La
bolla cinese
sta davvero scoppiando
01 Marzo 2010 03:25 NEW YORK
– di Minxin Pei
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Pensare che il mondo conosca qualcosa riguardo la Cina
sembra essere un'affermazione generosa, oggigiorno. Appena
pochi mesi fa era opinione diffusa - tra i politici, gli
uomini d'affari e gli economisti - che la Cina avesse messo
in atto il più imponente piano di stimolo del mondo, e fosse
uscita dalla crisi economica più rafforzata che mai.
Oggi
quasi tutti sono preoccupati circa l'esplosione della
cosiddetta 'bolla cinese'.
Inutile dirlo, ma i cinesi stessi sono preoccupati
(comprendono o no i meccanismi del loro paese?).
Beijing ha
recentemente imposto dei limiti rigidi sul credito bancario,
mettendo di fatto un argine al fiume di denaro facile che ha
permesso all'economia della Cina di crescere nel 2009. I
mercati di tutto il mondo si sono messi in allarme di fronte
alla minaccia sospesa che incombe sul Paese. I prezzi del
petrolio, del rame e del minerale di ferro sono crollati, da
quando i commercianti hanno imposto alla Cina di ridurre le
sue importazioni. La situazione, effettivamente, non pare
confortante.
Al fine di compensare la diminuzione della merce
d'importazione - che è crollata del 16 per cento nel 2009 -
la Cina ha effettuato una massiccia spinta verso
l'investimento lo scorso anno, per mantenere il livello di
crescita. In aggiunta ai 680 miliardi di dollari per le
spese fiscali supplementari del 2009 e del 2010,
Beijing ha
mobilitato il sistema bancario dello Stato al fine di
riversare un flusso di prestiti nell'economia. Detto fatto:
1,4 trilioni di dollari (circa un terzo del Pil) in nuovi
prestiti bancari immessi nelle infrastrutture, nel mercato
immobiliare ed azionario. Gli effetti sono stati
sconcertanti: l'economia cinese ha ripreso a crescere
immediatamente; i mercati immobiliari che fino a poco prima
sembravano moribondi si sono rialzati, prosperando, ed i
titoli si sono ripresi.
Coloro che detengono il potere economico e politico guardano
ad una simile situazione (quasi eccessivamente positiva) con
profonda inquietudine.
La facile regolamentazione sottesa al
credito bancario, adottata nel 2009, ha fatto sì che molti
dei nuovi prestiti siano stati effettuati imprudentemente. I
beneficiari di tali prestiti hanno usato il denaro ottenuto
per speculare nel mercato immobiliare ed azionario. È un
fatto risaputo.
Le infrastrutture finanziate tramite strumenti di debito,
alla fine, si dimostreranno essere degli oneri finanziari.
Tutto questo significa che le banche dello Stato, molto
probabilmente, saranno investite da una nuova moltitudine di
prestiti non remunerativi nei prossimi anni. Anche se
nessuno si aspetta che il sistema bancario della Cina possa
crollare sotto il peso di tutto questo -
la previsione più
nera è che circa il 10-15 per cento dei nuovi prestiti si
riveleranno essere prestiti a vuoto - di certo esso ne
uscirà seriamente indebolito.
Ancora più preoccupante del prospetto dei pessimi prestiti
di massa, appare il problema dell'inflazione. Ha già
raggiunto l'1,9 per cento nel 2009, e ci si aspettano dati
molto più alti nel 2010, proprio a causa dell'enorme
emissione di credito bancario nel 2009.
Preoccupa ancora di
più, comunque, la possibilità che la crescita del Paese
possa subire un brusco arresto in seguito alla chiusura, da
parte delle banche, del rubinetto del credito.
Ironicamente, la bolla cinese potrebbe essere meno grande e
pericolosa di come appare a coloro che la osservano
dall'esterno. Mentre il mercato immobiliare, nelle grandi
città, assume chiaramente i contorni di una bolla, il Paese
intero non è stato (ancora) colto da una tale psicosi. Il
mercato azionario è già crollato di 10 punti, rispetto ai
suoi dati più alti. Il suo valore, oggi, sembra essere
positivo, ma non eccessivamente.
Ciò che sta esplodendo è la
bolla psicologica riguardo la Cina.
Fino a poco tempo fa molti, in Occidente, pensavano che
l'economia cinese fosse inarrestabile. Ora temiamo che possa
collassare. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo.
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Traduzione -
Valeria Dani
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Fonte -
L'espresso
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La settimana,
8/2010
Monday, 1 March, 2010 at 807:42 -
di phastidio ______________________________________________
Ancora la Grecia al centro
dell’attualità e dei timori. Mercoledì 24 febbraio Standard&Poor’s
ha comunicato che il creditwatch negativo sul rischio
sovrano greco, oggi a BBB+, resta in essere e potrebbe
essere risolto col declassamento di uno o due livelli entro
un mese. L’agenzia cita il rischio di reazioni negative del
pubblico al piano governativo di austerità, oltre a quello
di un avvitamento della situazione, con un eventuale (ma
sempre più probabile) rallentamento della crescita che
determinerebbe la necessità di ulteriori tagli di spesa
pubblica ed aumenti di entrate.
Il paese è sottoposto a crescenti tensioni sociali, e la
manifestazione di mercoledì 24, a cui hanno partecipato
circa 2,5 milioni di persone, con episodi di violenza
urbana, sembra il prodromo del precipitare della crisi. Il
23 febbraio l’agenzia di rating Fitch ha declassato di due
livelli il merito di credito delle quattro maggiori banche
del paese, mentre altre notizie indicano un costante
deflusso di depositi bancari dalla Grecia. Sulla scorta di
queste notizie, i credit default swap e il differenziale di
rendimento tra titoli di stato greci e tedeschi hanno
evidenziato un marcato allargamento.
Negli Stati Uniti, la fiducia dei consumatori è scesa in
febbraio al livello di 46 da 56,5 di gennaio, nuovo minimo
da dieci mesi. Il sottoindice delle condizioni correnti si è
portato al nuovo minimo da 27 anni. Anche in Eurolandia nel
mese di febbraio si è osservato un drastico calo della
fiducia dei consumatori: in Germania si è registrato il
primo calo da 11 mesi, così come rilevato dall’indice IFO.
Nel caso statunitense e tedesco alcune interpretazioni
riconducono la flessione alle avverse condizioni meteo, che
hanno colpito soprattutto le vendite al dettaglio e le
costruzioni. Analogo andamento negativo della fiducia dei
consumatori si è registrato in Italia. In Francia il dato
sulla spesa dei consumatori in gennaio ha evidenziato un
marcata contrazione, riconducibile alla conclusione del
programma di incentivi pubblici alla rottamazione auto.
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New jobless claims
with 4 week mooving avarage |
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Fonte - Econoday |
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Negli Stati Uniti è proseguito il dibattito sull’adozione di
una strategia di uscita dall’eccezionale espansione
monetaria realizzata nell’ultimo biennio. Dall’audizione
congressuale semestrale di Ben Bernanke sulla politica
monetaria è emerso che la Fed intende mantenere condizioni
monetarie accomodanti perché, a fronte di un miglioramento
delle condizioni di funzionamento dei mercati finanziari, il
credito bancario continua a contrarsi, riflettendo sia una
stretta alle condizioni creditizie che una debole domanda di
credito, a fronte di incerte prospettive economiche. La
reiterazione del mantenimento sostanziale di condizioni
monetarie accomodanti ha rinfrancato i mercati, malgrado un
dato fortemente negativo delle vendite di case nuove a
gennaio, in calo dell’11 per cento mensile ed ai minimi
dall’inizio di queste rilevazioni, nel 1963. Sebbene anche
nel caso di questa serie storica sia possibile attribuire
parte del risultato alle avverse condizioni meteo, vi è
motivo di ritenere che sul dato pesi soprattutto la
debolezza economica generale e del mercato del lavoro e la
forte offerta di case sottratte a precedenti proprietari
insolventi (foreclosures). Negativo anche il dato
settimanale statunitense sui sussidi di disoccupazione, in
marcato aumento. Ancora una volta, le tempeste di neve
restano tra i maggiori sospettati, ma la media mobile a
quattro settimane della serie storica, meno volatile,
evidenzia il tangibile rischio di una ripresa del processo
di distruzione di occupazione.
Fonte
-
Macromonitor
IL BAROMETRO
DELLA FED E' ROTTO
mercoledì 3 marzo 2010 -
di LEON ZINGALES ______________________________________________
Qualche giorno fa un lettore mi
ha inviato un accalorato e-mail per suffragare la reale
ripresa degli USA. Mi ha accusato di essere poco propenso a
riconoscere i meriti dell’amministrazione Obama e di non
riconoscere i forti segnali di ripresa da parte
dell’economia USA.
Purtroppo il problema non è una mia presunta antipatia verso
l’amministrazione USA (il Presidente Obama non mi ha fatto
assolutamente nulla..neanche lo conosco), il problema sono i
numeri che affossano questa pseudo-ripresa che si poggia
unicamente su debito pubblico e deficit. Non vi è solo la
California (discutere su di essa sarebbe come sparare sulla
croce rossa), tutti gli stati USA si trovano in grosse
difficoltà. Si consideri l’emblematico esempio (per la
presidenza Obama) dell’Illinois.
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Percentuali di
indebitamento Stati USA |
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Fonte - Center on
Budget and Policies Washington DC |
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L’Illnois ha un budget gap del 41%. Il vero problema è che
questo deficit viene fondamentalmente finanziato con i
contributi pensionistici. Vi è un buco pensionistico che si
sta rapidamente allargando ed ha raggiunto alla fine del
2009 la cifra record di 90 Miliardi di Dollari. Vi è un
report (fonte Mish) della Pension Modernization Task Force
di fine 2009 che reputo interessante “Not wanting to
implement dramatic cuts in spending on essential services,
the legislature and various governors elected to instead
divert revenue from making the required employer pension
contribution to maintaining services like education, health
care, public safety and caring for disadvantaged populations”..in
parole povere il sistema pensionistico è stato usato come
carta di credito per mantenere i servizi essenziali in uno
stato in cui si spendono 3$ per ogni 2$ effettivamente
incassati.
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Illinois has
short-changend its pension funds for years |
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Fonte - Center on
Budget and Policies Washington DC |
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Il debito dell’Illinois ha raggiunto i 130 miliardi di
Dollari e, considerando che non è possibile emettere propri
titoli di Stato, i nodi verranno presto al pettine.
Con un deficit crescente federale ed in ogni singolo stato,
con una disoccupazione ufficiale vicina al 10% (senza
considerare la sottooccupazione), con le gigantesche aste di
Tbills previste per il prossimo anno per finanziare il
debito pubblico, con il mercato immobiliare in profonda
sofferenza e la nuova ondata di ARMS in prossimo arrivo temo
che abbia poco senso parlare di ripresa. Ho l’impressione
che si siano solo messe alcune toppe sbragando i bilanci
pubblici, ma la pressione è notevole e le toppe inizieranno
presto a saltare. Si è solo rimandato l’inevitabile resa dei
conti. Ad esempio le banche USA hanno messo in vendita solo
il 30% delle case pignorate onde evitare di segnare subito
le perdite nei rispettivi bilanci.
Ma il lettore non si preoccupi..probabilmente il problema è
mio; egli è in pregevole compagnia. Basti vedere l’articolo
in prima pagina di Alberto Alesina sul Sole24Ore di due
Sabati fa. Commentando il rialzo allo 0.75% del tasso di
sconto della Fed ha titolato “Il barometro della FED segna
la fine della tempesta”..personalmente ho l’impressione che
il barometro della FED non sia perfettamente funzionante.
Fonte
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Blog/Il Cigno Nero
SINTESI 1 -
Grecia vara piano austerità, punta a sostegno Ue
mercoledì, 3 marzo 2010 - 19:19 -
di Lefteris Papadimas e Renee Maltezou ______________________________________________
Il governo greco ha approvato
oggi e sottoposto al Parlamento un piano di austerity da 4,8
miliardi (2% del Pil), il terzo in tre mesi, nel tentativo
di riportare sotto controllo il deficit di bilancio e
assicurarsi l'appoggio finanziario dell'Unione europea.
Lo conferma un portavoce del governo greco dopo che la cifra
era stata anticipata a Reuters da fonti governative.
Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso
ha detto che la Ue sostiene la Grecia in tale sforzo, ma la
Germania ha gelato le attese del mercato su ulteriori
supporti concreti affermando che non offrirà aiuti alla
Grecia in occasione dell'incontro di venerdì a Berlino tra
il cancelliere Angela Merkel e il primo ministro greco
George Papandreou.
"Voglio dire chiaramente che nell'incontro di venerdì non si
parlerà di aiuti alla Grecia, ma delle buone relazioni fra i
due Paesi", ha detto oggi la cancelliera Angela Merkel
aggiungendo che la Grecia deve mettere in pratica le misure
annunciate oggi.
"Ci aspettiamo la solidarietà europea adesso, che è l'altra
faccia del nostro piano", ha detto oggi il primo ministro
George Papandreou.
Nel dettaglio si tratta di tagli dei bonus salariali dei
dipendenti pubblici, i premi verranno ridotti del 30%, e il
rialzo dell'Iva di due punti percentali al 21%. Ci sono poi
altri provvedimenti fiscali, quali l'incremento delle
imposte su benzina, tabacco e alcolici, un'imposta una
tantum sulle proprietà immobiliari, una tassazione sugli
introiti e i beni immobiliari ecclesiastici, una nuova tassa
sui beni di lusso, un prelievo una tantum dell'1% a coloro
che nel 2009 hanno guadagnato oltre 100.000. Infine verranno
ridotti del 30% gli straordinari del settore statale e
verranno congelate le pensioni.
Papandreou ha anche detto ai membri del governo che se
adesso l'Unione europea non dovesse fornire aiuti finanziari
Atene si rivolgerebbe al Fondo monetario internazionale.
Il fondo ha accolto con favore le sostanziali" misure
fiscali del piano ed ha sollecitato le autorità ad attuare
le riforme necessarie per aumentare la produttività e la
crescita.
La Grecia è sotto pressione da parte dell'Europa e dei
mercati affinché tagli il deficit all'8,75 del Pil
quest'anno dal 12,7% del 2009 ma secondo gli ispettori Ue il
piano di austeriry riuscirà a metà a causa di una recessione
che andrà oltre le attese.
Ieri il leader greco aveva rivolto un appello drammatico ai
membri del partito di governo Pasok in cui paragonava la
crisi finanziaria del suo paese a una guerra e annunciava
misure dure e impopolari.
Se la Grecia non fosse in grado di prendere decisioni
coraggiose per tagliare un debito di 300 miliardi di euro,
125% del Pil, metterebbe in pericolo tutta l'Europa, ha
detto ieri Papandreou.
Sulla notizia proveniente da Atene l'euro si è rafforzato
sui mercati valutari e i costi di finanziamento della Grecia
si sono ulteriormente ridotti: lo spread tra i titoli greci
a 10 anni e i bund tedeschi è adesso a quota 291 punti base,
livello minimo da inizio febbraio.
"ESPLOSIONE SOCIALE"
Il principale sindacato del settore pubblico, che ha indetto
uno sciopero per il 16 marzo, ha subito contestato la nuova
manovra restrittiva.
"Protesteremo per le strade con tutte le nostre forze. Temo
che ci sarà una esplosione sociale", ha detto il segretario
generale Ilias Iliopoulos a Reuters.
Al centro di Atene circa 500 pensionati si sono diretti in
corteo verso il ministero delle Finanze dando vita alla
prima protesta contro le nuove misure.
Anche i dipendenti pubblici hanno in programma una
manifestazione anti-austerity davanti il ministero.
Oggi i tassisti sono in sciopero e il sindacato comunista
terrà una manifestazione di protesta in piazza Syntagma.
I sondaggi mostrano che il governo può contare sulla
maggioranza dei consensi.
Secondo fonti governative europee Germania e Francia sono al
lavoro su un piano di riserva in base al quale istituzioni
finanziarie pubbliche acquisterebbero miliardi di euro di
bond greci o sarebbero offerte garanzie statali alle banche
commerciali che lo facessero.
S&P valuta il debito greco BBB+, due notches sopra il
livello minimo, con un outlook negativo. Fitch ha accolto
con favore il piano ma non ha intenzione di cambiare il suo
rating BBB+ né l'outlook.
Moody's ha detto che le nuove misure di austerità danno
credibilità alla manovra di aggiustamento di bilancio e sono
coerenti con l'attuale rating A2, con outlook negativo.
Se anche Moody's, l'ultima agenzia di rating ad attribuire
una A al debito greco dovesse abbassare la propria
valutazione, i titoli di Stato greci non potrebbero più
essere utilizzati come collaterale nelle operazioni di
finanziamento presso la Banca centrale europea a partire
dalla fine di quest'anno. Moody's ha però posto sotto
osservazione per un possibile downgrade cinque delle
principali banche della Grecia (National Bank of Greece
(Francoforte: 876113 - notizie) , Efg Eurobank Ergasias
(Francoforte: 919700 - notizie) , Alpha Bank (Xetra: 876116
- notizie) , Piraeus Bank e Emporiki Bank of Greece
(Francoforte: 876577 - notizie) ).
MERCATO SCETTICO
Nel suo discorso di ieri, Papandreou ha messo in guardia i
greci dall'illusione che un default sia uno scenario remoto
e ha sottolineato come ogni giorno emergano nuovi buchi nel
bilancio dello Stato.
Nonostante negli ultimi giorni la pressione dei mercati
sulla Grecia si sia allentata, un sondaggio Reuters tra
economisti mostra che è ancora profondo lo scetticismo sulla
capacità del governo di centrare l'obiettivo di riduzione
del deficit di quattro punti percentuali.
Solo 18 su 47 hanno risposto di credere che Atene ce la
farà. La maggior parte prevede uno scenario in cui il
governo riesce a realizzare solo parziali riduzioni del
deficit.
