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USA -
E ora scoppia la bolla delle
carte di credito
01 Novembre 2008 16:54 Milano
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di Miaeconomia ______________________________________________
Dopo la crisi dei mutui gli Stati
Uniti si preparano ad affrontarne un’altra, potenzialmente
altrettanto devastante e pesantissima: si tratta dello scoppio
della bolla delle carte di credito. In particolare riguarda il
tipo di carta di pagamento più usata negli Usa, quella
cosiddetta revolving che consente al cliente di rimborsare il
saldo a rate a fine mese.
L’allarme è stato lanciato dal New York Times. Il quotidiano
americano scrive che dopo anni in cui ai consumatori americani
sono state concesse estesissime linee di credito e offerte
promozionali, gli istituti di credito ora stanno chiudendo i
rubinetti, proprio in un momento in cui il rallentamento
economico ha un pesante impatto sulle spese per consumi.
Il clima è difficile e gli istituti di credito non fanno sconti
a nessuno: respingono i consumatori già in debito e tagliano i
limiti di credito a chi già possiede una carta, specialmente ai
consumatori che vivono in aree colpite dalla crisi immobiliare o
che lavorano in settori in difficoltà.
Il problema è che le banche rischiano di attraversare un altro
periodo di pesantissime perdite e svalutazioni di asset, un
colpo per i bilanci già duramente afflitti dalla crisi dei
mutui. Gli istituti di credito hanno già svalutato circa 21
miliardi di dollari in asset illiquidi legati alle carte di
credito nella prima metà del 2008. Attualmente, le perdite
ammontano al 5,5% del debito complessivo delle carte di credito,
e potrebbero sorpassare presto il 7,9% raggiunto dopo
l’esplosione della bolla tecnologica nel 2001.
Le grandi società specializzate - American Express, Bank of
America, Citigroup - hanno cominciato a irrigidire i requisiti
per le nuove richieste e stanno escludendo i clienti più a
rischio. Inoltre, Visa, Mastercard e altre compagnie
specializzate stanno correndo ai ripari per arginare le perdite
e, nel frattempo, stanno scomparendo le opzioni che prima i
clienti avevano facilmente a disposizione per ripagare i debiti,
come la rivalutazione della casa comprata col mutuo o l’acquisto
di una nuova carta di credito.
Si tratta comunque di un segnale molto negativo per il mercato
Usa, anche perché in nessun altro Paese c’è una simile
diffusione delle credit card e perché colossi come Visa,
American Express, Discover, Citigroup e Bank of America
potrebbero entrare in seria difficoltà se questo mercato fosse
penalizzato da un calo dei consumi o da un aumento delle
insolvenze.
Già la scorsa settimana JP Morgan aveva annunciato che il numero
delle proprie carte di credito in default è cresciuto del 45%
nel terzo trimestre del 2008.
E in Italia cosa sta succedendo? Per il problema non sussiste
dal momento che nel BelPaese la carta revolving è
“un’eccezione”, quindi la situazione da noi è completamente
diversa e del tutto “sotto controllo”, spiega il direttore
generale di Visa in Italia, Davide Steffanini.
“Nel BelPaese il portafoglio di carte di credito di questo tipo
è meno del 2% del totale del transato di tutti gli strumenti di
pagamento - spiega Steffanini. Le carte di pagamento sono
perlopiù carte che si saldano a fine mese per cui non c’è
esposizione di credito, oppure ci sono le carte di debito (i
Bancomat), oppure le carte prepagate che rappresentano il caso
opposto delle revolving dal momento che il denaro è stato
versato in precedenza”.
Fonte
- MiaEconomia.it
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USA -
Quattro idee per il Presidente che verrà
01 Novembre 2008 16:33 NEW
YORK - di Michael Bloomberg
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La Borsa è crollata. Il
mercato del credito è congelato. La disoccupazione cresce. Le case
finiscono alle banche. I consumi sono deboli. Le fabbriche tagliano
la produzione. Una recessione globale è alle porte. Benvenuto alla
Casa Bianca, 44° Presidente!
La crisi finanziaria globale ha suggerito innumerevoli confronti con
la Grande Depressione e senza dubbio i media le chiederanno subito
di descrivere in dettaglio la sua agenda per i primi cento giorni,
aspettandosi che lei replichi lo scatto legislativo di Franklin D.
Roosevelt nel 1933. Il mio consiglio è: li ignori.
I suoi primi cento giorni a
Washington saranno meglio spesi nella preparazione dei successivi
1.360.
I primi cento giorni di FDR
realizzarono quello che l’amministrazione Bush e il Congresso hanno
cercato di fare negli ultimi sessanta: ripristinare la fiducia nelle
nostre istituzioni finanziarie. Quando lei entrerà alla Casa Bianca,
il peggio del panico bancario dovrebbe essere alle spalle.
E’ invece possibile che si
sia nel pieno della recessione e portarne fuori il Paese gettando le
basi per un nuovo secolo di crescita e prosperità non è impresa da
farsi in pochi mesi e neppure con la sola riforma delle regole.
Riorganizzare le strutture che governano le istituzioni finanziarie
sarà probabilmente il compito principale del prossimo Congresso, ed
era ora. Ma è cruciale che lei non permetta al Congresso di
confondere la riforma delle regole con un’agenda economica. La
salute e la forza a lungo termine dell’economia di una nazione
dipendono non tanto dalla forma delle regole federali quanto dalla
capacità di crescita e innovazione.
Negli ultimi dieci anni c’è stata una sfida al nostro status di
superpotenza economica mondiale mai vista prima. Grazie soprattutto
all’America, il capitalismo ha trionfato nel mondo e adesso tutti ci
vogliono battere al nostro gioco. Questa è una competizione che ci
dovrebbe allettare, perché noi continuiamo a godere di tutti i
vantaggi: le università migliori, le fabbriche e le cure mediche più
avanzate, i lavoratori più imprenditoriali e la qualità di vita
migliore.
Ma come un campione sportivo
che, soddisfatto di sé, ha smesso di allenarsi, così il governo
federale - paralizzato dagli interessi particolari - ha lasciato che
l’America perdesse combattività e forza. Recuperarle non sarà facile
né indolore ma l’alternativa - perdere terreno a favore di Cina,
India, Corea, Giappone, Unione europea - non è un’opzione.
La crisi dei mercati finanziari ha elevato i nostri problemi
economici a tema principale della campagna elettorale e la sua
vittoria, caro Presidente, è largamente attribuibile alla fiducia
che gli elettori hanno riposto in lei e nella sua capacità di agire
e ottenere risultati. Lei ha fatto la sua campagna sulla necessità
di apportare cambiamenti e riformare quasi ogni aspetto della
politica federale, compresa la sanità e la sicurezza sociale. Temi
fondamentali, come tanti altri. Ma lei non potrà affrontarli tutti
contemporaneamente, dovrà stabilire delle priorità e, in tempi di
crisi economica, l’economia deve avere la precedenza su tutto.
Lei riceverà consigli da
molte persone sagge. Come sindaco della più grande città americana,
come uomo d’affari che ha cominciato 25 anni fa con tre uomini e una
caffettiera, come padre di due ragazze profondamente preoccupate per
il futuro del loro Paese, le offrirò qualche idea anch’io.
INFRASTRUTTURE
Il tornado Katrina ha tragicamente messo in luce lo stato delle
nostre infrastrutture, ma tutti i sindaci d’America lo vedono ogni
giorno: trasporti di massa da costruire, ponti da riparare,
aeroporti da ampliare, acquedotti e fognature da migliorare. Gli
americani riconoscono la necessità di maggiori investimenti nelle
infrastrutture e dalla mia esperienza a New York sono disposti a
pagarli, a condizione di essere certi che il loro denaro sarà speso
per migliorare le loro comunità e non le possibilità di rielezione
di qualche legislatore. Anziché pagare le infrastrutture con le
riserve accantonate, si
potrebbe creare una banca specifica, che finanzi progetti basati
rigorosamente sul merito, investendo di più là dove più grande è il
bisogno e coinvolgendo i cittadini nel controllo della spesa e dei
tempi di realizzazione. Lo chiami «Nuovo New Deal», Presidente:
investire di più, più saggiamente e con miglior resa. In
questo modo non solo ci sarà lavoro per gli americani, ma ci saranno
anche le infrastrutture che servono per competere nel XXI Secolo.
ENERGIA
Più energia nucleare e nuove trivellazioni, certo. Ma entrambi
sappiamo che la vera soluzione a lungo termine sono le fonti
rinnovabili, come già hanno capito i governi del Medio Oriente che,
pur ricco di petrolio, investe nell’energia verde.
Se saremo noi i pionieri,
creeremo decine di migliaia di posti di lavoro ben retribuiti. Se
invece dovremo acquistarla da altri, continueremo a trasferire
all’estero miliardi di dollari.
IMMIGRAZIONE
Per essere pionieri nelle nuove tecnologie occorrono i cervelli
migliori. Purtroppo il nostro sistema respinge molti immigrati o,
dopo averli istruiti, dà loro un calcio, per cui quelli prendono il
loro sapere e se lo portano in Paesi più accoglienti. Questa è pura
follia! E danneggia la nostra capacità di innovazione.
Una nuova legge per
l’immigrazione è dunque fondamentale. Potrebbe prendere la forma di
una carta di identificazione che permetta ai datori di lavoro di
verificare la legalità dei candidati, aumentando le opportunità per
chi insegue il sogno americano e offrendo a chi è qui
illegalmente la possibilità di guadagnarsi il diritto a restare.
EDUCAZIONE
L’America è diventata una superpotenza perché abbiamo sempre aperto
le porte ai più brillanti e perché le nostre grandi scuole li hanno
prodotti. Ma da decenni il nostro sistema educativo è in folle,
mentre altri Paesi schiacciavano l’acceleratore, con il risultato
che adesso competono con noi per i lavori ad alta specializzazione.
Anche lei, Presidente, sa quanto sia importante per i nostri
studenti imparare più matematica, più scienze, più ingegneria, più
tecnologia.
Il problema non è solo che non spendiamo abbastanza, perché
spendiamo moltissimo, ma che mettiamo il denaro in un modello di
scuola superato e inefficiente, retto più dal potere dei sindacati
che dalle necessità degli studenti.
Occorrono invece standard di
insegnamento più alti, stipendi migliori, premi di merito, rapporti
sul rendimento scolastico, orari più lunghi. Queste riforme sono
state fondamentali per il nostro successo a New York. E se è stato
possibile attuarle qui, dove i sindacati e gli interessi particolari
hanno spradroneggiato per decenni, possono essere benissimo attuate
in tutto il Paese.
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Fonte
- La Stampa |
CORSA ALLA CASA BIANCA: NELLE
SCOMMESSE OBAMA STRAVINCE SU MCCAIN
03 Novembre 2008 23:58 NEW YORK
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di WSI ______________________________________________
Nel sito dove si punta denaro
"vero" in tempo reale, al candidato democratico vengono
assegnati 364 voti elettorali sui 270 necessari per la vittoria,
a McCain solo 174 voti.
(aggiornato) Nel sito di scommesse dove in tempo reale si
assegnano le probabilita' proporzionalmente al denaro
effettivamente puntato, il candidato democratico Barack Obama 24
ore prima della chiusura delle urne e' nettamente in testa con
364 voti elettorali sui 270 necessari per la vittoria alle
elezioni presidenziali Usa di martedi' 4 novembre, rispetto ai
174 voti assegnati al candidato repubblicano John McCain. Se la
previsione si avverasse, Obama vincerebbe con una "landslide",
una valanga di voti di vantaggio rispetto all'avversario.
Il sito di Intrade, che si autodefinisce "The prediction market"
e che quota tutta una serie di altri eventi oltre alle
presidenziali, compresa la probabilita' che ci sia una
recessione, assegna anche una quotazione ai due candidati basata
sul prezzo che gli investitori sono disposti a pagare. Obama
viene quotato 92.3 come buy e 92.2 come sell, mentre la
probabilita' che John McCain vinca le presidenziali viene
quotata 8.3 come buy e 8.2 come sell (ieri sera il buy era a
11.2). Da notare che Obama e' in continua costante crescita,
mentre McCain aveva toccato un massimo di 52 a meta' settembre
ma da quando la crisi a Wall Street e' diventata acuta e' in
calo quasi verticale e adesso viaggia sui minimi assoluti.
Fonte
- WallStreetItalia.com
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CRISI MUTUI: BCE,SI' CONTROPARTE
CENTRALE CREDIT DEFAULT SWAP
Monday, 3 November, 2008 at 16:36
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di phastidio ______________________________________________
Stati Uniti - Manifattura ai
minimi da 26 anni
leave a comment »
L’indice ISM manifatturiero è calato in ottobre al livello di
38,9, minimo da settembre 1982, da 43,5 in settembre. Come noto,
un dato inferiore a 50 indica contrazione dei livelli di
attività. La peggiore recessione immobiliare da una generazione
si è ormai estesa al resto dell’economia, danneggiando la
domanda di manufatti ed infettando i mercati creditizi. Le stime
di consenso ipotizzavano un valore dell’indice pari a 41.
