano i seguenti: Kingate,
Fairfield Sentry, M&B Equity Plus, M&B LIF US Equity Luxalpha,
Thema International, Herald Fund, Dakota Global Investment e
Rafale Partners Inc) vi confermiano di non avere esposizione in
nessun portafoglio o fondo supervisionato dalla stessa società».
Anche Albertini Syz ha scritto ai clienti: «Gentili investitori,
facendo riferimento alla notizia diffusa relativa alla Madoff
Investment Securities LLC e alle numerose richieste a noi
pervenute (...) desideriamo comunicare che Albertini Syz SGR non
ha alcuna esposizione a fondi ricollegabili a Madoff Investment
Securities LLC». Dello stesso tenore la mail di Kairos, il fondo
del finanziere Paolo Basilico, che ha negato esposizioni con
Madoff. In Svizzera, dove la situazione appare molto più tesa,
il fondo di fondi hedge Harcourt ha detto di non avere «alcuna
esposizione con fondi feeder legati a Madoff» e quindi di non
essere stato toccato «da questo presunto caso di frode».
Ciò che sorprende tutti in questa storia sono comunque i segnali
inascoltati. In particolare, molti risk manager dei fondi
guardavano con sospetto il fatto che gli investimenti non
avvenissero attraverso una banca depositaria, che comunque
rappresenta una garanzia, ma direttamente con l'asset management
della società di Madoff, Bmis. Altro fattore sospetto era il
rendimento mensile costante, sempre alto indipendentemente dai
movimenti del mercato.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
CRISI HEDGE FUNDS:
CITADEL CONGELA I RISCATTI
15 Dicembre 2008 17:05 NEW YORK
-
di Reuters ______________________________________________
Citadel Investment Group, una delle maggiori societa' di
gestione Usa di hedge funds, ha inviato durante il weekend una
lettera ai clienti annunciando di aver bloccato i riscatti
almeno fino a marzo 09. Performance: -47%.
Citadel Investment Group, una delle maggiori societa' di
gestione Usa di hedge funds, ha inviato durante il weekend una
lettera ai clienti firmata dal presidente e fondatore Ken
Griffin, con l'annuncio di aver bloccato tutti i riscatti almeno
fino al marzo 2009.
La decisione e' stata presa per "la continua volatilita' del
mercato", ha fatto sapere la portavoce di Citadel, Katie Spring
dalla sede di Chicago. Il congelamento dei riscatti riguarda i
due fondi Kensington e Wellington.
"Riconosciamo che una sospensione dei riscatti puo' aver un
impatto sui nostri investitori, specialmente quelli che hanno
gia' obbligazioni finanziarie a cui far fronte per proprio
conto", si legge nella lettera di Griffin. Ai primi di novembre
il gruppo Citadel gestiva circa $18 miliardi. Aveva fatto
registrare una performance positiva ogni anno dal lancio nel
1990, ma dopo la crisi degli ultimi mesi e lo scandalo Madoff
nessuno si fida piu' di questi rendimenti stellari del passato.
Citadel ha registrato un calo del 13% a novembre, il che ha
fatto crollare la perdita dall'inizio dell'anno a -47%, stando a
un dispaccio di Reuters del 4 dicembre scorso. Decine di
importanti hedge funds hanno di recente posto drastiche
restrizioni alla richiesta di riscatti da parte dei clienti. Se
nella norma un investitore puo' riscattare i propri capitali in
media in 90 giorni, l'attuale arco di tempo si e' allargato
adesso a 6 mesi. Cio' significa che ancora non si sono viste
tutte le pressioni ribassiste sia sul comparto dei fondi sia sui
portafogli azionari posseduti dagli stessi fondi.
Fonte
- Reuters
PETROLIO:
ANCHE MERRILL LYNCH E' SHORT ($25)
16 Dicembre 2008 16:49 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
Entro la fine del prossimo anno le quotazioni dell'oro nero
potrebbero dimezzarsi rispetto agli attuali livelli. Ma finita
la recessione, la domanda risalira'.
Anche gli analisti di Merrill Lynch stimano ora un ulteriore
deprezzamento dell’oro nero che, entro il prossimo anno,
potrebbe dimezzarsi dagli attuali livelli. Il nuovo prezzo
obiettivo della banca per il 2009 e’ ora pari a $25 al barile,
tuttavia, il ritracciamento potrebbe essere piu’ veloce del
previsto ed avere una durata inferiore delle attese.