Fonte
-
reuters
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Tra
speculazione e
fondamentali dove vanno le monete mondiali
03 Marzo 2010 21:44
– di Vittorio Carlini
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€uro debole fino a metà anno
e U$D alla prova del debito
Il Financial Times, in prima pagina, mercoledì titolava: gli
hedge fund pronti a scommettere contro l'euro. Forse, è il
retropensiero dei maligni, il giornale della City vuole
allontanare l'attenzione dalla sterlina inglese, che non se
la passa troppo bene. Al di là della dietrologia, il futuro
della moneta unica europea è comunque al centro della
discussione. Tra le sale operative, e non solo, la domanda
rimbalza costantemente: dove può andare l'euro? Per gli
esperti di IntesaSanpalo: «Nel breve periodo, compreso tra 1
e 3 mesi, l'euro dovrebbe svalutarsi fino a quota 1,32, con
possibile ulteriore discesa a 1,29». In seguito però, i
problemi del deficit a stelle e strisce metteranno
nuovamente sotto pressione il biglietto verde, «con la
possibilità di ritorno dell'euro verso livelli tra 1,35 e
1,45». Un'impostazione condivisa da Maurizio Milano,
responsabile analisi tecnica gruppo Banca Sella: «Il trend
dominante è quello di un dollaro debole: nel breve periodo
potremo vedere l'euro che scivola ma, poi, le nostre
indicazioni sono per una sua ripresa». Un po' diversa l'idea
di Fabrizio Quirighetti, capo economista di Bank Syz: «In
generale, nel 2010, assisteremo ad un indebolimento della
divisa unica europea contro il dollaro. A giugno il cross
potrebbe assestarsi a quota 1,30 euro mentre a fine anno
dovrebbe essere ancora più giù, in area 1,20». Insomma, le
differenze non mancano.
Come mai questa questo convinzione sulla debolezza
dell'euro? «La risposta è composita - dice Quirighetti -. In
primis, nonostante il calmarsi dell'emergenza sulla Grecia,
il tema del debito in Europa continuerà a restare
fondamentale. È ben vero che gli stessi Stati Uniti hanno
grosse difficoltà con il deficit di bilancio ma, al
contrario di Eurolandia, le stime di crescita degli Usa sono
migliori. L'incremento del Pil, la creazione di ricchezza
permettono di ripagare il debito con minori affanni e
impedire che diventi un problema strutturale. Cosa che, al
contrario, non credo possa accadere in Eurolandia». Una
visione quest'ultima, che come si è visto non coincide con
quella degli esperti di Intesa SanPaolo.
Il differenziale dei tassi
Ma non è solo la cambiale di bilancio degli stati europei.
«I tassi di riferimento della Bce -ricorda Quirighetti
-rimarranno fermi all'1% per tutto l'anno; mentre la Federal
reserve, passo dopo passo, alzerà i Fed fund fino a portarli
oltre l'1 % nel dicembre prossimo». Perché questa dinamica?
«In Europa i timori d'inflazione sono bassi; poi l'eventuale
stretta, più che dalla banca centrale, è possibile arrivi
dai governi». In che senso? «Prima o poi si dovrà iniziare a
intervenire sul fronte della spesa per evitare che il debito
vada fuori controllo: una situazione difficile già di per
sé, che diverrebbe esplosiva con un rialzo del tassi della
Bce». Quest'ultima, al contrario, avvierà il concreto
smantellamento (almeno ci proverà) degli interventi
straordinari a sostegno della liquidità. «In un simile
scenario - afferma Quirighetti - lo stesso differenziale dei
tassi, oggi a favore dell'Euro, verrà meno, rendendo più
interessanti gli asset denominati in dollari».
Debolezza dell'Euro o forza intrinseca
del dollaro?
Al di là delle diverse visioni sul lungo periodo, le
dinamiche sono dettate più da movimenti di mercati o dai
fondamentali? «Il movimento all'insù del biglietto verde -
dice l'economista di Banca Syz - nel dicembre scorso era
stato determinato dai buoni risultati sul mercato del lavoro
negli Usa». Insomma, una forza della divisa a stelle e
strisce, legata ad un "fondamentale" dell'economia.
«Successivamente, invece, è intervenuta la "tragedia" greca
ed è stata più la debolezza dell'euro ad incidere». E una
conferma di questa situazione arriva proprio dalla
disoccupazione Usa: Ben Bernanke, nell'ultima audizione al
Congresso americano, ha parlato di una ripresa economica cui
non corrisponde un altrettanto recupero di posti di lavoro.
Cioè, il mercato del lavoro non migliora e questo avrebbe
dovuto indebolire il dollaro che, al contrario, ha
proseguito la salita.
La speculazione non incide..
«In futuro, però - riprende Quirighetti -, sarà di nuovo la
forza relativa del dollaro a prendere il sopravvento». Ma la
speculazione, non incide? «Non credo che possa definire il
trend di lungo periodo di una valuta. Influenza sul breve:
molti fanno tanti soldi con operazioni anche spericolate, ma
l'andamento di fondo non viene distorto».
...o forse sì.
A ben vedere, l'impostazione dell'economista potrà essere
corretta sul piano formale ma forse non tiene conto
dell'amplificazione che la speculazione (aiutata dall'enorme
liquidità in circolazione) realizza sui movimenti delle
valute. Anche indirettamente. Per rendersene conto basta un
esempio. Durante la fase iniziale della crisi greca, molti
operatori hanno focalizzato la loro attenzione sui Credit
defaul swap (Cds). I Cds, polizze sul rischio
dell'emittente, sono (meglio dovrebbero) essere una sorta di
termometro sullo stato di solvibilità del soggetto che ha
emesso un bond. Questi derivati, però, sono scambiati su
mercati Over the counter, cioè su piattaforme piuttosto
opache. Ora, per soggetti dotati di una grande leva
finanziaria, non è difficile spingere verso l'alto (o verso
il basso) questi contratti, amplificando il loro movimento
naturale. Si dirà: è una banale attività realizzata ogni
giorno in Borsa. Vero. Ma è anche vero che se al balzare
verso l'alto sono i Cds di un'emissione sovrana, ecco allora
che la credibilità sulle finanze di quel paese viene
indebolita. Si crea una spirale di sfiducia che può
danneggiare la valuta dello stato stesso. È sucesso
all'euro, con la Grecia, e potrebbe succedere con la
sterlina in Gran Bretagna. Insomma la speculazione, si sa,
da profondità al mercato ed è la norma nei mercati
finanziari. Ma quando, come ormai è successo in tutto il
mondo, l'economia reale è fortemente finanziarizzata, la
speculazione incide sulla vita di tutti i giorni. E può
creare gravi scompensi.
La sterlina spera nelle
elezioni ma il deficit statale preoccupa. I debiti di Usa e
UK non sono puniti dai mercati. Ecco perché
«God save the Queen»...e la sterlina, verrebbe da
aggiungere. Mai come in questo momento si addensano nuvole
scure sul pregiato conio di Sua Maestà. Ma, come il
sole24ore.com ha da tempo rilevato, l'andamento del deficit
di bilancio, unito al calo del Pil nonostante i forti
interventi pubblici, mettono le finanze della Gran Bretagna
in una situazione scomoda che, giocoforza, pesa sulla
moneta.
«In questo caso -confessa Fabrizio Quirighetti, economista
di Banca Syz - non faccio previsioni sull'andamento del
cross. L'attuale volatilità del cambio impedisce di
realizzare delle stime. Ciò detto, la nostra view è sul
pound è negativa». Così come è negativa quella di Luca
Mezzomo, capo ufficio studi di IntesaSanpaolo: «Noi pensiamo
- dice l'economista - ad una svalutazione della sterlina
fino a 0,92 contro l'euro in un periodo di tre mesi». Ma
perché questo calo? «Londra - risponde Mezzomo - durante la
crisi ha fatto ampio ricorso alla politica fiscale; di più,
la Banca centrale d'Inghilterra ha utilizzato ampiamente le
politiche straordinarie sulla liquidità. Ebbene, nonostante
tutto ciò l'economia non ha avuto alcun balzo in avanti»
come, per esempio, è successo nell'ultimo trimestre 2009 al
Pil degli Stati Uniti (+5,9% annualizzato). A questo punto,
con le armi della politica di bilancio spuntate, «la
situazione sarà molto difficile da gestire» e la moneta ne
risentirà.
Tra elezioni politiche e deficit di
bilancio
Un appuntamento rilevante rimane, comunque, quello delle
elezioni. «Il mercato - dice Quirighetti - è in una sorta di
standby. Se alle votazioni risulterà una maggioranza forte,
sia essa dei conservatori o dei laburisti, la via di uscita
c 'è. Sarà possibile avviare quelle manovre di correzione di
bilancio necessarie per superare il punto critico. Al
contrario, se gli inglesi non manderanno in parlamento una
coalizione forte i problemi aumenteranno. E non è da
escludere anche una svalutazione pilotata della sterlina per
aiutare l'export made in Great Britain».
La Cina svaluta lentamente ma
il Drago è un illusionista
Capire le mosse del Drago non è facile. Un po' perché, in
Cina, quando si crede di aver compreso una cosa ci si
accorge che è tutt'altra. Un po' perchè Beijing spesso dà
numeri e conti non troppo trasparenti: il trucco, o anche la
semplice verosimiglianza, sono sempre dietro l'angolo.
Da dicembre, comunque, la Cina sembra aver chiuso la sua
fase di politica espansiva per avviare quella restrittiva,
sia sul fronte monetario sia su quello fiscale. «In
quest'ottica - dice Asmara Jamaleh, esperta di mercati
valutari di IntesaSanpaolo - l'apprezzamento dello
yuan-renminbi è uno degli strumenti che potrebbero essere
adottati». «Una mossa che contribuirebbe, in primo luogo, ad
avviare il processo disinflazionistico; poi, a fornire un
minore contributo alla crescita da parte delle esportazioni
nette; infine, a evitare un surriscaldamento eccessivo
dell'economia».
È ovvio che parlare di svalutazione dello yuan significa,
giocoforza, non richiamare il libero mercato. Com'è noto,
infatti, la divisa cinese è agganciata al dollaro americano.
Una situazione che ha creato molte polemiche e frizioni tra
Washington e Beijing: la Casa Bianca, infatti, ha spesso
accusato di tenere fittiziamente sottovalutato lo yuan per
favorire le esportazioni made in China.
Una svalutazione pilotata
Proprio per venire incontro alle richieste americane, prima
della crisi, lo yuan era stato aggangiato ad un basket di
monete (non solo al dollaro), facendolo apprezzare «di circa
il 20% contro il biglietto verde», ricorda la Jamaleh.
Tuttavia, nel periodio della recessione, la Cina ha smesso
di far "salire" la sua moneta che adesso, di fatto, è di
nuovo legata solo al dollaro. In questo senso il nuovo
apprezzamento sarà costituito da una "strada" assolutamente
pilotata dalla Banca centrale cinese: se il giorno
precedente il cross yuan dollaro era 6,83, accadrà che «il
giorno successivo verrà accettato un cambio di 6,80; e poi,
ancora dopo di 6,78 e via così fino al raggiungimento
dell'obiettivo». Che sarebbe prefissato a quale livelli ?
«Noi crediamo che, nel giro di due anni, il cambio tra
dollaro e yuan dovrebbe raggiunge quota 6,5 ».
Ma più nel breve periodo quando inizierà l'apprezzamento
dello yuan? «Potrebbero esserci le condizioni per far
tornare a salire la moneta, forse già a metà anno, e
comunque nel corso del 2010. Come è stato dopo il 2005
potrebbe trattarsi di un apprezzamento graduale. Questo
avrebbe il vantaggio di minimizzare - distribuendole nel
tempo - le possibili ricadute sugli utili delle imprese
esportatrici». E proprio di quest'ultimo punto sembra, ma
non è ufficiale, si stia ocupando il governo di Beijing:
sembra si stiano conducendo stress-test su un campione di
imprese per valutare l'impatto sugli utili aziendali dopo
l'apprezzamento dello yuan.
Lo Yen giapponese scenderà un
aiuto all'export dell'isola
Da metà febbraio lo Yen ha avuto un piccolo sussulto:
sembrava essersi deciso ad alzare un po' la testa. Un
movimento all'insù causato essenzialmente dall'avversione al
rischio; da una maggiore cautela degli investitori, dovuta
alle prime avvisaglie di una ripresa economica non così
forte e dai timori per l'esplosione dei conti pubblici
dell'Occidente.
Questo sussulto, però, «non dovrebbe durare - spiega Asmara
Jamaleh, esperta di mercati valutari di IntesaSanpaolo-.
Entro il secondo trimestre dovrebbe rientrare, se non già
addirittura a cavallo tra la fine dei primi tre mesi
dell'anno e il secondo quarter. Con il che, il driver della
moneta giapponese dovrebbe tornare quello "tradizionale": il
differenziale tasso/rendimento rispetto alle altre valute».
Ora, visto che il tasso ufficiale del paese del Sol Levante
è dello 0,1%, la riconquistata "normalità" dovrebbe portare
ad una debolezza dello Yen. «Crediamo- dice l'esperta- che
la divisa nipponica, attualmente sui livelli di 88-89 verso
il dollaro, nel giro di sei mesi raggiungerà quota 95».
Va detto che la banca centrale giapponese è assolutamente
decisa ad adottare ulteriori misure di stimolo all'economia;
senza dimenticare, poi, che il governo sta facendo pressione
perché venga combattuto il principale problema del paese,
cioè la deflazione, con tutte le armi possibili. Quindi
anche politiche monetarie più espansive.
Il prossimo incontro della Boj è previsto il 17 marzo. Se in
tale occasione queste misure verranno effettivamente
adottate, quello potrebbe essere il momento in cui il cambio
inizierebbe a scendere con maggiore forza.
Se, al contrario, la Banca centrale decidesse di prendersi
una pausa di riflessione sull'adozione di nuove misure di
stimolo, l'atteso deprezzamento della divisa verrebbe
rinviato un po' nel tempo.
«Ma non verebbe compromesso - dice la Jamaleh -. Infatti, le
altre principali banche centrali intraprendereanno le exit
strategy e alzeranno i tassi prima della Bank of Japan. A
quel punto i differenziali di tasso/rendimento inizieranno
ad allargarsi a sufficienza, riportando gli investitori
internazionali, e quelli giapponesi, a puntare di nuovo sull
ricerca di rendimento, sfvorendo così lo yen». Un trend che
aiuterà non poco l'export del paese del Sol Levante.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Venerdì
05
Marzo
2010 |
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Lunedì
08
Marzo
2010 |
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Martedì
09
Marzo
2010 |
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La settimana,
9/2010
Friday, 5 March, 2010 at 16:37 -
di Written by phastidio ______________________________________________
Settimana ancora dominata dagli
eventi legati alla crisi greca. Mercoledì, il governo di
Atene ha presentato un pacchetto aggiuntivo di misure di
consolidamento fiscale, del valore di 4,8 miliardi di euro,
nella forma sia di tagli di spesa (soprattutto sulle
retribuzioni dei pubblici dipendenti) che di nuove imposte,
soprattutto nella forma di accise. Il deficit pubblico
dovrebbe quindi scendere dal 12,7 per cento del 2009 all’8,7
per cento di quest’anno.
L’annuncio di nuove misure fiscali ha beneficiato il debito
greco, che ha visto un marcato restringimento del
differenziale con i titoli tedeschi e dei credit default
swap sul rischio sovrano ellenico. Al forte movimento hanno
verosimilmente contribuito anche alcune prese di posizione
politiche ed iniziative di regolamentazione. Dapprima
l’annuncio del Dipartimento della Giustizia statunitense,
che sta indagando su un presunto trading contro l’euro
attuato da alcuni hedge funds. In seguito, l’invito della
Commissione europea a banche ed investitori a discutere le
azioni da intraprendere riguardo l’operatività su credit
default swap cosiddetti naked, cioè quelli dove
l’investitore acquista protezione su una entità creditizia
senza possedere titoli rappresentativi di quel rischio.
Il credit default swap greco ha quindi evidenziato un forte
restringimento, che nella giornata di giovedì ha permesso al
Tesoro greco di tornare sul mercato con il collocamento di
un titolo di stato decennale per 5 miliardi di euro. La
richiesta degli investitori è stata per un importo triplo,
il classamento è avvenuto per il 90 per cento all’estero e
presso gestori professionali del risparmio. Il successo
dell’emissione non deve tuttavia far dimenticare che essa è
avvenuta a tassi punitivi: tre punti sopra il tasso swap
decennale, una cedola del 6,25 per cento, il maggior costo
di una emissione di debito pubblico da quando la Grecia è
entrata nell’euro, nel 2001. Con un simile costo del debito
ogni manovra di consolidamento fiscale rischia di essere
effimera, ed il paese potrebbe avvitarsi in una spirale di
dissesto. Il problema è lungi dall’essere risolto, ma per il
momento si può dire di avere acquistato tempo. Apprezzamento
per l’iniziativa greca è stato espresso dal presidente
dell’Eurogruppo, Juncker, e dal presidente della Banca
centrale europea, Trichet, che si è anche detto contrario al
coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale. Nel
frattempo, dalla Germania si moltiplicano i no ad aiuti ad
Atene.
Altro tema della settimana è quello della difficile
situazione fiscale britannica, e del forte indebolimento
della sterlina. Nella giornata di lunedì la valuta
britannica ha subito un forte deprezzamento contro dollaro
ed euro, causato dalla diffusione di sondaggi che prevedono
un parlamento bloccato, senza chiara maggioranza tra
laburisti e conservatori, alle elezioni generali di inizio
giugno. La situazione di economia e finanza pubblica resta
molto difficile: un deficit di bilancio di oltre il 12 per
cento, simile a quello greco, ed una inflazione tendenziale
al 3,5 per cento con un’economia che solo nell’ultimo
trimestre dell’anno ha fatto segnare il ritorno ad una esile
crescita.
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Employment
Declines since the Recession Began |
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Fonte - Macromonitor |
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Tra gli altri dati macro della settimana, il report sul
mercato del lavoro statunitense in febbraio non ha
apparentemente risentito delle avverse condizioni meteo. Nel
mese sono stati persi “solo” 36.000 impieghi, a fronte di
stime di una perdita di 68.000 posti. Le revisioni dei dati
del bimestre precedente hanno aggiunto altri 35.000 posti di
lavoro. Il tasso di disoccupazione è sceso lievemente, dal
9,8 al 9,7 per cento. Il mercato azionario ha accolto
favorevolmente il dato, fornendo ulteriore spinta alle
quotazioni. Si tratta di una lettura evidentemente
ottimistica considerando che, a oltre due anni dall’inizio
ufficiale della recessione, il mercato del lavoro sta ancora
distruggendo occupazione, il numero di ore settimanali
lavorate resta sui minimi storici, l’indicatore di
sottoccupazione U-6 è tornato a crescere in febbraio ed il
fenomeno (storicamente nuovo per gli Stati Uniti) della
disoccupazione di lungo periodo non mostra segni di
remissione.
