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PARTE  1

 

INDICE ARTICOLI di TESTA

 

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Quadro Macro Cina e possibili rischi sistemici

La bolla cinese sta davvero scoppiando

Valutario - Crisi greca e riflessi Macro/mercati

Tra speculazione e fondamentali dove vanno le monete mondiali

Politica comunitaria e ipotesi FME

Il Fme tra le modifiche al trattato Ue e la volontà politica delle capitali

Politica comunitaria e ipotesi FME

Fme, l'Europa non toccherà quel fondo

Normativa - Possibili adeguamenti normativi post crisi creditizia

Controlli sui capitali, svolta storica?

USA - Implicazioni politiche e tecniche della riforma sanitaria Obama

Obama alle battute decisive della sua più grande sfida

USA - Implicazioni politiche e tecniche della riforma sanitaria Obama

La sanità americana era malata, ma non è detto che la cura Obama ...

 
+++   ANSA   +++   Crisi, a Grecia servono 25mld euro   +++    Francia accusa Germania su gestione crisi graca   +++   Usa: Gensler (Cftc), Possibili Nuove Crisi Se Derivati Non Regolamentati   +++   Usa: Fed, Disoccupazione Restera' Alta e Limitera' Crescita   +++   Usa: Obama Vince sfida su assistenza sanitaria  +++   ANSA   +++ 
 
  Lunedì 01 Marzo 2010   Martedì 02 Marzo 2010   Mercoledì 03 Marzo 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

La settimana, 8/2010

ANALISI/ Rischio Shanghai sui listini mondiali

IL BAROMETRO DELLA FED E' ROTTO

Dollaro ed euro hanno poco da guadagnare ...

Grecia vara piano austerità, punta a sostegno Ue

STORICO: LA CAMERA USA APPROVA LA RIFORMA SANITARIA

La settimana, 9/2010

Risultato storico o suicidio politico? La riforma ...

EURO: QUALCUNO SALTERA'

riforma sanitaria è legge Obama vince la sua battaglia

I problemi di Obama e di Wall Street in quelle tre sedie ...

SANITA' USA: NON E' ANCORA FINITA. LEGGE RIVOTATA

Cinque senatori democratici provano a trasformare ...

PREOCCUPAZIONE IN PIMCO: ALLARME BOND CON LA RIFORMA ...

La settimana, 10/2010

USA: IL VERO PROBLEMA E' LA SOTTO-OCCUPAZIONE

La stretta sulla finanza al vaglio del Senato Usa

Il Sudamerica rallenta il passo

I timori di Draghi e Strauss-Kahn sulle resistenze ...

Eurozona come la corsa coi sacchi

IMMOBILIARE USA, IN ARRIVO UNA SECONDA RECESSIONE

La crisi dei debiti sovrani tocca gli Usa

   
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  La bolla cinese sta davvero scoppiando

01 Marzo 2010 03:25 NEW YORK – di Minxin Pei

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Pensare che il mondo conosca qualcosa riguardo la Cina sembra essere un'affermazione generosa, oggigiorno. Appena pochi mesi fa era opinione diffusa - tra i politici, gli uomini d'affari e gli economisti - che la Cina avesse messo in atto il più imponente piano di stimolo del mondo, e fosse uscita dalla crisi economica più rafforzata che mai. Oggi quasi tutti sono preoccupati circa l'esplosione della cosiddetta 'bolla cinese'.

Inutile dirlo, ma i cinesi stessi sono preoccupati (comprendono o no i meccanismi del loro paese?). Beijing ha recentemente imposto dei limiti rigidi sul credito bancario, mettendo di fatto un argine al fiume di denaro facile che ha permesso all'economia della Cina di crescere nel 2009. I mercati di tutto il mondo si sono messi in allarme di fronte alla minaccia sospesa che incombe sul Paese. I prezzi del petrolio, del rame e del minerale di ferro sono crollati, da quando i commercianti hanno imposto alla Cina di ridurre le sue importazioni. La situazione, effettivamente, non pare confortante.

Al fine di compensare la diminuzione della merce d'importazione - che è crollata del 16 per cento nel 2009 - la Cina ha effettuato una massiccia spinta verso l'investimento lo scorso anno, per mantenere il livello di crescita. In aggiunta ai 680 miliardi di dollari per le spese fiscali supplementari del 2009 e del 2010, Beijing ha mobilitato il sistema bancario dello Stato al fine di riversare un flusso di prestiti nell'economia. Detto fatto: 1,4 trilioni di dollari (circa un terzo del Pil) in nuovi prestiti bancari immessi nelle infrastrutture, nel mercato immobiliare ed azionario. Gli effetti sono stati sconcertanti: l'economia cinese ha ripreso a crescere immediatamente; i mercati immobiliari che fino a poco prima sembravano moribondi si sono rialzati, prosperando, ed i titoli si sono ripresi.

Coloro che detengono il potere economico e politico guardano ad una simile situazione (quasi eccessivamente positiva) con profonda inquietudine. La facile regolamentazione sottesa al credito bancario, adottata nel 2009, ha fatto sì che molti dei nuovi prestiti siano stati effettuati imprudentemente. I beneficiari di tali prestiti hanno usato il denaro ottenuto per speculare nel mercato immobiliare ed azionario. È un fatto risaputo.

Le infrastrutture finanziate tramite strumenti di debito, alla fine, si dimostreranno essere degli oneri finanziari. Tutto questo significa che le banche dello Stato, molto probabilmente, saranno investite da una nuova moltitudine di prestiti non remunerativi nei prossimi anni. Anche se nessuno si aspetta che il sistema bancario della Cina possa crollare sotto il peso di tutto questo - la previsione più nera è che circa il 10-15 per cento dei nuovi prestiti si riveleranno essere prestiti a vuoto - di certo esso ne uscirà seriamente indebolito.

Ancora più preoccupante del prospetto dei pessimi prestiti di massa, appare il problema dell'inflazione. Ha già raggiunto l'1,9 per cento nel 2009, e ci si aspettano dati molto più alti nel 2010, proprio a causa dell'enorme emissione di credito bancario nel 2009. Preoccupa ancora di più, comunque, la possibilità che la crescita del Paese possa subire un brusco arresto in seguito alla chiusura, da parte delle banche, del rubinetto del credito.

Ironicamente, la bolla cinese potrebbe essere meno grande e pericolosa di come appare a coloro che la osservano dall'esterno. Mentre il mercato immobiliare, nelle grandi città, assume chiaramente i contorni di una bolla, il Paese intero non è stato (ancora) colto da una tale psicosi. Il mercato azionario è già crollato di 10 punti, rispetto ai suoi dati più alti. Il suo valore, oggi, sembra essere positivo, ma non eccessivamente. Ciò che sta esplodendo è la bolla psicologica riguardo la Cina.

Fino a poco tempo fa molti, in Occidente, pensavano che l'economia cinese fosse inarrestabile. Ora temiamo che possa collassare. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo.
 

 

Traduzione - Valeria Dani

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

 

 

La settimana, 8/2010

Monday, 1 March, 2010 at 807:42 - di phastidio
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Ancora la Grecia al centro dell’attualità e dei timori. Mercoledì 24 febbraio Standard&Poor’s ha comunicato che il creditwatch negativo sul rischio sovrano greco, oggi a BBB+, resta in essere e potrebbe essere risolto col declassamento di uno o due livelli entro un mese. L’agenzia cita il rischio di reazioni negative del pubblico al piano governativo di austerità, oltre a quello di un avvitamento della situazione, con un eventuale (ma sempre più probabile) rallentamento della crescita che determinerebbe la necessità di ulteriori tagli di spesa pubblica ed aumenti di entrate.
Il paese è sottoposto a crescenti tensioni sociali, e la manifestazione di mercoledì 24, a cui hanno partecipato circa 2,5 milioni di persone, con episodi di violenza urbana, sembra il prodromo del precipitare della crisi. Il 23 febbraio l’agenzia di rating Fitch ha declassato di due livelli il merito di credito delle quattro maggiori banche del paese, mentre altre notizie indicano un costante deflusso di depositi bancari dalla Grecia. Sulla scorta di queste notizie, i credit default swap e il differenziale di rendimento tra titoli di stato greci e tedeschi hanno evidenziato un marcato allargamento.
Negli Stati Uniti, la fiducia dei consumatori è scesa in febbraio al livello di 46 da 56,5 di gennaio, nuovo minimo da dieci mesi. Il sottoindice delle condizioni correnti si è portato al nuovo minimo da 27 anni. Anche in Eurolandia nel mese di febbraio si è osservato un drastico calo della fiducia dei consumatori: in Germania si è registrato il primo calo da 11 mesi, così come rilevato dall’indice IFO. Nel caso statunitense e tedesco alcune interpretazioni riconducono la flessione alle avverse condizioni meteo, che hanno colpito soprattutto le vendite al dettaglio e le costruzioni. Analogo andamento negativo della fiducia dei consumatori si è registrato in Italia. In Francia il dato sulla spesa dei consumatori in gennaio ha evidenziato un marcata contrazione, riconducibile alla conclusione del programma di incentivi pubblici alla rottamazione auto.

 

  New jobless claims with 4 week mooving avarage  
     
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Fonte - Econoday

 


Negli Stati Uniti è proseguito il dibattito sull’adozione di una strategia di uscita dall’eccezionale espansione monetaria realizzata nell’ultimo biennio. Dall’audizione congressuale semestrale di Ben Bernanke sulla politica monetaria è emerso che la Fed intende mantenere condizioni monetarie accomodanti perché, a fronte di un miglioramento delle condizioni di funzionamento dei mercati finanziari, il credito bancario continua a contrarsi, riflettendo sia una stretta alle condizioni creditizie che una debole domanda di credito, a fronte di incerte prospettive economiche. La reiterazione del mantenimento sostanziale di condizioni monetarie accomodanti ha rinfrancato i mercati, malgrado un dato fortemente negativo delle vendite di case nuove a gennaio, in calo dell’11 per cento mensile ed ai minimi dall’inizio di queste rilevazioni, nel 1963. Sebbene anche nel caso di questa serie storica sia possibile attribuire parte del risultato alle avverse condizioni meteo, vi è motivo di ritenere che sul dato pesi soprattutto la debolezza economica generale e del mercato del lavoro e la forte offerta di case sottratte a precedenti proprietari insolventi (foreclosures). Negativo anche il dato settimanale statunitense sui sussidi di disoccupazione, in marcato aumento. Ancora una volta, le tempeste di neve restano tra i maggiori sospettati, ma la media mobile a quattro settimane della serie storica, meno volatile, evidenzia il tangibile rischio di una ripresa del processo di distruzione di occupazione.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

IL BAROMETRO DELLA FED E' ROTTO

mercoledì 3 marzo 2010 - di LEON ZINGALES
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Qualche giorno fa un lettore mi ha inviato un accalorato e-mail per suffragare la reale ripresa degli USA. Mi ha accusato di essere poco propenso a riconoscere i meriti dell’amministrazione Obama e di non riconoscere i forti segnali di ripresa da parte dell’economia USA.
Purtroppo il problema non è una mia presunta antipatia verso l’amministrazione USA (il Presidente Obama non mi ha fatto assolutamente nulla..neanche lo conosco), il problema sono i numeri che affossano questa pseudo-ripresa che si poggia unicamente su debito pubblico e deficit. Non vi è solo la California (discutere su di essa sarebbe come sparare sulla croce rossa), tutti gli stati USA si trovano in grosse difficoltà. Si consideri l’emblematico esempio (per la presidenza Obama) dell’Illinois.

 

  Percentuali di indebitamento Stati USA  
     
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Fonte - Center on Budget and Policies Washington DC

 


L’Illnois ha un budget gap del 41%. Il vero problema è che questo deficit viene fondamentalmente finanziato con i contributi pensionistici. Vi è un buco pensionistico che si sta rapidamente allargando ed ha raggiunto alla fine del 2009 la cifra record di 90 Miliardi di Dollari. Vi è un report (fonte Mish) della Pension Modernization Task Force di fine 2009 che reputo interessante “Not wanting to implement dramatic cuts in spending on essential services, the legislature and various governors elected to instead divert revenue from making the required employer pension contribution to maintaining services like education, health care, public safety and caring for disadvantaged populations”..in parole povere il sistema pensionistico è stato usato come carta di credito per mantenere i servizi essenziali in uno stato in cui si spendono 3$ per ogni 2$ effettivamente incassati.

 

  Illinois has short-changend its pension funds for years  
     
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Fonte - Center on Budget and Policies Washington DC

 


Il debito dell’Illinois ha raggiunto i 130 miliardi di Dollari e, considerando che non è possibile emettere propri titoli di Stato, i nodi verranno presto al pettine.
Con un deficit crescente federale ed in ogni singolo stato, con una disoccupazione ufficiale vicina al 10% (senza considerare la sottooccupazione), con le gigantesche aste di Tbills previste per il prossimo anno per finanziare il debito pubblico, con il mercato immobiliare in profonda sofferenza e la nuova ondata di ARMS in prossimo arrivo temo che abbia poco senso parlare di ripresa. Ho l’impressione che si siano solo messe alcune toppe sbragando i bilanci pubblici, ma la pressione è notevole e le toppe inizieranno presto a saltare. Si è solo rimandato l’inevitabile resa dei conti. Ad esempio le banche USA hanno messo in vendita solo il 30% delle case pignorate onde evitare di segnare subito le perdite nei rispettivi bilanci.
Ma il lettore non si preoccupi..probabilmente il problema è mio; egli è in pregevole compagnia. Basti vedere l’articolo in prima pagina di Alberto Alesina sul Sole24Ore di due Sabati fa. Commentando il rialzo allo 0.75% del tasso di sconto della Fed ha titolato “Il barometro della FED segna la fine della tempesta”..personalmente ho l’impressione che il barometro della FED non sia perfettamente funzionante.

 

Fonte - Blog/Il Cigno Nero

 

 

 

SINTESI 1 - Grecia vara piano austerità, punta a sostegno Ue

mercoledì, 3 marzo 2010 - 19:19 - di Lefteris Papadimas e Renee Maltezou
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Il governo greco ha approvato oggi e sottoposto al Parlamento un piano di austerity da 4,8 miliardi (2% del Pil), il terzo in tre mesi, nel tentativo di riportare sotto controllo il deficit di bilancio e assicurarsi l'appoggio finanziario dell'Unione europea.
Lo conferma un portavoce del governo greco dopo che la cifra era stata anticipata a Reuters da fonti governative.
Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha detto che la Ue sostiene la Grecia in tale sforzo, ma la Germania ha gelato le attese del mercato su ulteriori supporti concreti affermando che non offrirà aiuti alla Grecia in occasione dell'incontro di venerdì a Berlino tra il cancelliere Angela Merkel e il primo ministro greco George Papandreou.
"Voglio dire chiaramente che nell'incontro di venerdì non si parlerà di aiuti alla Grecia, ma delle buone relazioni fra i due Paesi", ha detto oggi la cancelliera Angela Merkel aggiungendo che la Grecia deve mettere in pratica le misure annunciate oggi.
"Ci aspettiamo la solidarietà europea adesso, che è l'altra faccia del nostro piano", ha detto oggi il primo ministro George Papandreou.
Nel dettaglio si tratta di tagli dei bonus salariali dei dipendenti pubblici, i premi verranno ridotti del 30%, e il rialzo dell'Iva di due punti percentali al 21%. Ci sono poi altri provvedimenti fiscali, quali l'incremento delle imposte su benzina, tabacco e alcolici, un'imposta una tantum sulle proprietà immobiliari, una tassazione sugli introiti e i beni immobiliari ecclesiastici, una nuova tassa sui beni di lusso, un prelievo una tantum dell'1% a coloro che nel 2009 hanno guadagnato oltre 100.000. Infine verranno ridotti del 30% gli straordinari del settore statale e verranno congelate le pensioni.
Papandreou ha anche detto ai membri del governo che se adesso l'Unione europea non dovesse fornire aiuti finanziari Atene si rivolgerebbe al Fondo monetario internazionale.
Il fondo ha accolto con favore le sostanziali" misure fiscali del piano ed ha sollecitato le autorità ad attuare le riforme necessarie per aumentare la produttività e la crescita.
La Grecia è sotto pressione da parte dell'Europa e dei mercati affinché tagli il deficit all'8,75 del Pil quest'anno dal 12,7% del 2009 ma secondo gli ispettori Ue il piano di austeriry riuscirà a metà a causa di una recessione che andrà oltre le attese.
Ieri il leader greco aveva rivolto un appello drammatico ai membri del partito di governo Pasok in cui paragonava la crisi finanziaria del suo paese a una guerra e annunciava misure dure e impopolari.
Se la Grecia non fosse in grado di prendere decisioni coraggiose per tagliare un debito di 300 miliardi di euro, 125% del Pil, metterebbe in pericolo tutta l'Europa, ha detto ieri Papandreou.
Sulla notizia proveniente da Atene l'euro si è rafforzato sui mercati valutari e i costi di finanziamento della Grecia si sono ulteriormente ridotti: lo spread tra i titoli greci a 10 anni e i bund tedeschi è adesso a quota 291 punti base, livello minimo da inizio febbraio.