Il sottoindice riferito ai nuovi ordini è sceso al livello di
32,2, peggior risultato dal 1980, da 38,8. L’indice di
produzione passa da 40,8 a 34,1. L’indice dei prezzi pagati
scende brutalmente, da 53,5 a 37, mentre quello riferito
all’occupazione passa da 41,8 a 34,6. Gli ordini dall’estero si
sono indeboliti, in parallelo al peggioramento congiunturale, e
l’indice ad essi riferito è sceso a 41, il minore dall’inizio
delle rilevazioni per questo componente, nel 1988.
Il dato appare quindi omogeneamente debole in tutte le sue
componenti, e il differenziale tra gli indici di nuovi ordini e
scorte passa da meno 4,6 a meno 12,2, suggerendo ulteriore
debolezza prospettica, perché le imprese saranno costrette a
maggiori tagli di produzione per far fronte all’accumulo
indesiderato di scorte.
Fonte
- Macromonitor |
Se gli americani
non spendono più, guai per tutti
03 Novembre 2008 00:34 MILANO - di
Giuseppe Turani
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C´è una vecchia battuta
dell´attuale presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che sta
tornando di attualità: per evitare una nuova grande depressione sono
pronto a riempire di dollari degli elicotteri e poi andare a gettare
quei dollari sulle città americane. Perché la gente spenda e
l´economia riparta.
Ecco, non siamo ancora a quel punto, ma quasi.
Giovedì scorso sono usciti i
dati sul Pil americano nel terzo trimestre dell´anno, cioè sulla
crescita della più grande economia del mondo. E, poiché il Pil
invece di aumentare è diminuito e poiché questo fatto si ripeterà
ancora per alcuni trimestri, è chiaro che gli Stati Uniti sono
entrati ufficialmente in recessione.
Ma, in un certo senso, la notizia peggiore non è nemmeno questa, che
era attesa e prevista, soprattutto da quando la crisi finanziaria
targata subprime è prima accelerata e poi esplosa.
Il dato più brutto contenuto
nelle cifre relative al Pil americano è quello che riguarda i
consumi, che sono diminuiti del 3,1 per cento rispetto al trimestre
precedente (il dato è però annualizzato, cioè moltiplicato per
quattro). E, se si escludono i beni durevoli e si sta sugli altri
(cibo e vestiti, ad esempio), si scopre che il calo è stato
addirittura del 6,4 per cento.
Il consumatore americano,
cioè è stanco. Sta rallentando i suoi acquisti e anche vistosamente.
Joe l´idraulico (ma anche Mary la massaia) ormai vanno al
supermercato con prudenza e, soprattutto, si stanno guardando
intorno per vedere se c´è una macchina più piccola. E anche una casa
più modesta. E questo è appunto il guaio. Il consumatore americano è
stato una specie di eroe del mondo moderno. In tempi recenti ha
superato senza fermarsi il crollo della new economy e l´attacco alle
Twin Towers. Ma adesso ha il fiato corto e si sta mettendo al
risparmio.
Sospinto dai tempi difficili, ma anche dal nuovo verbo virtuoso e
austero che sta circolando un po´ in tutto il mondo. E, ripeto,
questo è il guaio. Il
consumatore americano, fino a ieri dissennato spendaccione, pieno di
debiti e sempre pronto a vivere al di sopra dei propri mezzi, è però
un personaggio che in questi anni si è portato sulle spalle il 20
per cento del Pil mondiale. Nel senso che un quinto della ricchezza
prodotta ogni anno sul pianeta dipende dalle spese del consumatore
americano. Se lui si ferma, i capi dei governi possono convocare
anche 40 riunioni di G90 (grandi paesi), ma non riparte proprio
niente. Non almeno su questo pianeta e con questo mondo.
C´è addirittura chi sostiene
che in questi mesi si è rotto uno schema che ha garantito al mondo
crescita e benessere dalla fine della seconda guerra mondiale a
oggi. Lo schema sarebbe questo: il mondo ha accettato il dollaro
come valuta per i pagamenti internazionali, lasciando all´America la
possibilità di stampare dollari a volontà.
In questo modo gli Stati Uniti hanno finanziato le loro spese
(scaricando i debiti sull´estero), consentendo al consumatore
americano una vita al di sopra del giusto. Ma questa vita al di
sopra del giusto è quella che ha fatto crescere il mondo perché è
stata il centro della domanda mondiale di beni e servizi.
Oggi questo schema si è
rotto o si sta rompendo. E ci si domanda se, in prospettiva, questo
schema (dentro il quale siamo vissuti per oltre mezzo secolo e che
ha avuto i suoi vantaggi) debba essere abbandonato o in qualche modo
mantenuto, sia pure con le opportune correzioni. Ma questo è
un dibattito per il quale ci sarà tempo.
Al momento la cosa importante da fare, e in fretta, è di spedire di
nuovo Joe l´idraulico e Mary la massaia al supermercato, se si vuole
che la recessione che è già cominciata non si trasformi in Grande
Depressione.
E per ottenere questo risultato non ci sono molti modi. O si ricorre
a quello che suggerisce la battuta di Bernanke, cioè si gettano in
giro dollari a pioggia (dollari, ovviamente, stampati la sera
prima). Oppure si cerca di spendere soldi in modo intelligente. Il
potere pubblico in America si mette, cioè, a costruire come un
dannato ponti, aeroporti, strade, ospedali, scuole. Riapre, in una
parola, il grande cantiere americano.
Invece di gettare soldi
dagli elicotteri, gli Stati Uniti possono mettersi a distribuire
stipendi e a migliorare un po´ se stessi. I soldi che servono per
questo lavoro immane, li stampa. Invece di far girare le pale degli
elicotteri, farà girare le rotative.
L´Europa potrebbe fare
esattamente la stessa cosa. Tutto questo può impedire che la
recessione (che potrebbe anche essere relativamente dolce) si
trasformi davvero in una Grande Depressione. Anche in questo modo,
comunque, non si tornerà al felice mondo di prima della crisi.
Joe l´idraulico deve tornare a fare il suo dovere di bravo
consumatore, ma è impossibile che torni a vivere (come ha fatto per
mezzo secolo) a credito e a spese degli altri. In ogni caso, cioè,
tutti saranno più prudenti e virtuosi. E la crescita futura, per
anni e anni, sarà assai più modesta di quella di prima, proprio
perché si sarà tutti un po´ migliori.
 |
Fonte
- La Repubblica |
La crisi
e il Socialismo per ricchi
03 Novembre 2008 13:31 NEW
YORK - di Mikhail Gorbaciov
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Man mano che la crisi
finanziaria globale diventa sempre più profonda, e' chiaro che il
collasso della Borsa ha colpito non solo i ricchi - il cui tenore di
vita probabilmente non ne verrà affetto - ma anche milioni di
persone comuni che hanno affidato i risparmi della loro vita ai
mercati.
Questa crisi finanziaria
appare solo la prima fase di una crisi più vasta dell’economia che
potrebbe essere la peggiore dalla Grande Depressione degli Anni 30.
Questa crisi non è nata dal nulla. Avvertimenti erano venuti
da diverse parti, inclusi gli economisti, non soggetti normalmente
alla tentazione di nutrire inutili ottimismi. Cautela è stata
raccomandata anche dai veterani della politica mondiale della
Commissione Trilaterale e del World Political Forum, preoccupati
nell’osservare i mercati finanziari diventare una bolla pericolosa,
con un legame scarso o addirittura nullo con i flussi reali di beni
e servizi. Tutti questi avvertimenti sono rimasti inascoltati.
Nei prossimi mesi l’avidità
e l’irresponsabilità dei pochi colpirà tutti noi. Nessun Paese e
nessun settore riusciranno a sfuggire alla crisi. Il modello
economico radicato nei primi Anni 80, basato sulla massimizzazione
dei profitti grazie all’abolizione della regolazione necessaria a
proteggere gli interessi della società nel suo insieme, sta
tramontando.
Per decenni ci siamo sentiti ripetere che questo modello avrebbe
portato benefici a tutti, e che «l’alta marea finisce col sollevare
tutte le barche». Ma le statistiche dicono che non è stato così. La
crescita economica degli ultimi decenni - assai modesta se
paragonata a quella degli Anni 50-60 - ha beneficiato in modo
sproporzionato i membri più ricchi della società. Il tenore di vita
della classe media è invece fermo, e la voragine tra i ricchi e i
poveri è aumentata perfino nei Paesi economicamente più sviluppati.
Il sistema è stato reso
ancora più precario dai prestiti irresponsabili sostenuti da
complessi strumenti derivati, che alla fine si sono rivelati
complicate piramidi finanziarie. Perfino la maggior parte degli
economisti e dei bancari non riesce a spiegare come funzionano. A
beneficiare maggiormente di questi schemi sono stati i loro
inventori.
Di tutti i fatti venuti alla
luce nelle ultime settimane, uno mi ha colpito in particolare.
L’anno scorso le maggiori banche d’investimento americane hanno
pagato, secondo alcune stime, 38 miliardi di dollari di bonus.
Suddividendo questa somma per i numeri della loro forza lavoro viene
fuori la cifra di 200 mila dollari per persona: quattro volte più
del reddito di una famiglia americana media! In più c’erano i
«paracadute dorati», i pacchetti di buonuscita multimilionari pagati
ai dirigenti delle banche che sono crollate o sono state salvate dal
governo.
Questo è il risultato:
capitalismo tagliagola per la maggioranza e «socialismo» degli aiuti
governativi per coloro che sono già ricchi. Fra tre o quattro anni,
quando ci saremo lasciati alle spalle la fase acuta della crisi,
queste stesse persone ci diranno che il capitalismo più «crudo»
funziona meglio e dovremmo lasciarli liberi da ogni costrizione.
Fino alla prossima crisi ancora più devastante?
L’attuale modello di globalizzazione ha portato alla
deindustrializzazione di intere regioni, deteriorando le
infrastrutture, togliendo funzionalità ai sistemi sociali e
provocando tensioni a causa di processi economici, sociali e di
immigrazione incontrollati e non regolati. Il danno morale è stato
enorme, rispecchiato perfino nel linguaggio: l’evasione fiscale è
diventata «pianificazione fiscale», licenziamenti di massa sono
diventati «ottimizzazione del personale» e via di questo passo.
Il concetto di uno sviluppo sostenibile per le generazioni future è
stato soppiantato dall’idea del libero commercio come panacea per
tutti i problemi. «Domani è un altro giorno», è il motto di questi
tempi, mentre il 60% degli ecosistemi, secondo le ricerche promosse
dall’Onu, sono già stati danneggiati. Il ruolo dello Stato e della
società civile è stato ridotto, con gli uomini visti non più come
cittadini ma, nel migliore dei casi, come «consumatori di servizi
offerti dal governo». Il risultato è un mix esplosivo di darwinismo
sociale - sopravvive il più forte, i deboli muoiano - e della
filosofia del «dopo di noi il diluvio».
La crescente crisi
dell’economia mondiale, oggi, finalmente attrae l’attenzione dei
politici. Per motivi comprensibili, ci si concentra su misure di
salvataggio immediate. Sono senz’altro necessarie, ma c’è anche
bisogno di riconsiderare le basi del modello socio-economico della
società moderna, direi addirittura la sua filosofia, che si è
rivelata assai primitiva, basata interamente sul profitto, il
consumismo e il guadagno personale. Perfino il guru della teoria
monetarista moderna, il defunto Milton Friedman - che ho avuto modo
di incontrare - sosteneva che non si poteva ridurre tutto all’Homo
oeconomicus, che la vita sociale non è fatta solo di interessi
economici.
Tempo fa ho invocato una
combinazione di morale e politica. Durante la perestroika ho cercato
di seguire sempre l’idea che la politica dovesse contenere una
componente morale. Penso che per questa ragione, nonostante gli
errori commessi, siamo stati in grado di tirare la Russia fuori dal
totalitarismo: per la prima volta nella nostra storia, un
cambiamento radicale è stato avviato e portato a un punto di non
ritorno senza un bagno di sangue.
È arrivato anche il momento
di combinare la morale e gli affari. È un argomento difficile.
Ovvio che un business deve fare profitti, oppure morirà. Ma
sostenere che l’unico dovere morale di un uomo d’affari è fare soldi
significa portarsi a un passo dall’idea del «profitto a ogni costo».