Sui mercati, la temporanea attenuazione del rischio-Grecia
ha consentito un vistoso recupero dell’azionario europeo,
più marcato sui settori ad alto beta e maggiormente esposti
al ciclo economico. Analogo movimento ha interessato anche
gli indici di credito europei, con subordinati bancari e
l’indice iTraxx Crossover tra i migliori. La temporanea
dissipazione dei timori ha permesso una ulteriore riduzione
degli indici di volatilità implicita, che ha permesso
positive performance azionarie anche sui mercati
statunitensi. Di riflesso, questa settimana il dollaro ha
temporaneamente interrotto il proprio movimento di
rivalutazione contro l’euro.
Fonte
-
Macromonitor
EURO: QUALCUNO
SALTERA'
09 Marzo 2010 14:10 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La previsione e' di Fitch.
Escluso pero' uno smembramento dell'area. Appropriati i
rating di Irlanda e Grecia. Occhi puntati sul Portogallo: l'outlook
negativo. Uk e Usa, attenti al debito. E l' Italia...
Nell'Eurozona non e' da escludere che qualche stato membro
possa saltare a gambe all'aria ma l'Unione restera' unita.
E' questo l'avvertimento lanciato da Fitch Rating.
Brian Coulton, managing director e a capo della devisione
che si occupa del debito sovrano di Europa, Medio Oriente e
Asia per l'agenzia di rating, ha aggiunto che l'eventuale
paese fallito non dovrebbe necessariamente lasciare
l'Eurozona che, anzi, garantirebbe un porto sicuro.
L'agenzia specifica: Irlanda (AA- con outlook stabile) e
Grecia (BBB+ con outlook negativo) si meritano gli attuali
rating. "Penso che l'Irlanda abbia un rating appropiato
cosi' come Atene per cui vale la stessa considerazione per
l'outlook negativo", ha aggiunto Chris Prynce, direttore per
i giudizi nell'Europa dell'Ovest. Invece, non si parla di
Italia.
Il faro di Fitch resta puntato anche sul Portogallo, che
ieri ha annunciato nuove misure di austerita' che gli
analisti stanno passando sotto la lente di ingradimento. Per
il momento l'outlook resta anche qui negativo con rating AA.
"Francamente stiamo ancora osservando i dettagli del piano e
abbiamo bisogno di piu' tempo per esaminarne i dettagli", ha
detto Coulton specificando che "in linea generale i numeri
sono piu' o meno in linea alle nostre attese, ma e' ancora
troppo presto per dare un giudizio definitivo.
Nel dettaglio, Lisbona ha annunciato un piano per ridurre il
deficit al 2.8% del Pil entro il 2013 dall'attuale 8.3%.
Come intende raggiungere l'obiettivo? Tagliando la spesa per
il pubblico impiego e alzando le tasse su alti stipendi e
rendimenti legati all'attivita' di borsa. Il progetto, che
deve ancora passare al vaglio di Bruxelles, ha l'obiettivo
di dimostrare che il paese e' capace di tenere sotto
controllo il crescente deficit e debito. Fattore
fondamentale per gli investitori, che si interrogano se il
Portogallo sara' il prossimo caso post Grecia.
Quanto agli Stati Uniti, Fitch avverte: sono vulnerabili a
shock legati ai tassi di interesse. L'agenzia di rating si
dice preoccupata della ristretta liquidita' disponibile.
"Abbiamo dubbi sulla piu' stretta base di ricavi e la
relativa volatilita' negli Usa", ha riferito Coulton. "Qui
c'e' un problema di tipo fiscale che va necessariamente
risolto", ha detto.
Preoccupazioni simili anche per l'Inghilterra, di cui si
guarda il timing delle mosse di tipo fiscale. Non sembrano
esser considerati sufficienti i provvedimenti adottati per
migliorare la propria situazione finanziaria."Gli obiettivi
di tipo fiscale devono essere indirizzati: non abbiamo
osservato ancora questo tipo di atteggiamento", ha concluso Coulton nella conferenza londinese di oggi.
Il monito per il regno di Sua Maesta' va ad aggiungersi ad
altri due paesi che, come esso, attualmente vantano la
tripla A con outlook stabile: Francia e Spagna. Nel mirino i
rischi connessi alla gestione dei conti pubblici. Le misure
devono essere "piu' credibili" se non vogliono perdere
l'attuale giudizio.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
I problemi di Obama
e di Wall Street in quelle tre sedie vuote alla Fed
09 Marzo 2010 08:10 MILANO -
di Mario Margiocco ______________________________________________
Scegliere amici dell'alta finanza
o arcigni guardiani di Wall Street? Al momento ci sono tre
sedie vuote fra i sette membri del Board della Federal
reserve americana, che insieme a cinque governatori
regionali rotanti formano l'Open market committee e decidono
la politica monetaria di Washington. Le scelte del
presidente Barack Obama potranno confermare o smentire le
critiche di chi dall'ala progressista del partito
democratico vede in Obama un deludente amico di una Wall
Street che andrebbe rintuzzata, regolata e non, invece,
accontentata. Come è stato fatto da Obama con la nomina a
dicembre di Daniel K. Tarullo, un altro veterano di
quell'Amministrazione Clinton che domina il personale
dell'Amministrazione Obama. E con la riconferma di Ben
Bernanke, erede di Alan Greenspan e chiaramente nei mesi
scorsi il candidato di Wall Street.
Due delle sedie vuote sono quelle lasciate da alcuni mesi da
Randall Kroszen e da Frederck Mishkin. La terza poltrona che
si libera è quella del vicepresidente neodimissionario
Donald Kohn, 67 anni, un'istituzione alla Fed, braccio
destro prima di Greenspan e poi di Ben Bernanke, entrato
come economista 40 anni fa e promosso, dall'interno, nel
Board e poi alla vicepresidenza. Kohn è stato molto attivo e
utile nella fase dell'emergenza finanziaria, negli ultimi
due anni. Così come prima, in una precedente incarnazione,
era stato campione dell'ortodossia dei mercati e della
deregulation.
Fu Kohn, assieme a Lawrence Summers, oggi stratega economico
di Obama alla Casa Bianca, a rintuzzare all'annuale convegno
di Jackson Hole nel 2005 l'economista di Chicago Raghuram
Rajan, che criticava lo spazio eccessivo lasciato ai
derivati e prevedeva un momento – arriverà nel 2007-2008 –
in cui le banche non si fideranno l'una dell'altra, non
sapendo quanta spazzatura potrebbe avere sui libri contabili
la controparte. Un'interpretazione sbagliata, dissero
Summers e Kohn. E in contrasto, aggiungeva quest'ultimo,
"con la tradizione di superiore politica della persona la
cui era stiamo discutendo in questo convegno". Cioè
Greenspan, celebrato quell'anno a Jackson Hole.
Con l'uscita di Kohn se ne va quindi un pilastro della
vecchia Fed uscita malconcia dalla crisi finanziaria e dove,
dalla periferia, si fanno sentire chiarissime voci critiche.
Tom Hoenig, 63 anni, presidente della Fed di Kansas City,
Missouri, dice da tempo che occorre una nuova disciplina del
credito, bisogna avere banche più piccole che possano se
necessario fallire, e che ripercorrere come sta avvenendo
con eccessi di speculazione le strade che portarono alla
crisi è inaccettabile. Richard Fisher, 60 anni, presidente
della Fed di Dallas, è sulla stessa lunghezza d'onda e ha
ricordato ancora nei giorni scorsi che se una banca è
considerata too big to fail (la normativa in preparazione a
Washington ne prevede una dozzina) vuol dire che occorre
incominciare a portarla a dimensioni più gestibili. E non
garantirle comunque protezione.
Sono posizioni contro cui Wall Street si batte senza
esclusione di colpi. E su cui la Fed ha notevole potere, ora
che superato con il sì del Senato alla riconferma di
Bernanke il momento di maggior debolezza e cerca di
riaffermare il proprio ruolo di supervisore. Per quasi 25
anni, dall'uscita di Paul Volcker nel 1987 in poi, la Fed è
stata a fianco di Wall Street e un motore della
deregulation.
Obama tuttavia non ha spazi facili di manovra per
accontentare Wall Street e assicurarle un Board a tutta
prova alla Fed. Se la destra lo accusa di "socialismo",
l'ala progressista dei democratici lo accusa sempre più
duramente di essere troppo sensibile ai desiderata dell'alta
finanza. "Troppo timido nei confronti dell'industria
finanziaria che ha sostenuto la sua campagna elettorale – ha
scritto domenica in un'analisi al vetriolo l'ultraliberal
Frank Rich del New York Times, - e troppo timoroso di
sembrare un volgare partigiano del populismo". Antibancario.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
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Il
Fme tra le modifiche al trattato Ue
e la volontà politica delle capitali
10 Marzo 2010 18:03 MILANO -
di Giuseppe Chiellino
________________________________________
La necessità di modificare i trattati europei ha imposto un
rinvio (che ha tutto il sapore dell'accantonamento) alla
proposta del governo tedesco di costituire un Fondo
monetario europeo per la gestione delle crisi finanziarie
degli stati membri. A questo argomento, infatti, si è
appellato martedì il presidente della Commissione, Josè
Barroso, davanti all'Europarlamento, non senza sottolineare
le «posizioni diverse» anche all'interno dello stesso paese.
Il riferimento era proprio alla Germania, dove il presidente
della banca centrale ha bocciato nettamente la proposta
sostenuta, invece, dal governo. Ma anche l'esecutivo di
Berlino, con la cancelliera Angela Merkel, nel dare il
«pieno appoggio» al Fme ha comunque ricordato l'ostacolo dei
trattati.
Ma è davvero così? Se si guarda alla lettera del Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea, l'articolo 124 fissa
la 'famosa' clausola del no bail out e non lascia dubbi sul
divieto di «accesso privilegiato» degli stati dell'Unione
«alle istituzioni finanziarie». In pratica, nessuno può
accollarsi il debito di un altro stato membro. Insieme agli
altri paletti sui bilanci pubblici (rapporto debito/Pil e
rapporto deficit/pil) la clausola punta ad evitare che gli
squilibri finanziari di uno paese della Ue si propaghino
agli altri.
In realtà il trattato offre qualche via d'uscita. «Altre
disposizioni possono essere utilizzate per aggirare la
clausola - spiega una fonte comunitaria - a patto però che
esista la volontà politica di creare uno strumento
temporaneo per proteggere i conti degli stati dalla
speculazione dei mercati finanziari». In sostanza, quindi,
non una copertura del debito pubblico di quei paesi che non
rispettano i patti, ma uno strumento di immissione di
liquidità nel sistema che aiuti a ritrovare la stabilità.
Liquidità che puo' essere ritirata una volta rientrate le
turbolenze.
Le vie d'uscita sono sia di carattere generale che
specifiche per l'area euro. Nel primo caso, per esempio,
sempre a patto che esista la volontà politica, gli attacchi
speculativi nei confronti delle emissioni di uno stato
sovrano (come è accaduto per i bond greci) o di una valuta
(la sterlina) si potrebbe far ricorso all'articolo 122 del
trattato che, al comma 2, prevede «l'assistenza finanziaria
dell'Unione» ad uno stato membro «in difficoltà o seriamente
minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali
o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo».
La speculazione dei mercati finanziari può essere
considerata, appunto una circostanza eccezionale fuori dal
controllo dei governi.
Altra possibilità può essere individuata nell'articolo 125
secondo il quale il Consiglio Ue può «precisare le
definizioni per l'applicazione» della clausola di no bail
out.
Le vie d'uscita per eurolandia
Il trattato offre qualche escamotage riservato ai soli paesi
dell'eurozona. L'articolo 136, infatti, prevede la
possibilità che il consiglio Ue, «per contribuire al buon
funzionamento dell'unione economica e monetaria» adotti
misure per gli stati la cui moneta è l'euro, «con
l'obiettivo di rafforzare il coordinamento e la sorveglianza
della disciplina di bilancio» ma anche «di elaborare... gli
orientamenti di politica economica affinché siano
compatibili con quelli adottati per l'isieme dell'Unione, e
garantirne la sorveglianza».
Proprio ciò di cui la zona euro
avrebbe bisogno in questo momento storico. Su queste misure,
prevede il trattato, votano solo i paesi della zona euro.
Il dibattito per la creazione di nuovi strumenti di
intervento europei è appena avviato. Come ha scritto Il Sole
24 Ore è "un percorso lungo tra insidie e dubbi". In
particolare pesano alcune posizioni tedesche, quelle
espresse dal presidente della Bunsebank, Axel Weber, e dal
consigliere del comitato esecutivo della Bce, Jurgen Stark.
Posizioni intransigenti che ricordano la forte opposizione
della banca centrale tedesca all'ingresso della lira
nell'euro sin dall'avvio della moneta unica. E che come
allora, però, potrebbero essere superate. A patto che emerga
una forte volontà politica nelle capitali. Un peso
importante l'avranno sicuramente le opinioni pubbliche dei
paesi virtuosi. Per rassicurarle sarà fondamentale chiarire
da subito su chi peseranno i costi futuri del Fondo
monetario europeo.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Mercoledì
10
Marzo
2010 |
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Venerdì
12
Marzo
2010 |
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Domenica
14
Marzo
2010 |
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Cinque senatori
democratici provano a trasformare la Volcker Rule in
legge
11 Marzo 2010 15:03 WASHINGTON -
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
L'enfasi che Barack Obama ha
messo sulla riforma sanitaria confonde l'ordine naturale
delle priorità per Washington, ordine dominato da una
lungamente attesa riforma finanziaria. Se le grandi banche
continuano a essere mine vaganti, anche la migliore riforma
sanitaria –e quella in dirittura d'arrivo e sospesa a un
incerto voto della Camera è solo una mezza riforma – viene
costruita sulla sabbia. Ma Obama aveva scelto come simbolo
del suo primo mandato la sanità ben prima che la crisi di
Wall Street rischiasse di travolgere l'America nell'autunno
del 2008, e per una serie di ragioni ha deciso di non
cambiare registro. Soprattutto non ha mai voluto
antagonizzare troppo – se non verbalmente, un paio di volte
- Wall Street, come invece fece a suo tempo Franklin
Roosevelt.
Per fortuna, anche nostra data l'importanza che un riordino
della finanza americana ha per i mercati globali, un gruppo
di senatori democratici sembra deciso a mettere un po' di
ordine.
Dalla Casa Bianca, troppo timida e acquiesciente verso Wall
Street, non è venuta molta leadership sui temi finanziaria,
salvo in un paio di occasioni. Nessuno ha mai offerto al
paese una narrativa ufficiale di quanto era accaduto,
perché, per responsabilità di chi. E quindi nessuno ha mai
cercato di creare un consenso sulle cause, indispensabile
per individuare i rimedi. Questo non è stato fatto per un
motivo: il Paese ha due visioni contrastanti su cause e
rimedi della peggior crisi finanziaria della sua storia
(peggio del 29 come portata, ha detto lo stesso presidente
Fed Ben Bernanke, anche se non nelle conseguenze). La
visione di Wall Street è "sono cose che ogni tot annui
succedono, e poi si riparte". La visione di Main Street è
che è stato un massacro provocato dai grandi banchieri e a
spese del ceto medio, che ha dovuto salvare la situazione.
Due volte Obama si è avvicinato a svolgere quel ruolo di
mediatore fra le due visioni che gli compete come
Presidente. Lo ha fatto a settembre parlando ai banchieri
alla Federal Hall di New York, e lo ha fatto il 21 gennaio
annunciando, dopo un anno di ostruzionismo della stessa Casa
Bianca, il Volcker Rule, le regole basilari messe a punto
dall'ex presidente della Fed, Paul Volcker. Nell'essenza,
queste regole dicono che le grandi banche non possono avere
la garanzia pubblica se sono troppo grosse, e se fanno
investimenti a rischio. La conseguenza: snellimento di
alcune banche, e regole più severe in particolare per i
derivati.
Il 3 marzo l'esecutivo inviava al Senato la sua versione del
Volcker Rule, annacquata perché affidava in certi casi (che
sarebbero diventati facilmente la norma) l'interpretazione
della fattibilità o meno di acquisizioni e fusioni al
Tesoro.
Per fortuna cinque senatori democratici hanno steso la loro
versione del Volcker rule, assai più stringente (Jeff
Merkley dell'Oregon, Carl Levin del Michigan, Ted Kaufman
del Delaware, Sherrod Brown dell'Ohio, Jeanne Shaheen del
New hampshire) di quella inviata dal Tesoro. E oggi uno di
loro, Kaufman, dovrebbe offrire parlando in aula quella
lettura completa e chiara di cause e rimedi che lo stesso
Obama, commettendo un errore gravissimo, non ha mai offerto.
Non lo ha fatto per non rompere quell'alleanza con Weall
Street che gli ha facilitato la vittoria su McCain e che è
dimostrata dalla consegna delle leve dell'economie a uomini
di provata fiducia – per Wall Street – quali Tim Geithner al
Tesoro e Larry Summers direttore del National economic
council.
«Senza un discorso definitivo, non c'è nessun punto di
riferimento politico – dice l'economista Simon Johnson dell'Mit
– non c'è convergenza nel dibattito, e non c'è neppure
chiarezza su che cosa dovrebbe essere l'oggetto della
discussione». Se Obama ha dei guai seri al momento, lo deve
soprattutto al non aver voluto offrire questa chiara lettura
agli americani. I quali, avendo perso nella crisi circa
15mila miliardi di dollari su un patrimonio famigliare
complessivo di 60 mila, qualche richiesta ce l'hanno.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
La settimana,
10/2010
Friday, 12 March, 2010 at 16:29 -
di phastidio ______________________________________________
Settimana non particolarmente
densa di dati macroeconomici, tra i quali spicca l’indice
cinese dei prezzi al consumo di febbraio, che ha raggiunto
il nuovo massimo da 16 mesi, al 2,7 per cento annuale contro
stime poste al 2,5 per cento. Altri dati cinesi riferiti
allo stesso mese mostrano un andamento dei prestiti che, pur
in ripiegamento, eccede le stime di consenso, prezzi alla
produzione in ulteriore surriscaldamento e produzione
industriale in crescita del 20,7 per cento nel primo
bimestre del 2010, massimo da oltre cinque anni.