Gli stessi analisti notano infatti che la crescita mondiale si
attestera’ al 2.2% nel prossimo anno per poi schizzare al 4.8%
entro il 2001. Cio’ provochera’ inevitabilmente un incremento
della domanda per greggio e prodotti petroliferi che potrebbe
riportare le quotazioni di petrolio a $150 nel giro di due,
massimo tre anni.
La banca ha cambiato il target price almeno quattro volte
quest’anno, in risposta alla repentina variazione delle
condizioni di mercato, alla luce della recessione che sta
interessando le economie globali.
"Cio’ che ci ha spinto a cambiare le nostre prospettive e’ stata
l’esplosione del ciclo del credito. E qualora l’economia cinese
dovesse peggiorare, allora non ci sono dubbi sul fatto che i
prezzi potrebbero scendere addirittura al di sotto dei $25." "E’
un po’ come dire che se la temperature scende, fuori fara’
freddo".
Nei giorni scorsi erano state Goldman Sachs e Deutsche Bank a
ridurre le stime sulle quotazioni di greggio per i prossimi
mesi.
Fonte
- ANSA
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Orribile 2008 addio, peggior anno dal 1931
27 Dicembre 2008 18:15 MILANO - di Il Sole 24 Ore
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Il 2008 rischia di essere
per Wall Street l'anno più nero di tutti i tempi.
A tre giorni dalla fine
delle contrattazioni di quest'anno l'indice Standard & Poor's è in
calo del 40,6% dalla chiusura del 2007. In pratica gli mancano
soltanto una o due giornate negative per superare il -47,1% del
1931, l'anno in cui si è registrato il peggior andamento
borsistico di tutti i tempi. Secondo l'indice Dow Jones Wilshire
5000, quest'anno i listini
statunitensi bruceranno la cifra record di 7.300 miliardi di
dollari.
Subprime e non solo. Tutto è cominciato con la crisi del settore
immobiliare Usa e in particolare con quella dei subprime, che ha
contagiato il settore finanziario, conducendo prima al credit crunch,
la paralisi della liquidità creditizia, e poi alla recessione. Le
borse hanno fatto da catalizzatore di questa tempesta economica e
finanziaria, che non ha ancora finito di imperversare e che ha
drammaticamente cambiato il panorama di Wall Street. Alcuni dei
pilastri su cui si reggeva il grattacielo della finanza Usa non
hanno retto. Prima è toccato a Bear Stearns, poi ad Aig, il gigante
delle assicurazioni, che il governo Usa ha dovuto nazionalizzare.
Tra Lehman e Madoff. A seguire, è arrivato il crollo di Lehman
Brothers, dietro al quale, con un impressionante effetto a catena,
forse inizialmente sottovalutato dalle autorità Usa, tutto il mondo
dorato delle grandi banche d'affari americane, si è sbriciolato
nell'arco di pochi mesi. Goldman Sachs e Merrill Lynch hanno dovuto
rinunciare al loro status di investment bank per trasformarsi in
normali holding bancarie e cercare protezione dietro all'ombrello
della Fed.
Le banche centrali di tutto
il mondo hanno cercato di rimettere in moto il sistema finanziario
internazionale, paralizzato dalla crisi, con gigantesche immissioni
di liquidità e tagliando i tassi fin quasi a quota zero. Poi, quando
la crisi dal sistema finanziario è passata all'economia reale,
allargandosi dagli Usa a tutto il mondo, prosciugando i consumi e
innestando la retromarcia alla crescita produttiva, è toccato ai
governi nazionali mettere in campo colossali piani di aiuti.
Gli Usa hanno avviato il Tarp, un programma di stabilizzazione del
sistema finanziario da 700 miliardi di dollari, che ultimamente la
Casa Bianca ha accettato, a denti stretti, di allargare anche al
comparto dell'auto, per evitare il fallimento di General Motors e
Chrysler. Come se non bastasse a peggiorare il quadro è arrivata
nell'ìultimo spicchio dell'anno la gigantesca truffa finanziaria di
Bernard Madoff, l'ex presidente del Nasdaq, che ha bruciato 50
miliardi di dollari con la sua società finanziaria.