"ESPLOSIONE SOCIALE"

Il principale sindacato del settore pubblico, che ha indetto uno sciopero per il 16 marzo, ha subito contestato la nuova manovra restrittiva.
"Protesteremo per le strade con tutte le nostre forze. Temo che ci sarà una esplosione sociale", ha detto il segretario generale Ilias Iliopoulos a Reuters.
Al centro di Atene circa 500 pensionati si sono diretti in corteo verso il ministero delle Finanze dando vita alla prima protesta contro le nuove misure.
Anche i dipendenti pubblici hanno in programma una manifestazione anti-austerity davanti il ministero.
Oggi i tassisti sono in sciopero e il sindacato comunista terrà una manifestazione di protesta in piazza Syntagma.
I sondaggi mostrano che il governo può contare sulla maggioranza dei consensi.
Secondo fonti governative europee Germania e Francia sono al lavoro su un piano di riserva in base al quale istituzioni finanziarie pubbliche acquisterebbero miliardi di euro di bond greci o sarebbero offerte garanzie statali alle banche commerciali che lo facessero.
S&P valuta il debito greco BBB+, due notches sopra il livello minimo, con un outlook negativo. Fitch ha accolto con favore il piano ma non ha intenzione di cambiare il suo rating BBB+ né l'outlook.
Moody's ha detto che le nuove misure di austerità danno credibilità alla manovra di aggiustamento di bilancio e sono coerenti con l'attuale rating A2, con outlook negativo.
Se anche Moody's, l'ultima agenzia di rating ad attribuire una A al debito greco dovesse abbassare la propria valutazione, i titoli di Stato greci non potrebbero più essere utilizzati come collaterale nelle operazioni di finanziamento presso la Banca centrale europea a partire dalla fine di quest'anno. Moody's ha però posto sotto osservazione per un possibile downgrade cinque delle principali banche della Grecia (National Bank of Greece (Francoforte: 876113 - notizie) , Efg Eurobank Ergasias (Francoforte: 919700 - notizie) , Alpha Bank (Xetra: 876116 - notizie) , Piraeus Bank e Emporiki Bank of Greece (Francoforte: 876577 - notizie) ).

MERCATO SCETTICO

Nel suo discorso di ieri, Papandreou ha messo in guardia i greci dall'illusione che un default sia uno scenario remoto e ha sottolineato come ogni giorno emergano nuovi buchi nel bilancio dello Stato.
Nonostante negli ultimi giorni la pressione dei mercati sulla Grecia si sia allentata, un sondaggio Reuters tra economisti mostra che è ancora profondo lo scetticismo sulla capacità del governo di centrare l'obiettivo di riduzione del deficit di quattro punti percentuali.
Solo 18 su 47 hanno risposto di credere che Atene ce la farà. La maggior parte prevede uno scenario in cui il governo riesce a realizzare solo parziali riduzioni del deficit.
 

Fonte - reuters

 

 

 

 

 

  Tra speculazione e fondamentali dove vanno le monete mondiali

03 Marzo 2010 21:44 – di Vittorio Carlini

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€uro debole fino a metà anno e U$D alla prova del debito

Il Financial Times, in prima pagina, mercoledì titolava: gli hedge fund pronti a scommettere contro l'euro. Forse, è il retropensiero dei maligni, il giornale della City vuole allontanare l'attenzione dalla sterlina inglese, che non se la passa troppo bene. Al di là della dietrologia, il futuro della moneta unica europea è comunque al centro della discussione. Tra le sale operative, e non solo, la domanda rimbalza costantemente: dove può andare l'euro? Per gli esperti di IntesaSanpalo: «Nel breve periodo, compreso tra 1 e 3 mesi, l'euro dovrebbe svalutarsi fino a quota 1,32, con possibile ulteriore discesa a 1,29». In seguito però, i problemi del deficit a stelle e strisce metteranno nuovamente sotto pressione il biglietto verde, «con la possibilità di ritorno dell'euro verso livelli tra 1,35 e 1,45». Un'impostazione condivisa da Maurizio Milano, responsabile analisi tecnica gruppo Banca Sella: «Il trend dominante è quello di un dollaro debole: nel breve periodo potremo vedere l'euro che scivola ma, poi, le nostre indicazioni sono per una sua ripresa». Un po' diversa l'idea di Fabrizio Quirighetti, capo economista di Bank Syz: «In generale, nel 2010, assisteremo ad un indebolimento della divisa unica europea contro il dollaro. A giugno il cross potrebbe assestarsi a quota 1,30 euro mentre a fine anno dovrebbe essere ancora più giù, in area 1,20». Insomma, le differenze non mancano.

Come mai questa questo convinzione sulla debolezza dell'euro? «La risposta è composita - dice Quirighetti -. In primis, nonostante il calmarsi dell'emergenza sulla Grecia, il tema del debito in Europa continuerà a restare fondamentale. È ben vero che gli stessi Stati Uniti hanno grosse difficoltà con il deficit di bilancio ma, al contrario di Eurolandia, le stime di crescita degli Usa sono migliori. L'incremento del Pil, la creazione di ricchezza permettono di ripagare il debito con minori affanni e impedire che diventi un problema strutturale. Cosa che, al contrario, non credo possa accadere in Eurolandia». Una visione quest'ultima, che come si è visto non coincide con quella degli esperti di Intesa SanPaolo.

Il differenziale dei tassi
Ma non è solo la cambiale di bilancio degli stati europei. «I tassi di riferimento della Bce -ricorda Quirighetti -rimarranno fermi all'1% per tutto l'anno; mentre la Federal reserve, passo dopo passo, alzerà i Fed fund fino a portarli oltre l'1 % nel dicembre prossimo». Perché questa dinamica? «In Europa i timori d'inflazione sono bassi; poi l'eventuale stretta, più che dalla banca centrale, è possibile arrivi dai governi». In che senso? «Prima o poi si dovrà iniziare a intervenire sul fronte della spesa per evitare che il debito vada fuori controllo: una situazione difficile già di per sé, che diverrebbe esplosiva con un rialzo del tassi della Bce». Quest'ultima, al contrario, avvierà il concreto smantellamento (almeno ci proverà) degli interventi straordinari a sostegno della liquidità. «In un simile scenario - afferma Quirighetti - lo stesso differenziale dei tassi, oggi a favore dell'Euro, verrà meno, rendendo più interessanti gli asset denominati in dollari».

Debolezza dell'Euro o forza intrinseca del dollaro?
Al di là delle diverse visioni sul lungo periodo, le dinamiche sono dettate più da movimenti di mercati o dai fondamentali? «Il movimento all'insù del biglietto verde - dice l'economista di Banca Syz - nel dicembre scorso era stato determinato dai buoni risultati sul mercato del lavoro negli Usa». Insomma, una forza della divisa a stelle e strisce, legata ad un "fondamentale" dell'economia. «Successivamente, invece, è intervenuta la "tragedia" greca ed è stata più la debolezza dell'euro ad incidere». E una conferma di questa situazione arriva proprio dalla disoccupazione Usa: Ben Bernanke, nell'ultima audizione al Congresso americano, ha parlato di una ripresa economica cui non corrisponde un altrettanto recupero di posti di lavoro. Cioè, il mercato del lavoro non migliora e questo avrebbe dovuto indebolire il dollaro che, al contrario, ha proseguito la salita.

La speculazione non incide..
«In futuro, però - riprende Quirighetti -, sarà di nuovo la forza relativa del dollaro a prendere il sopravvento». Ma la speculazione, non incide? «Non credo che possa definire il trend di lungo periodo di una valuta. Influenza sul breve: molti fanno tanti soldi con operazioni anche spericolate, ma l'andamento di fondo non viene distorto».

...o forse sì.
A ben vedere, l'impostazione dell'economista potrà essere corretta sul piano formale ma forse non tiene conto dell'amplificazione che la speculazione (aiutata dall'enorme liquidità in circolazione) realizza sui movimenti delle valute. Anche indirettamente. Per rendersene conto basta un esempio. Durante la fase iniziale della crisi greca, molti operatori hanno focalizzato la loro attenzione sui Credit defaul swap (Cds). I Cds, polizze sul rischio dell'emittente, sono (meglio dovrebbero) essere una sorta di termometro sullo stato di solvibilità del soggetto che ha emesso un bond. Questi derivati, però, sono scambiati su mercati Over the counter, cioè su piattaforme piuttosto opache. Ora, per soggetti dotati di una grande leva finanziaria, non è difficile spingere verso l'alto (o verso il basso) questi contratti, amplificando il loro movimento naturale. Si dirà: è una banale attività realizzata ogni giorno in Borsa. Vero. Ma è anche vero che se al balzare verso l'alto sono i Cds di un'emissione sovrana, ecco allora che la credibilità sulle finanze di quel paese viene indebolita. Si crea una spirale di sfiducia che può danneggiare la valuta dello stato stesso. È sucesso all'euro, con la Grecia, e potrebbe succedere con la sterlina in Gran Bretagna. Insomma la speculazione, si sa, da profondità al mercato ed è la norma nei mercati finanziari. Ma quando, come ormai è successo in tutto il mondo, l'economia reale è fortemente finanziarizzata, la speculazione incide sulla vita di tutti i giorni. E può creare gravi scompensi.

 

La sterlina spera nelle elezioni ma il deficit statale preoccupa. I debiti di Usa e UK non sono puniti dai mercati. Ecco perché

«God save the Queen»...e la sterlina, verrebbe da aggiungere. Mai come in questo momento si addensano nuvole scure sul pregiato conio di Sua Maestà. Ma, come il sole24ore.com ha da tempo rilevato, l'andamento del deficit di bilancio, unito al calo del Pil nonostante i forti interventi pubblici, mettono le finanze della Gran Bretagna in una situazione scomoda che, giocoforza, pesa sulla moneta.

«In questo caso -confessa Fabrizio Quirighetti, economista di Banca Syz - non faccio previsioni sull'andamento del cross. L'attuale volatilità del cambio impedisce di realizzare delle stime. Ciò detto, la nostra view è sul pound è negativa». Così come è negativa quella di Luca Mezzomo, capo ufficio studi di IntesaSanpaolo: «Noi pensiamo - dice l'economista - ad una svalutazione della sterlina fino a 0,92 contro l'euro in un periodo di tre mesi». Ma perché questo calo? «Londra - risponde Mezzomo - durante la crisi ha fatto ampio ricorso alla politica fiscale; di più, la Banca centrale d'Inghilterra ha utilizzato ampiamente le politiche straordinarie sulla liquidità. Ebbene, nonostante tutto ciò l'economia non ha avuto alcun balzo in avanti» come, per esempio, è successo nell'ultimo trimestre 2009 al Pil degli Stati Uniti (+5,9% annualizzato). A questo punto, con le armi della politica di bilancio spuntate, «la situazione sarà molto difficile da gestire» e la moneta ne risentirà.

Tra elezioni politiche e deficit di bilancio
Un appuntamento rilevante rimane, comunque, quello delle elezioni. «Il mercato - dice Quirighetti - è in una sorta di standby. Se alle votazioni risulterà una maggioranza forte, sia essa dei conservatori o dei laburisti, la via di uscita c 'è. Sarà possibile avviare quelle manovre di correzione di bilancio necessarie per superare il punto critico. Al contrario, se gli inglesi non manderanno in parlamento una coalizione forte i problemi aumenteranno. E non è da escludere anche una svalutazione pilotata della sterlina per aiutare l'export made in Great Britain».



La Cina svaluta lentamente ma il Drago è un illusionista

Capire le mosse del Drago non è facile. Un po' perché, in Cina, quando si crede di aver compreso una cosa ci si accorge che è tutt'altra. Un po' perchè Beijing spesso dà numeri e conti non troppo trasparenti: il trucco, o anche la semplice verosimiglianza, sono sempre dietro l'angolo.

Da dicembre, comunque, la Cina sembra aver chiuso la sua fase di politica espansiva per avviare quella restrittiva, sia sul fronte monetario sia su quello fiscale. «In quest'ottica - dice Asmara Jamaleh, esperta di mercati valutari di IntesaSanpaolo - l'apprezzamento dello yuan-renminbi è uno degli strumenti che potrebbero essere adottati». «Una mossa che contribuirebbe, in primo luogo, ad avviare il processo disinflazionistico; poi, a fornire un minore contributo alla crescita da parte delle esportazioni nette; infine, a evitare un surriscaldamento eccessivo dell'economia».

È ovvio che parlare di svalutazione dello yuan significa, giocoforza, non richiamare il libero mercato. Com'è noto, infatti, la divisa cinese è agganciata al dollaro americano. Una situazione che ha creato molte polemiche e frizioni tra Washington e Beijing: la Casa Bianca, infatti, ha spesso accusato di tenere fittiziamente sottovalutato lo yuan per favorire le esportazioni made in China.

Una svalutazione pilotata
Proprio per venire incontro alle richieste americane, prima della crisi, lo yuan era stato aggangiato ad un basket di monete (non solo al dollaro), facendolo apprezzare «di circa il 20% contro il biglietto verde», ricorda la Jamaleh. Tuttavia, nel periodio della recessione, la Cina ha smesso di far "salire" la sua moneta che adesso, di fatto, è di nuovo legata solo al dollaro. In questo senso il nuovo apprezzamento sarà costituito da una "strada" assolutamente pilotata dalla Banca centrale cinese: se il giorno precedente il cross yuan dollaro era 6,83, accadrà che «il giorno successivo verrà accettato un cambio di 6,80; e poi, ancora dopo di 6,78 e via così fino al raggiungimento dell'obiettivo». Che sarebbe prefissato a quale livelli ? «Noi crediamo che, nel giro di due anni, il cambio tra dollaro e yuan dovrebbe raggiunge quota 6,5 ».

Ma più nel breve periodo quando inizierà l'apprezzamento dello yuan? «Potrebbero esserci le condizioni per far tornare a salire la moneta, forse già a metà anno, e comunque nel corso del 2010. Come è stato dopo il 2005 potrebbe trattarsi di un apprezzamento graduale. Questo avrebbe il vantaggio di minimizzare - distribuendole nel tempo - le possibili ricadute sugli utili delle imprese esportatrici». E proprio di quest'ultimo punto sembra, ma non è ufficiale, si stia ocupando il governo di Beijing: sembra si stiano conducendo stress-test su un campione di imprese per valutare l'impatto sugli utili aziendali dopo l'apprezzamento dello yuan.