Prosegue quindi il surriscaldamento dell’economia cinese,
sostenuto da una espansione dell’offerta di moneta che
appare fuori controllo: la massa monetaria M2 in febbraio è
cresciuta del 25,5 per cento, mentre il governo punta
quest’anno ad una crescita di equilibrio del 17 per cento,
il che significa che per rispettare il target dovrebbe
procedere, nel resto dell’anno, ad una significativa stretta
creditizia. Gli analisti internazionali sono preoccupati per
la benevola noncuranza con la quale il governo sta gestendo
il rischio-inflazione, definendolo “moderato”. Si
moltiplicano nel frattempo i rumours sulla possibilità di
una imminente rivalutazione dello yuan.
Tra gli altri dati macro della settimana, di rilievo quello
della bilancia commerciale tedesca di gennaio, il cui
surplus si è fortemente ridotto, passando da 13,4 a 8
miliardi di euro, per effetto di una crescita mensile delle
importazioni del 6 per cento, e di un calo dell’export del
6,3 per cento. Anche se è evidente che un singolo dato non
rappresenta una tendenza, esiste il rischio di una nuova
frenata dell’attività e di un accumulo di scorte, questa
volta involontario.
Negli Stati Uniti, il presidente Barack Obama ha scelto
Janet Yellen, attuale presidente della Federal Reserve di
San Francisco, per sostituire Donald Kohn come
vicepresidente della Fed. Come Kohn, Yellen è considerata
una “colomba”, favorevole al mantenimento di tassi
d’interesse a livelli eccezionalmente bassi per un protratto
periodo di tempo. L’equilibrio nel board della Fed tra
falchi e colombe resterà quindi invariato. Tra i dati
macroeconomici statunitensi, di rilievo quello sulle vendite
al dettaglio, cresciute in febbraio dello 0,3 per cento,
contro attese per un calo dello 0,2 per cento. Il dato
aggregato mostra una revisione al ribasso per il mese di
gennaio (da più 0,6 a più 0,1 per cento), ma a livello
disaggregato risulta positivo e, soprattutto, non
influenzato dalle avverse condizioni meteo del mese: al
netto delle auto l’incremento mensile è infatti dello 0,8
per cento, mentre al netto di auto e carburanti il progresso
è dello 0,9 per cento. Febbraio è il mese dei saldi e il
dato, pur se destagionalizzato, può essere stato influenzato
da campagne di sconto particolarmente aggressive. Le vendite
di veicoli a motore sono tuttavia diminuite per il terzo
mese consecutivo.
I mercati hanno fatto segnare un’altra settimana positiva,
con l’indice S&P500 che ha eguagliato i massimi di gennaio.
Molti indicatori tecnici segnano condizioni di ipercomprato
di breve termine, ed anche gli indicatori di sentiment sono
a livelli visti l’ultima volta prima di importanti
correzioni dei prezzi. L’indice VIX, che misura la
volatilità implicita nelle opzioni, continua a stazionare in
prossimità di minimi di periodo, anche se negli ultimi
giorni della settimana ha mostrato timidi tentativi di
ripresa, ad indicare verosimilmente che gli operatori stanno
iniziando a coprirsi dal rischio di ribassi. I fondi comuni
azionari statunitensi si trovano a nuovi minimi nelle
posizioni di liquidità, mentre gli indici di sentiment degli
investitori americani, istituzionali ed individuali, sono a
nuovi massimi di periodo. Tutte condizioni che abitualmente
preludono a correzioni delle quotazioni. Anche gli indici di
credito hanno seguito la generalizzata tendenza alla
riduzione dell’avversione al rischio ed hanno evidenziato
un’ulteriore compressione degli spread, tornati in
prossimità di nuovi minimi di periodo.
Fonte
-
Macromonitor
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Fme,
l'Europa non toccherà quel fondo
12 Marzo 2010 10:12 MILANO -
di Roberto Perotti
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A cosa serve il Fondo monetario europeo? Anche se non vi
sono proposte precise al momento, sembra chiaro che dietro
al progetto, recentemente sponsorizzato dal Governo tedesco
di creare un istituto per interventi di stabilizzazione
nell'eurozona, vi sono molte intenzioni diverse.
Per i minimalisti, il Fme servirebbe a migliorare il
coordinamento delle politiche fiscali, da molti ritenuto
necessario per il buon funzionamento della politica
monetaria della Ue. Ma può essere vero esattamente
l'opposto, perché un maggiore coordinamento diminuisce il
costo delle politiche fiscali espansive e dunque crea
incentivi a perseguire disavanzi di bilancio più alti. Se la
Francia vuole espandere la spesa pubblica ma la Germania non
la segue, parte dell'aumento della domanda francese
beneficerà la Germania e genererà un disavanzo commerciale
francese; se invece anche la Germania accetta di espandere
la spesa pubblica («si coordina»), l'effetto sulla domanda
aggregata sarà maggiore e la Francia eviterà un disavanzo
commerciale.
Il secondo scopo del Fme è di fornire supporto a paesi in
una crisi di liquidità, in cambio di un programma di
risanamento fiscale. Perché questo scopo sia raggiunto, vi
devono essere scenari in cui avviene un trasferimento di
fondi ai paesi in crisi: altrimenti perché un paese si
sottoporrebbe all'umiliazione e alle complicazioni di un
programma di sorveglianza? Questo è ben noto, eppure molti
supporter del Fme si affrettano a negare che esso preveda
sussidi a paesi in crisi. Il motivo è chiaro: un Fme che
eroghi sussidi implica dei costi notevoli per i paesi sani.
Il primo costo è ovvio: i sussidi sono pagati dai
contribuenti. Il secondo costo è più dilazionato nel tempo:
l'erogazione di sussidi crea un problema di "azzardo
morale", perché il fatto stesso che vi sia un'istituzione
pronta a finanziare i paesi in crisi crea un incentivo per
la finanza allegra.
Propagandare un Fme che risolva le crisi senza imporre
questi costi è fuorviante. In realtà dietro ogni proposta
sul tappeto vi è un sussidio, implicito o esplicito, e
dunque un problema di azzardo morale.
Prendiamo per esempio
la seppur vaga proposta del capogruppo dei socialisti
europei Poul Rasmussen: il Fme consisterebbe di "un fondo di
riserva" tra i paesi membri dell'eurozona, e potrebbe anche
prendere a prestito nei mercati del capitali. Dietro questa
breve descrizione sembrano configurarsi due proposte molto
in voga in queste settimane.
La prima proposta consiste nell'emissione dei famosi
eurobond, da parte del Fme oppure, come nella proposta del
primo ministro belga Yves Leterme, da parte di un'agenzia
europea del debito. Anche qui mancano i dettagli, ma una
versione diffusa sembra prevedere che i paesi europei
emettano congiuntamente i bond per permettere ai paesi più
piccoli di finanziarsi a tassi più bassi sfruttando la
maggiore liquidità del sistema; per evitare un bailout, ogni
paese rimarrebbe responsabile per la sua parte.
Non è facile capire come ciò possa avvenire in pratica, ma è
facile vedere che in questa proposta c'è sicuramente un
bailout implicito. Se per ogni euro di eurobond emessi 3
centesimi sono di "competenza" della Grecia, e se la
Germania non può intervenire per salvare la Grecia, allora
il tasso degli eurobond rifletterà il rischio di default sul
3% del valore dei titoli: la Grecia pagherà un tasso più
basso dei suoi titoli attuali, e la Germania un tasso più
alto (naturalmente la Grecia è un paese piccolo e l'effetto
sugli altri tassi sarebbe limitato; ma il discorso sarebbe
più complicato se al posto della Grecia ci fossero la Spagna
o l'Italia). Se invece la Germania può intervenire per
salvare la Grecia, allora l'effetto è equivalente a quello
di un aumento del debito tedesco, cioè un aumento del tasso
d'interesse tedesco. Il problema fiscale greco è diventato
dunque un problema fiscale europeo. Ecco perché i trattati
proibiscono il salvataggio di un paese: al contrario di
quanto molti affermano, questa clausola ha lo scopo di
facilitare la conduzione della politica monetaria, non di
renderla più difficile.
La seconda componente della proposta di Rasmussen e altri
sembra essere simile a una recente proposta di Daniel Gros e
Thomas Mayer. Il fondo d'intervento dovrebbe essere
alimentato soprattutto dai contributi dei paesi che violano
i parametri di Maastricht: un meccanismo di mutuo soccorso
fra paesi a rischio con lo scopo di limitare l'intervento di
Germania e Francia, e dunque mitigare il problema
dell'azzardo morale. Ma questa soluzione è utopistica:
secondo i calcoli degli stessi autori, la Grecia avrebbe
accumulato risparmi presso il fondo per meno di un punto di
Pil, una quantità irrilevante nella crisi odierna. Ancora
una volta, non si può uscire dal dilemma: per funzionare,
questo meccanismo deve poter contare su Francia e Germania,
quindi deve prevedere un flusso di fondi verso i paesi in
crisi.
Un terzo scopo del Fme è quello di fornire un meccanismo per
rendere un default (nel caso avvenga) meno traumatico,
garantendo una parte del debito. Ma anche qui il vantaggio è
in gran parte illusorio: se un paese va in default, le somme
necessarie per garantire una parte del suo debito sarebbero
considerevoli. Il meccanismo di mutuo soccorso visto sopra
sarebbe ancora più inadeguato.
In tutti questi casi il problema è sempre lo stesso: un
intervento o un'istituzione che non possa effettuare
trasferimenti considerevoli a un paese in crisi non serve a
niente. Per essere efficace, ha bisogno della Germania e
della Francia, ma allora il problema dell'azzardo morale non
può essere ignorato.
Alla fine, l'argomento principe a favore del Fme è che esso
metterebbe a disposizione un protocollo sperimentato in caso
di crisi, più o meno come fa già il Fondo monetario
internazionale. Ma non è ovvio che ciò che manca ora in
Europa sia la competenza in caso di crisi. Tutti sanno di
cosa ha bisogno ora la Grecia: una dose da cavallo di rigore
fiscale. E tutti sanno che il problema è politico. L'Europa
ha già, in teoria, strumenti abbastanza forti per
costringere un paese a seguire le regole di Maastricht. Il
fatto che siano rimasti inapplicati è comprensibile, ma un
Fme senza il potere di trasferire fondi non cambierebbe di
una virgola la situazione: sarebbe soltanto un'ennesima
sigla e organizzazione in più, che complicherebbe
ulteriormente le negoziazioni nei momenti critici. Se invece
avesse il potere di trasferire fondi - tanti fondi -
potrebbe essere diverso: ma allora sarebbe anche diverso dal
Fme che si sta pubblicizzando; sarebbe anche potenzialmente
dannoso, e in ogni caso politicamente infattibile.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Lunedì
15
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2010 |
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Mercoledì
17
Marzo
2010 |
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Giovedì
18
Marzo
2010 |
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Controlli
sui capitali, svolta
storica?
March 15th, 2010 by editor
– di Mario Seminerio
________________________________________
Nel suo ultimo articolo, scritto per Project Syndicate, Dani
Rodrik (economista eterodosso come può esserlo chi si
discosta dai precetti di assoluta libertà dei movimenti di
capitale) segnala un importante mutamento di rotta da parte
del Fondo Monetario Internazionale, che lo scorso 19
febbraio ha pubblicato una nota di policy
in cui si sostiene
che tassazione e restrizioni sugli afflussi di capitale
possono essere utili, oltre a rappresentare uno strumento
“legittimo” dell’armamentario dei policymaker.
Si tratta di una dichiarazione per molti aspetti storica,
che sovverte quella che per almeno due decenni è stata la
granitica posizione ufficiale del FMI, reiterata non più
tardi dello scorso novembre dallo stesso direttore generale
del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, in reazione alla tassa
imposta dal governo brasiliano sulle transazioni finanziarie
in entrata nel paese, nel tentativo di contrastare gli
afflussi di “denaro caldo” speculativo. Questi afflussi
valutari determinano non solo una pressione rialzista sul
cambio dei paesi coinvolti, minandone la competitività, ma
anche una più generale tendenza all’instabilità dei rapporti
di cambio, che spesso finiscono con l’assumere andamenti
esplosivi, al venir meno delle condizioni che hanno causato
gli afflussi valutari, danneggiando lo sviluppo di Pil ed
occupazione.
Il FMI fornisce l’elenco dei paesi (tra essi Cile, Colombia
e Malaysia) che sono riusciti ad imporre controlli valutari
efficaci, e Rodrik specifica che occorrerebbe un approccio
contingente alla materia, poiché non tutte le tipologie di
controlli (tasse, vincoli quantitativi, requisiti di riserva
infruttifera) possono adattarsi alle caratteristiche
istituzionali e burocratiche dei paesi interessati. Rodrik
si spinge ad invocare la creazione di un ambito di ricerca
ed advisory, entro il FMI, proprio per identificare a
livello contingente le misure più efficaci per ogni paese
coinvolto.
Caduto lo stigma dei controlli di capitale, argomenta Rodrik,
il prossimo passo è l’istituzione di una tassa sulle
transazioni finanziarie globali, dall’aliquota estremamente
contenuta (suggerito lo 0,05%), ma tale da raccogliere
centinaia di miliardi di dollari, oltre a scoraggiare
attività speculative di brevissimo termine sui mercati.
Quella che fino a ieri sembrava un’eresia oggi potrebbe
essere vista sotto una luce diversa. Si pensi alla criticità
delle operazioni di carry trade, recentemente segnalata
anche da Oscar Giannino, come esito dell’attività di trading
finanziario globale. Oppure al compito titanico, oltre che
potenzialmente devastante sul piano sociale, che i governi
dovranno affrontare nel tentativo di colmare le voragini
aperte nei conti pubblici per effetto della crisi, che ha
causato un crollo di gettito fiscale e l’espansione di
programmi di sostegno ai disoccupati.
Gli squilibri valutari globali che caratterizzano la nostra
epoca sono frutto del combinato disposto di una forte
creazione di liquidità da parte delle banche centrali
(segnatamente della Fed) e dell’affermarsi di un’innovazione
finanziaria sempre più sofisticata, sia nelle forme tecniche
contrattuali che nell’utilizzo della tecnologia, in mercati
interconnessi in tempo reale.
Una tassa sulle transazioni
valutarie servirebbe ad aumentare il grado di “attrito” del
sistema finanziario, riducendone l’intrinseca instabilità
macroeconomica. Oggi, per contrastare il potenziale
destabilizzante indotto dall’hot money, occorrerebbe pensare
ad un’operazione di drenaggio della liquidità che,
realisticamente, non ha alcuna possibilità di realizzarsi.
Esiste, per contro, l’interesse convergente di molti paesi
sviluppati e dei paesi emergenti. I primi, come detto,
piagati da deficit di bilancio che, in assenza di crescita
appaiono non recuperabili per via ordinaria; i secondi
interessati a non vedere deragliare il proprio processo di
decollo economico per opera di fondi volatili che per
definizione hanno poca o nulla attinenza con la crescita.
Resta la risoluta opposizione degli Stati Uniti ad ogni
ipotesi di tassazione dei flussi finanziari internazionali,
recentemente ribadita dal Segretario al Tesoro, Timothy
Geithner. Una posizione che potrebbe essere rivista, se la
crisi continuerà a devastare i conti pubblici, e data la
conclamata incapacità a riformare le istituzioni finanziarie
globali per controllare o attenuare il rischio sistemico da
esse generato. Per ora ci basta constatare che il FMI ha
abiurato da quello che da sempre rappresentava il suo primo
dogma. Viviamo tempi decisamente interessanti.
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Fonte -
Epistems.org
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La stretta sulla
finanza al vaglio del Senato Usa
15 Marzo 2010 16:59 MILANO -
di Mario Margiocco ______________________________________________
Non c'è nulla come la riforma
finanziaria che fornisca un ritratto della Washington del
2010, la Washington di Barack Obama e delle solide, nei
numeri, maggioranze democratiche al Congresso. Rischia
moltissimo di essere una riforma solo a parole, e una
conferma dello status quo nei fatti (leggi il dossier).
Già il testo votato l'11 dicembre dalla Camera, che partiva
dalle proposte presentate nel giugno 2009 da Casa Bianca e
Tesoro e pilotato dal presidente della Commissione servizi
finanziari, Barney Frank, 69 anni, è giudicato gravemente
insufficiente nei due nodi principali: la dimensione delle
banche, che non possono superare certe dimensioni se la mano
pubblica deve comunque come indica il testo salvarle, e le
regole per il mercato dei derivati, che non possono più
facilmente mettere a rischio le banche, se la mano pubblica
deve salvarle. Un'impostazione che sembra prendere piede
anche in Europa (leggi il dossier).
Cambiamenti solo formali
Negli Stati Uniti, comunque, dopo l'approvazione da parte
della Camera tocca adesso al Senato. La Camera Alta partirà
dalla bozza di testo messa a punto da Chris Dodd, e sul
quale centinaia di lobbisti dell'alta finanza si sono
esercitati come hanno fatto in autunno alla Camera, rischia
di essere una conferma dello status quo. Con tutti i
pericoli connessi. Tre le obiezioni, nell'ondata di critiche
che provengono soprattutto da sinistra (i repubblicani
difficilmente attaccano Wall Street, e poco lo fanno da
circa 15 anni anche molti congressmen democratici). Non
intacca i poteri della Fed, che pure lo stesso Dodd
giudicava un anno fa "un fallimento abissale"; anzi,
assegnerebbe alla sfera Fed il controllo della nuova Agenzia
finanziaria per la protezione del consumatore, che non
avrebbe più piena e insindacabile capacità di intervento,
come volevano i suoi primi ideatori.
Mantiene in vita l'attuale sistema di rating delle varie
Moody's, Fitch e simili, che hanno avuto una performance
fallimentare regalando triple A a destra e manca, e sono
state tra le realtà meno scalfite anche nel testo della
Camera. E infine anche se a differenza del testo della
Camera sembra porre fine al problema delle banche too big to
fail, in realtà proietta la soluzione in un imprecisato
futuro e accuratamente cassa tutte le proposte, esistenti al
Senato, che affronterebbero rapidamente il problema.