E mentre nell’economia reale
che produce esiste ancora una qualche trasparenza - dovuta a
tradizioni, e alla presenza dei sindacati e di altre istituzioni -
che permette alla società di mantenere una certa influenza, la sfera
dell’«ingegneria finanziaria» ne è priva. Non c’è nessuna glasnost,
nessuna trasparenza, nessuna moralità. E le conseguenze sono state
devastanti.
L’alleanza tra politici e uomini d’affari, che per decenni avevano
spinto verso la deregulation diffondendo i principi del
laissez-faire nelle economie di tutto il mondo, insieme con gli
analisti che esaltavano i titoli delle società in cui avevano
interessi, e i teorici dell’economia che offrivano come unica
soluzione a ogni problema il «togliere il controllo a qualunque
cosa», è stata distruttiva e spesso corrotta. L’abbiamo visto in
Russia, dove queste ricette sono state promosse con frenesia quasi
maniacale negli Anni 90. Ora
che questa piramide perniciosa e immorale sta crollando, dobbiamo
pensare a un modello che la rimpiazzerà. Non chiedo di abbatterla
senza pensarci, e non ho soluzioni pronte a portata di mano. Il
cambiamento deve essere evolutivo. Un nuovo modello dovrà emergere,
basato non più soltanto sul profitto e sul consumismo.
Sono convinto che in un’economia nuova i bisogni della società e i
beni della società devono svolgere un ruolo assai maggiore di quello
attuale. I bisogni della società sono abbastanza chiari: un ambiente
sano, un’infrastruttura moderna e funzionale, un sistema di
istruzione e sanità, alloggi accessibili.
Costruire un modello che
abbia al centro queste necessità richiederà tempo e sforzo. Ci vorrà
una svolta intellettuale. Ma i politici che portano la
responsabilità per il superamento dell’attuale crisi devono
ricordarsi una cosa: senza una componente morale ogni sistema è
condannato a fallire.
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Fonte
- La Stampa |
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Mercoledì
05
Novembre 2008 |
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Venerdì
07
Novembre 2008 |
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07
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GRANDE VITTORIA DI OBAMA, E' IL
NUOVO PRESIDENTE USA
05 Novembre 2008 04:02 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Barack Obama è il 44esimo
presidente degli Stati Uniti, il primo afro-americano ad
arrivare alla Casa Bianca, in una tappa storica per l'America
che volta pagina dopo gli anni di Bush.
(aggiornato) Barack Obama è il 44esimo presidente degli Stati
Uniti, il primo afro-americano ad arrivare alla Casa Bianca, in
una tappa storica per l'America che volta pagina dopo gli anni
di Bush. McCain chiama Obama per congratularsi e ammette la
sconfitta: "Rispetto la sua abilità e perseveranza che ha
ispirato speranza in così tanti americani". Anche Bush gli
telefona: "Notte fantastica". Obama ringrazia l'America e i suoi
sostenitori: "Questa vittoria appartiene a voi". Affluenza
record alle urne.
06:31 Obama sul palco con Michelle, Joe Biden e la moglie
Poco dopo avere rivolto alle migliaia di persone che lo
acclamavano, a Chicago, a conclusione del suo discorso, il
tradizionale saluto 'Dio vi benedica', Barak Obama, che aveva al
fianco Michelle, è stato raggiunto dal suo vice, Joe Biden e
dalla moglie, Jill Jacobs. Insieme per molti minuti hanno
salutato la folla.
06:22 Democratici aumentano il controllo sul Congresso
L'America del 5 novembre cambia volto. Oltre ad aver
riconquistato la Casa Bianca dopo 8 anni di era George W. Bush,
i democratici aumentano il controllo sul Congresso. Sale a quota
56 seggi la maggioranza democratica nel Senato mentre alla
Camera l'asinello vede confermato l'ampio vantaggio conquistato
a novembre del 2006. In particolare alla Camera alta i
democratici si fermano a un passo da raggiungere quota 60 che
blinda il Senato e impedisce all'opposizione qualsiasi forma di
ostruzionismo. I democratici hanno conquistato 17 dei 35 seggi
in palio oggi, contro i 12 repubblicani.
06:20 Obama cita Lincoln: "Sarò il presidente di tutti"
Dopo avere citato Abraham Lincoln, dell'Illinois come lui, il
neo-eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha lanciato
un appello all'unità di tutti gli americani. Davanti ai suoi
sostenitori, oggi a Chicago, Obama ha detto rivolgendosi anche
ai repubblicani, con le parole dello stesso Lincoln, "non siamo
nemici, ma amici", per poi aggiungere: "ascolterò la vostra
voce, ho bisogno del vostro aiuto, sarò anche il vostro
presidente".
06:15 Obama: "Cammino sarà duro, stare uniti"
Per Barack Obama "il cammino davanti a noi sarà duro" e per
questo ci "sarà bisogno di stare uniti" contro le avversità: lo
ha detto il neo presidente Usa nel suo primo discorso dopo la
vittoria su John McCain
06:09 Obama: Omaggio a Michelle, alla nonna e alle figlie
Barack Obama ha dedicato alla famiglia la vittoria nella corsa
alla Casa Bianca: alla moglie Michelle, amica e partner negli
anni del matrimonio, e alla nonna Madalyn, che lo ha allevato e
che è morta alla vigilia del voto che lo ha portato alla Casa
Bianca. Alle figlie Sasha e Malia Obama ha detto: "Vi amo più di
quanto non possiate immaginare".
06:08 Obama: "Lavorerò con McCain per rinnovare il Paese"
Barack Obama ha annunciato che lavorerà "insieme al senatore
John McCain per rinnovare il Paese".
06:07 Obama: "Questa vittoria appartiene a tutti voi"
"Non dimenticherò mai a chi appartiene questa vittoria, a tutti
voi", dice Obama.
06:05 Obama: "Il cambiamento è arrivato"
Obama: "Il cambiamento è arrivato negli Stati Uniti". "Oggi non
sarei qui senza l'amore della mia vita, la prossima first lady
degli Stati Uniti, mia moglie Michelle" dice Barack Obama
davanti alla folla dei suoi sostenitori a Chicago. Obama
ringrazia McCain, che ha lavorato duro, e dice di voler lavorare
con lui.
06:02 Obama: "L'America è il posto dove tutto è possibile"
Obama sale sul palco a Chicago con la moglie Michelle e le
figlie Malia e Sasha, che, dopo aver salutato la folla dei
sostenitori lo lasciano solo. "L'America è il luogo dove tutto è
possibile" dice.
05:43 New York in delirio tra Harlem e Times Square
Delirio di gioia tra il popolo di Barack Obama a New York,
diviso tra Harlem e Times Square: gente che piange, gente che
ride: gli obamiani della Grande Mela hanno accolto l'annuncio
della Cnn ritrasmesso sui maxi schermi montati nella piazza
crocevia del mondo e nel cuore dell'ex quartiere ghetto di
Manhattan. L'Empire State Building, rossoblu in spirito
bipartisan per tutta la notte elettorale si è preparato a
cambiare colore per illuminarsi di blu-Obama dopo il proclama
della vittoria. E' stato il deputato di Harlem Charles Rangel
che ha confermato il risultato a migliaia di neri e di bianchi
raccolti sotto lo schermo gigante montato a Adam Clayton Plaza,
all'angolo della 125esima Strada. "Si, si, sì", ha cantato in
coro la folla che aspettava da ore l'annuncio della svolta nella
storia dell'America. 05:30 Sarah Palin in lacrime sul palco
Sarah Palin è in lacrime, sul palco di Phoenix da cui McCain sta
parlando ai suoi supporter dopo aver riconosciuto la sconfitta.
La Palin, controversa candidata repubblicana alla vicepresidenza
degli Usa, è accompagnata dal marito.
05:29 McCain ai suoi sostenitori: "Il fallimento è mio, non
vostro"
Il senatore John McCain, nel salutare i suoi sostenitori, ha
detto loro che "la sconfitta è chiara" e che "il fallimento è
mio, non vostro". McCain, che si è presentato sul palco di
Phoenix con la moglie Cindy, ha voluto ringraziare la candidata
alla vicepresidenza Sarah Palin.
05:28 Obama accetta la resa di McCain e lo invita a collaborare
Barack Obama ha accettato la resa dell' avversario nella
campagna elettorale, John McCain, e lo ha invitato ad aiutarlo a
guidare il Paese. Lo hanno reso noto fonti della campagna
democratica a Chicago, riferendo la conversazione tra i due.
05:23 McCain si congratula con Obama
Il senatore McCain ha telefonato a Obama per congratularsi della
vittoria. "Rispetto la abilità e perseveranza di Obama che ha
ispirato speranza in così tanti americani", ha detto parlando
davanti ai suoi sostennitori a Phoenix.
05:20 McCain: "Siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio"
"Amici, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. L'America
ha si è espressa e lo ha fatto chiaramente": queste le prime
parole di John McCain dopo l'annuncio della vittoria di Obama
Fonte
- WallStreetItalia.com |
USA - Dopo
una vittoria storica Obama guarda al futuro
05 Novembre 2008 20:09 NEW
YORK - di WSI - REUTERS
________________________________________
Barack Obama festeggia oggi
la sua storica vittoria alla Casa Bianca, con la consapevolezza di
dover affrontare enormi sfide, dalla profonda crisi economica alle
due lunghe guerre in Iraq e Afghanistan. "Il cambiamento per
l'America e' arrivato".
Il giorno dopo l'Election day che lo ha reso il primo presidente
nero della storia americana, Obama si prepara a costruire
rapidamente una nuova amministrazione e a definire le sue priorità
per il passaggio formale delle consegne il prossimo 20 gennaio.
"Ci è voluto molto, ma
stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il
cambiamento è arrivato per l'America", ha dichiarato nella notte
Obama al Grant Park di Chicago davanti a oltre 200.000 sostenitori
festanti.
"La strada sarà lunga. La salita sarà ripida. Potremmo non arrivare
in un anno o addirittura in un mandato, ma l'America -- non sono mai
stato più fiducioso di stanotte -- ci arriverà",
Obama ha guidato alla
vittoria i democratici, che hanno allargato la loro maggioranza in
entrambe le camere del Congresso, mentre gli americani hanno di
fatto respinto gli otto anni di leadership del presidente
repubblicano George W. Bush.
Un po' in tutto il paese si sono registrati festeggiamenti in
strada, ma Obama avrà poco tempo di godersi la vittoria. Una volta
insediato, dovrà affrontare pressioni immediate per mantere le
promesse della sua campagna elettorale e risolvere una lunga lista
di problemi.
EMERGENZE
Obama ha promesso che
ritirerà i soldati americani dall'Iraq nei primi 16 mesi del suo
mandato e aumenterà il numero delle truppe in Afghanistan, ma la sua
sfida più immediata sarà la gestione della crisi finanziaria, la
peggiore dalla Grande depressione.
I leader mondiali si riuniranno a Washington il prossimo 15 novembre
per un summit sul collasso finanziario globale. La Casa Bianca ha
detto di non aspettarsi che il presidente designato partecipi, anche
se Obama non ha ancora reso noti i suoi piani.
Notizie diffuse oggi, mostrano che il mercato del lavoro nel settore
privato è peggiorato rapidamente in ottobre e che il settore dei
servizi si è contratto, evidenziando le sfide economiche per Obama.
Con un'apparizione nel
Giardino delle rose della Casa Bianca, Bush ha detto di aver parlato
con Obama e di essersi congratulato con lui per una "impressionante
vittoria" che rappresenta un "sogno avverato" per i diritti civili,
promettendo inoltre la sua cooperazione nel passaggio dei poteri.
"Durante questo periodo di transizione, terrò il presidente
designato informato sulle decisioni importanti", ha assicurato Bush.
Ci si aspetta che Obama agisca rapidamente per la nomina del
segretario del Tesoro e di Stato, fra quelli chiave per
l'amministrazione.
Sembra che Obama abbia chiesto a Rahm Emanuel, congressista
democratico dell'Illinois già nell'amministrazione
dell'ex-presidente Bill Clinton, di stare alla Casa bianca come capo
dello staff.
UNA TRANQUILLA MATTINA
La prima mattinata di Obama
da presidente designato si è svolta molto tranquillamente. Ha fatto
colazione a casa con le sue due figlie, poi è andato in palestra per
un po' di allenamento. Più tardi andrà nel suo quartier generale per
ringraziare lo staff.
Nato da padre nero del Kenya e madre bianca del Kansas, Obama è
venuto al mondo quando ancora i neri americani lottavano contro le
politiche segregazioniste nel sud del paese. Il suo trionfo sul
rivale repubblicano John McCain rappresenta una pietra miliare che
potrebbe aiutare gli Stati Uniti a gettarsi alle spalle la sua lunga
e brutale storia di razzismo.