Lo Yen giapponese scenderà un aiuto all'export dell'isola

Da metà febbraio lo Yen ha avuto un piccolo sussulto: sembrava essersi deciso ad alzare un po' la testa. Un movimento all'insù causato essenzialmente dall'avversione al rischio; da una maggiore cautela degli investitori, dovuta alle prime avvisaglie di una ripresa economica non così forte e dai timori per l'esplosione dei conti pubblici dell'Occidente.

Questo sussulto, però, «non dovrebbe durare - spiega Asmara Jamaleh, esperta di mercati valutari di IntesaSanpaolo-. Entro il secondo trimestre dovrebbe rientrare, se non già addirittura a cavallo tra la fine dei primi tre mesi dell'anno e il secondo quarter. Con il che, il driver della moneta giapponese dovrebbe tornare quello "tradizionale": il differenziale tasso/rendimento rispetto alle altre valute». Ora, visto che il tasso ufficiale del paese del Sol Levante è dello 0,1%, la riconquistata "normalità" dovrebbe portare ad una debolezza dello Yen. «Crediamo- dice l'esperta- che la divisa nipponica, attualmente sui livelli di 88-89 verso il dollaro, nel giro di sei mesi raggiungerà quota 95».

Va detto che la banca centrale giapponese è assolutamente decisa ad adottare ulteriori misure di stimolo all'economia; senza dimenticare, poi, che il governo sta facendo pressione perché venga combattuto il principale problema del paese, cioè la deflazione, con tutte le armi possibili. Quindi anche politiche monetarie più espansive.

Il prossimo incontro della Boj è previsto il 17 marzo. Se in tale occasione queste misure verranno effettivamente adottate, quello potrebbe essere il momento in cui il cambio inizierebbe a scendere con maggiore forza.

Se, al contrario, la Banca centrale decidesse di prendersi una pausa di riflessione sull'adozione di nuove misure di stimolo, l'atteso deprezzamento della divisa verrebbe rinviato un po' nel tempo.

«Ma non verebbe compromesso - dice la Jamaleh -. Infatti, le altre principali banche centrali intraprendereanno le exit strategy e alzeranno i tassi prima della Bank of Japan. A quel punto i differenziali di tasso/rendimento inizieranno ad allargarsi a sufficienza, riportando gli investitori internazionali, e quelli giapponesi, a puntare di nuovo sull ricerca di rendimento, sfvorendo così lo yen». Un trend che aiuterà non poco l'export del paese del Sol Levante.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Venerdì 05 Marzo 2010   Lunedì 08 Marzo 2010   Martedì 09 Marzo 2010  
       
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La settimana, 9/2010

Friday, 5 March, 2010 at 16:37 - di Written by phastidio
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Settimana ancora dominata dagli eventi legati alla crisi greca. Mercoledì, il governo di Atene ha presentato un pacchetto aggiuntivo di misure di consolidamento fiscale, del valore di 4,8 miliardi di euro, nella forma sia di tagli di spesa (soprattutto sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti) che di nuove imposte, soprattutto nella forma di accise. Il deficit pubblico dovrebbe quindi scendere dal 12,7 per cento del 2009 all’8,7 per cento di quest’anno.
L’annuncio di nuove misure fiscali ha beneficiato il debito greco, che ha visto un marcato restringimento del differenziale con i titoli tedeschi e dei credit default swap sul rischio sovrano ellenico. Al forte movimento hanno verosimilmente contribuito anche alcune prese di posizione politiche ed iniziative di regolamentazione. Dapprima l’annuncio del Dipartimento della Giustizia statunitense, che sta indagando su un presunto trading contro l’euro attuato da alcuni hedge funds. In seguito, l’invito della Commissione europea a banche ed investitori a discutere le azioni da intraprendere riguardo l’operatività su credit default swap cosiddetti naked, cioè quelli dove l’investitore acquista protezione su una entità creditizia senza possedere titoli rappresentativi di quel rischio.
Il credit default swap greco ha quindi evidenziato un forte restringimento, che nella giornata di giovedì ha permesso al Tesoro greco di tornare sul mercato con il collocamento di un titolo di stato decennale per 5 miliardi di euro. La richiesta degli investitori è stata per un importo triplo, il classamento è avvenuto per il 90 per cento all’estero e presso gestori professionali del risparmio. Il successo dell’emissione non deve tuttavia far dimenticare che essa è avvenuta a tassi punitivi: tre punti sopra il tasso swap decennale, una cedola del 6,25 per cento, il maggior costo di una emissione di debito pubblico da quando la Grecia è entrata nell’euro, nel 2001. Con un simile costo del debito ogni manovra di consolidamento fiscale rischia di essere effimera, ed il paese potrebbe avvitarsi in una spirale di dissesto. Il problema è lungi dall’essere risolto, ma per il momento si può dire di avere acquistato tempo. Apprezzamento per l’iniziativa greca è stato espresso dal presidente dell’Eurogruppo, Juncker, e dal presidente della Banca centrale europea, Trichet, che si è anche detto contrario al coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale. Nel frattempo, dalla Germania si moltiplicano i no ad aiuti ad Atene.
Altro tema della settimana è quello della difficile situazione fiscale britannica, e del forte indebolimento della sterlina. Nella giornata di lunedì la valuta britannica ha subito un forte deprezzamento contro dollaro ed euro, causato dalla diffusione di sondaggi che prevedono un parlamento bloccato, senza chiara maggioranza tra laburisti e conservatori, alle elezioni generali di inizio giugno. La situazione di economia e finanza pubblica resta molto difficile: un deficit di bilancio di oltre il 12 per cento, simile a quello greco, ed una inflazione tendenziale al 3,5 per cento con un’economia che solo nell’ultimo trimestre dell’anno ha fatto segnare il ritorno ad una esile crescita.

 

  Employment Declines since the Recession Began  
     
... ...
 

Fonte - Macromonitor

 


Tra gli altri dati macro della settimana, il report sul mercato del lavoro statunitense in febbraio non ha apparentemente risentito delle avverse condizioni meteo. Nel mese sono stati persi “solo” 36.000 impieghi, a fronte di stime di una perdita di 68.000 posti. Le revisioni dei dati del bimestre precedente hanno aggiunto altri 35.000 posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è sceso lievemente, dal 9,8 al 9,7 per cento. Il mercato azionario ha accolto favorevolmente il dato, fornendo ulteriore spinta alle quotazioni. Si tratta di una lettura evidentemente ottimistica considerando che, a oltre due anni dall’inizio ufficiale della recessione, il mercato del lavoro sta ancora distruggendo occupazione, il numero di ore settimanali lavorate resta sui minimi storici, l’indicatore di sottoccupazione U-6 è tornato a crescere in febbraio ed il fenomeno (storicamente nuovo per gli Stati Uniti) della disoccupazione di lungo periodo non mostra segni di remissione.
Sui mercati, la temporanea attenuazione del rischio-Grecia ha consentito un vistoso recupero dell’azionario europeo, più marcato sui settori ad alto beta e maggiormente esposti al ciclo economico. Analogo movimento ha interessato anche gli indici di credito europei, con subordinati bancari e l’indice iTraxx Crossover tra i migliori. La temporanea dissipazione dei timori ha permesso una ulteriore riduzione degli indici di volatilità implicita, che ha permesso positive performance azionarie anche sui mercati statunitensi. Di riflesso, questa settimana il dollaro ha temporaneamente interrotto il proprio movimento di rivalutazione contro l’euro.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

EURO: QUALCUNO SALTERA'

09 Marzo 2010 14:10 NEW YORK - di WSI
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La previsione e' di Fitch. Escluso pero' uno smembramento dell'area. Appropriati i rating di Irlanda e Grecia. Occhi puntati sul Portogallo: l'outlook negativo. Uk e Usa, attenti al debito. E l' Italia...
Nell'Eurozona non e' da escludere che qualche stato membro possa saltare a gambe all'aria ma l'Unione restera' unita. E' questo l'avvertimento lanciato da Fitch Rating.

Brian Coulton, managing director e a capo della devisione che si occupa del debito sovrano di Europa, Medio Oriente e Asia per l'agenzia di rating, ha aggiunto che l'eventuale paese fallito non dovrebbe necessariamente lasciare l'Eurozona che, anzi, garantirebbe un porto sicuro.

L'agenzia specifica: Irlanda (AA- con outlook stabile) e Grecia (BBB+ con outlook negativo) si meritano gli attuali rating. "Penso che l'Irlanda abbia un rating appropiato cosi' come Atene per cui vale la stessa considerazione per l'outlook negativo", ha aggiunto Chris Prynce, direttore per i giudizi nell'Europa dell'Ovest. Invece, non si parla di Italia.

Il faro di Fitch resta puntato anche sul Portogallo, che ieri ha annunciato nuove misure di austerita' che gli analisti stanno passando sotto la lente di ingradimento. Per il momento l'outlook resta anche qui negativo con rating AA. "Francamente stiamo ancora osservando i dettagli del piano e abbiamo bisogno di piu' tempo per esaminarne i dettagli", ha detto Coulton specificando che "in linea generale i numeri sono piu' o meno in linea alle nostre attese, ma e' ancora troppo presto per dare un giudizio definitivo.

Nel dettaglio, Lisbona ha annunciato un piano per ridurre il deficit al 2.8% del Pil entro il 2013 dall'attuale 8.3%. Come intende raggiungere l'obiettivo? Tagliando la spesa per il pubblico impiego e alzando le tasse su alti stipendi e rendimenti legati all'attivita' di borsa. Il progetto, che deve ancora passare al vaglio di Bruxelles, ha l'obiettivo di dimostrare che il paese e' capace di tenere sotto controllo il crescente deficit e debito. Fattore fondamentale per gli investitori, che si interrogano se il Portogallo sara' il prossimo caso post Grecia.

Quanto agli Stati Uniti, Fitch avverte: sono vulnerabili a shock legati ai tassi di interesse. L'agenzia di rating si dice preoccupata della ristretta liquidita' disponibile. "Abbiamo dubbi sulla piu' stretta base di ricavi e la relativa volatilita' negli Usa", ha riferito Coulton. "Qui c'e' un problema di tipo fiscale che va necessariamente risolto", ha detto.

Preoccupazioni simili anche per l'Inghilterra, di cui si guarda il timing delle mosse di tipo fiscale. Non sembrano esser considerati sufficienti i provvedimenti adottati per migliorare la propria situazione finanziaria."Gli obiettivi di tipo fiscale devono essere indirizzati: non abbiamo osservato ancora questo tipo di atteggiamento", ha concluso Coulton nella conferenza londinese di oggi.

Il monito per il regno di Sua Maesta' va ad aggiungersi ad altri due paesi che, come esso, attualmente vantano la tripla A con outlook stabile: Francia e Spagna. Nel mirino i rischi connessi alla gestione dei conti pubblici. Le misure devono essere "piu' credibili" se non vogliono perdere l'attuale giudizio.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

I problemi di Obama e di Wall Street in quelle tre sedie vuote alla Fed

09 Marzo 2010 08:10 MILANO - di Mario Margiocco
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Scegliere amici dell'alta finanza o arcigni guardiani di Wall Street? Al momento ci sono tre sedie vuote fra i sette membri del Board della Federal reserve americana, che insieme a cinque governatori regionali rotanti formano l'Open market committee e decidono la politica monetaria di Washington. Le scelte del presidente Barack Obama potranno confermare o smentire le critiche di chi dall'ala progressista del partito democratico vede in Obama un deludente amico di una Wall Street che andrebbe rintuzzata, regolata e non, invece, accontentata. Come è stato fatto da Obama con la nomina a dicembre di Daniel K. Tarullo, un altro veterano di quell'Amministrazione Clinton che domina il personale dell'Amministrazione Obama. E con la riconferma di Ben Bernanke, erede di Alan Greenspan e chiaramente nei mesi scorsi il candidato di Wall Street.

Due delle sedie vuote sono quelle lasciate da alcuni mesi da Randall Kroszen e da Frederck Mishkin. La terza poltrona che si libera è quella del vicepresidente neodimissionario Donald Kohn, 67 anni, un'istituzione alla Fed, braccio destro prima di Greenspan e poi di Ben Bernanke, entrato come economista 40 anni fa e promosso, dall'interno, nel Board e poi alla vicepresidenza. Kohn è stato molto attivo e utile nella fase dell'emergenza finanziaria, negli ultimi due anni. Così come prima, in una precedente incarnazione, era stato campione dell'ortodossia dei mercati e della deregulation.

Fu Kohn, assieme a Lawrence Summers, oggi stratega economico di Obama alla Casa Bianca, a rintuzzare all'annuale convegno di Jackson Hole nel 2005 l'economista di Chicago Raghuram Rajan, che criticava lo spazio eccessivo lasciato ai derivati e prevedeva un momento – arriverà nel 2007-2008 – in cui le banche non si fideranno l'una dell'altra, non sapendo quanta spazzatura potrebbe avere sui libri contabili la controparte. Un'interpretazione sbagliata, dissero Summers e Kohn. E in contrasto, aggiungeva quest'ultimo, "con la tradizione di superiore politica della persona la cui era stiamo discutendo in questo convegno". Cioè Greenspan, celebrato quell'anno a Jackson Hole.

Con l'uscita di Kohn se ne va quindi un pilastro della vecchia Fed uscita malconcia dalla crisi finanziaria e dove, dalla periferia, si fanno sentire chiarissime voci critiche. Tom Hoenig, 63 anni, presidente della Fed di Kansas City, Missouri, dice da tempo che occorre una nuova disciplina del credito, bisogna avere banche più piccole che possano se necessario fallire, e che ripercorrere come sta avvenendo con eccessi di speculazione le strade che portarono alla crisi è inaccettabile. Richard Fisher, 60 anni, presidente della Fed di Dallas, è sulla stessa lunghezza d'onda e ha ricordato ancora nei giorni scorsi che se una banca è considerata too big to fail (la normativa in preparazione a Washington ne prevede una dozzina) vuol dire che occorre incominciare a portarla a dimensioni più gestibili. E non garantirle comunque protezione.

Sono posizioni contro cui Wall Street si batte senza esclusione di colpi. E su cui la Fed ha notevole potere, ora che superato con il sì del Senato alla riconferma di Bernanke il momento di maggior debolezza e cerca di riaffermare il proprio ruolo di supervisore. Per quasi 25 anni, dall'uscita di Paul Volcker nel 1987 in poi, la Fed è stata a fianco di Wall Street e un motore della deregulation.