La Fed vincitrice della partita
Questo equivale a un rifiuto del Volcker Rule, le regole
abbracciate dallo stesso Obama il 21 gennaio, dopo la
clamorosa sconfitta elettorale nel Massachusetts, e che
hanno la dimensione delle banche come uno dei due nodi
centrali. Come già riportato da Il Sole 24 Ore online,
cinque senatori stanno cercando di inserirle in modo
inequivocabile. La necessità di nuove regole finanziarie è
evidente perché occorre ristabilire la fiducia nel pubblico.
Ma testi come quello di Dodd, che proclamano la riforma ma
non ne attuano nessuna significativa, dicono i numerosi
critici, peggiorano soltanto la situazione. Solleva
perplessità il fatto che il testo faccia della Fed, cui
verrebbe assegnata la supervisione di tutte le banche con
assets superiori ai 50 miliardi, il vero vincitore della
partita. Dopo che la Fed con Greenspan e poi anche con
Bernanke è stata, probabilmente, il maggiore responsabile. E
questo senza nessuna riforma significativa dell'istituto di
emissione, riforma che sarebbe peraltro al momento molto
problematica. Il cambiamento è radicale, perché una prima
versione di Dodd avrebbe spogliato la Fed di molti dei suoi
– non esercitati dal 2000 in poi – poteri di controllo.
«Sul tema centrale, il too big to fail, non c'è nulla di
significativo», osserva l'economista dell'Mit ed ex capo
economista del Fondo, Simon Johnson, osservatore costante e
critico impietoso di come Washington non riesca ad
affrancarsi dai desiderata di Wall Street.
I timori di Draghi e
Strauss-Kahn sulle resistenze alle riforme dei
mercati
17 Marzo 2010 12:32 MILANO -
di Antonio Pollio Salimbeni ______________________________________________
La resistenza a regolare le
transazioni finanziarie che oggi sfuggono al controllo sarà
forte, dice Mario Draghi. Vale innanzitutto per il mercato
dei derivati e, in questo ambito, dei credit default swap,
con la crisi greca al centro dell'agenda politica europea.
Sono preoccupato, dice Dominique Strauss-Kahn perché più la
situazione migliora e più si indebolisce la spinta a
cambiare. Per quanto si tratti di affermazioni espresse con
toni felpati, è l'allarme è innegabile. Draghi guida il
Financial stability board, Strauss-Kahn il Fondo monetario
internazionale. Il primo ha il compito di ridisegnare le
regole della finanza globale, il secondo esercita la
sorveglianza. Entrambi rispondono ai loro 'azionisti' che
sono i governi i quali, nell'ambito del G20, devono dare il
via libera alle regole e verificare che tutti le rispettino.
E' dunque ovvio che se l'allarme arriva da loro va preso sul
serio.
Draghi: riforme troppo lente
Il bersaglio di Draghi è la lentezza con cui si sta
completando la riforma delle regole: dopo le agenzie di
rating e la supervisione a livello europeo, oggetto di
negoziato tra Ue ed Europarlamento, ci sono gli hedge fund
(l'Ecofin ha appena rinviato la decisione data l'opposizione
britannica), il 'trading' dei derivati da centralizzare
nell'Eurozona, settore che nel mondo ha un valore di 600mila
miliardi di dollari che per l'80% sfugge a qualsiasi
controllo, un minimo comune denominatore a livello globale
per gestire il fallimento delle banche a carattere
sistemico, il lavoro sui requisiti di capitale in corso a
Basilea per prevenire le crisi. Ci sono interessi forti e
consolidati, ha detto il governatore Bankitalia, che remano
contro la centralizzazione della regolazione delle
transazioni dei derivati (che la Bce vuole nell'Eurozona e
non a Londra). Tra i settori che resistono anche le banche,
che in tale prospettiva perderanno dei soldi, dice Draghi.
Ci sono pressioni per diluire le riforme e "dobbiamo stare
in guardia". Che i contrari si annidino nell'industria
finanziaria "per preservare vantaggi concorrenziali non
sorprende, ma tali pressioni sono evidenti anche
nell'esitazione di alcuni paesi, esitazione più forte là
dove il punto di partenza è più debole".
La conclusione del governatore è che sarebbe un grave errore
permettere che ciò porti in futuro a standard deboli. Ecco
perché va mantenuta la pressione alta, niente a questo punto
può essere concordato e attuato "senza il sostegno dei
leader politici nazionali e di quelli che devono decidere".
Strauss-Kahn: bisogna evitare interventi non coordinati
Anche il direttore del Fmi, Strauss-Kahn mette sotto tiro le
resistenze a mantenere il ritmo delle riforme della finanza:
"Accadrà che i paesi cominceranno a risolvere i problemi a
casa propria, proporranno riforme sistemiche che vanno in
direzioni diverse e a velocità diverse con il grande rischio
che ciò si traduca in politiche non coordinate, distorca i
flussi di capitale e induca agli arbitraggi regolatori (le
transazioni si effettuano là dove ci sono meno vincoli -
ndr)". Sta già accadendo. Nell'ultimo periodo sembra
scattata la corsa alle azioni unilaterali con il risultato
che in qualche misura tutti diventano ostaggio di tutti:
Londra e Parigi con la tassazione dei bonus dei banchieri;
Washington con il divieto per le banche che raccolgono
risparmio di comprare e vendere strumenti finanziari per
conto proprio (proprietary trading) e la proibizione di
investire in hedge funds e private equity; l'Europa non vuol
sentir parlare di 'ricetta Volcker' (le misure restrittive
per le banche americane confezionate dall'ex presidente
della Fed), punta tutto sulla stretta sui requisiti di
capitale delle banche e ora cerca di capire se é possibile
bandire i credit default swap legati al debito sovrano. E'
diventato quasi un percorso a ostacoli, peraltro l'Europa è
fortemente divisa, a sua volta ostaggio del blocco
britannico sulla regolazione degli hedge fund (complice il
probabile cambio della guardia a Downing Street entro
l'inizio dell'estate) e con l'Europarlamento che dovrà
pronunciarsi sulle nuove regole di supervisione finanziaria.
Il secondo bersaglio di Strauss-Kahn riguarda la
macro-economia: il G20 ha indicato come "alta priorità"
assicurare che la crescita del dopo-crisi sia più
equilibrata. E' ora che i governi ci mettano le mani. Vuol
dire una cosa semplicissima (ma difficilissima da
realizzare): le economie che hanno deficit di parte corrente
persistente, come gli Usa e diversi paesi europei, devono
risparmiare di più e le esportazioni devono contribuire di
più alla crescita; i paesi che hanno persistenti surplus,
come Cina, Germania e molti produttori petroliferi, devono
accrescere la domanda interna sostenendo i consumi. (Agenzia
Radiocor)
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
IMMOBILIARE USA, IN
ARRIVO UNA SECONDA RECESSIONE
17 Marzo 2010 14:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il vero problema sta nei prodotti
della finanza creativa: i mortgage-backed securities. Se la
Fed smette di comprarli, resteranno invenduti. Restera'
deluso chi si aspetta la normalizzazione.
Un settore, quello immobiliare, nuovamente con il freno a
mano tirato mentre i Titoli di Stato si preparano a un nuovo
ritracciamento. Stessa sorte anche per i famigerati
Mortgage-backed securities (MBS), quei prodotti di finanza
creativa frutto della trasformazione di debiti ipotecari in
titoli negoziabili sui mercati, con annessi tutti i rischi
(di credito, se il debitore ultimo fallisce, e di liquidità
se il mercato viene paralizzato dall'incertezza
sull'effettivo valore dei titoli).
Non ha dubbi Meredith Whitney, l'analista diventata famosa
durante la crisi finanziaria per la sua visione
particolarmente pessimista, soprattutto sul settore
bancario.
"Il settore immobiliare sicuramente ripiombera' un una
seconda recessione", ha preannunciato ai microfoni di Cnbc
l'a.d. di Meredith Whitney Advisory Group. Dal suo punto di
vista i programmi governativi a supporto del comparto
residenziale sono stati piuttosto "opachi" e quando il loro
contributo verra' meno, l'offerta eccedera' la domanda dando
il via a nuove flessioni del real estate.
"I prezzi che si osservano per Treasury e MBS suggeriscono
una concreta correzione. Gli unici a mettere in portafoglio
i titoli garantiti da un insieme di prestiti ipotecari sono
Fed e banche. Questo fa capire quanto la situazione sia
precaria", ha aggiunto l'esperta che avverte: "se la Banca
Centrale americana si tira indietro e' un vero problema...perche'
non ci sono acquirenti sostitutivi".
Tra le righe del suo discorso, si legge anche l'insuccesso
delle mosse adottate dal team di Ben Bernanke, pensate per
aiutare il sistema bancario a patto che tornasse a erogare
credito. Secondo Whitney, la Fed non puo' far si' che le
banche aprano nuovamente i rubinetti dei prestiti. Il
perche' e' semplice: il business model del settore
finanziario in uso prima della crisi e' rotto.
Prima dello scoppio della crisi, ha spiegato l'esperta, le
banche erano in grado di offrire alla loro clientela mutui a
basso costo grazie al fatto che facevano soldi trasformando
proprio questi prestiti i nuovi prodotti, rivenduti sul
mercato. Ora pero' che il mercato della cartolizzazione dei
crediti e' praticamente fermo, non c'e' stato un incremento
dei mutui alla clientela. Almeno non a sufficienza per
compensare la flessione dei ricavi degli istituti. Ecco
perche' le banche hanno operatori in modo difensivo negli
ultimi due anni.
Non e' un caso, dunque, che si guardi da vicino qualsiasi
decisione da parte della Fed sull'acquisto di
mortgage-backed securities, la cui voce pesa per un terzo
sul suo bilancio.
Altra stangata sul futuro del settore bancario: i profitti
messi a segno l'anno scorso, e legati alle performance del
mercato dei capitali, non sono "replicabili". "Coloro che si
aspettano una normalizzazione dello scenario resteranno
delusi", ha avvertito Whitney. "La normalita' non sara'
quella osservata negli ultimi 20 anni", ha aggiunto.
A chi le ha chiesto cosa la farebbe diventare rialzista,
Whitney ha ammesso di essere ottimista su alcuni istituti
finanziari, senza pero' fare nomi, e di essere bullish sul
settore dei sistemi di pagamento.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
ANALISI/ Rischio
Shanghai sui listini mondiali
17 Marzo 2010 14:17 MILANO -
di Walter Riolfi ______________________________________________
È la Cina che preoccupa»,
lamentavano nel pomeriggio di lunedì gli operatori di Wall
Street vedendo scendere l'S&P in simpatia, così sostenevano,
con l'ennesima scivolata dell'indice di Shanghai. Ma queste
lamentazioni sono per lo più di maniera: perché già nella
serata di lunedì i trader avevano cambiato idea,
argomentando sulla presunta bontà del piano Dodd
(regolamentazione del sistema finanziario). Allo stesso
modo, ieri, alla notizia che S&P aveva mantenuto un rating
invariato sulla Grecia, Wall Street ha superato in
entusiasmo la stessa Europa: sebbene avesse mostrato una
certa indifferenza per i problemi dei debiti sovrani nel
Vecchio continente. Eppure la Cina potrebbe davvero essere
fonte di preoccupazione e non sorprenderebbe che una nuova
sindrome cinese finisse per turbare i mercati finanziari
mondiali nei prossimi mesi. Come se non bastassero i
problemi sul debito greco e il possibile contagio ad altri
stati europei.
Invece il problema della Cina parrebbe essere opposto, una
crescita troppo rapida e che per molti economisti starebbe
creando delle bolle speculative: sugli immobili, sulla
valuta e, secondo alcuni analisti, anche sulla borsa. Se il
pericolo più grande, ma più lontano, è lo scoppio di una
nuova crisi economica e finanziaria, quello immediato è il
risorgere dell'inflazione, come segnalerebbe l'incremento
del 2,7% su base annua registrato a febbraio. Ci sarebbe
un'altra questione che accomunerebbe la locomotiva cinese
alle zoppicanti economie dei paesi sviluppati: l'enorme e
crescente debito pubblico. Partiamo dalla presunta bolla
immobiliare.
Per comprare una casa di 90 metri quadrati a Pechino, nel
quartiere di Chaoyang, un'area residenziale, due chilometri
a est di piazza Tiananmen, un cittadino dovrebbe spendere
una somma pari a 80 volte il salario medio degli abitanti
della capitale. Il costo per metro quadrato in uno di quei
grandi palazzoni sorti come funghi negli ultimi 4-5 anni
varia dai 3mila ai 4mila euro. Sono i prezzi di Milano nella
prima cerchia attorno al centro storico. E non è il
quartiere più caro, perché a Xichang si superano agevolmente
i 4mila euro e nello Haidian (a ovest di Tiananmen) si
possono superare i 5mila €. Se si pensa che un salario medio
è attorno ai 600 € mensili, l'acquisto di una abitazione è
diventato proibitivo, anche attraverso un mutuo. Come nota
un analista di Nomura, il costo di una rata assorbirebbe il
60-70% del salario mensile di un medio cittadino. Nelle 70
maggiori città del paese i prezzi sono cresciuti dell'8% in
un anno. Ma a Pechino, Shanghai e Shenzhen sono volati del
33%, più che raddoppiando in tre anni. Una buona parte dei
1.300 miliardi di $ prestati dal sistema bancario nel 2009
sono serviti per finanziare le costruzioni. Lo sanno bene le
autorità di Pechino che adesso stanno cercando di contenere
il fenomeno con una serie di misure restrittive sul credito.
Il secondo problema è il renmimbi, la valuta cinese, che è
artificialmente legata al dollaro. Secondo il premio Nobel
Paul Krugman, sarebbe sottovalutata tra il 20 e il 40%,
creando in tal modo un enorme danno commerciale agli Usa e
agli altri paesi occidentali. Il risultato è un accumulo di
riserve valutarie pari a 2.400 miliardi di $ che
s'incrementano a ritmi 10 volte maggiori rispetto a 7 anni
fa. Può aver problemi un paese con così grandi riserve? Sì
rispondo molti economisti: non avevano altrettanto grandi
surplus gli Usa negli anni 20 e il Giappone a fine '80?
Inoltre l'opacità delle statistiche cinesi sottostima la
reale entità del debito pubblico (considerando anche quello
delle banche, dei governi locali e dei numerosi veicoli
d'investimento finanziati dallo stato), cosicchè il valore
che si ottiene sarebbe vicino al 100% del Pil e non al 22%
stimato dal Fmi. Per questo l'economista Kenneth Rogoff non
esclude una recessione in Cina, come conseguenza delle bolle
speculative. Forse l'aspetto meno preoccupante è adesso la
borsa che, dopo il massimo relativo dello scorso agosto, è
tornata ai livelli di 9 mesi fa.
Dollaro ed euro
hanno poco da guadagnare dalla rivalutazione dello yuan
18 Marzo 2010 12:25 SHANGHAI -
dal corrispondente Luca Vinciguerra ______________________________________________
SHANGHAI – La rivalutazione dello
yuan avrebbe effetti disastrosi sulle migliaia di aziende
cinesi labour intensive che esportano i loro prodotti in
giro per il mondo. È l'allarme lanciato dal China Council
for the Promotion of International Trade. Dopo aver girato a
lungo intorno al problema, Pechino va al nodo della
questione e spiega perché si oppone tanto risolutamente allo
sganciamento dello yuan dal dollaro.
Oggi come dieci anni fa, il punto di forza della Cina è
sempre lo stesso: la capacità di un esercito sterminato di
piccole aziende di produrre merci e di venderle sui mercati
esteri con margini di profitto ridotti all'osso, contando su
costi della manodopera bassissimi. "Se lo yuan dovesse
apprezzarsi, queste imprese rischierebbero il fallimento
poiché lavorano già con profitti molto compressi", avverte
chiaramente la potente associazione imprenditoriale cinese.
Effetti pesanti anche da un ritocco
modesto
Insomma, un ritocco verso l'alto della moneta cinese, anche
di dimensioni modeste, oggi ridurrebbe drasticamente la
competitività delle società cinesi ad alta intensità di
lavoro ed elevata propensione all'export, tagliandole fuori
dai mercati internazionali. A pagarne il prezzo non
sarebbero solo le aziende che producono magliette, scarpe,
mobili, piastrelle e gadget da detersivo. Ma anche i settori
manifatturieri posizionati più in alto nella catena del
valore, come per esempio la cantieristica navale.
Per la nomenklatura pechinese, che sta giusto tirando un
sospiro di sollievo assistendo alla ripresa del made in
China dopo un 2008 da dimenticare, sarebbe una sciagura.
Ecco perché Pechino continua a respingere ostinatamente
tutte le pressioni sul dossier yuan in arrivo dagli Stati
Uniti. E il fatto che, negli ultimi giorni, anche l'Unione
Europea e la Banca Mondiale si siano accodati a Washington
reclamando una rivalutazione in tempi rapidi del renminbi
non cambia i termini della questione. I destini economici,
politici e sociali della Cina restano legati alla capacità
di penetrazione delle sue esportazioni. Almeno per ora,
quindi, il valore dello yuan non si tocca.
Costo del lavoro che cresce a vista
d'occhio
È vero, il paradigma labour intensive sul quale la Cina ha
costruito le proprie fortune sta cambiando. Per diverse
ragioni. Perché il costo del lavoro in Cina sta lievitando a
vista d'occhio, giacché le braccia a basso costo prestate
generosamente per due decenni dalle campagne ai grandi
bacini industriali iniziano a scarseggiare. Perché la prima
rivalutazione dello yuan dell'estate 2005 (da allora fino
all'agosto 2008, quando Pechino ha de facto riagganciato la
propria moneta al dollaro, la moneta cinese ha guadagnato il
18% sul biglietto verde) ha già costretto molte imprese a
cambiare pelle e a spostarsi su produzioni a più in alto
valore aggiunto. E perché il Governo, volendo assolutamente
spezzare la dipendenza del paese dalle esportazioni, ha
fatto una chiara scelta politica in questa direzione.
Gli effetti controproducenti delle lezioni di libero mercato
Il processo è avviato. Ma servirà ancora tempo. E in questo
quadro fragile e incerto, le pressioni e le lezioni di
libero mercato impartite a getto continuo da Washington
rischiano di avere solo effetti controproducenti.