La ricetta di Obama. Il presidente eletto Barack Obama, che
s'insedierà il prossimo 20 gennaio, ha già detto che intende varare
un altro piano di stimoli all'economia, che molti esperti stimano
tra i 700 e gli 850 miliardi di dollari, il cui obiettivo dovrà
essere quello di creare almeno 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro.
Intanto anche il Giappone e la Cina hanno messo in campo due piani
di aiuti all'economia da oltre 800 miliardi di dollari l'uno, mentre
l'Europa sta faticosamente cercando di mettere assieme risorse e la
commissione Ue ha predisposto un piano da 200 miliardi di euro, pari
all'1,5% del Pil dei 27 Paesi membri, che il Fmi ha già definito
insufficiente.
Gli osservatori
internazionali parlano di una crisi globale di proporzioni mai viste
prime, definita la peggiore crisi economica dai tempi della Grande
Depressione degli anni Trenta.
In queste ultime sessioni che mancano alla fine dell'anno, non si è
visto nessun rally di fine anno, o di 'santa Claus' per i mercati
azionari, segno, secondo gli analisti, che si prepara un 2009 ancora
più nero del 2008 e quindi un nuovo drastico ridimensionamento della
capitalizzazione di borsa dei titoli quotati.
La prossima settimana si prevedono scambi leggeri in Borsa e poi,
martedì 30 dicembre, arriveranno i dati del Conference board sulla
fiducia dei consumatori Usa a dicembre. Mentre venerdì 2 gennaio,
verranno diffusi i dati Usa dell'indice Ism manifatturiero di
dicembre, previsti ancora in calo e ben al di sotto dei 50 punti e
cioè del livello che separa una fase di contrazione da una di
espansione dell'economia.
L'eclisse
della borsa di Tokyo
30 Dicembre 2008 09:43 - di Miaeconomia ______________________________________________
La recessione picchia dura anche in
Asia, e se la Cina deve fare i conti con un brusco
rallentamento dopo anni di corsa sfrenata, in
Giappone tornano i fantasmi della crisi economica degli anni
'90, che fino a dodici mesi fa sembrava poter diventare un
ricordo. E invece nel 2008 la crisi globale ha fatto sentire
il suo effetto anche nel paese del Sol Levante, e la borsa
lo ha dimostrato chiaramente: l'indice Nikkei della Borsa di
Tokyo ha chiuso il 2008 con la peggior caduta annuale in
percentuale della sua storia: -42,12 per cento. Gli
investitori hanno massacrato le azioni dei grandi gruppi
esportatori giapponesi. Le vendite hanno riguardato in
particolare il settore delle automobili, i cui produttori
hanno visto crollare le loro previsioni di benefici a causa
della caduta della domanda negli Stati Uniti e in Europa e
per l'apprezzamento galoppante dello yen su dollaro e euro.
Il numero uno mondiale Toyota ha perso la metà (-51,92 per
cento) del suo valore di Borsa nel corso dell'anno concluso.
Colpito dalla caduta del mercato statunitense, il gruppo
prevede di subire nell'esercizio 2008-2009, che termina a
fine marzo, la prima perdita della sua storia.
Le perdite sono state ancora più spettacolari per alcuni
suoi concorrenti, come Nissan o Mazda, che hanno perso circa
tre quarti del loro valore di mercato. Forti perdite anche
per tutti i gruppi più dipendenti dalle esportazioni, come
Nikon o Citizen.
Il gigante dell'elettronica Sony ha visto le sue azioni
perdere il 69 per cento, la banca Mitsubish Ufj Financial
Group il 47,56 per cento.
Nell'insieme dell'anno 2008, l'indice faro del mercato
azionario giapponese ha registrato una perdita secca di
6.448,22 punti, pari al
42,12 per cento. Si tratta della più pesante caduta in
percentuale su un anno dell'indice Nikkei dalla sua
introduzione nel 1949. Per numero di punti, tuttavia, la più
pesante perdita mai registrata resta quella registrata
nell'anno nero del 1990, quando il Nikkei era precipitato
perdendo 15.067,16 punti, pari al 38,71 per cento rispetto
al 1989. Il Nikkei aveva già perso l'11,13 per cento nel
2007 dopo quattro anni di rialzi. Mentre il più ampio indice
Topix su tutto il 2008 ha perso 616,44 punti, pari a 41,77
per cento.