Obama tuttavia non ha spazi facili di manovra per accontentare Wall Street e assicurarle un Board a tutta prova alla Fed. Se la destra lo accusa di "socialismo", l'ala progressista dei democratici lo accusa sempre più duramente di essere troppo sensibile ai desiderata dell'alta finanza. "Troppo timido nei confronti dell'industria finanziaria che ha sostenuto la sua campagna elettorale – ha scritto domenica in un'analisi al vetriolo l'ultraliberal Frank Rich del New York Times, - e troppo timoroso di sembrare un volgare partigiano del populismo". Antibancario.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Il Fme tra le modifiche al trattato Ue e la volontà politica delle capitali

10 Marzo 2010 18:03 MILANO - di Giuseppe Chiellino

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La necessità di modificare i trattati europei ha imposto un rinvio (che ha tutto il sapore dell'accantonamento) alla proposta del governo tedesco di costituire un Fondo monetario europeo per la gestione delle crisi finanziarie degli stati membri. A questo argomento, infatti, si è appellato martedì il presidente della Commissione, Josè Barroso, davanti all'Europarlamento, non senza sottolineare le «posizioni diverse» anche all'interno dello stesso paese. Il riferimento era proprio alla Germania, dove il presidente della banca centrale ha bocciato nettamente la proposta sostenuta, invece, dal governo. Ma anche l'esecutivo di Berlino, con la cancelliera Angela Merkel, nel dare il «pieno appoggio» al Fme ha comunque ricordato l'ostacolo dei trattati.
Ma è davvero così? Se si guarda alla lettera del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, l'articolo 124 fissa la 'famosa' clausola del no bail out e non lascia dubbi sul divieto di «accesso privilegiato» degli stati dell'Unione «alle istituzioni finanziarie». In pratica, nessuno può accollarsi il debito di un altro stato membro. Insieme agli altri paletti sui bilanci pubblici (rapporto debito/Pil e rapporto deficit/pil) la clausola punta ad evitare che gli squilibri finanziari di uno paese della Ue si propaghino agli altri.
In realtà il trattato offre qualche via d'uscita. «Altre disposizioni possono essere utilizzate per aggirare la clausola - spiega una fonte comunitaria - a patto però che esista la volontà politica di creare uno strumento temporaneo per proteggere i conti degli stati dalla speculazione dei mercati finanziari». In sostanza, quindi, non una copertura del debito pubblico di quei paesi che non rispettano i patti, ma uno strumento di immissione di liquidità nel sistema che aiuti a ritrovare la stabilità. Liquidità che puo' essere ritirata una volta rientrate le turbolenze.
Le vie d'uscita sono sia di carattere generale che specifiche per l'area euro. Nel primo caso, per esempio, sempre a patto che esista la volontà politica, gli attacchi speculativi nei confronti delle emissioni di uno stato sovrano (come è accaduto per i bond greci) o di una valuta (la sterlina) si potrebbe far ricorso all'articolo 122 del trattato che, al comma 2, prevede «l'assistenza finanziaria dell'Unione» ad uno stato membro «in difficoltà o seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo». La speculazione dei mercati finanziari può essere considerata, appunto una circostanza eccezionale fuori dal controllo dei governi.
Altra possibilità può essere individuata nell'articolo 125 secondo il quale il Consiglio Ue può «precisare le definizioni per l'applicazione» della clausola di no bail out.

Le vie d'uscita per eurolandia
Il trattato offre qualche escamotage riservato ai soli paesi dell'eurozona. L'articolo 136, infatti, prevede la possibilità che il consiglio Ue, «per contribuire al buon funzionamento dell'unione economica e monetaria» adotti misure per gli stati la cui moneta è l'euro, «con l'obiettivo di rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio» ma anche «di elaborare... gli orientamenti di politica economica affinché siano compatibili con quelli adottati per l'isieme dell'Unione, e garantirne la sorveglianza». Proprio ciò di cui la zona euro avrebbe bisogno in questo momento storico. Su queste misure, prevede il trattato, votano solo i paesi della zona euro.
Il dibattito per la creazione di nuovi strumenti di intervento europei è appena avviato. Come ha scritto Il Sole 24 Ore è "un percorso lungo tra insidie e dubbi". In particolare pesano alcune posizioni tedesche, quelle espresse dal presidente della Bunsebank, Axel Weber, e dal consigliere del comitato esecutivo della Bce, Jurgen Stark. Posizioni intransigenti che ricordano la forte opposizione della banca centrale tedesca all'ingresso della lira nell'euro sin dall'avvio della moneta unica. E che come allora, però, potrebbero essere superate. A patto che emerga una forte volontà politica nelle capitali. Un peso importante l'avranno sicuramente le opinioni pubbliche dei paesi virtuosi. Per rassicurarle sarà fondamentale chiarire da subito su chi peseranno i costi futuri del Fondo monetario europeo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Mercoledì 10 Marzo 2010   Venerdì 12 Marzo 2010   Domenica 14 Marzo 2010  
       
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Cinque senatori democratici provano a trasformare la Volcker Rule in legge

11 Marzo 2010 15:03 WASHINGTON - di Il Sole 24 Ore
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L'enfasi che Barack Obama ha messo sulla riforma sanitaria confonde l'ordine naturale delle priorità per Washington, ordine dominato da una lungamente attesa riforma finanziaria. Se le grandi banche continuano a essere mine vaganti, anche la migliore riforma sanitaria –e quella in dirittura d'arrivo e sospesa a un incerto voto della Camera è solo una mezza riforma – viene costruita sulla sabbia. Ma Obama aveva scelto come simbolo del suo primo mandato la sanità ben prima che la crisi di Wall Street rischiasse di travolgere l'America nell'autunno del 2008, e per una serie di ragioni ha deciso di non cambiare registro. Soprattutto non ha mai voluto antagonizzare troppo – se non verbalmente, un paio di volte - Wall Street, come invece fece a suo tempo Franklin Roosevelt.

Per fortuna, anche nostra data l'importanza che un riordino della finanza americana ha per i mercati globali, un gruppo di senatori democratici sembra deciso a mettere un po' di ordine.
Dalla Casa Bianca, troppo timida e acquiesciente verso Wall Street, non è venuta molta leadership sui temi finanziaria, salvo in un paio di occasioni. Nessuno ha mai offerto al paese una narrativa ufficiale di quanto era accaduto, perché, per responsabilità di chi. E quindi nessuno ha mai cercato di creare un consenso sulle cause, indispensabile per individuare i rimedi. Questo non è stato fatto per un motivo: il Paese ha due visioni contrastanti su cause e rimedi della peggior crisi finanziaria della sua storia (peggio del 29 come portata, ha detto lo stesso presidente Fed Ben Bernanke, anche se non nelle conseguenze). La visione di Wall Street è "sono cose che ogni tot annui succedono, e poi si riparte". La visione di Main Street è che è stato un massacro provocato dai grandi banchieri e a spese del ceto medio, che ha dovuto salvare la situazione.
Due volte Obama si è avvicinato a svolgere quel ruolo di mediatore fra le due visioni che gli compete come Presidente. Lo ha fatto a settembre parlando ai banchieri alla Federal Hall di New York, e lo ha fatto il 21 gennaio annunciando, dopo un anno di ostruzionismo della stessa Casa Bianca, il Volcker Rule, le regole basilari messe a punto dall'ex presidente della Fed, Paul Volcker. Nell'essenza, queste regole dicono che le grandi banche non possono avere la garanzia pubblica se sono troppo grosse, e se fanno investimenti a rischio. La conseguenza: snellimento di alcune banche, e regole più severe in particolare per i derivati.
Il 3 marzo l'esecutivo inviava al Senato la sua versione del Volcker Rule, annacquata perché affidava in certi casi (che sarebbero diventati facilmente la norma) l'interpretazione della fattibilità o meno di acquisizioni e fusioni al Tesoro.
Per fortuna cinque senatori democratici hanno steso la loro versione del Volcker rule, assai più stringente (Jeff Merkley dell'Oregon, Carl Levin del Michigan, Ted Kaufman del Delaware, Sherrod Brown dell'Ohio, Jeanne Shaheen del New hampshire) di quella inviata dal Tesoro. E oggi uno di loro, Kaufman, dovrebbe offrire parlando in aula quella lettura completa e chiara di cause e rimedi che lo stesso Obama, commettendo un errore gravissimo, non ha mai offerto. Non lo ha fatto per non rompere quell'alleanza con Weall Street che gli ha facilitato la vittoria su McCain e che è dimostrata dalla consegna delle leve dell'economie a uomini di provata fiducia – per Wall Street – quali Tim Geithner al Tesoro e Larry Summers direttore del National economic council.
«Senza un discorso definitivo, non c'è nessun punto di riferimento politico – dice l'economista Simon Johnson dell'Mit – non c'è convergenza nel dibattito, e non c'è neppure chiarezza su che cosa dovrebbe essere l'oggetto della discussione». Se Obama ha dei guai seri al momento, lo deve soprattutto al non aver voluto offrire questa chiara lettura agli americani. I quali, avendo perso nella crisi circa 15mila miliardi di dollari su un patrimonio famigliare complessivo di 60 mila, qualche richiesta ce l'hanno.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

La settimana, 10/2010

Friday, 12 March, 2010 at 16:29 - di phastidio
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Settimana non particolarmente densa di dati macroeconomici, tra i quali spicca l’indice cinese dei prezzi al consumo di febbraio, che ha raggiunto il nuovo massimo da 16 mesi, al 2,7 per cento annuale contro stime poste al 2,5 per cento. Altri dati cinesi riferiti allo stesso mese mostrano un andamento dei prestiti che, pur in ripiegamento, eccede le stime di consenso, prezzi alla produzione in ulteriore surriscaldamento e produzione industriale in crescita del 20,7 per cento nel primo bimestre del 2010, massimo da oltre cinque anni.
Prosegue quindi il surriscaldamento dell’economia cinese, sostenuto da una espansione dell’offerta di moneta che appare fuori controllo: la massa monetaria M2 in febbraio è cresciuta del 25,5 per cento, mentre il governo punta quest’anno ad una crescita di equilibrio del 17 per cento, il che significa che per rispettare il target dovrebbe procedere, nel resto dell’anno, ad una significativa stretta creditizia. Gli analisti internazionali sono preoccupati per la benevola noncuranza con la quale il governo sta gestendo il rischio-inflazione, definendolo “moderato”. Si moltiplicano nel frattempo i rumours sulla possibilità di una imminente rivalutazione dello yuan.
Tra gli altri dati macro della settimana, di rilievo quello della bilancia commerciale tedesca di gennaio, il cui surplus si è fortemente ridotto, passando da 13,4 a 8 miliardi di euro, per effetto di una crescita mensile delle importazioni del 6 per cento, e di un calo dell’export del 6,3 per cento. Anche se è evidente che un singolo dato non rappresenta una tendenza, esiste il rischio di una nuova frenata dell’attività e di un accumulo di scorte, questa volta involontario.
Negli Stati Uniti, il presidente Barack Obama ha scelto Janet Yellen, attuale presidente della Federal Reserve di San Francisco, per sostituire Donald Kohn come vicepresidente della Fed. Come Kohn, Yellen è considerata una “colomba”, favorevole al mantenimento di tassi d’interesse a livelli eccezionalmente bassi per un protratto periodo di tempo. L’equilibrio nel board della Fed tra falchi e colombe resterà quindi invariato. Tra i dati macroeconomici statunitensi, di rilievo quello sulle vendite al dettaglio, cresciute in febbraio dello 0,3 per cento, contro attese per un calo dello 0,2 per cento. Il dato aggregato mostra una revisione al ribasso per il mese di gennaio (da più 0,6 a più 0,1 per cento), ma a livello disaggregato risulta positivo e, soprattutto, non influenzato dalle avverse condizioni meteo del mese: al netto delle auto l’incremento mensile è infatti dello 0,8 per cento, mentre al netto di auto e carburanti il progresso è dello 0,9 per cento. Febbraio è il mese dei saldi e il dato, pur se destagionalizzato, può essere stato influenzato da campagne di sconto particolarmente aggressive. Le vendite di veicoli a motore sono tuttavia diminuite per il terzo mese consecutivo.
I mercati hanno fatto segnare un’altra settimana positiva, con l’indice S&P500 che ha eguagliato i massimi di gennaio. Molti indicatori tecnici segnano condizioni di ipercomprato di breve termine, ed anche gli indicatori di sentiment sono a livelli visti l’ultima volta prima di importanti correzioni dei prezzi. L’indice VIX, che misura la volatilità implicita nelle opzioni, continua a stazionare in prossimità di minimi di periodo, anche se negli ultimi giorni della settimana ha mostrato timidi tentativi di ripresa, ad indicare verosimilmente che gli operatori stanno iniziando a coprirsi dal rischio di ribassi. I fondi comuni azionari statunitensi si trovano a nuovi minimi nelle posizioni di liquidità, mentre gli indici di sentiment degli investitori americani, istituzionali ed individuali, sono a nuovi massimi di periodo. Tutte condizioni che abitualmente preludono a correzioni delle quotazioni. Anche gli indici di credito hanno seguito la generalizzata tendenza alla riduzione dell’avversione al rischio ed hanno evidenziato un’ulteriore compressione degli spread, tornati in prossimità di nuovi minimi di periodo.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Fme, l'Europa non toccherà quel fondo

12 Marzo 2010 10:12 MILANO - di Roberto Perotti

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A cosa serve il Fondo monetario europeo? Anche se non vi sono proposte precise al momento, sembra chiaro che dietro al progetto, recentemente sponsorizzato dal Governo tedesco di creare un istituto per interventi di stabilizzazione nell'eurozona, vi sono molte intenzioni diverse.
Per i minimalisti, il Fme servirebbe a migliorare il coordinamento delle politiche fiscali, da molti ritenuto necessario per il buon funzionamento della politica monetaria della Ue. Ma può essere vero esattamente l'opposto, perché un maggiore coordinamento diminuisce il costo delle politiche fiscali espansive e dunque crea incentivi a perseguire disavanzi di bilancio più alti. Se la Francia vuole espandere la spesa pubblica ma la Germania non la segue, parte dell'aumento della domanda francese beneficerà la Germania e genererà un disavanzo commerciale francese; se invece anche la Germania accetta di espandere la spesa pubblica («si coordina»), l'effetto sulla domanda aggregata sarà maggiore e la Francia eviterà un disavanzo commerciale.

Il secondo scopo del Fme è di fornire supporto a paesi in una crisi di liquidità, in cambio di un programma di risanamento fiscale. Perché questo scopo sia raggiunto, vi devono essere scenari in cui avviene un trasferimento di fondi ai paesi in crisi: altrimenti perché un paese si sottoporrebbe all'umiliazione e alle complicazioni di un programma di sorveglianza? Questo è ben noto, eppure molti supporter del Fme si affrettano a negare che esso preveda sussidi a paesi in crisi. Il motivo è chiaro: un Fme che eroghi sussidi implica dei costi notevoli per i paesi sani. Il primo costo è ovvio: i sussidi sono pagati dai contribuenti. Il secondo costo è più dilazionato nel tempo: l'erogazione di sussidi crea un problema di "azzardo morale", perché il fatto stesso che vi sia un'istituzione pronta a finanziare i paesi in crisi crea un incentivo per la finanza allegra.
Propagandare un Fme che risolva le crisi senza imporre questi costi è fuorviante. In realtà dietro ogni proposta sul tappeto vi è un sussidio, implicito o esplicito, e dunque un problema di azzardo morale. Prendiamo per esempio la seppur vaga proposta del capogruppo dei socialisti europei Poul Rasmussen: il Fme consisterebbe di "un fondo di riserva" tra i paesi membri dell'eurozona, e potrebbe anche prendere a prestito nei mercati del capitali. Dietro questa breve descrizione sembrano configurarsi due proposte molto in voga in queste settimane.

La prima proposta consiste nell'emissione dei famosi eurobond, da parte del Fme oppure, come nella proposta del primo ministro belga Yves Leterme, da parte di un'agenzia europea del debito. Anche qui mancano i dettagli, ma una versione diffusa sembra prevedere che i paesi europei emettano congiuntamente i bond per permettere ai paesi più piccoli di finanziarsi a tassi più bassi sfruttando la maggiore liquidità del sistema; per evitare un bailout, ogni paese rimarrebbe responsabile per la sua parte.
Non è facile capire come ciò possa avvenire in pratica, ma è facile vedere che in questa proposta c'è sicuramente un bailout implicito. Se per ogni euro di eurobond emessi 3 centesimi sono di "competenza" della Grecia, e se la Germania non può intervenire per salvare la Grecia, allora il tasso degli eurobond rifletterà il rischio di default sul 3% del valore dei titoli: la Grecia pagherà un tasso più basso dei suoi titoli attuali, e la Germania un tasso più alto (naturalmente la Grecia è un paese piccolo e l'effetto sugli altri tassi sarebbe limitato; ma il discorso sarebbe più complicato se al posto della Grecia ci fossero la Spagna o l'Italia). Se invece la Germania può intervenire per salvare la Grecia, allora l'effetto è equivalente a quello di un aumento del debito tedesco, cioè un aumento del tasso d'interesse tedesco. Il problema fiscale greco è diventato dunque un problema fiscale europeo. Ecco perché i trattati proibiscono il salvataggio di un paese: al contrario di quanto molti affermano, questa clausola ha lo scopo di facilitare la conduzione della politica monetaria, non di renderla più difficile.