Con ogni probabilità, se le esportazioni cinesi
continueranno a tirare anche nei prossimi mesi, prima
dell'estate Pechino sgancerà lo yuan dal 'peg', cioè
l'aggancio al dollaro, e tornerà a farlo flottare dentro una
banda di oscillazione, magari anche più ampia rispetto a
quella vigente tra il 2005 e il 2008.
Rischio delusione
Ma niente di più. Chi si attende rivalutazioni consistenti
della moneta cinese resterà deluso. E resterà ancor più
deluso chi pensa che l'apprezzamento del renminbi sia
destinato a cambiare i termini di scambio internazionali
delle merci: se, come ammonisce Pechino, è vero che la
rivalutazione dello yuan rischia di mettere fuori mercato
migliaia di aziende cinesi, a beneficiarne non saranno certo
le loro concorrenti americane, europee o giapponesi, ma
quelle vietnamite, indonesiane e cambogiane.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
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Venerdì
19
Marzo
2010 |
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Lunedì
22
Marzo
2010 |
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Mercoledì
24
Marzo
2010 |
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Obama
alle battute decisive della
sua più grande sfida
18 Marzo 2010 20:01 WASHINGTON
– di
WSI
________________________________________
In queste ore una giovane associazione chiamata Americans
for Stable Quality Care sta spendendo 6 milioni di dollari
in pubblicità su giornali , tv e radio nei 38 distretti
elettorali degli altrettanti deputati democratici dalle cui
file potrebbero emergere quei cinque o sei "no" capaci di
affondare la riforma sanitaria di Barack Obama e
probabilmente Barack Obama stesso. Se si guarda chi c'è
dietro la Stable Quality Care tutta la storia della
complicata riforma sanitaria sulla quale Obama ha deciso di
giocare la propria presidenza appare meno confusa.
E' una storia importante perché, se la riforma passa, Obama
avrà fiato fino alle elezioni di metà termine, a Novembre, e
poi saranno quelle a decidere, superabili se sarà come
probabile e normale una sconfitta – in genere i presidenti
perdono dopo due anni -, problematiche se sarà un disastro.
Ma se la riforma non passa, Obama non potrà che trincerarsi
di fatto alla Casa Bianca in attesa di tempi migliori, e
l'America avrà un presidente azzoppato in uno dei momenti
più delicati della sua storia. Basti pensare al cruciale
dossier finanziario ben più importante di una parziale
riforma sanitaria.
L' ASQC è nata pochi mesi fa e per prima cosa ha speso ad
agosto 12 milioni di dollari per sostenere la riforma
sanitaria, che iniziava allora la discussione alla Camera.
Dietro c'è metà dell'industria americana della sanità: i
farmaceutici, la federazione degli ospedali privati,
l'American medical association cioè i medici, e altro. Sono
a favore della riforma.
E non è contro al riforma l'altra metà dell'industria del
settore, le compagnie di assicurazione che forniscono
copertura a più di due terzi degli americani al costo medio
di 10-12 mila dollari l'anno per una famiglia di quattro
persone. La sua associazione di categoria, America's Health
Insurance Plans, insiste che occorre mettere i costi sotto
controllo. E intanto molti suoi associati stanno aumentando
le polizze, che sono aziendali soprattutto ma anche private,
del 10-20 per cento.
Quindi, l'industria è per la riforma.
Non lo è a maggioranza il pubblico. La media dei sondaggi
pubblicata da quella che è ormai la Bibbia per questi
rilevamenti, il sito Real clear politics, indica che il 41
per cento è a favore e quasi il 49 contro, con uno scarto di
7 punti e mezzo. Ed è così dal luglio 2009, quando i
contorni della riforma diventavano chiari.
Il 60% degli americani sarebbe invece per la public option,
un progetto che dall'inizio degli anni 2000 cresce fra le
file democratiche e che il partito ha fatto proprio nella
campagna del 2008: la possibilità per chi lo vuole di
sottoscrivere una polizza pubblica, che calmieri il mercato,
allinei i costi a quelli del Medicare, la copertura pubblica
universale per gli over 65. Le assicurazionmi private e
l'intera industria sanitaria hanno sempre visto la public
option come la peste perché sarebbe l'inizio della fine per
l'attuale sanità americana che è per oltre i due terzi
privata (solo Usa, Messico e Turchia non hanno fra i 30
paesi Ocse un sistema pubblico universale).
Un nocciolo di public option c'è nel testo approvato a
novembre dalla Camera e manca da quello votato il 24
dicembre al Senato. Ora, usando complicate procedure, la
Camera deve votare, a ore forse, e forse a giorni, sul testo
del Senato. Obama dice in questi giorni che lui sarebbe per
la public option ma al Senato non ci sono i 51 voti
necessari. La leadership democratica del Senato dice, come
riporta il seguitissimo Huffington Post, c he la maggioranza
c'è se solo la leadership democratica della Camera inserisce
una public option nel testo che ora deve votare. Nancy
Pelosi, presidente della Camera e leader dei deputati
democratici, dice che non può inserire al public option
perché al Senato non passerebbe.
E' uno scaricabarile. E il primo a restare sempre ambiguo, a
presentare la public option come una option ma non la sola
via, è sempre stato Obama. Che a differenza di parte del suo
elettorato si è sempre mosso nella convin zione che nulla si
potesse fare senza un accordo con l'industria sanitaria.
E gli accordi ci sono stati, con i farmaceutici prima e con
gli ospedalieri e gli altri poi, gestiti direttamente dalla
Casa Bianca, garantiti da Obama stesso, e rivelati il 13
agosto da uno scoop dell'Huffington Post e da un articolo,
più prudente ma chiarissimo, sulla prima pagina del New York
Times. C'era il sì alla riforma da parte dell'industria, che
collaborava impegnandosi a limitare l'aumento decennale dei
costi, in cambio di varie cose, prima fra tutte una: nessuna
public option.
Che resta della riforma? In poche parole, se passa ci
saranno circa 30 milioni di americani fra i 47 che oggi non
hanno nessuna copertura che avranno una polizza. Saranno
obbligati ad acquistarne una – in campagna elettorale Obama
disse che non lo avrebbe mai fatto – e aiutati a pagare il
premio se a basso reddito. Le compagnie di assicurazione
avranno più vincoli sulle prestazioni, ma non è mai facile
vincolarle, l'esperienza insegna. E mille miliardi di
dollari di polizze in più in dieci anni.
Critici aspri dell'amministrazione Obama come il Nobel Paul
Krugman dicono che, nonostante tutto, sarebbe un passo
avanti, per quei 30 milioni, ed è vero. Altri dicono che una
finta riforma tarperebbe le ali per una generazione a una
vera riforma, di cui la sanità americana che ha un costo di
7500 dollari circa all'anno a testa a fronte di una media
Ocse di circa 3 mila, ha urgente bisogno.
Difficile scegliere. Certamente è un compromesso è non un
passaggio storico della portata del medicare di Lyndon
Johnson. Un compromesso al quale Obama ha molto legato le
proprie sorti.
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com
|
VOTO
STORICO: LA CAMERA USA APPROVA LA RIFORMA
SANITARIA
22 Marzo 2010 03:44 WASHINGTON -
di WSI
______________________________________________
Raggiunto il quorum coi voti dei
soli democratici. Compromesso sui fondi
all'aborto. "Baby killer", urlano i
repubblicani. La legge estende a 32 milioni di
americani le cure mediche, come in Europa.
Successo di Obama: la maggior riforma in 40
anni.
La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti
ha approvato con 219 si' e 212 no la legge che
estendera' a 32 milioni di americani non
assicurati la copertura delle cure mediche,
superando cosi' di appena 3 voti i 216 si'
necessari per il quorum. Tutti i voti sono stati
democratici, nessun repubblicano ha votato a
favore: una spaccatura al Congresso mai
verificatasi prima in America per un atto
legislativo cosi' importante. La politica
bipartisan e' da oggi morta e seppellita a
Washington.
Si e' trattato di un grande successo per il
presidente Barack Obama, che si e' giocato la
presidenza su questa legge di riforma sanitaria,
volta ad estendere le cure mediche a tutti gli
americani, anche i poveri e le piccole imprese,
come avviene in Italia e nei maggiori paesi
d'Europa. I repubblicani lanciano accuse di
"statalizzazione", "socializzazione", "enorme
crescita del deficit", mentre Obama in un breve
discorso in TV dopo il voto ha parlato di "una
vittoria storica per gli americani che
aspettavano questa riforma da oltre 100 anni".
"Ecco che cosa significa cambiamento, quel
cambiamento di cui parlavamo nell'elezione
presidenziale dell'anno scorso", ha detto il
presidente.
Obama firmera' entro martedi' la legge, appena
gli arrivera' sulla scrivania. Anche se il
Senato aveva approvato lo stesso testo a
dicembre, nelle prossime ore dovra' esserci un
altro passaggio nelle due aule del Congresso per
una serie di emendamenti e correzioni da
apportare (Reconciliation Bill) prima di
sfociare nel testo finale.
Si tratta della piu' importante riforma sociale
varata negli Stati Uniti negli ultimi 40 anni,
certamente dopo l'introduzione nel dopo-guerra
del Social Security (pensioni) e del Medicare
(assistenza sanitaria agli anziani). Il voto dei
democratici e' stato annunciato sul "floor" da
una raggiante Nancy Pelosi, la speaker della
Camera, la quale si e' adoperata sul campo per
il difficissimo iter parlamentare, pieno di
siluri e trabochetti dei repubblicani; la Pelosi
ha cercato di convincere fino all'ultimo momento
alcuni democratici propendenti per il "no" (e
che sono a rischio per le elezioni di Midterm a
novembre) alla fine riuscendo a centrare
l'obiettivo quorum.
Il tetto dei 216 voti, incerto fino al giorno
prima del voto, e' stato raggiunto pero' solo
grazie ad un compromesso dell'ultim'ora,
proposto, con grandi doti di real-politik e da
vero "centrista", dal presidente Obama sul tema
caldissimo dell'aborto. La Casa Bianca ha
offerto di emanare un ordine esecutivo (una
sorta di decreto legge) sull'aborto in modo da
assicurarsi i voti necessari all'approvazione
della legge. Il capofila degli antiabortisti
democratici, Abart Stupak, ha indicato in
mattinata che era stato trovato un accordo, e
cioe' e' stato cruciale per avere il voto di una
piccola pattuglia (una decina) di inclini al
"no". "Baby killer", cioe' "assassino di
bambini", hanno urlato a Stupak dopo il voto
alcuni onorevoli repubblicani infuriati, in
un'atmosfera surriscaldata di contrapposizione.
L'ordine esecutivo di Obama ribadisce la legge
che blocca i finanziamenti federali per l'aborto
nonostante la riforma della Sanità, che
garantisce una copertura assicurativa alle
interruzioni di gravidanza. Il direttore delle
comunicazioni della Casa Bianca, Dan Pfeiffer,
ha detto che il decreto garantisce che lo status
quo sia mantenuto. Mentre l'aborto è legale ed
affidato alla sola scelta della donna, da molti
anni i fondi federali sono utilizzabili per le
interruzioni di gravidanza solo in caso di
stupro, incesto o pericolo di vita per la madre.
***************
«Washington, 22 mar. (Apcom) - L'adozione al
Congresso della storica riforma del sistema
sanitario degli Stati Uniti, che garantisce una
copertura alla quasi totalità degli americani,
prova che gli Stati Uniti restano capaci di
"grandi cose". E' stato questo il commento del
presidente Barack Obama, che ha salutato con
grande soddisfazione il voto favorevole di ieri
alla Camera dei Rappresentanti. "Questa sera
abbiamo superato il peso della politica, mentre
tutti gli specialisti affermavano che questo non
sarebbe stato più possible", ha aggiunto il
presidente. "Abbiamo provato che restiamo un
popolo capace di grandi cose", ha commentato
Obama.
Il presidente è intervenuto alla televisione
dalla "East Room" della Casa Bianca. Alcuni
minuti prima, 219 deputati democratici gli
avevano servito la sua più grande vittoria
dall'inizio del suo mandato adottando
l'importante riforma sulla copertura sanitaria
mai adottata nel paese da decenni. Il
presidente, che ha dovuto utilizzare tutta la
sua influenza politica per convincere la sua
maggioranza a firmare un testo molto impopolare,
ha comparato la propria vittoria con le sfide
storiche degli americani.
"Questa sera abbiamo risposto all'appello della
storia come tanti americani hanno fatto prima di
noi", ha dichiarato. "Non siamo sfuggiti alle
nostre responsabilità, le abbiamo affrontate.
Non abbiamo avuto timore del nostro futuro".
Obama, che adesso dovrà rapidamente promulgare
il testo, non ha risposto a domande ma ha
riconosciuto di essere giunto a questa vittoria
dopo un anno di trattative. "Andiamo avanti con
una fiducia rinnovata, rinvigoriti da questa
vittoria" in nome del popolo americano, ha
commentato il presidente. Una volta promulgata
la legge, il Senato dovrà ancora adottare alcune
"correzioni" per renderla conforme ai desideri
dei deputati della Camera. (fonte afp) Fonte
-
WallStreetItalia.com
Risultato
storico o suicidio politico? La riforma
della sanità sulla stampa Usa
22 Marzo 2010 21:42 MILANO -
di Luca Salvioli
______________________________________________
Un risultato storico, un suicidio
elettorale, il riultato di "sporche" trame
elettorali, un compromesso molto distante dalle
promesse fatte a suo tempo da Obama. I
quotidiani americani - carta, online, blog
d'opinione - plaudono, bocciano e fanno le pulci
alla riforma sanitaria. Ecco una sintesi dei
principali.
New York Times.
«Bene, ma svanisce la promessa bipartisan»
«Riforma sanitaria, finalmente» titola
l'editoriale, che parla di «un trionfo per le
migliaia di americani che sono state vittime di
un sistema sanitario inefficiente» e di «un
risultato di proporzioni storiche» per Obama. In
un commento David E. Sanger scrive: «Che sia un
risultato di proporzioni storiche o un suicidio
politico - probabilmente entrambe le cose -
resta il fatto che il presidente è riuscito dove
Clinton aveva fallito. La riforma rischia
tuttavia di essere molto pericolosa in vista
delle prossime elezioni di metà mandato e nel
dibattito Obama ha perso qualcosa: è svanita la
promessa di una Washington bipartisan in cui la
razionalità a la calma sostituissero il
battibecco. Mai nella storia moderna una riforma
sostanziale è passata senza neanche un voto dei
repubblicani».
Washington Post:
«Risultato storico»
«Yes we did», può dire Obama, non più «Yes we
can». Per E. J. Dionne «a Washington qualcosa è
davvero cambiato» e per capire la portata della
riforma bisogna considerare «cosa avrebbe
rappresentato la sconfitta». I democratici
sarebbero diventati «uno zimbello» su un tema
che fa parte della loro identità di partito fin
dai tempi di Harry Truman.
Wall Street Journal:
«Affari sporchi e disprezzo per la democrazia»
Il secondo pezzo più letto dell'edizione online
è un attacco di Kimberley A. Strassel alle
trattative che hanno portato al voto per
riforma: «affari sporchi, minacce palesi,
promesse non mantenute e disprezzo per la
democrazia». Chi ha votato Obama con la speranza
di vedere una nuova politica a Washington
«ricorderà questo spettacolo a novembre».
Politico.com:
«Vittoria per Obama, non per i democratici»
Secondo il sito dove scrivono alcuni tra i più
noti analisti di politica americana «la
vittoria, quasi inconcepibile un mese fa,
rappresenta una immensa e immediata spinta per
Obama, non per i democratici. Per alcuni di
loro, con le elezioni di novembre, c'è il
rischio di estinzione politica».
Cato.org: «940
miliardi? Molto di più»
«Non è una riforma della sanità, ma una riforma
contro la sanità» esordisce il sito libertario.
Si basa pesantemente «sul controllo dei prezzi,
tasse e multe per punire i medici, gli ospedali
e le imprese innovative che vendono farmaci e
device medici». Se «avessimo trattato gli
agricoltori, le aziende alimentari e negozi di
alimentari» in questo modo qualcuno si
aspetterebbe di avere «cibo migliore o più
economico?» La legge, inoltre, non costerà 940
miliardi come detto da Obama, ma molto di più.
Huffington Post:
«Svanisce il sogno della mutua all'europea»
Sul seguitissimo sito di informazione, Robert
Kuttner sottolinea come il discorso fatto sabato
da Obama abbia ricordato quelli che tanto hanno
fatto sognare l'America durante la campagna
elettorale. Non mancano, però, le critiche da
sinistra: il presidente non ha fatto la mutua
pubblica sul modello Europeo come promesso. Fonte
-
Sole 24 ore
La riforma
sanitaria è legge Obama vince la sua
battaglia
22 marzo 2010 WASHINGTON -
dal nostro corrispondente
Mario Platero
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Risultato storico o suicidio
politico? La riforma della sanità sulla stampa
Usa
La guerra a colpi di spot e tic presidenziale
sulla riforma sanitaria americana
La sanità di Obama come un talk, bisticci
compresi
NEW YORK – 219 voti favorevoli contro 212, un
vantaggio minimo, ma che vale una pagina di
storia: dopo una maratona interminabile, dopo
mille polemiche, ritardi e colpi di scena, la
Camera, sotto la guida inflessibile di Nancy
Pelosi, ha finalmente passato nella notte di
ieri la riforma sanitaria in America. Per il
presidente Barack Obama si tratta di una
vittoria chiave: dà finalmente concretezza alla
sua visione di cambiamento con cui si è
aggiudicato la Casa Bianca nel 2008. E pur fra
molte difficoltà, rilancerà la sua leadership.
«Dopo quasi cento anni di parole e di
frustrazioni, dopo dieci anni di tentativi e un
anno di battaglie, il Congresso degli Stati
Uniti ha dichiarato che i lavoratori americani,
le famiglie e le piccole imprese avranno una
sicurezza: né malattie né incidenti metteranno a
rischio i sogni cui hanno dedicato una vita»
Obama ha ricordato che questa vittoria è venuta
contro coloro che fino all'ultimo non ci
credevano, contro gli interessi speciali e
contro le lobby: «Siamo al di sopra della
politica, siamo al di là della paura e siamo
ancora in grado di lavorare per la gente: oggi è
il momento del cambiamento».