Fonte
- Miaeconomia
Borsa Francoforte
chiude 2008 in calo 40,4%
30 Dicembre 2008 14:43 - di Reuters ______________________________________________
Borsa Francoforte chiude 2008 in
calo 40,4%,Infineon il peggiore
FRANCOFORTE (Reuters) - La borsa di Francoforte ha
archiviato il 2008 in ribasso del 40,4% a 4.810,20 punti, la
seconda peggiore performance annua della propria storia
ventennale dopo quella del 2002 (-44%). La perdita del Dax
si confronta con il rialzo del 22,3% messo a segno l'anno
scorso. Il titolo più venduto è stato il produttore di
semiconduttori Infineon (-88,1%), seguito da Commerzbank
(-74,7%) e da Deutsche Postbank (-74,5%). In controtendenza
Volkswagen, balzata del 60,2% sui piani di rafforzamento di
Porsche nel capitale della casa automobilistica. Il 2008 è
stato anche l'anno in cui l'indice ha registrato cinque
delle dieci peggiori sedute della propria storia, con
perdite giornaliere superiori al 7%. Resta tuttavia
inviolato il record negativo del 16 ottobre 1989 quando il
Dax lasciò sul terreno in un solo giorno il 13%. La borsa di
Francoforte ha chiuso alle 14 e le contrattazioni resteranno
ferme fino al 2 gennaio.
Fonte
- Reuters
Petrolio:
nel 2008
prezzi -60%, calo record da 25 anni
31 Dicembre 2008 09:17 ROMA - di ANSA ______________________________________________
Bloomberg, e' il primo ribasso
annuale dal 2001
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Nel 2008 i prezzi del petrolio hanno
registrato un calo record: -60%. Si tratta del primo calo
annuale dopo il 2001. In quell'occasione i prezzi del
greggio diminuirono del 26%. Secondo la Bloomberg quello
attuale e' il maggiore calo da sempre, ovvero da quando
iniziarono le contrattazioni nel 1983, 25 anni fa.
Fonte
- ANSA
Borsa Hong Kong
chiude il 2008 in calo del 48,3%
31 Dicembre 2008 09:36 HONG KONG - di ANSA ______________________________________________
A Sydney il ribasso nell'anno
solare e' stato del 41,3%
(ANSA) - HONG KONG, 31 DIC - La Borsa di Hong Kong ha chiuso
il 2008 con un calo annuale del 48,3%, il peggior risultato
degli ultimi 34 anni. L'indice Hang Seng ha terminato la
seduta odierna in rialzo del'1,1%, guadagnando 151,98 punti
a quota 14.387,48. A Sydney, la Borsa ha invece perso
nell'intero anno solare il 41,3%. La seduta odierna si e'
chiusa con un rialzo dell'1,9% per l'indice S&P/ASX200, che
ha guadagnato 68,1 punti a quota 3.722,3.
Fonte
- ANSA
Oro:
in 2008 guadagna 4%, cresce per ottavo anno consecutivo
31 Dicembre 2008 10:11 ROMA - di ANSA ______________________________________________
Nel 2009 possibile nuova crescita
grazie a perdurare della crisi
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Successo anche quest'anno - ed e'
l'ottavo consecutivo - per l'oro, il bene rifugio nei
periodi di crisi: nel 2008 ha guadagnato il 4%. Le
quotazioni hanno anche segnato a marzo un record assoluto:
1.032,70 dlr l'oncia. Nel solo mese di dicembre le
quotazioni dell'oro sono aumentate del 13%. Il perdurare
della crisi economica e le tensioni geopolitiche potrebbero
consentire alle quotazioni dell'oro un'ulteriore crescita
anche nel 2009. E' quanto stimano analisti interpellati da
Bloomberg.
Fonte
- ANSA
LA BORSA DI
MILANO
HA PERSO META' DEL VALORE
31 Dicembre 2008 14:52 TORINO - di ANSA ______________________________________________
Solo 7 titoli chiudono il 2008 in
positivo 12 hanno bruciato più dell’80 per cento. Piazza
Affari ha visto fortemente ridotto il suo peso rispetto al
prodotto interno. In calo anche il volume delle
contrattazioni.