La seconda componente della proposta di Rasmussen e altri sembra essere simile a una recente proposta di Daniel Gros e Thomas Mayer. Il fondo d'intervento dovrebbe essere alimentato soprattutto dai contributi dei paesi che violano i parametri di Maastricht: un meccanismo di mutuo soccorso fra paesi a rischio con lo scopo di limitare l'intervento di Germania e Francia, e dunque mitigare il problema dell'azzardo morale. Ma questa soluzione è utopistica: secondo i calcoli degli stessi autori, la Grecia avrebbe accumulato risparmi presso il fondo per meno di un punto di Pil, una quantità irrilevante nella crisi odierna. Ancora una volta, non si può uscire dal dilemma: per funzionare, questo meccanismo deve poter contare su Francia e Germania, quindi deve prevedere un flusso di fondi verso i paesi in crisi.
Un terzo scopo del Fme è quello di fornire un meccanismo per rendere un default (nel caso avvenga) meno traumatico, garantendo una parte del debito. Ma anche qui il vantaggio è in gran parte illusorio: se un paese va in default, le somme necessarie per garantire una parte del suo debito sarebbero considerevoli. Il meccanismo di mutuo soccorso visto sopra sarebbe ancora più inadeguato.
In tutti questi casi il problema è sempre lo stesso: un intervento o un'istituzione che non possa effettuare trasferimenti considerevoli a un paese in crisi non serve a niente. Per essere efficace, ha bisogno della Germania e della Francia, ma allora il problema dell'azzardo morale non può essere ignorato.
Alla fine, l'argomento principe a favore del Fme è che esso metterebbe a disposizione un protocollo sperimentato in caso di crisi, più o meno come fa già il Fondo monetario internazionale. Ma non è ovvio che ciò che manca ora in Europa sia la competenza in caso di crisi. Tutti sanno di cosa ha bisogno ora la Grecia: una dose da cavallo di rigore fiscale. E tutti sanno che il problema è politico. L'Europa ha già, in teoria, strumenti abbastanza forti per costringere un paese a seguire le regole di Maastricht. Il fatto che siano rimasti inapplicati è comprensibile, ma un Fme senza il potere di trasferire fondi non cambierebbe di una virgola la situazione: sarebbe soltanto un'ennesima sigla e organizzazione in più, che complicherebbe ulteriormente le negoziazioni nei momenti critici. Se invece avesse il potere di trasferire fondi - tanti fondi - potrebbe essere diverso: ma allora sarebbe anche diverso dal Fme che si sta pubblicizzando; sarebbe anche potenzialmente dannoso, e in ogni caso politicamente infattibile.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Lunedì 15 Marzo 2010   Mercoledì 17 Marzo 2010   Giovedì 18 Marzo 2010  
       
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  Controlli sui capitali, svolta storica?

March 15th, 2010 by editor – di Mario Seminerio

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Nel suo ultimo articolo, scritto per Project Syndicate, Dani Rodrik (economista eterodosso come può esserlo chi si discosta dai precetti di assoluta libertà dei movimenti di capitale) segnala un importante mutamento di rotta da parte del Fondo Monetario Internazionale, che lo scorso 19 febbraio ha pubblicato una nota di policy in cui si sostiene che tassazione e restrizioni sugli afflussi di capitale possono essere utili, oltre a rappresentare uno strumento “legittimo” dell’armamentario dei policymaker.

Si tratta di una dichiarazione per molti aspetti storica, che sovverte quella che per almeno due decenni è stata la granitica posizione ufficiale del FMI, reiterata non più tardi dello scorso novembre dallo stesso direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, in reazione alla tassa imposta dal governo brasiliano sulle transazioni finanziarie in entrata nel paese, nel tentativo di contrastare gli afflussi di “denaro caldo” speculativo. Questi afflussi valutari determinano non solo una pressione rialzista sul cambio dei paesi coinvolti, minandone la competitività, ma anche una più generale tendenza all’instabilità dei rapporti di cambio, che spesso finiscono con l’assumere andamenti esplosivi, al venir meno delle condizioni che hanno causato gli afflussi valutari, danneggiando lo sviluppo di Pil ed occupazione.

Il FMI fornisce l’elenco dei paesi (tra essi Cile, Colombia e Malaysia) che sono riusciti ad imporre controlli valutari efficaci, e Rodrik specifica che occorrerebbe un approccio contingente alla materia, poiché non tutte le tipologie di controlli (tasse, vincoli quantitativi, requisiti di riserva infruttifera) possono adattarsi alle caratteristiche istituzionali e burocratiche dei paesi interessati. Rodrik si spinge ad invocare la creazione di un ambito di ricerca ed advisory, entro il FMI, proprio per identificare a livello contingente le misure più efficaci per ogni paese coinvolto.

Caduto lo stigma dei controlli di capitale, argomenta Rodrik, il prossimo passo è l’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie globali, dall’aliquota estremamente contenuta (suggerito lo 0,05%), ma tale da raccogliere centinaia di miliardi di dollari, oltre a scoraggiare attività speculative di brevissimo termine sui mercati. Quella che fino a ieri sembrava un’eresia oggi potrebbe essere vista sotto una luce diversa. Si pensi alla criticità delle operazioni di carry trade, recentemente segnalata anche da Oscar Giannino, come esito dell’attività di trading finanziario globale. Oppure al compito titanico, oltre che potenzialmente devastante sul piano sociale, che i governi dovranno affrontare nel tentativo di colmare le voragini aperte nei conti pubblici per effetto della crisi, che ha causato un crollo di gettito fiscale e l’espansione di programmi di sostegno ai disoccupati.

Gli squilibri valutari globali che caratterizzano la nostra epoca sono frutto del combinato disposto di una forte creazione di liquidità da parte delle banche centrali (segnatamente della Fed) e dell’affermarsi di un’innovazione finanziaria sempre più sofisticata, sia nelle forme tecniche contrattuali che nell’utilizzo della tecnologia, in mercati interconnessi in tempo reale. Una tassa sulle transazioni valutarie servirebbe ad aumentare il grado di “attrito” del sistema finanziario, riducendone l’intrinseca instabilità macroeconomica. Oggi, per contrastare il potenziale destabilizzante indotto dall’hot money, occorrerebbe pensare ad un’operazione di drenaggio della liquidità che, realisticamente, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Esiste, per contro, l’interesse convergente di molti paesi sviluppati e dei paesi emergenti. I primi, come detto, piagati da deficit di bilancio che, in assenza di crescita appaiono non recuperabili per via ordinaria; i secondi interessati a non vedere deragliare il proprio processo di decollo economico per opera di fondi volatili che per definizione hanno poca o nulla attinenza con la crescita.

Resta la risoluta opposizione degli Stati Uniti ad ogni ipotesi di tassazione dei flussi finanziari internazionali, recentemente ribadita dal Segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Una posizione che potrebbe essere rivista, se la crisi continuerà a devastare i conti pubblici, e data la conclamata incapacità a riformare le istituzioni finanziarie globali per controllare o attenuare il rischio sistemico da esse generato. Per ora ci basta constatare che il FMI ha abiurato da quello che da sempre rappresentava il suo primo dogma. Viviamo tempi decisamente interessanti.
 

Fonte - Epistems.org

 

 

 

 

 

La stretta sulla finanza al vaglio del Senato Usa

15 Marzo 2010 16:59 MILANO - di Mario Margiocco
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Non c'è nulla come la riforma finanziaria che fornisca un ritratto della Washington del 2010, la Washington di Barack Obama e delle solide, nei numeri, maggioranze democratiche al Congresso. Rischia moltissimo di essere una riforma solo a parole, e una conferma dello status quo nei fatti (leggi il dossier).

Già il testo votato l'11 dicembre dalla Camera, che partiva dalle proposte presentate nel giugno 2009 da Casa Bianca e Tesoro e pilotato dal presidente della Commissione servizi finanziari, Barney Frank, 69 anni, è giudicato gravemente insufficiente nei due nodi principali: la dimensione delle banche, che non possono superare certe dimensioni se la mano pubblica deve comunque come indica il testo salvarle, e le regole per il mercato dei derivati, che non possono più facilmente mettere a rischio le banche, se la mano pubblica deve salvarle. Un'impostazione che sembra prendere piede anche in Europa (leggi il dossier).

Cambiamenti solo formali
Negli Stati Uniti, comunque, dopo l'approvazione da parte della Camera tocca adesso al Senato. La Camera Alta partirà dalla bozza di testo messa a punto da Chris Dodd, e sul quale centinaia di lobbisti dell'alta finanza si sono esercitati come hanno fatto in autunno alla Camera, rischia di essere una conferma dello status quo. Con tutti i pericoli connessi. Tre le obiezioni, nell'ondata di critiche che provengono soprattutto da sinistra (i repubblicani difficilmente attaccano Wall Street, e poco lo fanno da circa 15 anni anche molti congressmen democratici). Non intacca i poteri della Fed, che pure lo stesso Dodd giudicava un anno fa "un fallimento abissale"; anzi, assegnerebbe alla sfera Fed il controllo della nuova Agenzia finanziaria per la protezione del consumatore, che non avrebbe più piena e insindacabile capacità di intervento, come volevano i suoi primi ideatori.
Mantiene in vita l'attuale sistema di rating delle varie Moody's, Fitch e simili, che hanno avuto una performance fallimentare regalando triple A a destra e manca, e sono state tra le realtà meno scalfite anche nel testo della Camera. E infine anche se a differenza del testo della Camera sembra porre fine al problema delle banche too big to fail, in realtà proietta la soluzione in un imprecisato futuro e accuratamente cassa tutte le proposte, esistenti al Senato, che affronterebbero rapidamente il problema.

La Fed vincitrice della partita
Questo equivale a un rifiuto del Volcker Rule, le regole abbracciate dallo stesso Obama il 21 gennaio, dopo la clamorosa sconfitta elettorale nel Massachusetts, e che hanno la dimensione delle banche come uno dei due nodi centrali. Come già riportato da Il Sole 24 Ore online, cinque senatori stanno cercando di inserirle in modo inequivocabile. La necessità di nuove regole finanziarie è evidente perché occorre ristabilire la fiducia nel pubblico. Ma testi come quello di Dodd, che proclamano la riforma ma non ne attuano nessuna significativa, dicono i numerosi critici, peggiorano soltanto la situazione. Solleva perplessità il fatto che il testo faccia della Fed, cui verrebbe assegnata la supervisione di tutte le banche con assets superiori ai 50 miliardi, il vero vincitore della partita. Dopo che la Fed con Greenspan e poi anche con Bernanke è stata, probabilmente, il maggiore responsabile. E questo senza nessuna riforma significativa dell'istituto di emissione, riforma che sarebbe peraltro al momento molto problematica. Il cambiamento è radicale, perché una prima versione di Dodd avrebbe spogliato la Fed di molti dei suoi – non esercitati dal 2000 in poi – poteri di controllo.
«Sul tema centrale, il too big to fail, non c'è nulla di significativo», osserva l'economista dell'Mit ed ex capo economista del Fondo, Simon Johnson, osservatore costante e critico impietoso di come Washington non riesca ad affrancarsi dai desiderata di Wall Street.
 

 

 

 

I timori di Draghi e Strauss-Kahn sulle resistenze alle riforme dei mercati

17 Marzo 2010 12:32 MILANO - di Antonio Pollio Salimbeni
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La resistenza a regolare le transazioni finanziarie che oggi sfuggono al controllo sarà forte, dice Mario Draghi. Vale innanzitutto per il mercato dei derivati e, in questo ambito, dei credit default swap, con la crisi greca al centro dell'agenda politica europea. Sono preoccupato, dice Dominique Strauss-Kahn perché più la situazione migliora e più si indebolisce la spinta a cambiare. Per quanto si tratti di affermazioni espresse con toni felpati, è l'allarme è innegabile. Draghi guida il Financial stability board, Strauss-Kahn il Fondo monetario internazionale. Il primo ha il compito di ridisegnare le regole della finanza globale, il secondo esercita la sorveglianza. Entrambi rispondono ai loro 'azionisti' che sono i governi i quali, nell'ambito del G20, devono dare il via libera alle regole e verificare che tutti le rispettino. E' dunque ovvio che se l'allarme arriva da loro va preso sul serio.

Draghi: riforme troppo lente
Il bersaglio di Draghi è la lentezza con cui si sta completando la riforma delle regole: dopo le agenzie di rating e la supervisione a livello europeo, oggetto di negoziato tra Ue ed Europarlamento, ci sono gli hedge fund (l'Ecofin ha appena rinviato la decisione data l'opposizione britannica), il 'trading' dei derivati da centralizzare nell'Eurozona, settore che nel mondo ha un valore di 600mila miliardi di dollari che per l'80% sfugge a qualsiasi controllo, un minimo comune denominatore a livello globale per gestire il fallimento delle banche a carattere sistemico, il lavoro sui requisiti di capitale in corso a Basilea per prevenire le crisi. Ci sono interessi forti e consolidati, ha detto il governatore Bankitalia, che remano contro la centralizzazione della regolazione delle transazioni dei derivati (che la Bce vuole nell'Eurozona e non a Londra). Tra i settori che resistono anche le banche, che in tale prospettiva perderanno dei soldi, dice Draghi.
Ci sono pressioni per diluire le riforme e "dobbiamo stare in guardia". Che i contrari si annidino nell'industria finanziaria "per preservare vantaggi concorrenziali non sorprende, ma tali pressioni sono evidenti anche nell'esitazione di alcuni paesi, esitazione più forte là dove il punto di partenza è più debole".

La conclusione del governatore è che sarebbe un grave errore permettere che ciò porti in futuro a standard deboli. Ecco perché va mantenuta la pressione alta, niente a questo punto può essere concordato e attuato "senza il sostegno dei leader politici nazionali e di quelli che devono decidere".

Strauss-Kahn: bisogna evitare interventi non coordinati
Anche il direttore del Fmi, Strauss-Kahn mette sotto tiro le resistenze a mantenere il ritmo delle riforme della finanza: "Accadrà che i paesi cominceranno a risolvere i problemi a casa propria, proporranno riforme sistemiche che vanno in direzioni diverse e a velocità diverse con il grande rischio che ciò si traduca in politiche non coordinate, distorca i flussi di capitale e induca agli arbitraggi regolatori (le transazioni si effettuano là dove ci sono meno vincoli - ndr)". Sta già accadendo. Nell'ultimo periodo sembra scattata la corsa alle azioni unilaterali con il risultato che in qualche misura tutti diventano ostaggio di tutti: Londra e Parigi con la tassazione dei bonus dei banchieri; Washington con il divieto per le banche che raccolgono risparmio di comprare e vendere strumenti finanziari per conto proprio (proprietary trading) e la proibizione di investire in hedge funds e private equity; l'Europa non vuol sentir parlare di 'ricetta Volcker' (le misure restrittive per le banche americane confezionate dall'ex presidente della Fed), punta tutto sulla stretta sui requisiti di capitale delle banche e ora cerca di capire se é possibile bandire i credit default swap legati al debito sovrano. E' diventato quasi un percorso a ostacoli, peraltro l'Europa è fortemente divisa, a sua volta ostaggio del blocco britannico sulla regolazione degli hedge fund (complice il probabile cambio della guardia a Downing Street entro l'inizio dell'estate) e con l'Europarlamento che dovrà pronunciarsi sulle nuove regole di supervisione finanziaria.
Il secondo bersaglio di Strauss-Kahn riguarda la macro-economia: il G20 ha indicato come "alta priorità" assicurare che la crescita del dopo-crisi sia più equilibrata. E' ora che i governi ci mettano le mani. Vuol dire una cosa semplicissima (ma difficilissima da realizzare): le economie che hanno deficit di parte corrente persistente, come gli Usa e diversi paesi europei, devono risparmiare di più e le esportazioni devono contribuire di più alla crescita; i paesi che hanno persistenti surplus, come Cina, Germania e molti produttori petroliferi, devono accrescere la domanda interna sostenendo i consumi. (Agenzia Radiocor)

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

IMMOBILIARE USA, IN ARRIVO UNA SECONDA RECESSIONE

17 Marzo 2010 14:00 NEW YORK - di WSI
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Il vero problema sta nei prodotti della finanza creativa: i mortgage-backed securities. Se la Fed smette di comprarli, resteranno invenduti. Restera' deluso chi si aspetta la normalizzazione.
Un settore, quello immobiliare, nuovamente con il freno a mano tirato mentre i Titoli di Stato si preparano a un nuovo ritracciamento. Stessa sorte anche per i famigerati Mortgage-backed securities (MBS), quei prodotti di finanza creativa frutto della trasformazione di debiti ipotecari in titoli negoziabili sui mercati, con annessi tutti i rischi (di credito, se il debitore ultimo fallisce, e di liquidità se il mercato viene paralizzato dall'incertezza sull'effettivo valore dei titoli).