Non ci si è arrivati facilmente. Fino all'ultimo
i repubblicani hanno cercato di ostacolare la
proposta di legge con mozioni apparentemente
inutili ma pericolosissime. Poi,
improvvisamente, dopo un accordo fra la Casa
Bianca e gli antiabortisti democratici, la
maggioranza si è coagulata. E al momento del
voto la soglia dei 216 voti è stata superata
agevolmente alle 10.45 della sera ora di
Washington, il voto chiave per avere la
maggioranza, è stato annunciato dal contatore
elettronico. L'aula, divisa, caratterizzata fino
a pochi minuti prima da un confronto teso coi
repubblicani su certe normative procedurali, è
esplosa in un'ovazione: «Yes we can», hanno
urlato i deputati democratici. Alla fine della
conta, i voti favorevoli erano 219 voti i
contrari 212. Questi ultimi da attribuire ai 178
deputati repubblicani e a 34 democratici. Per la
prima volta nella storia americana, per un
progetto di legge fondamentale come quello
sanitario non si è riusciti ad avere una
maggioranza bipartitica.
«Non è stata colpa nostra – ha subito chiarito
il deputato della California Henry Waxma – il
presidente ha teso la mano e i repubblicani
l'hanno respinta». Poco dopo la Camera ha anche
approvato gli emendamenti che saranno inviati al
Senato. Ma è stato solo in quel preciso momento,
quando il passaggio del progetto di riforma è
diventato irrevocabile che Nancy Pelosi, il
Presidente della Camera ha battuto il grande
martello dal podio, lo stesso che fu usato per
la riforma del Medicare negli anni Sessanta e ha
annunciato raggiante: «La legge è passata».
Ma al di là delle procedure, dei numeri, delle
battaglie, dei colpi di scena, dopo il voto
resta una verità inconfutabile: l'America avrà
un'assicurazione sanitaria per 32 milioni di
americani che oggi non sono coperti. Bambini con
malattie congenite che non potevano essere
assicurati avranno le cure adatte. Lavoratori
che rischiavano di perdere l'assicurazione
medica cambiando posto non correranno più quel
rischio. Questo per dire che la riforma ha un
respiro molto più vasto del semplice
allargamento di una base di assicurati, ma
toccherà letteralmente tutti gli americani.
Un colossale meccanismo di riorganizzazione di
metodi, priorità, garanzie sanitarie si metterà
in moto già nei prossimi giorni. E non ci sarà
comparto dell'economia che non venga toccato da
questa riforma. Il pacchetto vale 940 miliardi
di dollari in dieci anni. Consentirà di tagliare
138 miliardi di dollari dal disavanzo pubblico,
rivoluzionerà i metodi assistenziali degli
ospedali e dalle assicurazioni. Ma taglierà
anche 500 miliardi di dollari dal Medicare, il
programma di assistenza per gli anziani.
In 13 mesi alla Casa Bianca Obama ha raggiunto
un risultato impossibile per molti presidenti
prima di lui. Gli restano sette mesi prima delle
elezioni di novembre di metà mandato per
convincere la maggioraza degli americani ancora
sospettosa, poco convinta e persino peroccupata
da questo nuovo piano, che era la cosa giusta da
fare. Di più, Obama ha vinto là dove altri
presidenti importanti avevano perso. Bill
Clinton ci provò nel 1994, ma anche Roosevelt,
Truman e persino Teddy Roosevelt, si erano fatti
sotto per provare a passare una legge sanitaria
nazionale. In quasi cento anni di lotte
archiviate sotto gli attacchi dell'opposizione
repubblicana e delle potentissime lobby
farmaceutiche e assicurative. George W. Bush
fallì un'altra riforma sociale importante,
quella per le pensioni.
«Ora pensiamo al dopo» ha detto Obama raggiante
quando, intorno a mezzanotte, è apparso nella
East Room della Casa Bianca, subito dopo
l'ultimo voto alla Camera, quello per adottare
gli emendamenti. Ora il pacchetto tornerà al
Senato, ma la vittoria è scontata: avendo
seguito una formula di riconciliazione che ha
prima adottato la versione del Senato e poi
approvato alcuni emendamenti, per vincere ci
vorrà soltanto la maggioranza semplice. E il
dopo non significa soltanto la riforma del
sistema finanziario, che sarà discussa a giorni
dalla commissione guidata da Christopher Dodd.
Il dopo significa soprattutto convincere gli
americani di tornare a credere in Barack Obama.
Se dopo soli 13 mesi il presidente è riuscito a
chiudere la più importante sfida della sua
presidenza. Avrà ora sette mesi per convincere
l'elettorato che è stata fatta la cosa giusta
per il Paese. A novembre molti democratici
pagheranno con il seggio la loro scelta di voto.
La nuova missione di Obama? Minimizzare le
perdite.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
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La
sanità americana era malata,
ma non è detto che la cura Obama funzioni
March 23rd, 2010 MILANO
– di Mario Seminerio
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La riforma della sanità statunitense è ormai prossima a
diventare realtà. Il suo obiettivo strategico, ampliare il
pool dei soggetti assicurati, verrà ottenuto attraverso
l’obbligo di assicurazione con erogazione di sussidi alle
famiglie che non possono permettersi di sottoscrivere una
polizza. Resta il sistema di assicurazioni private, non
essendo presente la discussa public option, tanto cara
all’ala liberal dei Democratici. Secondo i sostenitori della
riforma i premi dovrebbero scendere, in conseguenza proprio
della riduzione della morbilità attesa nel pool degli
assicurati (oggi gli uninsured sono soprattutto soggetti
giovani ed in salute, che spesso non si assicurano a causa
dei costi della copertura). Le assicurazioni non potranno
più ricusare l’assicurato, spesso con artifici al limite
della truffa, come la retrodatazione di patologie insorte
successivamente alla stipula della polizza.
La riforma dovrebbe essere finanziata, tra le altre fonti di
copertura, anche dalle penalità a cui saranno assoggettati i
datori di lavoro con oltre 50 dipendenti che non offriranno
copertura assicurativa. Il grosso della copertura verrà però
soprattutto da nuove imposte, come la sovraimposta del 3,8
per cento sul reddito da investimento dei contribuenti che
guadagnano più 200.000 dollari annui, se single, o 250.000
se coppie. Questa misura, tuttavia, non entrerà in vigore
subito, ma solo dal 2013.
Come noto, i Repubblicani si oppongono radicalmente alla
riforma, ma non siamo riusciti a trovare argomentazioni che
non fossero l’abituale “perché no”, che caratterizza questo
periodo della vita del GOP, ad ogni proposta di Obama. Nei
mesi scorsi i Repubblicani hanno tentato, con alterne
fortune, di mettersi alla testa dei Tea Parties, ma le tesi
erano piuttosto sghembe: accuse di socialismo alla Casa
Bianca ma anche cartelli di “Giù le mani dal Medicare”, cioè
dalla principale forma di medicina socializzata e single
payer oggi esistente negli Stati Uniti, figlia della riforma
di Lyndon B.Johnson. Le contraddizioni non sono esclusiva
della politica italiana, evidentemente.
Tra gli economisti di area GOP, spicca l’argomentazione
“classica” di Greg N.Mankiw, docente ad Harvard e già a capo
del Council of Economic Advisers nel primo mandato
presidenziale di G.W.Bush. Per Mankiw, il sistema di sussidi
a phase-out, cioè decrescenti al crescere del reddito
imponibile, equivale ad un inasprimento dell’aliquota
marginale, ed è quindi destinato ad esercitare un effetto
depressivo (diremmo “europeo”) sull’offerta di lavoro. Altro
economista contrario alla riforma è Jeffrey Miron, un noto
libertario da sempre sostenitore della legalizzazione delle
droghe. Ma anche l’argomentazione di Miron ci pare piuttosto
fragile: la riforma, per l’economista libertario, finirà col
soffocare l’innovazione, e danneggerà anche gli europei, che
da sempre sarebbero beneficiari (in modo quasi parassitario,
pare di leggere neppure troppo tra le righe) della ricerca
americana su diagnostica e terapie. Una tesi piuttosto
strana: negli Stati Uniti la spesa sanitaria è di circa il
15 per cento del Pil, all’incirca doppia dei sistemi
socializzati europei e di quello canadese, e questa riforma
non mira certo ad azzerare la redditività delle imprese
sanitarie. Seguendo il ragionamento di Miron, dall’elevata
redditività di ospedali e aziende farmaceutiche deriverebbe
una sorta di sovrainvestimento in ricerca e sviluppo di cui
beneficerebbe l’umanità intera, in vario grado ed intensità.
L’eccezionalismo americano torna sotto nuove vesti, in
definitiva.
La verità è che la sanità statunitense soffre di una sorta
di iperinflazione, solo in parte derivante dall’eccellenza
diagnostica e terapeutica. Gli assicurati sono pressoché
isolati dagli esborsi, almeno in prima battuta, e questo
determina una naturale tendenza alla sovra-medicalizzazione
ed alla iper-prescrizione, da cui deriva anche, come effetto
indotto dagli elevati utili così generati, la forte spinta
agli investimenti in ricerca. Ma questa isolation dai costi
sanitari è illusoria, perché si trasforma nel tempo in
maggiori premi assicurativi, che finiscono con l’indurre le
imprese a tagliare la copertura per i propri dipendenti.
Questi ultimi diventano spesso degli uninsured proprio dopo
aver perso la copertura aziendale e per l’onerosità
dell’assicurazione individuale.
Il successo o il fallimento della riforma verterà
soprattutto sulla sua capacità di piegare nel tempo
l’inflazione sanitaria. Secondo Mankiw, si rischia una forma
di controllo sui prezzi, destinata quindi a fallire
miseramente, mentre nel campo opposto si sottolinea che la
ridotta deducibilità fiscale (per i percettori di redditi
elevati) delle franchigie e delle spese vive (out-of-pocket)
sarebbero un primo importante passo verso il controllo dei
costi. Per la stessa filosofia, la maggiore imposizione
sulle polizze a maggiore copertura (le cosiddette
“Cadillac”), che entrerà in vigore solo nel 2018, sarà
un’accisa del 40 per cento sul valore dei premi che eccede
una soglia minima (inizialmente fissata in 10.200 dollari
per i single e 27.500 per le famiglie). L’importo esente
dall’accisa sarà indicizzato all’inflazione più 1 punto
percentuale. In pratica, se l’inflazione sanitaria non sarà
sconfitta, molti assicurati scivoleranno fatalmente nel
campo della tassazione, oppure dovranno progressivamente
tagliare le tipologie di copertura, tornando al punto di
partenza odierno. L’intera riforma ha un problematico
impianto del tipo “spendi ora, tassa in futuro”: solo il
tempo dirà se affosserà definitivamente i conti pubblici
statunitensi o se sarà un non-evento. Ma possiamo trarre sin
d’ora alcune constatazioni.
In primo luogo, è di tutta evidenza che la riforma è
redistributiva: sarebbe sciocco negarlo. Da ciò discende la
considerazione, intellettualmente onesta, di Greg Mankiw:
qui sono in gioco sistemi di valori: l’eterno tradeoff tra
eguaglianza ed efficienza, tra libertarismo e comunitarismo.
Quindi, saranno gli elettori statunitensi a scegliere se
vogliono diventare più “europei”, in termini di riduzione
delle diseguaglianze. A noi pare che le considerazioni più
condivisibili le abbia fatte un americano che lavora nella
finanza, del cui sistema è spietato critico: Barry Ritholtz.
La sanità statunitense è rotta, con buona pace dei
sostenitori dello status quo. Piagata da un sistema
d’incentivi perversi: una urgenza pediatrica trattata in
pronto soccorso produce un costo di 8000 dollari, contro i
60 di una visita in studio dallo specialista, e questi costi
si scaricano su tutto il sistema, rendendolo votato al
fallimento. Inoltre, il sistema genera un eccesso di spesa
senza significativi risultati in termini di aspettativa di
vita. Conosciamo le obiezioni a quest’ultima osservazione:
non è colpa della sanità ma di stili di vita e, in ultima
analisi, di un modello finora accettato di diseguaglianza
sociale. Ma ciò ci riporta a quanto sopra osservato: spetta
agli americani scegliere il proprio posizionamento tra
equità ed efficienza. Lo faranno già dal prossimo novembre,
alle elezioni di midterm.
Nel frattempo, noi europei dovremmo tenere a mente che il
nostro sistema valoriale resta significativamente differente
da quello americano. Noi nelle costituzioni abbiamo il
diritto alla salute, oltre oceano hanno quello alla
felicità.
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Fonte -
Epistems.otg
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RIFORMA
SANITA' USA: NON E' ANCORA FINITA. LEGGE
DOVRA' ESSERE RIVOTATA
25 Marzo 2010 10:46 NEW YORK -
di CORRIERE DELLA SERA ______________________________________________
Approvata due giorni fa dal
Congresso americano, la norma dovrà essere sottoposta a una
nuova votazione per irregolarità di procedura. Il pacchetto
finale di modifiche alla legge dovrà essere nuovamente
approvato dalla Camera.
La legge sulla riforma della sanità, approvata due giorni fa
dal Congresso americano, dovrà essere sottoposta a una nuova
votazione per irregolarità di procedura.
Lo ha detto Harry Reid, portavoce democratico del Senato. Il
pacchetto finale di modifiche alla legge dovrà essere
nuovamente approvato dalla Camera dei rappresentanti.
CLAUSOLE SECONDARIE - «Dopo ore
di tentativi per trovare un modo di bloccare il testo, i
repubblicani hanno scovato due clausole relativamente
secondarie che sono violazioni della procedura del Senato,
il che significa che dobbiamo rimandare il provvedimento
alla Camera» ha detto Jim Manley, portavoce di Reid.
I due emendamenti riguardano la concessione delle borse di
studio agli studenti con basso reddito. Dunque c'è un nuovo
ostacolo per i democratici, che domenica scorsa sono
finalmente riusciti a far approvare il testo della storica
riforma voluta dal presidente Obama con 219 voti favorevoli
e 212 contrari, dopo lunghissimi e difficili negoziati.
MARGINE RISTRETTO - I due
emendamenti infatti non possono essere approvati con il
procedimento della reconciliation adottato
dall'amministrazione per evitare ostruzionismi parlamentari
in Senato.
Secondo fonti del partito democratico il nuovo testo
dovrebbe essere approvato dalla Camera in tempi molto brevi:
tuttavia il testo precedente è passato con un margine molto
ristretto e solo dopo che la Casa Bianca ha varato un
executive order che conserva lo status quo relativo al
divieto di impiegare fondi federali per le interruzioni di
gravidanza.
Rimane dunque in teoria possibile che qualche deputato
democratico - specie nel fronte antiabortista - possa, se
non cambiare idea, cercare di ottenere qualcosa di più dalla
Casa Bianca, specie perché l’atmosfera è tesa a causa
dell’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato.
Il testo originale del Senato, approvato della Camera prima
del blocco di emendamenti, è stato convertito in legge e
dunque rimarrà comunque in vigore.
Fonte
-
Corriere della Sera
PREOCCUPAZIONE IN PIMCO:
ALLARME BOND CON LA RIFORMA SANITARIA
25 Marzo 2010 21:45 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
L'acclamata riforma del sistema
di assistenza medica finira' per allargare il deficit, i
tassi di interesse reali cresceranno e l'inflazione pure.
Uno scenario che rema contro il mercato del debito. Meglio
investire in bond o in azioni?
Per il disavanzo pubblico gigantesco e l'impatto che la
riforma del sistema di assistenza sanitaria avra' sul
bilancio, l'idea del numero uno di Pimco Bill Gross non
potrebbe essere piu' semplice: sono entrambi dannosi per il
mercato obbligazionario.
Come una nota del FMI ha gia' sottolineato, "gli enormi
deficit fiscali e il debito circolante in aumento portera' a
tassi di interesse reali piu' alti e infine ad un'inflazione
maggiore. Entrambi trend che non si puo' certo dire
favoriscano il mercato obbligazionario", ha affermato Gross
secondo quanto riportato da Business Insider.
Negli Stati Uniti, in aggiunta al deficit pari al 10% del
Pil e ad un debito circolante in aumento progressivo,
secondo l'esperto "un investitore dovrebbe preoccuparsi dei
futuri impegni del governo non finanziati, che i manager di
portafoglio quasi sempre trascurano, perche' li reputano
cosi' lontani all'orizzonte da non essere importanti".
Tuttavia, Gross sottolinea che chi investe nei Treasuries
con scadenza a 30 anni dovrebbe preoccuparsi del fatto che
l'ammontare delle spese sociali future per garantire una
copertura assicurativa (in primis quelle nelle attivita' di
Social Security e Medicare) si e' attestato a $46 mila
miliardi nel 2009. Si tratta di una sommma quattro volte
superiore all'attuale debito circolante attuale, secondo le
stime dell'Ufficio di Bilancio congressuale allo stato
attuale delle cose. Dovrebbe preoccuparsene perche' potrebbe
essere una delle principali ragioni per cui il rendimento
del trentennale e' del 4.6% mentre l'analogo titolo a due
anni rende meno dell'1%".
Come se non bastasse, un tale contesto non potra' che
peggiorare. "L'imminente approvazione dell'health care bill
rappresenta una continua litania di obbligazioni che il
governo sara' tenuto a rispondere in campo sociale, che
aumenteranno, non diminuiranno, le dimensioni dei deficit di
bilancio futuri e delle passivita' non finanziate".
"Nessuno oserebbe dichiarare il contrario, come hanno fatto
i Democratici. Il senso comune suggerirebbe che l'espansione
dei benefit di assistenza medica a piu' di 30 milioni di
persone costera' un bel po' di soldi", ha sottolineato in
modo encomiabile l'ex direttore del CBO Holt-Eakin. Un
programma che costera' $950 miliardi nei prossimi 10 anni
puo' essere in grado di ridurre il deficit di $138 miliardi,
cosi' come sostenuto dai democratici? Dopo attenti calcoli
il sospetto si e' rivelato fondato: la riforma espandera' il
deficit di altri $562 miliardi nel prossimo decennio, stando
a quanto riportato nei giorni scorsi in un articolo sul New
York Times.
Fonte
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wallstreeitalia
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USA: IL VERO
PROBLEMA E' LA SOTTO-OCCUPAZIONE
23 Marzo 2010 21:24 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Un americano su cinque e' senza
lavoro o si deve accontentare del part-time. Numero
aumentato dello 0.7% in un mese. Chi e' impiegato a tempo
ridotto spende il 24% di piu' dei disoccupati,
imparagonabile al +85% di quelli impiegati tempo pieno.