Molti leader del mondo hanno
accolto con favore la vittoria di Obama e alcuni l'hanno salutata
come un'opportunità per ricostruire l'immagine degli Usa.
"La tua elezioni ha sollevato enormi speranze in Francia, in Europa
e oltre", ha detto il presidente Nicolas Sarkozy.
I titoli dei quotidiani hanno catturato l'importanza storica del
risultato. Il New York Times titola semplicemente "OBAMA", mentre il
Washington Post dichiara "Obama fa la storia" e USA Today:
"L'America fa la storia; Obama vince".
Obama ha ottenuto almeno 349
voti dei grandi elettori, ben oltre i 270 necessari per la vittoria.
Con il 96% del voto popolare scrutinato, Obama conduce su McCain per
52% a 46%.
I democratici hanno conquistato almeno cinque seggi al Senato e
circa 25 seggi alla Camera dei rappresentanti, ottenendo una vasta
maggioranza nel Congresso e rafforzando il potere di Obama. Quattro
seggi del Senato restano ancora da assegnare.
McCain, senatore
dell'Arizona 72enne ed ex-veterano del Vietnam, ha chiamato Obama
per congratularsi con lui e ha lodato la sua campagna senza
precedenti.
"Chiedo a tutti gli americani che mi hanno sostenuto di unirsi a me
non solo nel congratularsi con lui ma nel fare i nostri auguri al
prossimo presidente", ha detto McCain.
FESTA NELLE STRADE
Bianchi e neri hanno
festeggiato insieme davanti alla Casa Bianca per celebrare la
vittoria di Obama e l'imminente partenza di Bush. File di auto si
sono riversate nel centro di Washington, strombazzando col clacson e
gridando dai finestrini.
Altre migliaia hanno festeggiato in Time Square a New York e in
diverse città in tutto il paese.
I governi alleati hanno detto di sperare in una più stretta
cooperazione con Washington, mentre i critici nei confronti degli
Usa, dalla Russia all'Iran ai gruppi islamici del Medio Oriente,
hanno fatto appello al cambiamento.
"Speriamo che...adotti una giusta politica che riporti l'America
alla sua naturale posizione di rispetto per l'umanità e la
democrazia", ha detto Mohamed Mahdi Akef, leader della Fratellanza
musulmana egiziana, uno dei più grandi gruppi islamici mediorentali.
Il presidente russo Dmitry Medvedev ha parlato di speranza per più
forti relazioni Usa-Russia, ma allo stesso tempo a promesso
ritorsioni per un piano Usa di difesa missilistica.
 |
Fonte
- WSI - REUTERS |
USA: LE PRIORITA' ECONOMICHE DI
OBAMA
06 Novembre 2008 02:57 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Ecco in sintesi i punti più
importanti del programma economico del nuovo presidente degli
Stati Uniti, Barack Obama, preoccupato soprattutto di far
ripartire i consumi e l'attività delle aziende nel Paese.
Ecco in sintesi i punti più importanti del programma economico
del nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama,
preoccupato soprattutto di far ripartire i consumi e l'attività
delle aziende nel Paese.
Il rilancio dell'economia partendo dall'industria dell'auto Il
programma di Obama prevede sgravi per le aziende che assumono
con crediti d'imposta fino a 3000 euro nei prossimi due anni. E
poi riduzione delle tasse sul capital gain, e crediti d'imposta
sulle assicurazioni sanitarie dei dipendenti fino alla metà del
premio. Previste anche misure di incentivo ai consumi come
quella che consente ai lavoratori di prelevare fino al 15% e non
oltre 10mila dollari dai propri fondi pensione senza alcuna
penalità. Per l'ex senatore dell'Illinois infine, bisogna tenere
aperta ogni opzione per il sostegno all'industria dell'auto.
Investimenti nelle infrastrutture La nuova amministrazione
americana punta su un massiccio piano di investimenti nelle
infrastrutture che punta sulla creazione di un'istituto di
credito statale ad hoc. La National Infrastructure Reinvestment
Bank, questo il nome della nuova banca, riceverà 60 miliardi di
dollari nei prossimi dieci anni. Secondo le stime, questo piano
creerà, direttamente e indirettamente, due milioni di posti di
lavoro.
Sgravi fiscali per la classe media Il piano di Obama prevede una
riduzione di 1118 dollari per i contribuenti con redditi tra
37600 e 66400 dollari l'anno e l'aumento delle imposte dal 15 e
il 20% per le famiglie con redditi superiori a 250mila dollari.
I sussidi di disoccupazione poi saranno detassati.
Emergenza casa Per salvare le abitazioni dai pignoramenti si
prevede che le banche che hanno avuto accesso al piano di
salvataggio del governo diano 90 giorni di tempo ai debitori
insolventi per ristrutturare il proprio mutuo. Il programma
prevede poi sanzioni più severe per brocker e istituti
finanziari poco trasparenti
Un fondo da 50 miliardi per le finanze locali Il programma di
Obama prevede la creazione di due fondi da 25 miliardi di
dollari ciascuno, per venire incontro alle necessità di cassa
degli Stati e degli enti pubblici locali. Uno servirà ad evitare
che i tagli, a livello locale, per scuole, sanità e case non
comportino maggiori tasse per i cittadini. L'altro servirà a
garantire gli investimenti infrastrutturali.
Energia Il programma democratico prevede, entro il 2050, di
ridurre le emissioni di gas serra dell'80% rispetto ai livelli
del 1990. Per realizzare questo obiettivo sono previste tasse
sugli extra profitti delle compagnie petrolifere e un piano da
150 miliardi di dollari di sussidi per biocarburanti ed etanolo.
Sul nucleare Obama è contrario alla costruzioni di nuove
centrali senza che prima non sia risolto il problema dello
stoccaggio delle scorie.
Commercio Obama farà pressioni sul Wto perché inasprisca le
sanzioni contro chi non rispetta le regole e impone dazi
doganali e sussidi alle esportazioni. Il candidato democratico
vorrebbe poi emendare il Nafta, l'accordo di libero scambio con
Messico e Canada, giudicato troppo gravoso per l'economia
americana. Il programma prevede poi incentivi fiscali per le
aziende che mantengono la produzione negli Stati Uniti.
Rating per le carte di credito Il nuovo presidente ha proposto
una Carta dei diritti per le carte di credito per porre fine
alle pratiche scorrette dei gestori. Tra le altre cose si
prevede di introdurre un sistema di rating (a cinque stelle come
per gli hotel), per valutare l'affidabilità dei gestori.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
|
LA LEZIONE DI BARACK OBAMA AI
LEADER EUROPEI
07 Novembre 2008 04:01 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Nemmeno John Fitzgerald Kennedy
aveva fatto tanto. Con il 64,1% di affluenza il presidente
eletto degli Usa ha battuto JFK, che con Nixon nel 1960,
trascinò al voto il 63,8% degli americani. «Il fronte è stato
capovolto».
Nemmeno John Fitzgerald Kennedy aveva fatto tanto. Con il 64,1%
di affluenza il presidente eletto degli usa ha battuto JFK, che
con Nixon nel 1960, trascinò al voto il 63,8% degli americani.
Per trovare una partecipazione elettorale più numerosa bisogna
tornare indietro di un secolo, al 1908 (65,7%).
Sono soprattutto giovani uomini e donne, ispanici,
afroamericani, molti dei quali non avevano mai votato prima, le
persone che Barack Obama nella sfida con John McCain è stato
capace di portare alle urne. Ascolti record anche per le dirette
televisive, seguite da 71 milioni di spettatori: solo il super
bowl ha fatto meglio (97 milioni). La macchina organizzativa di
Obama difficilmente avrebbe potuto produrre risultati migliori.
Il suo staff, guidato da David Axelrod, ha pianificato e
condotto una campagna comunicativa di grande efficacia, che ha
ribaltato alcuni cardini della comunicazione politica.
Ribaltando la comunicazione Obama ha fatto sentire i cittadini
al suo livello «Il fronte è stato capovolto», dice Marco
Marturano, spin doctor di molti politici italiani, di Bill
Clinton (nella campagna del 1996) e di Hillary (nel 2000 per il
Senato). «Non c'era un candidato che si vendeva ai cittadini,
c'era un uomo che faceva sentire i cittadini i veri candidati».
Il Presidente eletto «non ha mai voluto vendere la sua
straordinarietà, ma la sua normalità».
La sua sfida straordinaria: è riuscito ad essere normale «È
stato il più bravo a saper usare l'idea della sfida
impossibile», sottolinea Marturano, sfida prima di tutto «con
quello che lui rappresenta». Raccontando se stesso ha raccontato
la persona qualunque. «Ha saputo rappresentare quello che in
tutto il mondo in questo momento la gente chiederebbe alla
politica: un po' di normalità».
La capacità di coinvolgere, a tutti i livelli. Prima di tutto
attraverso la rete «pensata, come un mezzo di connessione con le
persone più che come un mezzo per dare informazione e raccontare
il candidato». La rete, dice Marturano «è stata utilizzata come
strumento per far diventare gli elettori i veri protagonisti
della campagna. Ed è anche diventata il più straordinario mezzo
di finanziamento che mai un politico abbia saputo utilizzare».
Il senso delle tappe simbolche della campagna: «Ci uniscono gli
stessi ideali» Barack Obama ha annunciato la sua candidatura da
Springfeld, dove Abraham Lincoln pronunciò il discorso contro la
schiavitù; per parlare all'Europa ha scelto Berlino, da dove
John Fitzgerald Kennedy nel '63 intervenne contro la costruzione
del muro; per il discorso della notte elettorale ha voluto Grant
Park a Chicago, teatro nel 1968 degli scontri alla convention
democratica tra i pacifisti, che manifestavano contro la guerra
in Vietnam, e la polizia, mandata dal sindaco democratico
Richard Daley; scontri che segnarono una rottura tra il
movimento giovanile e le istituzioni. Pochi mesi dopo il
repubblicano Nixon sarebbe entrato alla Casa Bianca.
Al Gore fece una cosa simile nel 2000, quando decise di tenere
la convention a Los Angeles, stessa città scelta 40 anni prima
da John Fitzgerald Kennedy. Ma, sottolinea Marturano «allora
l'ex vicepresidente Usa si identificava con JFK e il messaggio
che mandava ai suoi elettori era: sono come lui». Mentre Obama
anche in questo, ha detto «sono talmente come voi che per me i
grandi leader della storia democratica americana, come per voi,
sono un caposaldo, un elemento affettivo». «Obama aveva anche
bisogno, attraverso queste fasi, di far passare alcuni contenuti
valoriali cardini del suo messaggio identitario».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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OBAMA: NON SARA' FACILE USCIRE
DALLA CRISI MA L'AMERICA E' UN PAESE FORTE
07 Novembre 2008 21:45 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Prima conferenza stampa del
presidente eletto. "Occorre mettere a punto un piano che vada in
soccorso della classe media ed evitare un piu' ampio impatto
sulle imprese".
«Un ulteriore prolungamento dei sussidi di disoccupazione è una
priorità» per uscire dalla "peggiore crisi della storia degli
Stati Uniti". Lo ha detto il presidente in pectore degli Stati
Uniti, nel corso della sua prima conferenza stampa dopo la
vittoria di martedì notte.
Parlando da Chicago, Obama ha spiegato che «occorre mettere a
punto un piano di incentivi che vada in soccorso della classe
media"» e che dovrebbe essere approvato prima o dopo il suo
insediamento alla Casa Bianca. «Non sarà facile o veloce uscire
dal baratro economico in cui si trova il Paese», ha sottolineato
Obama, spiegando che «bisognerà evitare un più ampio impatto
della crisi sulle imprese" e che "una crisi globale richiede una
risposta globale».
«Dieci milioni di famiglie stanno combattendo ogni giorno per
pagare le bollette e riuscire a mantenere le loro abitazioni»,
ha aggiunto Obama. «Le loro storie sono un promemoria urgente
del fatto che stiamo affrontando la più grande sfida economica
della nostra vita. Dobbiamo agire rapidamente per vincerla».
Il neo presidente, che ha iniziato la conferenza stampa con una
ventina di minuti di ritardo, ha sottolineato che «non sarà
facile per noi uscire dal buco in cui siamo caduti. Ma l'America
è un paese forte e pieno di risorse. So che avremo successo se
metteremo da parte partigianerie e rivalità politiche a
lavoreremo insieme come una nazione». Una delle priorità
economiche sarà quella di sostenere l'industria dell'auto
americana, che dovrà produrre «vetture efficienti dal punto di
vista del consumo di carburante, ma che siano costruite qui in
America».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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OBAMA-BUSH,
INCONTRO ALLA CASA
BIANCA
09 Novembre 2008 18:03 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
La settimana inizia con il
meeting tra il presidente eletto e quello uscente. I due team
stanno collaborando in maniera 'eccezionale' sui temi più
urgenti del momento: la crisi finanziaria, le guerre in Iraq e
Afghanistan, la lotta al terrorismo.