Non ha dubbi Meredith Whitney, l'analista diventata famosa durante la crisi finanziaria per la sua visione particolarmente pessimista, soprattutto sul settore bancario.
"Il settore immobiliare sicuramente ripiombera' un una seconda recessione", ha preannunciato ai microfoni di Cnbc l'a.d. di Meredith Whitney Advisory Group. Dal suo punto di vista i programmi governativi a supporto del comparto residenziale sono stati piuttosto "opachi" e quando il loro contributo verra' meno, l'offerta eccedera' la domanda dando il via a nuove flessioni del real estate.


"I prezzi che si osservano per Treasury e MBS suggeriscono una concreta correzione. Gli unici a mettere in portafoglio i titoli garantiti da un insieme di prestiti ipotecari sono Fed e banche. Questo fa capire quanto la situazione sia precaria", ha aggiunto l'esperta che avverte: "se la Banca Centrale americana si tira indietro e' un vero problema...perche' non ci sono acquirenti sostitutivi".

Tra le righe del suo discorso, si legge anche l'insuccesso delle mosse adottate dal team di Ben Bernanke, pensate per aiutare il sistema bancario a patto che tornasse a erogare credito. Secondo Whitney, la Fed non puo' far si' che le banche aprano nuovamente i rubinetti dei prestiti. Il perche' e' semplice: il business model del settore finanziario in uso prima della crisi e' rotto.

Prima dello scoppio della crisi, ha spiegato l'esperta, le banche erano in grado di offrire alla loro clientela mutui a basso costo grazie al fatto che facevano soldi trasformando proprio questi prestiti i nuovi prodotti, rivenduti sul mercato. Ora pero' che il mercato della cartolizzazione dei crediti e' praticamente fermo, non c'e' stato un incremento dei mutui alla clientela. Almeno non a sufficienza per compensare la flessione dei ricavi degli istituti. Ecco perche' le banche hanno operatori in modo difensivo negli ultimi due anni.

Non e' un caso, dunque, che si guardi da vicino qualsiasi decisione da parte della Fed sull'acquisto di mortgage-backed securities, la cui voce pesa per un terzo sul suo bilancio.

Altra stangata sul futuro del settore bancario: i profitti messi a segno l'anno scorso, e legati alle performance del mercato dei capitali, non sono "replicabili". "Coloro che si aspettano una normalizzazione dello scenario resteranno delusi", ha avvertito Whitney. "La normalita' non sara' quella osservata negli ultimi 20 anni", ha aggiunto.

A chi le ha chiesto cosa la farebbe diventare rialzista, Whitney ha ammesso di essere ottimista su alcuni istituti finanziari, senza pero' fare nomi, e di essere bullish sul settore dei sistemi di pagamento.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

ANALISI/ Rischio Shanghai sui listini mondiali

17 Marzo 2010 14:17 MILANO - di Walter Riolfi
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È la Cina che preoccupa», lamentavano nel pomeriggio di lunedì gli operatori di Wall Street vedendo scendere l'S&P in simpatia, così sostenevano, con l'ennesima scivolata dell'indice di Shanghai. Ma queste lamentazioni sono per lo più di maniera: perché già nella serata di lunedì i trader avevano cambiato idea, argomentando sulla presunta bontà del piano Dodd (regolamentazione del sistema finanziario). Allo stesso modo, ieri, alla notizia che S&P aveva mantenuto un rating invariato sulla Grecia, Wall Street ha superato in entusiasmo la stessa Europa: sebbene avesse mostrato una certa indifferenza per i problemi dei debiti sovrani nel Vecchio continente. Eppure la Cina potrebbe davvero essere fonte di preoccupazione e non sorprenderebbe che una nuova sindrome cinese finisse per turbare i mercati finanziari mondiali nei prossimi mesi. Come se non bastassero i problemi sul debito greco e il possibile contagio ad altri stati europei.

Invece il problema della Cina parrebbe essere opposto, una crescita troppo rapida e che per molti economisti starebbe creando delle bolle speculative: sugli immobili, sulla valuta e, secondo alcuni analisti, anche sulla borsa. Se il pericolo più grande, ma più lontano, è lo scoppio di una nuova crisi economica e finanziaria, quello immediato è il risorgere dell'inflazione, come segnalerebbe l'incremento del 2,7% su base annua registrato a febbraio. Ci sarebbe un'altra questione che accomunerebbe la locomotiva cinese alle zoppicanti economie dei paesi sviluppati: l'enorme e crescente debito pubblico. Partiamo dalla presunta bolla immobiliare.
Per comprare una casa di 90 metri quadrati a Pechino, nel quartiere di Chaoyang, un'area residenziale, due chilometri a est di piazza Tiananmen, un cittadino dovrebbe spendere una somma pari a 80 volte il salario medio degli abitanti della capitale. Il costo per metro quadrato in uno di quei grandi palazzoni sorti come funghi negli ultimi 4-5 anni varia dai 3mila ai 4mila euro. Sono i prezzi di Milano nella prima cerchia attorno al centro storico. E non è il quartiere più caro, perché a Xichang si superano agevolmente i 4mila euro e nello Haidian (a ovest di Tiananmen) si possono superare i 5mila €. Se si pensa che un salario medio è attorno ai 600 € mensili, l'acquisto di una abitazione è diventato proibitivo, anche attraverso un mutuo. Come nota un analista di Nomura, il costo di una rata assorbirebbe il 60-70% del salario mensile di un medio cittadino. Nelle 70 maggiori città del paese i prezzi sono cresciuti dell'8% in un anno. Ma a Pechino, Shanghai e Shenzhen sono volati del 33%, più che raddoppiando in tre anni. Una buona parte dei 1.300 miliardi di $ prestati dal sistema bancario nel 2009 sono serviti per finanziare le costruzioni. Lo sanno bene le autorità di Pechino che adesso stanno cercando di contenere il fenomeno con una serie di misure restrittive sul credito.

Il secondo problema è il renmimbi, la valuta cinese, che è artificialmente legata al dollaro. Secondo il premio Nobel Paul Krugman, sarebbe sottovalutata tra il 20 e il 40%, creando in tal modo un enorme danno commerciale agli Usa e agli altri paesi occidentali. Il risultato è un accumulo di riserve valutarie pari a 2.400 miliardi di $ che s'incrementano a ritmi 10 volte maggiori rispetto a 7 anni fa. Può aver problemi un paese con così grandi riserve? Sì rispondo molti economisti: non avevano altrettanto grandi surplus gli Usa negli anni 20 e il Giappone a fine '80? Inoltre l'opacità delle statistiche cinesi sottostima la reale entità del debito pubblico (considerando anche quello delle banche, dei governi locali e dei numerosi veicoli d'investimento finanziati dallo stato), cosicchè il valore che si ottiene sarebbe vicino al 100% del Pil e non al 22% stimato dal Fmi. Per questo l'economista Kenneth Rogoff non esclude una recessione in Cina, come conseguenza delle bolle speculative. Forse l'aspetto meno preoccupante è adesso la borsa che, dopo il massimo relativo dello scorso agosto, è tornata ai livelli di 9 mesi fa.
 

 

 

Dollaro ed euro hanno poco da guadagnare dalla rivalutazione dello yuan

18 Marzo 2010 12:25 SHANGHAI - dal corrispondente Luca Vinciguerra
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SHANGHAI – La rivalutazione dello yuan avrebbe effetti disastrosi sulle migliaia di aziende cinesi labour intensive che esportano i loro prodotti in giro per il mondo. È l'allarme lanciato dal China Council for the Promotion of International Trade. Dopo aver girato a lungo intorno al problema, Pechino va al nodo della questione e spiega perché si oppone tanto risolutamente allo sganciamento dello yuan dal dollaro.
Oggi come dieci anni fa, il punto di forza della Cina è sempre lo stesso: la capacità di un esercito sterminato di piccole aziende di produrre merci e di venderle sui mercati esteri con margini di profitto ridotti all'osso, contando su costi della manodopera bassissimi. "Se lo yuan dovesse apprezzarsi, queste imprese rischierebbero il fallimento poiché lavorano già con profitti molto compressi", avverte chiaramente la potente associazione imprenditoriale cinese.

Effetti pesanti anche da un ritocco modesto
Insomma, un ritocco verso l'alto della moneta cinese, anche di dimensioni modeste, oggi ridurrebbe drasticamente la competitività delle società cinesi ad alta intensità di lavoro ed elevata propensione all'export, tagliandole fuori dai mercati internazionali. A pagarne il prezzo non sarebbero solo le aziende che producono magliette, scarpe, mobili, piastrelle e gadget da detersivo. Ma anche i settori manifatturieri posizionati più in alto nella catena del valore, come per esempio la cantieristica navale.

Per la nomenklatura pechinese, che sta giusto tirando un sospiro di sollievo assistendo alla ripresa del made in China dopo un 2008 da dimenticare, sarebbe una sciagura. Ecco perché Pechino continua a respingere ostinatamente tutte le pressioni sul dossier yuan in arrivo dagli Stati Uniti. E il fatto che, negli ultimi giorni, anche l'Unione Europea e la Banca Mondiale si siano accodati a Washington reclamando una rivalutazione in tempi rapidi del renminbi non cambia i termini della questione. I destini economici, politici e sociali della Cina restano legati alla capacità di penetrazione delle sue esportazioni. Almeno per ora, quindi, il valore dello yuan non si tocca.

Costo del lavoro che cresce a vista d'occhio
È vero, il paradigma labour intensive sul quale la Cina ha costruito le proprie fortune sta cambiando. Per diverse ragioni. Perché il costo del lavoro in Cina sta lievitando a vista d'occhio, giacché le braccia a basso costo prestate generosamente per due decenni dalle campagne ai grandi bacini industriali iniziano a scarseggiare. Perché la prima rivalutazione dello yuan dell'estate 2005 (da allora fino all'agosto 2008, quando Pechino ha de facto riagganciato la propria moneta al dollaro, la moneta cinese ha guadagnato il 18% sul biglietto verde) ha già costretto molte imprese a cambiare pelle e a spostarsi su produzioni a più in alto valore aggiunto. E perché il Governo, volendo assolutamente spezzare la dipendenza del paese dalle esportazioni, ha fatto una chiara scelta politica in questa direzione.

Gli effetti controproducenti delle lezioni di libero mercato
Il processo è avviato. Ma servirà ancora tempo. E in questo quadro fragile e incerto, le pressioni e le lezioni di libero mercato impartite a getto continuo da Washington rischiano di avere solo effetti controproducenti.

Con ogni probabilità, se le esportazioni cinesi continueranno a tirare anche nei prossimi mesi, prima dell'estate Pechino sgancerà lo yuan dal 'peg', cioè l'aggancio al dollaro, e tornerà a farlo flottare dentro una banda di oscillazione, magari anche più ampia rispetto a quella vigente tra il 2005 e il 2008.


Rischio delusione
Ma niente di più. Chi si attende rivalutazioni consistenti della moneta cinese resterà deluso. E resterà ancor più deluso chi pensa che l'apprezzamento del renminbi sia destinato a cambiare i termini di scambio internazionali delle merci: se, come ammonisce Pechino, è vero che la rivalutazione dello yuan rischia di mettere fuori mercato migliaia di aziende cinesi, a beneficiarne non saranno certo le loro concorrenti americane, europee o giapponesi, ma quelle vietnamite, indonesiane e cambogiane.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Venerdì 19 Marzo 2010   Lunedì 22 Marzo 2010   Mercoledì 24 Marzo 2010  
       
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  Obama alle battute decisive della sua più grande sfida

18 Marzo 2010 20:01 WASHINGTON – di WSI

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In queste ore una giovane associazione chiamata Americans for Stable Quality Care sta spendendo 6 milioni di dollari in pubblicità su giornali , tv e radio nei 38 distretti elettorali degli altrettanti deputati democratici dalle cui file potrebbero emergere quei cinque o sei "no" capaci di affondare la riforma sanitaria di Barack Obama e probabilmente Barack Obama stesso. Se si guarda chi c'è dietro la Stable Quality Care tutta la storia della complicata riforma sanitaria sulla quale Obama ha deciso di giocare la propria presidenza appare meno confusa.

E' una storia importante perché, se la riforma passa, Obama avrà fiato fino alle elezioni di metà termine, a Novembre, e poi saranno quelle a decidere, superabili se sarà come probabile e normale una sconfitta – in genere i presidenti perdono dopo due anni -, problematiche se sarà un disastro. Ma se la riforma non passa, Obama non potrà che trincerarsi di fatto alla Casa Bianca in attesa di tempi migliori, e l'America avrà un presidente azzoppato in uno dei momenti più delicati della sua storia. Basti pensare al cruciale dossier finanziario ben più importante di una parziale riforma sanitaria.

L' ASQC è nata pochi mesi fa e per prima cosa ha speso ad agosto 12 milioni di dollari per sostenere la riforma sanitaria, che iniziava allora la discussione alla Camera. Dietro c'è metà dell'industria americana della sanità: i farmaceutici, la federazione degli ospedali privati, l'American medical association cioè i medici, e altro. Sono a favore della riforma.
E non è contro al riforma l'altra metà dell'industria del settore, le compagnie di assicurazione che forniscono copertura a più di due terzi degli americani al costo medio di 10-12 mila dollari l'anno per una famiglia di quattro persone. La sua associazione di categoria, America's Health Insurance Plans, insiste che occorre mettere i costi sotto controllo. E intanto molti suoi associati stanno aumentando le polizze, che sono aziendali soprattutto ma anche private, del 10-20 per cento.

Quindi, l'industria è per la riforma.
Non lo è a maggioranza il pubblico. La media dei sondaggi pubblicata da quella che è ormai la Bibbia per questi rilevamenti, il sito Real clear politics, indica che il 41 per cento è a favore e quasi il 49 contro, con uno scarto di 7 punti e mezzo. Ed è così dal luglio 2009, quando i contorni della riforma diventavano chiari.

Il 60% degli americani sarebbe invece per la public option, un progetto che dall'inizio degli anni 2000 cresce fra le file democratiche e che il partito ha fatto proprio nella campagna del 2008: la possibilità per chi lo vuole di sottoscrivere una polizza pubblica, che calmieri il mercato, allinei i costi a quelli del Medicare, la copertura pubblica universale per gli over 65. Le assicurazionmi private e l'intera industria sanitaria hanno sempre visto la public option come la peste perché sarebbe l'inizio della fine per l'attuale sanità americana che è per oltre i due terzi privata (solo Usa, Messico e Turchia non hanno fra i 30 paesi Ocse un sistema pubblico universale).