L'indice di sotto-occupazione parla chiaro. A meta' marzo un
americano su cinque che lavora part-time o e' disoccupato
vorrebbe lavorare di piu'. La percentuale e' salita al 20%
dal 19.7% di due settimane prima e dal 19.5% dell'inizio
dell'anno. I dati evidenziano chiaramente perche' gli
americani sostengono che il problema principale della
nazione da risolvere oggi sia la creazione di posti di
lavoro e lo stato di salute dell'occupazione in genere.
Il sondaggio della societa' di ricerca Gallup, che si basa
su oltre 20.000 persone interpellate, tende a essere una
previsione di quelli che saranno i report ufficiali
governativi fra due settimane. Sebbene il tasso di
disoccupazione calcolato dalla societa' sia calato al 10.3%
dal 10.8% di meta' febbraio, tale percentuale e' messa in
secondo piano dall'incremento registrato negli ultimi 30
giorni del numero di persone che lavorano a tempo ridotto e
che vorrebbero invece lavorare a tempo pieno. Il tasso e'
salito dal 9% di meta' febbraio al 9.7% di meta' marzo.
Il pericolo di concentrarsi
troppo sulla disoccupazione, tralasciando il vero problema che
e' quello della sotto-occupazione, e' stato segnalato dagli
economisti di Morgan Stanley, secondo cui gli Stati Uniti
potrebbero creare sino a 300.000 posti di lavoro in marzo,
grazie ad un miglioramento delle condizioni meteorologiche,
della crescita economica e del personale assunto a tempo
determinato per raccogliere i dati census.
Se questa cifra fosse annunciata dal governo a inizio aprile,
c'e' ragione per rimanere entusiasti e persino per festeggiare.
Tuttavia le cifre pubblicate da Gallup relative ai livelli di
sotto occupazione vanno in un'altra direzione. Le spese
giornaliere dei lavoratori part-time che vogliono un impiego
full-time sono state negli ultimi 30 mesi del 24% in media
superiori rispetto a quelle dei disoccupati. Da un lato si
tratta di un miglioramento ed e' positivo per l'economia,
dall'altro non e' sicuramente paragonabile al +85% di quelli che
hanno un lavoro a tempo pieno.
Spesso si e' portati a credere che la crescita degli impieghi
part-time segnali una crescita delle posizioni a tempo pieno in
futuro. Talvolta e' proprio cosi, ma non lo e' al punto in cui
si trova ora l'economia. Secondo i dati raccolti da Gallup's,
solo un dipendente part-time su tre, tra coloro che vorrebbero
un contratto full-time, troveranno lavroo nei prossimi 30
giorni. Non si puo' dire che sia una conferma dell'idea che i
nuovi lavori part-time di oggi diventeranno gli impieghi
full-time di domani.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
Il Sudamerica
rallenta il passo
martedì, 23 marzo 2010 - 16:14 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
L’America latina si prepara a
tirare il fiato e a rallentare la corsa che, nel 2009 ha
permesso all’indice Msci della regione di guadagnare
(calcolato in euro) quasi il 92% e che nell’ultimo mese
(fino al 19 marzo) lo ha fatto salire di circa il 3%. La
situazione nell’area, infatti, incomincia a dare segni di
indebolimento che, spiegano tuttavia gli operatori, non ne
comprometterà le potenzialità di lungo termine.
Secondo uno studio pubblicano dalla Banca centrale del
Brasile, l’inflazione della prima economia sudamericana nel
2011 salirà al 5,10% nel 2010 per poi abbassarsi al 4,7% nel
2011. Per rispondere a questa situazione, l’istituto
monetario brasiliano sarebbe pronto ad aumentare i tassi di
interesse portandoli al 9,25% durante la riunione di aprile.
Situazione difficile anche per l’Argentina (la terza
locomotiva della regione dopo il Messico). Per l’Istituto
nazionale di statistica, infatti, il Prodotto interno lordo
del Paese nel 2009 è cresciuto dello 0,9% rispetto all’anno
precedente. Un viaggio col freno a mano tirato per una
congiuntura che, dal 2003 al 2008, ha tenuto un ritmo medio
annuale dell’8,5%.
In realtà è tutta l’area Latam che sembra segnare un po’ il
passo. Secondo un report della Inter-American Development
Bank (IADB) i tassi di produzione della regione non riescono
a tenere il passo con la rinnovata richiesta di materiali e
prodotti da parte del resto del mondo. “I governi dovrebbero
sfruttare questa situazione per mettere mano a una serie di
nuove riforme fiscali ed economiche che permettano ai
singoli Stati di recuperare terreno nei confronti degli
altri Paesi del mondo”, dice lo studio.
La stessa IADB, che in passato ha dato un grosso aiuto alla
crescita della regione investendo soprattutto in
infrastrutture (solo l’anno scorso ha speso 15,5 miliardi di
dollari), sembra però avere le armi un po’ spuntate. Secondo
il ministro brasiliano della pianificazione, Paulo Bernardo,
l’istituto avrebbe bisogno di una ricapitalizzazione di
almeno 100 miliardi di dollari per continuare a portare
avanti i suoi progetti. Gli Stati Uniti (i maggiori
azionisti della banca con una quota di circa il 30%) non
sono disposti a sborsare più di 60 miliardi. Il resto, hanno
detto gli Usa, verrà versato dopo l’accettazione da parte
degli altri membri di un decalogo che, secondo molti Stati
sudamericani, contiene condizioni inaccettabili, soprattutto
in materia dei controlli di spesa. “Senza un aumento di
capitale, gli investimenti potrebbero dimezzarsi già a
partire da quest’anno”, ha detto Bernardo.
Nel frattempo, secondo uno studio di Oxford Analytica (OA),
il Sudamerica può far conto sulle sue imprese che, in molti
casi, sono diventate delle multinazionali in grado di fare
concorrenza ai gruppi dei Paesi più sviluppati (gli analisti
le indicano col nome di Multilatinas). “Nell’ultimo decennio
molte aziende dell’area latina sono passate dalla semplice
esportazione di prodotti al fare investimenti diretti
all’estero”, spiega lo studio di OA. La classifica stilata
annualmente dalla rivista Fortune sulle 500 maggiori imprese
mondiali, nel 2009 contava 11 gruppi della zona Latam contro
i cinque del 2005. “Questa tendenza continuerà anche nei
prossimi anni”, conclude il report di OA. “Nel frattempo, le
società che sono già diventate multinazionali, continueranno
ad acquistare i concorrenti dei mercati sviluppati”.
Fonte
-
Morningstar
Eurozona come la
corsa coi sacchi
24 Marzo 2010 13:48 MILANO -
di Elysa Fazzino ______________________________________________
L'eurozona deve fare più gioco di
squadra: se i paesi membri non coordineranno le loro azioni,
cadranno insieme. E‘ la conclusione cui giunge Marco
Annunziata, capo economista di Unicredit, in un'analisi
pubblicata sul Financial Times.
L'aspro dibattito sugli squilibri nell'eurozona, scatenato
dalla crisi della Grecia, sottolinea "la necessità che i
paesi membri pensino e agiscano come una squadra", afferma
Annunziata. La Francia, argomenta, si è di recente unita al
drappello di chi chiede alla Germania di stimolare la
domanda interna per rafforzare la crescita e aiutare a
ridurre il deficit di paesi come Grecia, Portogallo e
Spagna. I tedeschi rispondono che invece di criticare la
Germania, gli altri devono imitarla se si vuole che l'Europa
abbia un futuro.
Ma guardando più da vicino, emergono "alcuni fatti
interessanti" sulle singole economie: "La competitività
della Germania si basa più sulla bassa crescita delle
retribuzioni che sulla crescita della produttività. La bassa
produttività dell'Italia è un problema molto più serio della
dinamica salariale. Grecia e Irlanda hanno sprecato
significativi aumenti di produttività con l'eccessiva
crescita delle retribuzioni".
"La nostra analisi – continua l'economista – conferma che
sì, la Germania deve stimolare di più i consumi interni, ma
altri paesi devono impegnarsi maggiormente per alzare la
crescita della produttività e aumentare la loro
competitività".
E' come in una "corsa coi sacchi" in cui i compagni devono
correre con una gamba nello stesso sacco, conclude
Annunziata: o coordinano le loro azioni, o cascano insieme.
I negoziati Ue sugli aiuti alla Grecia sono in primo piano
in queste ore sui siti della stampa economica
internazionale. Oltre al Financial Times, anche il Wall
Street Journal punta i riflettori sull'Europa. "I leader
dell'eurozona cercano compromesso sull'aiuto alla Grecia",
titola il quotidiano newyorchese riferendo gli ultimi
sviluppi: i leader stanno lavorando a un accordo che
potrebbe assicurare l'appoggio tedesco a un piano di
salvataggio finanziario della Grecia in cambio dell'intesa
da parte degli altri paesi a lasciare svolgere al Fondo
monetario internazionale "un ruolo sostanziale".
Ma la Germania pone "dure condizioni": l'aiuto dovrebbe
arrivare solo per impedire il default della Grecia, cioè
dopo che Atene abbia esaurito tutte le possibilità di
raccolta dei fondi dai mercati. Berlino, inoltre, insiste
perché i governi dell'Unione europea facciano un passo verso
un controllo più centralizzato dell'economia, concordando
regole più stringenti per disciplinare i paesi scostanti.
Sembra emergere un compromesso, scrive il Wsj. L'articolo di
Marcus Walker e Charles Forelle cita tra l'altro le
dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Franco
Frattini: "Abbiamo bisogno di un compromesso greco. Quando
un paese dell'eurozona attraversa una fase difficile,
abbiamo il dovere morale e istituzionale di intervenire".
Ma un accordo questa settimana "è tutt'altro che certo",
aggiunge il Wsj. E gli addetti ai lavori europei avvertono:
non ci si aspetta che i leader Ue decidano al vertice di
capi di Stato e di governo di giovedì.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
La settimana,
12/2010
Friday, 26 March, 2010 at 16:30 -
di phastidio ______________________________________________
Nella giornata di giovedì 25
marzo Francia e Germania hanno raggiunto un accordo per
sostenere la Grecia, basato sul concorso di prestiti del
Fondo Monetario Internazionale e di paesi dell’Ue in
proporzione delle quote di partecipazione dei singoli stati
al capitale della Banca centrale europea. La decisione
suscita molti interrogativi, essendo sinora mancante di
dettagli operativi fondamentali quali il ruolo del FMI e
della Ue (o meglio della Bce) nel salvataggio. Inoltre, il prestito avverrà a
“tassi non sussidiati”, cioè di mercato, e solo in caso la
Grecia si veda precluso l’accesso ai mercati finanziari. Come si
nota, le richieste del premier greco Papandreou di avere tassi
in linea con la “media normale della Ue” sono state frustrate.
Il mercato non ha mostrato reazioni significative in termini di
restringimento degli spread del debito greco su quello tedesco,
né di credit default swap, a conferma della difficoltà a
comprendere quali scenari ci attendono. Sempre su questo tema,
in precedenza la Banca centrale europea aveva lanciato un
salvagente alla Grecia, decidendo di mantenere anche oltre la
fine del 2010 il livello di rating minimo che consente di
ottenere prestiti dalla Bce, oggi a BBB-. In compenso, verrà
introdotto un sistema di scarti di garanzia, crescenti al
diminuire della qualità dei titoli presentati alla Bce. Nel corso della settimana si è
verificata una tendenza all’aumento dei rendimenti
obbligazionari, innescata negli Stati Uniti dall’andamento non
particolarmente brillante di due aste di Treasury Bond. Ciò ha
avuto riflessi anche in Area Euro. La Fed ha completato per il
momento il proprio easing quantitativo, con il riacquisto di
mutui e cartolarizzazioni sui mutui ed i mercati temono che ciò,
unitamente agli elevati volumi di emissione di nuovo debito,
finirà con l’esercitare pressioni al rialzo sui rendimenti di
mercato. L’aumento dei rendimenti, tuttavia, avviene in
condizioni di pressioni inflazionistiche pressoché inesistenti.
L’aumento di rendimenti reali che da ciò deriva rischia di
esercitare un effetto depressivo sui mercati azionari.
Tra i dati macroeconomici della settimana, si conferma la
debolezza del mercato immobiliare statunitense, sia per le
vendite di case esistenti che per il nuovo. I mercati azionari
hanno tratto sollievo, a metà settimana, da dichiarazioni di
Janet Yellen, presidente della Fed di San Francisco e prossima
vice di Ben Bernanke, considerata una “colomba” in politica
monetaria, che ha confermato di ritenere “appropriato” l’attuale
livello di tassi a zero, a causa dell’enorme “buco” nei livelli
di attività (output gap). Concetto indirettamente confermato
dallo stesso Bernanke nel corso di un’audizione al Congresso, in
settimana. Rivisto in lieve rialzo il Pil del quarto trimestre,
a più 5,6 per cento annualizzato, con ulteriore limatura del
contributo alla crescita fornito da consumi e immobiliare
residenziale. In Area Euro migliorano in marzo
le condizioni dell’indice dei direttori acquisti delle imprese
manifatturiere e di servizi, situazione confermata anche
dall’indice IFO tedesco. In Eurolandia prosegue la contrazione
della massa monetaria M3, scesa in febbraio dello 0,4 per cento
su base annuale, a conferma di condizioni di erogazione del
credito ancora depresse, in conseguenza sia dell’inasprimento
degli standard creditizi che della ridotta domanda delle
imprese, in un contesto congiunturale ancora stagnante.
Fonte
-
Macromonitor
La crisi
dei debiti sovrani
tocca gli Usa
27 Marzo 2010 10:21 MILANO -
di Walter Riolfi ______________________________________________
C'è qualcosa di nuovo sui mercati
finanziari. E non è propriamente un buon segnale. L'ha
avvertito persino Wall Street, seppure inconsapevolmente,
crescendo appena dello 0,6% in settimana, nonostante lo
straripante ottimismo dei suoi operatori. Quel qualcosa di
nuovo è il problema dei debiti sovrani che comincia a farsi
sentire anche negli Stati Uniti, non solo nei ragionamenti
degli economisti, ma per la prima volta nel comportamento
dei titoli di stato e delle obbligazioni. Finora a Wall
Street è interessato assai poco della crisi greca e delle
possibili conseguenze su Portogallo, Spagna o Italia.
L'attenzione degli americani s'è concentrata nel coniare
acronimi (Piigs o STUPID) con le iniziali dei paesi europei
(e della Turchia), senza immaginare che ci sarebbe voluta
una "U" in più (come Usa) oltre quella di United Kingdom.
Quanto succedeva alla Grecia o all'euro, erano cose europee.
Un sondaggio di qualche giorno fa, condotto da Market
Forecast Projet su 300 investitori professionisti americani,
ha rivelato che il 66% di costoro è convinto che la crisi
sul debito greco non avrà un grande impatto sulle borse
mondiali. Figuriamoci per quella di New York.
E invece mercoledì e ancora giovedì i rendimenti dei
Treasury decennali sono volati verso l'alto, passando dal
3,65% al 3,9% che rappresenta il massimo degli ultimi 10
mesi, allo stesso livello del novembre 2007, quando nessuno
s'immaginava una crisi finanziaria di quelle dimensioni e
tanto meno una recessione. Si potrebbe pensare che
rendimenti in rialzo sono il segnale di un'economia in
miglioramento. E difatti s'è sentito qualche operatore
sostenere questa tesi: alquanto bizzarra, visto che erano
calate le vendite di case nuove e di quelle esistenti,
nonostante prezzi in ulteriore calo, che gli ordini di beni
durevoli erano cresciuti meno del previsto e che le nuove
richiede di sussidio erano sì leggermente inferiori al
consenso, ma che a beneficiare dei sussidi erano quasi
100mila disoccupati in più delle stime.
Wall Street ha avvertito solo inconsapevolmente che qualcosa
di diverso era nell'aria. Quando mercoledì l'S&P aveva perso
un modesto 0,5%, reduce dall'ennesimo massimo relativo
toccato il giorno prima, gli operatori avevano addotto le
preoccupazioni sul Portogallo, il cui rating sovrano era
stato abbassato da Fitch. In sè la spiegazione era
pretestuosa, visto che era a tutti noto un declassamento da
parte delle varie agenzie: e non a caso, quel giorno, lo
spread dei titoli di stato portoghesi era semmai sceso
rispetto al bund. Ma era inconsciamente vera, perché sul
mercato obbligazionario Usa stavano salendo i rendimenti dei
titoli di stato, al punto che quelli decennali hanno per la
prima volta superato il tasso swap decennale (quello
praticato alla clientela corporate di miglior livello). Come
a significare che c'è più rischio in un Treasury che in un
bond emesso da General Electric.
È una assurdità, ma il fatto che ancora ieri il tasso swap
fosse di 7-8 centesimi inferiore a quello del titolo di
stato decennale, complici anche due emissioni non accolte
entusiasticamente dal mercato, sta a significare che le
preoccupazioni sui debiti sovrani europei hanno cominciato a
trasferirsi negli Usa. Ci sono abbondanti motivi che
giustificano il fenomeno. Il rapporto tra debito pubblico
ufficialmente dichiarato (12.606 miliardi $) e Pil è oggi
pari all'87,2%. Ma aggiungendo i 6.264 miliardi di debiti in
carico alle agenzie (Fannie Mae, Freddie Mac che sono
interamente controllate dallo stato) si arriva a un rosso
complessivo di 18.870 miliardi: ossia al 130,6% del Pil. Le
finanze Usa sarebbero in condizioni peggiori di quelle dei
paesi identificati dal gentile acronimo di piigs. Secondo
Bill Gross, il maggior rischio insito nei Treasury finirà
per contagiare anche i bond societari, al punto da far
dichiarare al fondatore di Pimco che le azioni potrebbero
addirittura far meglio delle obbligazioni per qualche mese.
Ed è tutto dire per uno che da tempo non crede alle borse.
In settimana l'S&P ha guadagnato lo 0,6% (+0,9% il Nasdaq) e
lo Stoxx l'1,3% (+2,3% Francoforte, +1,7% Milano, +1,6%
Parigi, +0,9% Londra).
Fonte
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Sole 24 ore
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