Non c’è molto di buono da dire sul 2008 della Borsa a
Milano. Solo sette titoli hanno chiuso in positivo, per il
resto è un pianto greco. Piazza Affari ha perso metà del suo
valore e ha visto fortemente ridotto il suo peso rispetto al
prodotto interno. In calo anche il volume delle
contrattazioni. Ovviamente i listini si riprenderanno, ma
nessuno sa prevedere quando, e molti analisti avvertono:
attenti, anche se le quotazioni sono molto scese, non è che
adesso i titoli costino poco, costano semplicemente
l’arrosto che valgono, quello che hanno perso era solo fumo.
Quindi non ci sono grandi affari in giro da cogliere, al
momento, se non selezionando con attenzione. Cominciamo da
chi è andato bene. Bastogi nel 2008 ha aumentato il valore
del 47,9%. La seguono Nova Re (+41,7%), Landi Renzo
(+38,9%), Ansaldo Sts (+18,7%), Lazio (+12,5%), Ergo
Previdenza (+12,3%) e Gas Plus (+6,1%). Fra i titoli
peggiori, quelli di dodici società hanno perso più dell’80%
di capitalizzazione: la maglia nera Cell Therapeutics ha
ceduto il 99,4%, Eutelia il 91,3% e Risanamento l’86,8%.
Guardando alle cifre aggregate, l’indice S&P/Mib ha perso il
49,5% che corrisponde a una capitalizzazione dimezzata delle
società quotate: il valore complessivo dei titoli è crollato
dai 731 miliardi di fine 2007 ai 372 attuali. Sono spariti
359 miliardi. Diminuisce anche il peso della Borsa
nell’economia italiana: il rapporto capitalizzazione/Pil
passa dal 47,8% del 2007 (già in calo dal 52,8% del 2006) al
23,4%. È molto aumentata la volatilità degli indici: dal
12,5% del 2007 al 30,5% dell’anno che si chiude. Ottobre è
stato il mese più volatile nella storia di Piazza Affari,
con un livello del 69,1%. Male anche il volume gli scambi:
quelli azionari sono scesi da 1572 a 1028 miliardi di euro
(-34,6%), con una media giornaliera caduta da 6,2 a 4,1
miliardi. I contratti scambiati sono stati 69,2 milioni, in
regresso del 4,6%. La Borsa italiana stenta a decollare
anche come numero di società quotate: nel 2008 sono state
appena 300, persino in calo rispetto al numero (già basso)
di 307 nell’anno prima. Una nota tecnica importante: la
Consob ha prorogato al 31 gennaio, ma allentandoli, i
vincoli sulle vendite allo scoperto. Il divieto continua a
esserci per i titoli di banche, assicurazioni e società
sotto aumento di capitale. Per le altre società torna la
possibilità di vendere titoli presi a prestito: basta averne
la disponibilità.
Fonte
- ANSA
Borsa,
un 2008 da dimenticare
31 Dicembre 2008 19:47 NEW YORK - di Miaeconomia ______________________________________________
Il 2008 è un anno da dimenticare,
non ancora ai livelli del crollo del 1929 ma solo perché le
autorità pubbliche di mezzo mondo hanno iniettato sui
mercati enormi risorse monetarie per dare una mano a banche,
assicurazioni e altri colossi quotati in pesantissima crisi
di liquidità.
Così nell'ultima seduta di ieri, alla chiusura dei mercati
il Mibtel ha registrato un saldo negativo, rispetto al primo
gennaio, pari al 48,5%, l'SPMib ha lasciato il 49,5%. In
pratica nel giro di un anno sono stati spazzati via 4mila
miliardi di euro, così Piazza Affari adesso in termmini di
capitalizzazione vale un quarto del Prodotto interno lordo
italiano. Solo un anno fa pesava per circa il 48% del Pil.
E con un mercato sempre più sottile per capitalizzazione,
accade che le oscillazioni di indici e singole azioni
diventino sempre più violente. Non a caso la volatilità
dell’indice Mib è passata dal 12,5% del 2007 al 30,5% del
2008.
Con il passare dei mesi è diventata storia ordinaria vedere
gli indici oscillare come un pendolo impazzito. La
variazione positiva più elevata dell'indice Mibtel (+8,26%)
è stata raggiunta lunedì 13 ottobre, quella negativa
(-9,24%) venerdì 10 ottobre, apèena tre giorni prima.