In vista del 'più importante trasferimento di poteri nella
storia americana', l’amministrazione uscente di George W. Bush e
quella che le seguirà diretta da Barack Obama stanno
collaborando in maniera 'eccezionale' sui temi più urgenti del
momento: le guerre in Iraq e in Afghanistan, la lotta al
terrorismo e la crisi finanziaria. Lo scrive il Washington Post,
alla vigilia del primo incontro alla Casa Bianca tra Bush e il
presidente eletto.
Sul tappeto restano tutte le questioni 'ideologicamente e
politicamente divisive' - tanto che, secondo lo stesso giornale,
il team di Obama ha già pronta una lista di 200 provvedimenti
dell’amministrazione Bush da modificare o annullare - ma è un
fatto che già poche ore dopo il voto il rancore della campagna
abbia lasciato il posto a un impressionante livello di cortesia
tra i due campi. Lo stesso presidente ha ribadito ieri, nel suo
discorso alla radio, che farà il possibile per assicurare 'una
transizione senza strappi'.
Rientrano per esempio in questo spirito i preparativi della Casa
Bianca per organizzare una sorta di simulazione per vedere come
i responsabili per la sicurezza nazionale di Obama
risponderebbero nel caso di un attacco terroristico. 'Se ci
fosse una crisi il 21 gennaio (giorno successivo
all’insediamento, ndr) - spiega Joshua B. Bolten, capo dello
staff di Bush - sarebbero loro quelli chiamati ad affrontarla.
Dobbiamo assicurarci che siano il più preparati possibile'Ovvio
che sull’atteggiamento dell’amministrazione uscente pesa
l’esperienza del suo arrivo alla Casa Bianca solo un mese dopo
che Al Gore - dopo una durissima battaglia legale sul
riconteggio dei voti conclusasi con una sentenza della Corte
suprema il 15 dicembre del 2000 - aveva ammesso la sconfitta.
Questi ritardi, combinati con la lentezza di alcune nomine e
delle conferme da parte del Congresso, ebbero certamente un
impatto sul grado di efficienza dell’amministrazione nei primi
mesi del suo insediamento. E di questi vuoti - come riconosciuto
dalla stessa commissione sugli attacchi dell’11 settembre - in
un certo senso approfittò Al Qaeda.
Allo stesso tempo, la cooperazione tra i due team - quello di
Obama e quello creato da Bush per coordinare la transizione - è
massima sui temi economici, al punto che gli uomini del
presidente eletto si apprestano ad avere «un livello di accesso
insolito al dipartimento del Tesoro e alle altre agenzie
coinvolte nel tentativo di stabilizzare l’economia», sottolinea
il «Washington Post». Che cita il portavoce della Casa Bianca
Tony Fratto, secondo cui l’intenzione è quella di «non
sorprendere i mercati» con il passaggio di consegne.
In questo contesto, il giornale sottolinea in particolare il
comportamento di Bush, sul quale sembrano non aver pesato in
alcun modo tutti gli attacchi mossi durante la campagna
elettorale dal candidato democratico. Il presidente, assicura
Bolten, «non vuole che le sue relazioni personali o i suoi
giudizi interferiscano con quello che è meglio per il Paese».
«Si tratta di qualcosa di veramente memorabile», commenta
Stephen Hess, della Brookings Institution, che lavora alle
transizioni alla Casa Bianca sin dai tempi dell’amministrazione
Eisenhower.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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"
Leader globale
come l'imperatore Adriano"
09 Novembre 2008 17:10 ROMA - di Mario Sensini
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Ministro Tremonti, lei da
che parte colloca il nuovo presidente degli Stati Uniti? «Molto
semplicemente la risposta si trova nelle parole di Obama, che si
definisce post partisan. Oltre le parti, oltre
la destra, oltre la sinistra. Non basato sul passato, proiettato
verso il futuro. Ed è giusto così. Non si può entrare nel XXI secolo
con le categorie del XX secolo».
Può davvero cambiare il mondo? «La "cifra politica" prevalente nel
nuovo presidente è quella della novità. Non solo estetica e
simbolica, l'età e la forza, e non solo dialettica, la perenne sfida
americana, ma anche la novità morale e culturale. È una "cifra"
evidente tanto nella forma, quella di un linguaggio religioso
ispirato dal principio del destino mani-festo, quanto nella
sostanza, oltre il liberismo radicale e l'eclettismo di fine
secolo».
Obama salverà l'impero
americano? «Sconfitto il comunismo, l'America ha prima spostato il
suo asse portante dall'Atlantico al Pacifico, e poi fatto un patto
con l'Asia, un patto basato sulla "divisione prima" del mondo:
l'Asia produttrice di merci a basso costo, l'America compratrice a
debito. È così che per il default della Russia sovietica, ed
in absentia dell'Europa, attraverso la sua nuova proiezione
asiatica, l'America ha cominciato a configurarsi come un impero.
Liberale e benevolo, seduttivo e democratico.
E tuttavia, quasi per sorte
ripetitiva, ha rischiato di seguire la stessa parabola dell'impero
romano. Roma, conquistato il Mediterraneo, ne fu a sua volta
dominata: Graecia capta ferum victorem cepit. Non solo l'America è
entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione è entrata in
America con l'Asia in testa, avviando un processo progressivo di
relativizzazione, confusione, contaminazione tra usi, costumi,
valori, simboli. Ed è così, tra fusion e new age, che si
arriva all'eclettismo di fine secolo».
Cioè a Bill Clinton? «Il
dilemma dell'America è tra due modelli: Eliogabalo e Adriano.
All'impero di Eliogabalo l'America sarebbe arrivata proseguendo con
Clinton sulla sua Terza Via. Ciò che è bene per Wall Street è bene
per l'America, cuore a sinistra e portafoglio a destra. Non esistono
valori assoluti, ma solo valori relativi, se possibile da quotare in
Borsa. Gli scandali fanno parte del paesaggio e così via. Al secondo
modello, ad Adriano, può corrispondere Obama, che si riporta alla
tradizione dei democratici Anni '30, ai valori roosveltiani, e che
ha la sorte di concorrere a disegnare un nuovo modello di civiltà.
La crisi è globale e la soluzione può essere solo globale, non solo
economica, ma politica, basata su un New Deal globale».
Resta il fatto che Obama è
stato catapultato alla Casa Bianca soprattutto dalla crisi
economica... «Artefice o vittima del suo successo? Per avere
successo, e Obama può averlo, devi capire che cosa è successo
ed è per questo che quella intellettuale è la condizione delle
condizioni. Prima le analisi sono mancate del tutto, e infatti la
crisi è arrivata improvvisa e imprevista. Adesso si stanno formando
alcune analisi, ma vedono gli effetti e non le cause della crisi. In
questi termini non sono sufficienti.
Se vuoi uscire dalla crisi
devi risalire alle sue cause. La crisi è globale non tanto
perché è estesa su scala globale, dall'America all'Europa, dall'Asia
all'America Latina, quanto perché è nella globalizzazione stessa,
fatta troppo presto e troppo a debito, che si radica e nella sua
meccanica costitutiva».
«Una massa abnorme. La
catena di "creazione del valore" si basava su di una tecnica
speciale e su un principio fondamentale. La tecnica "speciale" era
la concessione di credito ad un fondo, la cessione del credito ad un
terzo, la sua trasformazione in un prodotto finanziario, la sua
moltiplicazione iperbolica, infine il suo collocamento sul
"mercato", esteso dalle banche alle famiglie. Il principio
fondamentale era quello della catena di Sant'Antonio,
modernamente configurato sul presupposto dello sviluppo universale
perpetuo». Lei ha detto che il denaro non crea denaro. Secondo
D'Alema citando Marx... «A braccio non si fanno citazioni. Quella
frase la usa in negativo anche Gordon Gekko, l'eroe di Wall Street.
Ragionando come D'Alema si dovrebbe comunque concludere che, a sua
volta, Marx ha copiato San Tommaso D'Aquino: Nummus non parit nummos
».
Torniamo a Sant'Antonio. «Meglio.
Come nelle catene di
Sant'Antonio, la meccanica si è bloccata quando qualcuno ha smesso
di spedire le cartoline. Quando la sfiducia, causata dall'eccesso di
fiducia, ha bloccato la catena. Chi sapeva, e proprio perché sapeva,
ha cominciato a uscire, a vendere al meglio, e a organizzarsi il
soggiorno alle Cayman in attesa dell'Fbi. Meno folcloristicamente,
sono i banchieri che hanno cominciato a non fidarsi più dei
banchieri, bloccando la circolazione del sangue nel "corpus" della
finanza».
È possibile rianimarlo?
«Tutto dipende dai tempi e dai metodi della politica, a partire
dalla politica che sarà fatta dal nuovo presidente. Molto dipende
dai corsi azionari, e non per caso sono le Borse gli indicatori più
sensibili della crisi. Se il livello di caduta si ferma, tutto si
tiene, seppure con enormi sforzi data la concentrazione sequenziale.
Un conto è uno shock ogni tre anni, un conto è uno ogni tre mesi, in
sequenza parossistica». Come spiega l'ottimismo del
presidente del Consiglio? «Berlusconi conosce benissimo la
situazione. Tuttavia dice che non ha mai visto un pessimista che ha
successo, ed è difficile dargli torto. Va oltre l'ostacolo,
traguardando con speranza il futuro».
Molto dipenderà da Obama, ma
quali sono le sue opzioni di gestione della crisi? «Ha davanti due
scenari. Uno ordinario, come è stato finora: colossali swap che
caricano i debiti privati sul debito pubblico e girano le perdite
dal presente alle generazioni future.
Oppure Obama può essere alla
fine costretto dalla realtà ad andare verso uno scenario
straordinario, a non ascoltare i templari della finanza
fallimentare, ad applicare pensiero laterale.
Staccando la finanza buona
da quella cattiva, neutralizzando la massa dei derivati. Ispirando
questa politica alla logica positiva dello shabbat, l'anno della
remissione dei crediti e dei debiti, l'anno simbolico della
ripartenza».
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Fonte
- Corriere della Sera |
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Sabato
08
Novembre 2008 |
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Domenica
09
Novembre 2008 |
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Mercoledì 12
Novembre 2008 |
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Perché
é sbagliato tornare all'interventismo
di Keynes
11 Novembre 2008 13:40 NEW
YORK - di *Edmund Phelps
*Premio Nobel per
l'Economia 2006.
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Di quale teoria possiamo
avvalerci per uscire dall'imminente recessione in modo rapido ed
efficace? Usare la
«nuova teoria classica» delle fluttuazioni nata a Chicago negli anni
Settanta — che incorpora i modelli di «gestione del rischio» — è
inimmaginabile, dato che con il crollo dei prezzi degli asset è
proprio questa teoria a essersi dimostrata errata. Alcuni
hanno pensato di rivolgersi a John Maynard Keynes. Le sue
riflessioni sui rischi e sulle speculazioni sono acute, ma la sua
teoria sull'occupazione è problematica e le soluzioni politiche
«keynesiane» sono, nel migliore dei casi, discutibili.
Le banche hanno parlato della discesa dei prezzi delle case come se
fosse la conseguenza di un qualche shock. Secondo i loro modelli,
sono shock casuali a far deviare il prezzo degli asset dai valori
previsti. In realtà non sono stati terremoti, periodi di siccità o
altri fattori esterni a provocare la caduta dei prezzi.
La causa principale è stata
una previsione basata su modelli del tutto erronei. Gli speculatori
e gli acquirenti di case, pensando che gli affitti o i costi di
costruzione sarebbero saliti, contavano sul fatto che nel futuro il
prezzo delle case sarebbe aumentato e questo provocava anche un
aumento di prezzo delle case esistenti. Ma nel corso degli
anni né gli affitti né i costi (in termini reali) sono cambiati. In
una situazione del genere, i prezzi (reali) prima o poi devono
tornare a scendere.
Questo era il mondo di
Keynes. A Cambridge, nel suo Treatise on Probability, Keynes mostrò
come un investitore debba tenere conto di circostanze non note. A
Londra gestì un fondo con O. T. «Foxy» Falk e si arricchì, ma fu poi
colto di sorpresa dal crollo dei prezzi delle materie prime
all'inizio del 1929. Si rese conto così della fragilità delle
certezze degli investitori. Quando gli investitori cominciano
a ritirarsi, il prezzo dei beni, che in precedenza aumentava,
dapprima fluttua, e alla fine precipita insieme alle convinzioni su
cui si basava.