Un nocciolo di public option c'è nel testo approvato a novembre dalla Camera e manca da quello votato il 24 dicembre al Senato. Ora, usando complicate procedure, la Camera deve votare, a ore forse, e forse a giorni, sul testo del Senato. Obama dice in questi giorni che lui sarebbe per la public option ma al Senato non ci sono i 51 voti necessari. La leadership democratica del Senato dice, come riporta il seguitissimo Huffington Post, c he la maggioranza c'è se solo la leadership democratica della Camera inserisce una public option nel testo che ora deve votare. Nancy Pelosi, presidente della Camera e leader dei deputati democratici, dice che non può inserire al public option perché al Senato non passerebbe.

E' uno scaricabarile. E il primo a restare sempre ambiguo, a presentare la public option come una option ma non la sola via, è sempre stato Obama. Che a differenza di parte del suo elettorato si è sempre mosso nella convin zione che nulla si potesse fare senza un accordo con l'industria sanitaria.

E gli accordi ci sono stati, con i farmaceutici prima e con gli ospedalieri e gli altri poi, gestiti direttamente dalla Casa Bianca, garantiti da Obama stesso, e rivelati il 13 agosto da uno scoop dell'Huffington Post e da un articolo, più prudente ma chiarissimo, sulla prima pagina del New York Times. C'era il sì alla riforma da parte dell'industria, che collaborava impegnandosi a limitare l'aumento decennale dei costi, in cambio di varie cose, prima fra tutte una: nessuna public option.

Che resta della riforma? In poche parole, se passa ci saranno circa 30 milioni di americani fra i 47 che oggi non hanno nessuna copertura che avranno una polizza. Saranno obbligati ad acquistarne una – in campagna elettorale Obama disse che non lo avrebbe mai fatto – e aiutati a pagare il premio se a basso reddito. Le compagnie di assicurazione avranno più vincoli sulle prestazioni, ma non è mai facile vincolarle, l'esperienza insegna. E mille miliardi di dollari di polizze in più in dieci anni.
Critici aspri dell'amministrazione Obama come il Nobel Paul Krugman dicono che, nonostante tutto, sarebbe un passo avanti, per quei 30 milioni, ed è vero. Altri dicono che una finta riforma tarperebbe le ali per una generazione a una vera riforma, di cui la sanità americana che ha un costo di 7500 dollari circa all'anno a testa a fronte di una media Ocse di circa 3 mila, ha urgente bisogno.

Difficile scegliere. Certamente è un compromesso è non un passaggio storico della portata del medicare di Lyndon Johnson. Un compromesso al quale Obama ha molto legato le proprie sorti.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

VOTO STORICO: LA CAMERA USA APPROVA LA RIFORMA SANITARIA

22 Marzo 2010 03:44 WASHINGTON - di WSI
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Raggiunto il quorum coi voti dei soli democratici. Compromesso sui fondi all'aborto. "Baby killer", urlano i repubblicani. La legge estende a 32 milioni di americani le cure mediche, come in Europa. Successo di Obama: la maggior riforma in 40 anni.
La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato con 219 si' e 212 no la legge che estendera' a 32 milioni di americani non assicurati la copertura delle cure mediche, superando cosi' di appena 3 voti i 216 si' necessari per il quorum. Tutti i voti sono stati democratici, nessun repubblicano ha votato a favore: una spaccatura al Congresso mai verificatasi prima in America per un atto legislativo cosi' importante. La politica bipartisan e' da oggi morta e seppellita a Washington.

Si e' trattato di un grande successo per il presidente Barack Obama, che si e' giocato la presidenza su questa legge di riforma sanitaria, volta ad estendere le cure mediche a tutti gli americani, anche i poveri e le piccole imprese, come avviene in Italia e nei maggiori paesi d'Europa. I repubblicani lanciano accuse di "statalizzazione", "socializzazione", "enorme crescita del deficit", mentre Obama in un breve discorso in TV dopo il voto ha parlato di "una vittoria storica per gli americani che aspettavano questa riforma da oltre 100 anni". "Ecco che cosa significa cambiamento, quel cambiamento di cui parlavamo nell'elezione presidenziale dell'anno scorso", ha detto il presidente.

Obama firmera' entro martedi' la legge, appena gli arrivera' sulla scrivania. Anche se il Senato aveva approvato lo stesso testo a dicembre, nelle prossime ore dovra' esserci un altro passaggio nelle due aule del Congresso per una serie di emendamenti e correzioni da apportare (Reconciliation Bill) prima di sfociare nel testo finale.

Si tratta della piu' importante riforma sociale varata negli Stati Uniti negli ultimi 40 anni, certamente dopo l'introduzione nel dopo-guerra del Social Security (pensioni) e del Medicare (assistenza sanitaria agli anziani). Il voto dei democratici e' stato annunciato sul "floor" da una raggiante Nancy Pelosi, la speaker della Camera, la quale si e' adoperata sul campo per il difficissimo iter parlamentare, pieno di siluri e trabochetti dei repubblicani; la Pelosi ha cercato di convincere fino all'ultimo momento alcuni democratici propendenti per il "no" (e che sono a rischio per le elezioni di Midterm a novembre) alla fine riuscendo a centrare l'obiettivo quorum.

Il tetto dei 216 voti, incerto fino al giorno prima del voto, e' stato raggiunto pero' solo grazie ad un compromesso dell'ultim'ora, proposto, con grandi doti di real-politik e da vero "centrista", dal presidente Obama sul tema caldissimo dell'aborto. La Casa Bianca ha offerto di emanare un ordine esecutivo (una sorta di decreto legge) sull'aborto in modo da assicurarsi i voti necessari all'approvazione della legge. Il capofila degli antiabortisti democratici, Abart Stupak, ha indicato in mattinata che era stato trovato un accordo, e cioe' e' stato cruciale per avere il voto di una piccola pattuglia (una decina) di inclini al "no". "Baby killer", cioe' "assassino di bambini", hanno urlato a Stupak dopo il voto alcuni onorevoli repubblicani infuriati, in un'atmosfera surriscaldata di contrapposizione.

L'ordine esecutivo di Obama ribadisce la legge che blocca i finanziamenti federali per l'aborto nonostante la riforma della Sanità, che garantisce una copertura assicurativa alle interruzioni di gravidanza. Il direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, Dan Pfeiffer, ha detto che il decreto garantisce che lo status quo sia mantenuto. Mentre l'aborto è legale ed affidato alla sola scelta della donna, da molti anni i fondi federali sono utilizzabili per le interruzioni di gravidanza solo in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre.

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«Washington, 22 mar. (Apcom) - L'adozione al Congresso della storica riforma del sistema sanitario degli Stati Uniti, che garantisce una copertura alla quasi totalità degli americani, prova che gli Stati Uniti restano capaci di "grandi cose". E' stato questo il commento del presidente Barack Obama, che ha salutato con grande soddisfazione il voto favorevole di ieri alla Camera dei Rappresentanti. "Questa sera abbiamo superato il peso della politica, mentre tutti gli specialisti affermavano che questo non sarebbe stato più possible", ha aggiunto il presidente. "Abbiamo provato che restiamo un popolo capace di grandi cose", ha commentato Obama.

Il presidente è intervenuto alla televisione dalla "East Room" della Casa Bianca. Alcuni minuti prima, 219 deputati democratici gli avevano servito la sua più grande vittoria dall'inizio del suo mandato adottando l'importante riforma sulla copertura sanitaria mai adottata nel paese da decenni. Il presidente, che ha dovuto utilizzare tutta la sua influenza politica per convincere la sua maggioranza a firmare un testo molto impopolare, ha comparato la propria vittoria con le sfide storiche degli americani.

"Questa sera abbiamo risposto all'appello della storia come tanti americani hanno fatto prima di noi", ha dichiarato. "Non siamo sfuggiti alle nostre responsabilità, le abbiamo affrontate. Non abbiamo avuto timore del nostro futuro". Obama, che adesso dovrà rapidamente promulgare il testo, non ha risposto a domande ma ha riconosciuto di essere giunto a questa vittoria dopo un anno di trattative. "Andiamo avanti con una fiducia rinnovata, rinvigoriti da questa vittoria" in nome del popolo americano, ha commentato il presidente. Una volta promulgata la legge, il Senato dovrà ancora adottare alcune "correzioni" per renderla conforme ai desideri dei deputati della Camera. (fonte afp)
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

Risultato storico o suicidio politico? La riforma della sanità sulla stampa Usa

22 Marzo 2010 21:42 MILANO - di Luca Salvioli
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Un risultato storico, un suicidio elettorale, il riultato di "sporche" trame elettorali, un compromesso molto distante dalle promesse fatte a suo tempo da Obama. I quotidiani americani - carta, online, blog d'opinione - plaudono, bocciano e fanno le pulci alla riforma sanitaria. Ecco una sintesi dei principali.

New York Times. «Bene, ma svanisce la promessa bipartisan»
«Riforma sanitaria, finalmente» titola l'editoriale, che parla di «un trionfo per le migliaia di americani che sono state vittime di un sistema sanitario inefficiente» e di «un risultato di proporzioni storiche» per Obama. In un commento David E. Sanger scrive: «Che sia un risultato di proporzioni storiche o un suicidio politico - probabilmente entrambe le cose - resta il fatto che il presidente è riuscito dove Clinton aveva fallito. La riforma rischia tuttavia di essere molto pericolosa in vista delle prossime elezioni di metà mandato e nel dibattito Obama ha perso qualcosa: è svanita la promessa di una Washington bipartisan in cui la razionalità a la calma sostituissero il battibecco. Mai nella storia moderna una riforma sostanziale è passata senza neanche un voto dei repubblicani».

Washington Post: «Risultato storico»
«Yes we did», può dire Obama, non più «Yes we can». Per E. J. Dionne «a Washington qualcosa è davvero cambiato» e per capire la portata della riforma bisogna considerare «cosa avrebbe rappresentato la sconfitta». I democratici sarebbero diventati «uno zimbello» su un tema che fa parte della loro identità di partito fin dai tempi di Harry Truman.

Wall Street Journal: «Affari sporchi e disprezzo per la democrazia»
Il secondo pezzo più letto dell'edizione online è un attacco di Kimberley A. Strassel alle trattative che hanno portato al voto per riforma: «affari sporchi, minacce palesi, promesse non mantenute e disprezzo per la democrazia». Chi ha votato Obama con la speranza di vedere una nuova politica a Washington «ricorderà questo spettacolo a novembre».

Politico.com: «Vittoria per Obama, non per i democratici»
Secondo il sito dove scrivono alcuni tra i più noti analisti di politica americana «la vittoria, quasi inconcepibile un mese fa, rappresenta una immensa e immediata spinta per Obama, non per i democratici. Per alcuni di loro, con le elezioni di novembre, c'è il rischio di estinzione politica».

Cato.org: «940 miliardi? Molto di più»
«Non è una riforma della sanità, ma una riforma contro la sanità» esordisce il sito libertario. Si basa pesantemente «sul controllo dei prezzi, tasse e multe per punire i medici, gli ospedali e le imprese innovative che vendono farmaci e device medici». Se «avessimo trattato gli agricoltori, le aziende alimentari e negozi di alimentari» in questo modo qualcuno si aspetterebbe di avere «cibo migliore o più economico?» La legge, inoltre, non costerà 940 miliardi come detto da Obama, ma molto di più.

Huffington Post: «Svanisce il sogno della mutua all'europea»
Sul seguitissimo sito di informazione, Robert Kuttner sottolinea come il discorso fatto sabato da Obama abbia ricordato quelli che tanto hanno fatto sognare l'America durante la campagna elettorale. Non mancano, però, le critiche da sinistra: il presidente non ha fatto la mutua pubblica sul modello Europeo come promesso.
 

Fonte - Sole 24 ore

 

 

 

La riforma sanitaria è legge Obama vince la sua battaglia

22 marzo 2010 WASHINGTON - dal nostro corrispondente Mario Platero
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Risultato storico o suicidio politico? La riforma della sanità sulla stampa Usa
La guerra a colpi di spot e tic presidenziale sulla riforma sanitaria americana
La sanità di Obama come un talk, bisticci compresi

NEW YORK – 219 voti favorevoli contro 212, un vantaggio minimo, ma che vale una pagina di storia: dopo una maratona interminabile, dopo mille polemiche, ritardi e colpi di scena, la Camera, sotto la guida inflessibile di Nancy Pelosi, ha finalmente passato nella notte di ieri la riforma sanitaria in America. Per il presidente Barack Obama si tratta di una vittoria chiave: dà finalmente concretezza alla sua visione di cambiamento con cui si è aggiudicato la Casa Bianca nel 2008. E pur fra molte difficoltà, rilancerà la sua leadership.

«Dopo quasi cento anni di parole e di frustrazioni, dopo dieci anni di tentativi e un anno di battaglie, il Congresso degli Stati Uniti ha dichiarato che i lavoratori americani, le famiglie e le piccole imprese avranno una sicurezza: né malattie né incidenti metteranno a rischio i sogni cui hanno dedicato una vita» Obama ha ricordato che questa vittoria è venuta contro coloro che fino all'ultimo non ci credevano, contro gli interessi speciali e contro le lobby: «Siamo al di sopra della politica, siamo al di là della paura e siamo ancora in grado di lavorare per la gente: oggi è il momento del cambiamento».

Non ci si è arrivati facilmente. Fino all'ultimo i repubblicani hanno cercato di ostacolare la proposta di legge con mozioni apparentemente inutili ma pericolosissime. Poi, improvvisamente, dopo un accordo fra la Casa Bianca e gli antiabortisti democratici, la maggioranza si è coagulata. E al momento del voto la soglia dei 216 voti è stata superata agevolmente alle 10.45 della sera ora di Washington, il voto chiave per avere la maggioranza, è stato annunciato dal contatore elettronico. L'aula, divisa, caratterizzata fino a pochi minuti prima da un confronto teso coi repubblicani su certe normative procedurali, è esplosa in un'ovazione: «Yes we can», hanno urlato i deputati democratici. Alla fine della conta, i voti favorevoli erano 219 voti i contrari 212. Questi ultimi da attribuire ai 178 deputati repubblicani e a 34 democratici. Per la prima volta nella storia americana, per un progetto di legge fondamentale come quello sanitario non si è riusciti ad avere una maggioranza bipartitica.

«Non è stata colpa nostra – ha subito chiarito il deputato della California Henry Waxma – il presidente ha teso la mano e i repubblicani l'hanno respinta». Poco dopo la Camera ha anche approvato gli emendamenti che saranno inviati al Senato. Ma è stato solo in quel preciso momento, quando il passaggio del progetto di riforma è diventato irrevocabile che Nancy Pelosi, il Presidente della Camera ha battuto il grande martello dal podio, lo stesso che fu usato per la riforma del Medicare negli anni Sessanta e ha annunciato raggiante: «La legge è passata».

Ma al di là delle procedure, dei numeri, delle battaglie, dei colpi di scena, dopo il voto resta una verità inconfutabile: l'America avrà un'assicurazione sanitaria per 32 milioni di americani che oggi non sono coperti. Bambini con malattie congenite che non potevano essere assicurati avranno le cure adatte. Lavoratori che rischiavano di perdere l'assicurazione medica cambiando posto non correranno più quel rischio. Questo per dire che la riforma ha un respiro molto più vasto del semplice allargamento di una base di assicurati, ma toccherà letteralmente tutti gli americani.

Un colossale meccanismo di riorganizzazione di metodi, priorità, garanzie sanitarie si metterà in moto già nei prossimi giorni. E non ci sarà comparto dell'economia che non venga toccato da questa riforma. Il pacchetto vale 940 miliardi di dollari in dieci anni. Consentirà di tagliare 138 miliardi di dollari dal disavanzo pubblico, rivoluzionerà i metodi assistenziali degli ospedali e dalle assicurazioni. Ma taglierà anche 500 miliardi di dollari dal Medicare, il programma di assistenza per gli anziani.