E vista la tempesta che si è abbattuta sui titoli del
settore bancario, non stupisce che Unicredit sia stata
l’azione più scambiata sia per controvalore, con un totale
di 163,2 miliardi di euro (15,9% del totale), sia in termini
di contratti con 5,4 milioni di contratti (7,8% del totale).
su questa linea Piazza Affari è tra i peggiori mercati
azionari dell'anno, ma gli altri non sono certo andati
lontano.A Parigi l'indice Cac40 ha lasciato dall'inizio
dell'anno il 42,7%, a Francoforte il Dax è arretrato a sua
volta nel 2008 del 40,37% mentre l'Ftse100 di Londra si
ferma a -31,97%.
Situazione pesante anche a Wall Street, dove l'indice Dow
Jones chiude il saldo annuale a -34,65%, l'SP500 ha perso
quasi il 40%, bisogna tornare ai primi Anni 30 per vedere
performance dello stesso livello per il mercato azionario
statunitense.
Fonte
- Miaeconomia
Crisi:
si interrompe dopo 18 anni crescita hedge fund
31 Dicembre 2008 19:42 NEW YORK - di ANSA ______________________________________________
Fondi speculativi alle prese con
performance negative e riscatti
(ANSA) - NEW YORK, 31 DIC - Si interrompe dopo 18 anni la
crescita degli hedge fund a causa di un mix tra performance
negative e riscatti da parte degli investitori. I fondi
speculativi ammontano a 1.500 miliardi di dollari alla fine
di ottobre, cioe' 500 mln in meno rispetto all'anno
precedente. Solo a novembre, gli investitori hanno ritirato
32 miliardi di dollari. A dicembre la cifra dei riscatti
potrebbe salire a 80 miliardi.
Fonte
- ANSA
Allarme rosso
per le banche Usa
31 Dicembre 2008 20:22 NEW YORK - di Miaeconomia ______________________________________________
Nel terzo trimestre le banche e le
casse di risparmio degli Stati Uniti hanno sofferto un calo
utili del 94 per cento ed ora sembrano orientate a chiudere
il quarto trimestre del 2008 con la prima perdita di
bilancio trimestrale dal 1990, quando il rosso di bilancio
fu pari a 2,3 miliardi di dollari.
Questo lo sconsolante quadro che emerge da un rapporto
pubblicato dal Wall Street Journal, che ricorda come le
circa 8.300 istituzioni finanziarie i cui depositi sono
garantiti dall'agenzia federale Federal Deposit Insurance
Corp (FDIC) hanno terminato il terzo trimestre con utili
complessivi pari a 1,7 miliardi di dollari, come detto, in
calo di ben il 94 per cento rispetto allo stesso periodo
dell'anno precedente.
E le cose sono peggiorate nel corso del quarto trimestre. In
generale, anche le stime per il 2009 non sono affatto
ottimistiche, se si considera che gli esperti hanno già
rivisto al ribasso l'outlook di molte banche, sia grandi che
piccole. Il pericolo, spiegano gli esperti del settore, è
rappresentato soprattutto dal rialzo del tasso di
disoccupazione negli Stati Uniti, che provocherà un calo dei
consumi e che renderà anche molto difficile per i cittadini
Usa riuscire a rimborsare le rate dei mutui o di altri
debiti contratti. Di conseguenza, gran parte dei crediti
erogati dalle istituzioni finanziarie potrebbe diventare
inesigibile, costringendo le banche ad accantonare più
riserve per tutelarsi da perdite future: e questo potrebbe
tradursi ovviamente in un'ulteriore erosione dei profitti,
se non in perdite di bilancio.
I miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti ha
erogato al settore finanziario avranno dunque poco effetto
nel riuscire ad arginare la crisi. Da quando è stato
approvato il fondo di salvataggio da 700 miliardi di
dollari, il governo Usa ha proceduto a un'iniezione di
liquidità in più di 130 istituzioni finanziarie per un
valore di 169 miliardi di dollari. I finanziamenti erogati
sembrano però non bastare, a fronte della mole dei problemi
con cui le banche sono alle prese.
Da segnalare che nel corso di quest'anno sono fallite in
tutto 25 banche; quanto è peggio però è che secondo le
stesse autorità di controllo Usa almeno altre 200 banche
rischiano tuttora il collasso. La migliore ipotesi,
affermano molti esperti, è che le banche toccheranno il
fondo verso la metà del 2009 quando l'economia inizierà
finalmente a uscire dal tunnel della recessione. Ma i
"forse" in questo periodo buio dell'economia globale
sembrano essere d'obbligo.
Fonte
- Miaeconomia
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