Nella Teoria generale del
1936 Keynes affermò che il prezzo degli asset era determinante per
l'occupazione. Se un cambiamento nel modo di sentire della gente
provoca il crollo dei prezzi degli asset (insieme a quello delle
azioni e delle case), gli investimenti si riducono e l'occupazione
si contrae (aumenta la disoccupazione), soprattutto nelle industrie
di beni capitali (capital goods).
Sfortunatamente, da allora
nulla andò più bene. Keynes fece un grave errore, non distinguendo
tra una caduta dei prezzi degli asset dovuta a cause monetarie — un
aumento esogeno, o autonomo, della domanda di denaro — e una caduta
dovuta a cause che non hanno nulla a che fare con l'offerta e la
domanda di denaro — ma dipendono, per esempio, da una minore fiducia
negli investimenti azionari o nel settore immobiliare. Il primo
fenomeno potrebbe essere risolto con mezzi monetari: la banca
centrale potrebbe accrescere l'offerta di denaro, risollevando così
il prezzo degli asset senza trascinare gli altri prezzi e i salari
in un'inutile spirale di aumenti.
La recente crisi della
speculazione sugli immobili è però un fenomeno non monetario: deve
esserci un calo dei prezzi delle case, in termini monetari, rispetto
a quelli dei beni di consumo. Keynes sosteneva che l'aumento
dell'offerta di denaro potrebbe funzionare anche in questo caso:
i lavoratori non sono consapevoli che altrove i salari per lavori
analoghi sono saliti come i loro e si astengono quindi dal
richiedere salari alti quanto prima, in termini reali; in questo
modo le assunzioni sono incentivate e l'occupazione torna a
crescere. Ma continuare a sostenere una ripresa di questo tipo
richiederebbe di sicuro un aumento senza fine dei salari, che
continui a precedere le aspettative una prospettiva poco attraente.
Keynes pensava sempre di più
a misure non monetarie per cambiare il nuovo equilibrio non
monetario derivante da una perdita di fiducia degli investitori.
Riteneva che anche la domanda dei consumatori incentivasse
l'occupazione. Un aumento della domanda incoraggia, in un
primo tempo, le aziende ad aumentare la produzione e ad assumere un
maggior numero di lavoratori. Ma in un'economia aperta
quest'incentivo sarebbe di stimolo soprattutto per i paesi esteri.
Nell'economia globale, l'aumento della domanda dei consumatori
farebbe solo aumentare i tassi d'interesse, spianando la strada al
calo dei prezzi reali degli asset, degli investimenti e dei salari.
Keynes poneva l'accento
sull'investimento come leva per aumentare l'occupazione. Secondo
questa teoria, si potevano stimolare gli investimenti privati
attraverso sgravi fiscali, o aiuti alle nuove aziende o a chi
assume. Keynes vedeva con favore gli investimenti da parte dello
Stato o di imprese statali.
Gli americani, con i loro aeroporti da incubo e i ponti che
crollano, accoglierebbero volentieri la realizzazione di nuove
«infrastrutture». Ci si deve chiedere, però, se un massiccio
spostamento di investimenti dai privati allo Stato non soffochi la
creazione, lo sviluppo e l'adozione di idee innovative da immettere
sul mercato. La teoria del capitalismo si basa sulla diversità delle
fonti da cui possono scaturire nuove idee commerciali, sulla varietà
dei gruppi di imprenditori disposti a investire, delle risorse
finanziarie — angel investors, venture capitalists e altri — e degli
utenti.
E si basa anche sull'importante presupposto che i proprietari di
imprese finanziarie e commerciali non debbano render conto a nessuno
(se non alla propria coscienza) — e siano quindi liberi di usare il
loro intuito, una condizione molto diversa da quella di rigido
controllo a cui devono giustamente sottostare i funzionari dello
Stato.
Un considerevole aumento
della presenza del governo nel settore degli investimenti potrebbe
quindi limitare l'innovazione e abbassarne la qualità. Continueremmo
a essere in crisi. Alla fine della vita Keynes disse all'amico
Friedrich Hayek che intendeva riesaminare la sua teoria in un libro
successivo. Sarebbe andato oltre. L'ammirazione che noi tutti
nutriamo per l'enorme contributo di Keynes non dovrebbe trattenerci
dall'andare oltre.
 |
Fonte
- Corriere della Sera |
CRISI MUTUI:
AUTORITA' USA IN CAMPO CONTRO
PIGNORAMENTI/ANSA
11 Novembre 2008 21:44 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 11 nov - Le
autorità americane scendono in campo per evitare i pignoramenti
e, insieme a Fannie Mae e Freddie Mac, annunciano nuove misure
che puntano a velocizzare la modifica di centinaia di migliaia
di mutui che fanno capo alle due agenzie. Il piano, che è
un'estensione del progetto New Hope (ora speranza), mira ad
aiutare le famiglie "a rischio", affinché siano in grado di far
fronte al pagamento di rate mensili inferiori o uguali al 38%
delle entrate lorde. "Si tratta di un programma importante per
ridurre considerevolmente i pignoramenti evitabili, attraverso
una semplificazione e una razionalizzazione che consente ai
proprietari in difficoltà di fronteggiare prestiti ipotecari
adeguati", spiega James Lockhart, direttore della Fhfa,
l'organismo che tutela Fannie e Freddie, le due società che
complessivamente detengono o garantiscono il 58% dei prestiti
americani. "Stiamo sperimentando una necessaria correzione e
prima la supereremo, prima il settore immobiliare potrà
contribuire nuovamente alla crescita economica", sottolinea Neel
Kashkari, supervisore del piano salva-finanza targato Henry
Paulson. Le autorità americane sperano ora che anche le maggiori
banche seguano il piano messo a punto per Fannie Mae e Freddie
Mac, anche se alcuni istituti di credito hanno già svelato e
adottato i propri progetti contro i pignoramentii. Fra queste
Citigroup, Bank of America e JPMorgan. Alla modifica dei mutui
di Fannie Mae e Freddie Mac potranno partecipare coloro che
siano in grado di testimoniare di aver incontrato difficoltà nel
far fronte ai propri impegni mensili. Secondo uno studio di
Moody's Economy.com oltre 7,3 milioni di famiglie fra il 2008 e
il 2010 potrebbero non essere in grado di ripianare il proprio
mutuo e di queste 4,3 milioni rischiano di vedersi sottrarre la
propria casa.(ANSA).
CRISI MUTUI:
WSJ, AMERICAN EXPRESS CERCA 3,5 MLD
AIUTI GOVERNO
12 Novembre 2008 12:10 ROMA
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - ROMA, 12 NOV - American
Express sta cercando aiuti per 3,5 miliardi di dollari dal
governo Usa. Lo scrive il Wall Street Journal che cita fonti
vicine al dossier. Il colosso delle carte di credito sarebbe
intenzionato ad aderire al piano di aiuti federale, il
cosiddetto programma Tarp (Trouble Asset Relief Program) e
potrebbe avere presentato richiesta già prima di aver ottenuto
l'altro ieri dalla Fed il cambio di status a holding bancaria.
L'indiscrezione sta facendo salire il titolo alla Borsa di
Francoforte, con un rialzo di 40 cent a 22,80 dollari dopo il
ribasso del 6,6% registrato al Nyse. American Express -
riferisce l'agenzia Bloomberg - non ha voluto per ora commentare
l'indiscrezione.(ANSA).
CRISI MUTUI:
VIA LIBERA UE A STRETTA AD AGENZIE RATING
12 Novembre 2008 13:09 BRUXELLES
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - BRUXELLES, 12 NOV - La
Commssione Ue ha adottato oggi il pacchetto per una maggiore
vigilanza e controllo sulle agenzie di rating, una delle misure
che si inseriscono nell'obiettivo di ridare nuove regole ai
mercati finanziari. "Si tratta - ha spiegato il commissario Ue
al mercato interno, Charlie McCreevy in una conferenza stampa -
di una proposta ben equilibrata, che da un lato garantisce
l'ampia indipendenza delle agenzie ma dall'altra le sottopone ad
un attento controllo". "Non sarà più possibile - ha spiegato in
particolare il commissario Ue - ricorrere alla difesa che quella
delle agenzie di rating è una semplice opinione". Con la
proposta di oggi - ha spiegato McCreevy - l'Ue ha adottato un
approccio "totalmente innovativo" su questo provvedimento e
l'auspicio è che anche i partner internazionali seguano questa
direzione". (ANSA).
CRISI MUTUI:
PAULSON RINUNCIA AD ACQUISTO ASSET
TOSSICI
12 Novembre 2008 17:04 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 12 nov -
"Riteniamo che al momento l'acquisto" di asset tossici "non è il
modo più efficace per utilizzare i fondi" ai quali il Congresso
ha dato il via libera. "L'acquisto diretto di azioni nelle
istituzioni finanziarie è il modo più rapido ed efficace di
usare i nostri nuovo poteri per stabilizzare il sistema
finanziario", spiega Paulson nel corso di una conferenza stampa.
"Non prevediamo più di acquistare asset tossici legati ai
prestiti immobiliari", aggiunge Paulson, sottolineando che
saranno presi in considerazione "i bisogni di capitale delle
istituzioni finanziarie". Inoltre "passeremo al setaccio le
strategie destinate a sostenere l'accesso al credito dei
consumatori", e "continueremo a esaminare le modalità conj cui
ridurre i rischi di pignoramenti". Le autorità - osserva -
restano impegnate "a prevenire i fallimenti che
rappresenterebbero un rischio per il sistema finanziario nel suo
insieme". (ANSA).
Fonte
- ANSA
|
Le Banche Centrali
hanno già pompato 7$ trilioni ma ancora non basta
12 Novembre 2008 12:42 LUGANO - di *Alfonso Tuor
*Alfonso Tuor e' il
direttore del Corriere del Ticino.
________________________________________
La crisi del credito sta di
nuovo assumendo caratteri virulenti. A scuotere la già scarsa
fiducia dei mercati sono state le cattive notizie provenienti
dall’American Insurance Group (AIG) e da Fannie Mae, a conferma del
fatto che i soldi finora stanziati dallo Stato federale americano
per salvare queste due società sono insufficienti.
Nel caso di AIG si passa
dagli 85 miliardi già concessi per evitarne il collasso a un piano
dal costo complessivo di 150 miliardi di dollari. Per Fannie Mae non
vi sono ancora cifre precise, ma l’agenzia parastale americana,
annunciando una perdita trimestrale di 29 miliardi di dollari, ha
contemporaneamente avvertito di essere destinata al fallimento se il
governo non investirà nuovi fondi.
La musica non è molto
diversa per società storiche, come la General Motors, che
chiede un rapido aiuto dello Stato, poiché entro la fine dell’anno
sarà a corto di liquidità.
Queste comunicazioni hanno evidenziato che gli interventi finora
predisposti da banche centrali e governi sono stati utili, ma ancora
insufficienti per allentare la morsa della pesantissima crisi che
oramai non colpisce più solo il settore finanziario, ma anche
l’economia reale.
Il ribasso dei tassi di interesse e la nazionalizzazione di fatto
del mercato interbancario e di quello monetario hanno finora
indubbiamente prodotto un calo dei tassi a breve termine, ma non
hanno ancora ottenuto il risultato di riportare fiducia e un ritorno
alla normalità. Hanno solo spostato l’epicentro della crisi.
Il calo dei tassi a breve
era scontato vista l’entità degli interventi: stando al Financial
Stability Report della Bank of England, le banche centrali hanno
emesso in queste settimane 7.000 miliardi di dollari in prestiti,
acquisti di titoli e garanzie fornite al settore finanziario. Si
tratta di una cifra enorme, che ha portato ad un calo dei tassi a
breve termine pressoché in linea con le diminuzioni del costo del
denaro decise dagli istituti di emissione.
La fiducia tra le stesse
banche non è comunque tornata, come dimostra il fatto che lo scorso
31 ottobre i depositi degli istituti europei presso la Banca
centrale europea hanno raggiunto il massimo storico di 280 miliardi
di euro.
Questa sfiducia è del resto
giustificata. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che le
perdite del settore finanziario si aggireranno sui 1’400 miliardi di
dollari. Ciò vuol dire che vi sono ancora da ammortizzare 600
miliardi di dollari. Da parte sua, il presidente francese Nicolas
Sarkozy ha dichiarato che le perdite delle sole banche europee
ammonteranno a 800 miliardi di euro.
Queste cifre dovranno molto probabilmente essere corrette al rialzo,
poiché la crisi del credito funziona come indicano i libri di testo.
Produce una crisi economica, poiché le banche stringono i cordoni
della loro politica creditizia. La frenata dell’economia reale
trasforma i prestiti concessi alle imprese, che vedono crollare le
loro vendite e i loro guadagni, in crediti a rischio.
A questo punto le banche stringono ulteriormente i cordoni della
borsa, mettendo a repentaglio il normale svolgimento dell’attività
economica e contribuendo a frenare l’economia. E quindi il circolo
vizioso continua ed anzi assume sempre maggiore rapidità. Ed è
quanto sta succedendo, come dimostrano le difficoltà delle imprese a
finanziarsi a breve termine e la contrazione del credito
documentario (uno strumento fondamentale per il commercio
internazionale), ecc.
Questo circolo vizioso,
avviato con le perdite prodotte dagli strumenti finanziari collegati
al mercato immobiliare americano, è molto difficile da rompere. Gli
interventi delle banche centrali hanno prodotto una parziale
riapertura della possibilità di banche ed imprese di finanziarsi a
breve, ma non sono riusciti a riaprire il mercato dei capitali,
ossia la possibilità degli istituti di credito e delle imprese di
finanziarsi a lungo termine a prezzi ragionevoli.
La conseguenza è che la
nuova linea del fronte di questa crisi è diventato proprio il
mercato dei capitali. Infatti sia le banche sia le imprese hanno
ritardato l’emissione di nuove obbligazioni a lungo termine,
contando su un ritorno alla normalità. Ora si ritrovano con
l’impellente necessità di approvvigionarsi di nuovi capitali anche
per rinnovare il volume ingente di obbligazioni che giungono a
scadenza nei prossimi mesi.
Tutto ciò ha conseguenze devastanti. Una stabilizzazione del mercato
immobiliare americano è inimmaginabile, se i tassi ipotecari
continuano a rimanere al di sopra del 6%, nonostante la Federal
Reserve abbia ridotto i tassi dal 5,25% all’1%. Gli attuali tassi
ipotecari americani sono addirittura superiori a quelli di un anno
fa, ossia al periodo in cui scoppiò la crisi dei subprime.
E’ pure difficile immaginare come possano finanziarsi le imprese di
settori che per loro natura devono fare ampio ricorso al credito. Ad
esempio, in questo quarto trimestre giungono a scadenza più di 200
miliardi di dollari di obbligazioni delle società di
telecomunicazione. Ed è
soprattutto difficile capire come si rifinanzierà a lungo termine il
settore finanziario che continua a veder crescere le sofferenze
legate agli strumenti della nuova ingegneria finanziaria e che
presto dovrà fare i conti con un numero crescente di sofferenze
dovute alla recessione.
Ma c’è di più. La crisi è
destinata a far traballare anche il debito di alcuni Paesi
emergenti, come quelli dell’Europa dell’Est che sono pesantemente
indebitati con l’estero.
Di fronte a questa spirale
bisogna chiedersi se è possibile il salvataggio dell’intero sistema
finanziario oppure se non è preferibile salvare alcuni istituti o
parti di essi e privilegiare gli aiuti all’economia reale. Questa
domanda è fondamentale, poiché gli interventi statali dissanguano le
casse degli Stati e sono destinati a mettere in discussione anche la
credibilità degli stessi titoli pubblici. A meno che qualcuno
pensi già ad un grande incendio inflazionistico grazie al quale
bruciare i debiti e soprattutto l’enorme quantità di carta straccia
prodotta dal sistema finanziario, diretto da manager irresponsabili.
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Fonte
- Corriere del Ticino |
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Venerdì 14
Novembre 2008 |
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Domenica 16
Novembre 2008 |
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Sabato 29
Novembre 2008 |
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G-20:
Lula, l'America ha fallito. Si torni al
multilateralismo
12 novembre 2008 - di Orazio Carabini
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«Mi è perfettamente chiaro
che la situazione è difficile, ma il mondo ci sta chiedendo di far
vedere perché siamo stati eletti, e di trovare in fretta soluzioni
appropriate alla crisi». Luis Inacio "Lula" da Silva, presidente del
Brasile, non è un tipo che si tira indietro. La riunione del
G-20 si avvicina e Lula intende fare la sua parte al vertice dei
Paesi che rappresentano le economie più importanti del mondo.
«Il Brasile non farà proposte – dice Lula in un'intervista concessa
al Sole 24 Ore e ad altri quattro quotidiani italiani nel corso
della sua visita a Roma –, ma sono ottimista.
Da due anni vado dicendo che
i leader politici devono incontrarsi per affrontare i grandi
problemi del mondo: il commercio internazionale, l'economia, i
conflitti. Già, perché se gli Stati Uniti avessero ascoltato gli
altri Paesi non avremmo avuto la guerra in Irak e avremmo trovato
una soluzione per la Palestina».
Lula elenca tre priorità:
riprendere la trattativa sul Doha Round per il commercio
internazionale, dare nuove regole al sistema finanziario mondiale e
«irrigare» l'economia per far tornare il credito alla produzione e
ai consumatori, rimettere le istituzioni multilaterali, dall'Onu al
Fondo monetario, in condizione di funzionare.
COMMERCIO INTERNAZIONALE. "Da
tempo, in tutte le riunioni dico che nei negoziati della Wto (World
trade organization, ndr) non c'è un problema economico ma un
problema politico. L'agricoltura ha un peso decisivo, anche tra gli
elettori, e impedisce a tutti di assumere una posizione di
leadership per definire che cosa è importante nel commercio
mondiale. Il Brasile ha
detto che cosa conta dal suo punto di vista e ha fatto importanti
concessioni sui prodotti industriali. Ci aspettiamo che gli Stati
Uniti siano più flessibili e siano più disposti a venire incontro
agli altri Paesi".
CRISI FINANZIARIA.
"Il sistema finanziario
mondiale ha bisogno di regolamentazione. In Brasile la leva degli
intermediari è 10, in Italia è 20, negli Stati Uniti è 35, talvolta
90. Abbiamo capito che cosa è successo: si pensava che il sistema
finanziario funzionasse come un casinò, solo per fare soldi, senza
preoccuparsi del settore produttivo. Contemporaneamente bisogna
discutere come <irrigare> l'economia per far sì che il credito torni
all'industria e ai consumatori.
ISTITUZIONI MULTILATERALI.
"Devono tornare a
funzionare. Serve una profonda riforma per l'Onu, il Fondo monetario
internazionale e la Banca mondiale. Oppure bisogna creare
qualcosa di nuovo, di diverso. Il fatto concreto è che queste
istituzioni furono create per aiutare i Paesi poveri. Adesso che la
crisi è arrivata nei Paesi ricchi le istituzioni non sanno che cosa
fare. Quando la crisi riguardava l'Argentina o il Brasile, tutti
sapevano che cosa dire e che cosa fare. Adesso che si parla di Stati
Uniti e di Europa nessuno sa che cosa fare. Io dico solo che non
devono essere i Paesi poveri a pagare. Hanno già molta
disoccupazione e hanno perso potere d'acquisto. Non possono essere
le vittime dell'irresponsabilità del sistema finanziario".
Per questo servono soluzioni
rapide e credibili. "Manca il credito – continua Lula – e la crisi
sta raggiungendo l'economia reale: questo significa più
disoccupazione, una riduzione del potere d'acquisto dei salari, più
esclusione sociale. Si rischia di tornare agli anni 80. Di questo
dobbiamo discutere al G-20".
LA STRATEGIA DEL BRASILE.
Intanto però il Brasile ha scelto una sua strada per affrontare la
crisi. «Se ogni Paese sostiene la crescita e fa sì, come fa il
Brasile, che la produzione industriale continui ad aumentare –
osserva Lula – potremo evitare la crisi». L'economia brasiliana sta
peraltro rallentando come quelle degli altri Paesi: dal 5,4% di
crescita del 2007 scenderà al 2,5% nel 2009 passando per un 5% nel
2008.
LA LEADERSHIP DI OBAMA.
"Nessuno chiede a Obama di essere leader o di non esserlo.
Gli Stati Uniti avranno
sempre un ruolo importante: hanno la potenza militare più forte, una
supremazia straordinaria nella tecnologia. È inevitabile che abbiano
un ruolo, anche se ne hanno approfittato un po' troppo dopo la
seconda guerra mondiale.
Adesso però c'è la Cina,
l'India, il Brasile, il Sud Africa. Fino a vent'anni fa nessuno
considerava questi Paesi se non per misurarne la povertà. Ora hanno
un'importanza politica e tutti si sono convinti che il G-8 non
rappresenta più la logica dell'economia mondiale, che i temi veri
devono essere discussi con chi conta per trovare le soluzioni».
IL RUOLO DEL BRASILE. "Il
Brasile aveva meno importanza perché era succube degli Stati Uniti e
dell'Europa. Ma ho imparato nella mia attività di sindacalista che
un interlocutore, se non è rispettato, non ha peso. Se entro in una
riunione dicendo "amen", nessuno rispetterà quello che penso o che
propongo".
LULA E I LEADER SUDAMERICANI
RADICALI. "Non
considero radicali gli altri leader. Ogni presidente si rivolge al
proprio pubblico per farlo felice. Hugo Chavez ha la sua realtà in
Venezuela, Evo Morales ha la sua in Perù. Noi abbiamo la nostra. Dal
punto di vista economico non vedo spazio per il radicalismo.
A meno che un Paese non possa vivere da solo, senza commercio, senza
prestiti. E poi ormai c'è l'interdipendenza scientifica e
tecnologica. Il Brasile
lavora con tutti Paesi. Essere il presidente di un Paese e avere
rapporti di amicizia con gli altri presidenti non significa aver
costituito un gruppo di amici. I rapporti tra gli Stati devono
durare, dobbiamo continuare a lavorare insieme. Il Brasile ha
più responsabilità perché è più grande. E deve essere più paziente.
Ma andiamo avanti e rafforzeremo il mercosur e le nostre economie".
 |
Fonte
- MiaEconomia |
G20: DOMANI GRANDI A CONSULTO;
DRAGHI,EMERGENTI NEL FSF/ANSA
13 Novembre 2008 20:33 NEW YORK
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 13 NOV - La
crisi finanziaria e suoi effetti di nuovo sotto i riflettori.
Stavolta però non solo per un esame ma per cercare di
raggiungere delle soluzioni per la stabilità dei mercati e,
soprattutto, per il rilancio dell'economia. Gli Stati Uniti,
inizialmente reticenti alla necessità di una kermesse
internazionale, puntano ora a raggiungere risultati concreti,
con l'adozione di un piano d'azione. L'Europa si attende che
siano gettate le basi per l'avvio di un processo che porti a una
riforma delle regole dell'economia di mercato. E il governatore
di bankitalia Mario Draghi chiede che il Financial Stability
Forum (Fsf) si allarghi ai paesi emergenti. Attendersi risultati
concreti dal vertice appare difficile: al di là di fissare un
calendario e gli obiettivi intorno al quale istituire dei gruppi
di lavoro non si dovrebbe andare. Ma già sarebbe un passo
avanti, in vista dell'insediamento del nuovo presidente
americano, Barack Obama, e considerate le divergenze fra il
Vecchio continente e gli Usa e quelle all'interno della stessa
Unione Europea. Differenze queste ultime che, però, non hanno
portato, grazie all'iperattivismo del presidente di turno Ue
Nicolas Sarkozy, a crepe evidenti nell'unità dei 27
nell'affrontare la fase più critica dell'emergenza finanziaria.
L'appuntamento di domani e dopodomani a Washington, quindi, sarà
anche l'occasione per verificare se questa unità e
determinazione sarà condivisa anche dagli altri partner Ue
seduti intorno al tavolo, a partire dalla Germania di Angela
Merkel. Alla riunione Sarzoky chiederà di rimettere in
discussione il ruolo finora avuto dal dollaro sui mercati
mondiali, ma anche la necessità di dare al Fondo Monetario
Internazionale un ruolo più centrale nella nuova architettura
mondiale. Un'idea questa che agli Usa non piace: Washington è
d'accordo ad ammodernare il ruolo del Fmi, ma solo attraverso un
rafforzamento limitato della sua capacità di prevenire la crisi.
Gli Usa si oppongono inoltre al principio di un regolatore
mondiale unico e sovranazionale. Ma sono anche altri i temi sul
tavolo, quali l'aumento del peso dei paesi emergenti nella
supervisione della finanza internazionale. Brasile, Cina, India
e Russia chiedono una maggiore voce e di poter giocare un ruolo
di primo piano nel ridisegnare l'architetture della finanza
mondiale. Secondo il governatore della Banca d'Italia, Mario
Draghi, per una migliore gestione della crisi dei mercati è
necessario allargare il numero dei Paesi che fanno parte del
Financial Stability Forum, includendo le economie dei principali
Paesi emergenti. L'Fsf "lavorerà - spiega - per ottenere
rapidamente questo obiettivo". Convinto che sia necessario dare
maggiore peso alle economia emergenti è anche Bush: è stata
infatti proprio Washington a insistere per allargare quello che
inizialmente doveva essere un G7 ad altri 13 paesi. Proprio per
dare più voci ai paesi emergenti è necessario ammodernare del
Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale, così che
possano rispondere meglio alla crisi che, comunque, "non
rappresenta il fallimento" del capitalismo, osserva Bush.
L'economia mondiale - prosegue Bush - ha ancora davanti "giorni
difficili", ma le misure prese cominciano a produrre effetti.
L'Europa e gli Stati Uniti si presentano al vertice in
recessione. Le grandi economie dei paesi emergenti, che tirano
la crescita mondiale, chiedono un peso maggiore e vogliono
partecipare attivamente alla definizione della nuova
architettura finanziaria globale. Al vertice parteciperanno
anche la Spagna (alla quale la Francia ha ceduto uno dei due
posti cui aveva diritto essendo contemporaneamente presidente di
turno dell'Ue e membro effettivo del G20) e l'Olanda (invitata
da Nicolas Sarkozy, presidente di turno dell'Unione Europea:
così, il G20 sarà in realtà un G21. (ANSA).
Fonte
- ANSA
Vigilia G20, Bush: «Ho ancora
fiducia nel capitalismo»
13 novembre 2008 MILANO
-
di ANSA ______________________________________________
La crisi «non è stata un
fallimento del libero mercato» e il capitalismo è sempre l'unico
sistema «che fornisce incentivi per la prosperità».Non solo, il
capitalismo «è l'autostrada del sogno americano, quello che ha
trasformato l'America da una ruvida frontiera nelle più grande
economia del mondo». Sono le parole pronunciate dal presidente
degli Stati Uniti George W.Bush alla vigilia degli incontri dei
rappresentanti dei paesi del G20, in un discorso tenuto al
Manhattan Institute di New York. «Il capitalismo non è perfetto»
e «bisogna trovare modi per far funzionare meglio il sistema»,
ha proseguito Bush che ha poi difeso l'intervento del governo
americano di fronte al rischio di un collasso globale, ma, ha
ammonito, «l'intervento del governo non può essere una cura per
tutto». In quest'ottica «il nostro obiettivo non dovrebbe essere
un maggior ruolo del governo, ma un ruolo più intelligente del
governo».
Il presidente uscente, che occuperà la Casa Bianca per poco più
di altri due mesi, è favorevole a riforme per rafforzare
l'economia globale nel lungo periodo. Tra le possibili proposte
che discuterà con i leader mondiali questo fine settimana vi
sono: miglioramento delle regole di contabilità per titoli
azionari, obbligazionari e altri tipi di investimento, aumento
della vigilanza sullo scambio di alcuni prodotti finanziari
complessi come i «credit default swaps», miglior coordinamento
delle leggi finanziarie nei diversi paesi, revisione delle
regole contro la manipolazione e la frode dei mercati.
Inoltre, secondo il presidente americano, sarà fondamentale dare
ai paesi emergenti una maggiore influenza all'interno di
istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale.Bush ha poi respinto l'accusa che un'insufficiente
regolamentazione negli Stati Uniti sia stata alla base della
crisi del credito. «Molti paesi europei avevano regole molto più
ampie e hanno comunque vissuto problemi quasi identici ai
nostri», ha concluso.
Fonte
- ANSA
G20:
BOZZA COMUNICATO;PIANO
AZIONE,ALCUNE MISURE SUBITO/ANSA
15 Novembre 2008 04:53 WASHINGTON
-
di ANSA ______________________________________________
(ANSA) - WASHINGTON, 15 NOV - Un
piano d'azione con proposte concrete, diviso in due parti: le
azioni da adottare immediatamente entro il 31 marzo e quelle a
medio termine. E' quanto prevedrebbe - secondo indiscrezioni -
la bozza del comunicato finale del G20. Fra le linee guida
indicate nel comunicato figurerebbero - secondo la bozza -
maggiore trasparenza e superivisione e, soprattutto, più
collaborazione. Nel testo è contenuto anche l'invito a non farsi
tentare da pressioni protezionistiche e quello di raggiungere un
accordo per completare le negoziazioni del Doha Round entro la
fine dell'anno. Il comunicato dovrebbe contenere - sempre
secondo indiscrezioni - alcune indicazioni per un migliore
funzionamento dei mercati finanziari globali, e fra questi
specifici richiami alla trasparenza. I leader si sarebbero
accordati anche per chiedere una migliore cooperazione
internazionale nel monitorare i mercati: un obiettivo questo che
dovrebbe essere raggiunto con la creazione di meccanismi di 'early
warning'. Il Fondo Monetario Internazionale e il Financial
Stability Forum, guidato dal governatore della Banca d'Italia
Mario Draghi, hanno già espresso venerdì la propria
disponibilità a farsi carico del compito. Nel comunicato -
riferiscono le stesse fonti - si dovrebbe fare riferimento abche
a un 'collegio dei supervisori' per monitorare le maggiori
istituzioni finanziarie. Il testo del comunciato sarà diffuso
sabato nel pomeriggio (in serata italiana) al termine di una due
giorni di lavori, e dovrebbe contenere anche indicazioni
temporali sul prossimo appuntamento che dovrebbe cadere fra la
fine di marzo e i primi di aprile. L'incontro - secondo quanto
dichiarato da alcuni partecipanti al G20 - potrebbe avere luogo
a Londra, visto che proprio l'Inghilterra presiederà il prossimo
anno il G20.(ANSA).
Fonte
- ANSA
G20:
PIANO AZIONE A PROVA MERCATI,
ECONOMISTI SCETTICI/ANSA
16 Novembre 2008 14:26 WASHINGTON
-
di ANSA ______________________________________________
(dell'inviato Serena Di Ronza)
(ANSA) - WASHINGTON, 16 NOV - I leader del G20 uniti contro la
crisi: il vertice che ha visto l'ingresso al tavolo dei 'Big'
delle economie emergenti ha messo in evidenza la volontà comune
di affrontare e risolvere quella che è la peggiore crisi
finanziaria degli ultimi 70 anni. Ma, secondo alcuni economisti,
al di là delle "buone intenzioni" c'é ben poco. E ora si attende
la reazione dei mercati, reduci ancora una volta da un settimana
difficile, condizionata soprattutto dal deteriorarsi
dell'economia reale. Il piano d'azione delineato dal G20, più a
lungo termine, si farà sentire anche sull'economia: constatando
l'urgenza di rilanciare la crescita, il comunicato finale invita
a considerare "le misure di politica economica e di bilancio"
tese "a stimolare la domanda nazionale e stabilizzare i
mercati". Insomma degli stimoli a sostegno dell'economia: per
l'Italia il piano - secondo quanto annunciato dal ministro
dell'economia Giulio Tremonti - sarà di 80 miliardi di euro.
"Alla luce dei risultati ottenuti, potevano anche mettersi
d'accordo senza incontrarsi. Che altro c'é di nuovo se non il
fatto che si è trattato di un G20 e non di un G8?", commenta
Simon Johnson, economista del Massachussetes Institute of
Technology ed ex capo economista del Fondo Monetario
Internazionale. "Chi si aspettava un mea culpa da parte del G20
é rimasto deluso", osserva invece Kenneth S. Rogoff, economista
di Harvard. I risultati raggiunti dal vertice sono di "assolutà
vacuità: sono stati messi a punto solo degli slogan", spiegano
alcuni analisti, constatando come "il diavolo dell'accordo è nei
dettagli. Nonostante le buone intenzioni, i progressi saranno
ardui e lenti". "Molti degli argomenti discussi in questo
week-end erano già stati esaminati. Speriamo che il vertice dia
una spinta ad andare avanti su questi temi", spiegano dalla
Security Industry Financial Market Association. "Ci si attendeva
forse qualcosa di più. Era ovvio che una nuova Bretton woods non
sarebbe arrivata, ma sia per l'economia sia per il mercato il
segnale doveva essere più forte", osservano gli analisti,
secondo di trasparenza e regole ormai si parla da molto tempo.
Il piano d'azione in cinque punti disegnato dal G20 potrebbe
comunque portare a un rimbalzo degli indici almeno a breve. Ma
di certo - affermano gli analisti - non sarà sufficiente a far
invertire la rotta dei listini in maniera duratura.
L'accoglienza dei mercati, quindi, potrebbe essere solo in un
primo momento tiepida, per poi tornare a raffreddarsi. Molto è
appeso al destino di alcune grandi società, quali General Motors,
il cui futuro appare di giorni in giorno più in bilico.
Articolato in cinque aree, il piano contiene le misure
"prioritarie" per migliorare la supervisione del mercato. Nel
testo concordato si invita a una valutazione su come i compensi
dei manager possono esacerbare i trend ciclici, si chiede una
maggiore cooperazione fra le autorità regionali e nazionali. Ma
invita anche a una maggiore trasparenza sul mercato dei credit
default swap, e una registrazione delle agenzie di rating. Un
riferimento è anche alla creazione di collegio dei supervisori
per monitorare le maggiori istituzioni finanziarie. Al Fmi e al
Financial Stability Forum viene chiesto di ampliare la propria
partecipazione.(ANSA).
Fonte
- ANSA
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Cosa
resta del G20
17/11/2008 MILANO - di MiaEconomia
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Un week end tra vecchi e potenti amici o la svolta epocale per
evitare che la finanza mondiale, nel futuro, possa trascinare alla
crisi economica l'intero pianeta? I giudizi sul summit mondiale dei
G20, i 20 paesi più ricchi al mondo, sono ancora tutti in sospeso.
Lo scopo del meeting era
trovare una qualche risposta alla crisi economica che sta
attanagliando l'intero pianeta, che ha avuto il suo epicentro nella
gigantesca crisi del mercato del credito che è cresciuto a dismisura
non tanto su un'economia reale quanto su quella fatta di
obbligazioni supportate dal nulla e da giochetti sui derivati.
Da una parte gli iper ottimistici, che dicono che meglio di così non
poteva andare, lo riferiscono un po' tutti i partecipanti
all'incontro mentre ripetono di avere gettato le basi delle regole
per l'economia e la finanza internazionale del XXI secolo.
Di concreto? Forse non
molto. E' stata fotografata la nuova realtà mondiale, con nuove
valute forti e nuove economie che contano accanto a quella americana
(ed europea), e tutti si sono detti d'accordo per mettere a punto -
e soprattutto per farlo in tempi brevi - nuovi strumenti per evitare
il ripetersi di una grossi crisi.
Ad esempio, George Bush,
ormai prossimo a lasciare la presidenza degli Usa al suo successore,
Barack Obama, ha detto, leggendo una dichiarazione, che i leader del
G20 hanno concordato di "coordinare e ammodernare" i loro sistemi
finanziari per fronteggiare la crisi economica. Bush ha aggiunto,
parlando al termine dei lavori, che le maggiori economie del mondo
"riesamineranno le regole che
governano la manipolazione dei mercati e i tentativi di frode".
Tutti i convocati al G20 hanno convenuto che la priorità in questo
momento è sostenere le economie nazionali, entro marzo si dice che
verrà messo a punto una riforma delle leggi che regolamentano i
mercati finanziari. Si punterà sulla regolamentazione di quelle aree
dei mercati che hanno determinato la crisi, sull’aumento della
trasparenza dei mercati dei derivati e sulla riforma delle pratiche
di compensazione.
Il piano comune dice che,
entro il prossimo 31 marzo, potrebbe nascere un collegio di
supervisori che controlli le più grandi società del mondo, che si
devono studiare nuovi principi contabili e misure che limitino i
maxistipendi dei manager. Inoltre si punta a Una riscrittura comune
delle regole dei mercati finanziari che prevenga nuove crisi,
garantendo maggiore trasparenza, norme più efficaci e un minore
ricorso al debito sembra l'obiettivo delle grandi potenze.
Insomma, tutto volto al
futuro mentre la crisi è già in corso. Del resto che il G20 a
Washington sarebbe stato molto limitato nelle sue capacità di azione
si è era già capito proprio dal fatto che il leader dell'economia
più importante - e più responsabile della crisi - si sarebbe
presentato con pochi margini essendo già stato eletto Barack Obama.
Che per correttezza non si è presentato al summit ma ha voluto
sapere tutto quello che stava accadendo.
Lascia un po' spiazzati il
fatto che, mentre l'economia mondiale si affloscia, i leader del G20
si diano appuntamento a marzo, cose che confermerebbe che il vertice
si è concluso con molti impegni ma senza un piano concreto per
fronteggiare la recessione. ecco perché molti esperti
sottolineano che il meeting ha messo in evidenza un fronte unito
contro la crisi, ma di fatto ha offerto solo molte promesse.
Oltretutto da una parte si chiede di avviare piani nazionali contro
la crisi (come quello lanciato da Berlusconi per l'Italia) ma allo
stesso tempo il piano d'azione non sembra prevedere un vero unico
supervisore sovranazionale.
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