In 13 mesi alla Casa Bianca Obama ha raggiunto un risultato impossibile per molti presidenti prima di lui. Gli restano sette mesi prima delle elezioni di novembre di metà mandato per convincere la maggioraza degli americani ancora sospettosa, poco convinta e persino peroccupata da questo nuovo piano, che era la cosa giusta da fare. Di più, Obama ha vinto là dove altri presidenti importanti avevano perso. Bill Clinton ci provò nel 1994, ma anche Roosevelt, Truman e persino Teddy Roosevelt, si erano fatti sotto per provare a passare una legge sanitaria nazionale. In quasi cento anni di lotte archiviate sotto gli attacchi dell'opposizione repubblicana e delle potentissime lobby farmaceutiche e assicurative. George W. Bush fallì un'altra riforma sociale importante, quella per le pensioni.

«Ora pensiamo al dopo» ha detto Obama raggiante quando, intorno a mezzanotte, è apparso nella East Room della Casa Bianca, subito dopo l'ultimo voto alla Camera, quello per adottare gli emendamenti. Ora il pacchetto tornerà al Senato, ma la vittoria è scontata: avendo seguito una formula di riconciliazione che ha prima adottato la versione del Senato e poi approvato alcuni emendamenti, per vincere ci vorrà soltanto la maggioranza semplice. E il dopo non significa soltanto la riforma del sistema finanziario, che sarà discussa a giorni dalla commissione guidata da Christopher Dodd.

Il dopo significa soprattutto convincere gli americani di tornare a credere in Barack Obama. Se dopo soli 13 mesi il presidente è riuscito a chiudere la più importante sfida della sua presidenza. Avrà ora sette mesi per convincere l'elettorato che è stata fatta la cosa giusta per il Paese. A novembre molti democratici pagheranno con il seggio la loro scelta di voto. La nuova missione di Obama? Minimizzare le perdite.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  La sanità americana era malata, ma non è detto che la cura Obama funzioni

March 23rd, 2010 MILANO – di Mario Seminerio

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La riforma della sanità statunitense è ormai prossima a diventare realtà. Il suo obiettivo strategico, ampliare il pool dei soggetti assicurati, verrà ottenuto attraverso l’obbligo di assicurazione con erogazione di sussidi alle famiglie che non possono permettersi di sottoscrivere una polizza. Resta il sistema di assicurazioni private, non essendo presente la discussa public option, tanto cara all’ala liberal dei Democratici. Secondo i sostenitori della riforma i premi dovrebbero scendere, in conseguenza proprio della riduzione della morbilità attesa nel pool degli assicurati (oggi gli uninsured sono soprattutto soggetti giovani ed in salute, che spesso non si assicurano a causa dei costi della copertura). Le assicurazioni non potranno più ricusare l’assicurato, spesso con artifici al limite della truffa, come la retrodatazione di patologie insorte successivamente alla stipula della polizza.

La riforma dovrebbe essere finanziata, tra le altre fonti di copertura, anche dalle penalità a cui saranno assoggettati i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti che non offriranno copertura assicurativa. Il grosso della copertura verrà però soprattutto da nuove imposte, come la sovraimposta del 3,8 per cento sul reddito da investimento dei contribuenti che guadagnano più 200.000 dollari annui, se single, o 250.000 se coppie. Questa misura, tuttavia, non entrerà in vigore subito, ma solo dal 2013.

Come noto, i Repubblicani si oppongono radicalmente alla riforma, ma non siamo riusciti a trovare argomentazioni che non fossero l’abituale “perché no”, che caratterizza questo periodo della vita del GOP, ad ogni proposta di Obama. Nei mesi scorsi i Repubblicani hanno tentato, con alterne fortune, di mettersi alla testa dei Tea Parties, ma le tesi erano piuttosto sghembe: accuse di socialismo alla Casa Bianca ma anche cartelli di “Giù le mani dal Medicare”, cioè dalla principale forma di medicina socializzata e single payer oggi esistente negli Stati Uniti, figlia della riforma di Lyndon B.Johnson. Le contraddizioni non sono esclusiva della politica italiana, evidentemente.

Tra gli economisti di area GOP, spicca l’argomentazione “classica” di Greg N.Mankiw, docente ad Harvard e già a capo del Council of Economic Advisers nel primo mandato presidenziale di G.W.Bush. Per Mankiw, il sistema di sussidi a phase-out, cioè decrescenti al crescere del reddito imponibile, equivale ad un inasprimento dell’aliquota marginale, ed è quindi destinato ad esercitare un effetto depressivo (diremmo “europeo”) sull’offerta di lavoro. Altro economista contrario alla riforma è Jeffrey Miron, un noto libertario da sempre sostenitore della legalizzazione delle droghe. Ma anche l’argomentazione di Miron ci pare piuttosto fragile: la riforma, per l’economista libertario, finirà col soffocare l’innovazione, e danneggerà anche gli europei, che da sempre sarebbero beneficiari (in modo quasi parassitario, pare di leggere neppure troppo tra le righe) della ricerca americana su diagnostica e terapie. Una tesi piuttosto strana: negli Stati Uniti la spesa sanitaria è di circa il 15 per cento del Pil, all’incirca doppia dei sistemi socializzati europei e di quello canadese, e questa riforma non mira certo ad azzerare la redditività delle imprese sanitarie. Seguendo il ragionamento di Miron, dall’elevata redditività di ospedali e aziende farmaceutiche deriverebbe una sorta di sovrainvestimento in ricerca e sviluppo di cui beneficerebbe l’umanità intera, in vario grado ed intensità. L’eccezionalismo americano torna sotto nuove vesti, in definitiva.

La verità è che la sanità statunitense soffre di una sorta di iperinflazione, solo in parte derivante dall’eccellenza diagnostica e terapeutica. Gli assicurati sono pressoché isolati dagli esborsi, almeno in prima battuta, e questo determina una naturale tendenza alla sovra-medicalizzazione ed alla iper-prescrizione, da cui deriva anche, come effetto indotto dagli elevati utili così generati, la forte spinta agli investimenti in ricerca. Ma questa isolation dai costi sanitari è illusoria, perché si trasforma nel tempo in maggiori premi assicurativi, che finiscono con l’indurre le imprese a tagliare la copertura per i propri dipendenti. Questi ultimi diventano spesso degli uninsured proprio dopo aver perso la copertura aziendale e per l’onerosità dell’assicurazione individuale.

Il successo o il fallimento della riforma verterà soprattutto sulla sua capacità di piegare nel tempo l’inflazione sanitaria. Secondo Mankiw, si rischia una forma di controllo sui prezzi, destinata quindi a fallire miseramente, mentre nel campo opposto si sottolinea che la ridotta deducibilità fiscale (per i percettori di redditi elevati) delle franchigie e delle spese vive (out-of-pocket) sarebbero un primo importante passo verso il controllo dei costi. Per la stessa filosofia, la maggiore imposizione sulle polizze a maggiore copertura (le cosiddette “Cadillac”), che entrerà in vigore solo nel 2018, sarà un’accisa del 40 per cento sul valore dei premi che eccede una soglia minima (inizialmente fissata in 10.200 dollari per i single e 27.500 per le famiglie). L’importo esente dall’accisa sarà indicizzato all’inflazione più 1 punto percentuale. In pratica, se l’inflazione sanitaria non sarà sconfitta, molti assicurati scivoleranno fatalmente nel campo della tassazione, oppure dovranno progressivamente tagliare le tipologie di copertura, tornando al punto di partenza odierno. L’intera riforma ha un problematico impianto del tipo “spendi ora, tassa in futuro”: solo il tempo dirà se affosserà definitivamente i conti pubblici statunitensi o se sarà un non-evento. Ma possiamo trarre sin d’ora alcune constatazioni.

In primo luogo, è di tutta evidenza che la riforma è redistributiva: sarebbe sciocco negarlo. Da ciò discende la considerazione, intellettualmente onesta, di Greg Mankiw: qui sono in gioco sistemi di valori: l’eterno tradeoff tra eguaglianza ed efficienza, tra libertarismo e comunitarismo. Quindi, saranno gli elettori statunitensi a scegliere se vogliono diventare più “europei”, in termini di riduzione delle diseguaglianze. A noi pare che le considerazioni più condivisibili le abbia fatte un americano che lavora nella finanza, del cui sistema è spietato critico: Barry Ritholtz. La sanità statunitense è rotta, con buona pace dei sostenitori dello status quo. Piagata da un sistema d’incentivi perversi: una urgenza pediatrica trattata in pronto soccorso produce un costo di 8000 dollari, contro i 60 di una visita in studio dallo specialista, e questi costi si scaricano su tutto il sistema, rendendolo votato al fallimento. Inoltre, il sistema genera un eccesso di spesa senza significativi risultati in termini di aspettativa di vita. Conosciamo le obiezioni a quest’ultima osservazione: non è colpa della sanità ma di stili di vita e, in ultima analisi, di un modello finora accettato di diseguaglianza sociale. Ma ciò ci riporta a quanto sopra osservato: spetta agli americani scegliere il proprio posizionamento tra equità ed efficienza. Lo faranno già dal prossimo novembre, alle elezioni di midterm.

Nel frattempo, noi europei dovremmo tenere a mente che il nostro sistema valoriale resta significativamente differente da quello americano. Noi nelle costituzioni abbiamo il diritto alla salute, oltre oceano hanno quello alla felicità.
 

Fonte - Epistems.otg

 

 

 

 

 

RIFORMA SANITA' USA: NON E' ANCORA FINITA. LEGGE DOVRA' ESSERE RIVOTATA

25 Marzo 2010 10:46 NEW YORK - di CORRIERE DELLA SERA
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Approvata due giorni fa dal Congresso americano, la norma dovrà essere sottoposta a una nuova votazione per irregolarità di procedura. Il pacchetto finale di modifiche alla legge dovrà essere nuovamente approvato dalla Camera.
La legge sulla riforma della sanità, approvata due giorni fa dal Congresso americano, dovrà essere sottoposta a una nuova votazione per irregolarità di procedura.
Lo ha detto Harry Reid, portavoce democratico del Senato. Il pacchetto finale di modifiche alla legge dovrà essere nuovamente approvato dalla Camera dei rappresentanti.

CLAUSOLE SECONDARIE - «Dopo ore di tentativi per trovare un modo di bloccare il testo, i repubblicani hanno scovato due clausole relativamente secondarie che sono violazioni della procedura del Senato, il che significa che dobbiamo rimandare il provvedimento alla Camera» ha detto Jim Manley, portavoce di Reid.
I due emendamenti riguardano la concessione delle borse di studio agli studenti con basso reddito. Dunque c'è un nuovo ostacolo per i democratici, che domenica scorsa sono finalmente riusciti a far approvare il testo della storica riforma voluta dal presidente Obama con 219 voti favorevoli e 212 contrari, dopo lunghissimi e difficili negoziati.

MARGINE RISTRETTO - I due emendamenti infatti non possono essere approvati con il procedimento della reconciliation adottato dall'amministrazione per evitare ostruzionismi parlamentari in Senato.
Secondo fonti del partito democratico il nuovo testo dovrebbe essere approvato dalla Camera in tempi molto brevi: tuttavia il testo precedente è passato con un margine molto ristretto e solo dopo che la Casa Bianca ha varato un executive order che conserva lo status quo relativo al divieto di impiegare fondi federali per le interruzioni di gravidanza.
Rimane dunque in teoria possibile che qualche deputato democratico - specie nel fronte antiabortista - possa, se non cambiare idea, cercare di ottenere qualcosa di più dalla Casa Bianca, specie perché l’atmosfera è tesa a causa dell’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato.
Il testo originale del Senato, approvato della Camera prima del blocco di emendamenti, è stato convertito in legge e dunque rimarrà comunque in vigore.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

PREOCCUPAZIONE IN PIMCO: ALLARME BOND CON LA RIFORMA SANITARIA

25 Marzo 2010 21:45 NEW YORK - di WSI
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L'acclamata riforma del sistema di assistenza medica finira' per allargare il deficit, i tassi di interesse reali cresceranno e l'inflazione pure. Uno scenario che rema contro il mercato del debito. Meglio investire in bond o in azioni?
Per il disavanzo pubblico gigantesco e l'impatto che la riforma del sistema di assistenza sanitaria avra' sul bilancio, l'idea del numero uno di Pimco Bill Gross non potrebbe essere piu' semplice: sono entrambi dannosi per il mercato obbligazionario.

Come una nota del FMI ha gia' sottolineato, "gli enormi deficit fiscali e il debito circolante in aumento portera' a tassi di interesse reali piu' alti e infine ad un'inflazione maggiore. Entrambi trend che non si puo' certo dire favoriscano il mercato obbligazionario", ha affermato Gross secondo quanto riportato da Business Insider.

Negli Stati Uniti, in aggiunta al deficit pari al 10% del Pil e ad un debito circolante in aumento progressivo, secondo l'esperto "un investitore dovrebbe preoccuparsi dei futuri impegni del governo non finanziati, che i manager di portafoglio quasi sempre trascurano, perche' li reputano cosi' lontani all'orizzonte da non essere importanti".

Tuttavia, Gross sottolinea che chi investe nei Treasuries con scadenza a 30 anni dovrebbe preoccuparsi del fatto che l'ammontare delle spese sociali future per garantire una copertura assicurativa (in primis quelle nelle attivita' di Social Security e Medicare) si e' attestato a $46 mila miliardi nel 2009. Si tratta di una sommma quattro volte superiore all'attuale debito circolante attuale, secondo le stime dell'Ufficio di Bilancio congressuale allo stato attuale delle cose. Dovrebbe preoccuparsene perche' potrebbe essere una delle principali ragioni per cui il rendimento del trentennale e' del 4.6% mentre l'analogo titolo a due anni rende meno dell'1%".

Come se non bastasse, un tale contesto non potra' che peggiorare. "L'imminente approvazione dell'health care bill rappresenta una continua litania di obbligazioni che il governo sara' tenuto a rispondere in campo sociale, che aumenteranno, non diminuiranno, le dimensioni dei deficit di bilancio futuri e delle passivita' non finanziate".

"Nessuno oserebbe dichiarare il contrario, come hanno fatto i Democratici. Il senso comune suggerirebbe che l'espansione dei benefit di assistenza medica a piu' di 30 milioni di persone costera' un bel po' di soldi", ha sottolineato in modo encomiabile l'ex direttore del CBO Holt-Eakin. Un programma che costera' $950 miliardi nei prossimi 10 anni puo' essere in grado di ridurre il deficit di $138 miliardi, cosi' come sostenuto dai democratici? Dopo attenti calcoli il sospetto si e' rivelato fondato: la riforma espandera' il deficit di altri $562 miliardi nel prossimo decennio, stando a quanto riportato nei giorni scorsi in un articolo sul New York Times.
 

Fonte - wallstreeitalia

 

 

 

 

 

  Giovedì 25 Marzo 2010   Venerdì 26 Marzo 2010   Sabato 27 Marzo 2010  
       
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USA: IL VERO PROBLEMA E' LA SOTTO-OCCUPAZIONE

23 Marzo 2010 21:24 NEW YORK - di WSI
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Un americano su cinque e' senza lavoro o si deve accontentare del part-time. Numero aumentato dello 0.7% in un mese. Chi e' impiegato a tempo ridotto spende il 24% di piu' dei disoccupati, imparagonabile al +85% di quelli impiegati tempo pieno.
L'indice di sotto-occupazione parla chiaro. A meta' marzo un americano su cinque che lavora part-time o e' disoccupato vorrebbe lavorare di piu'. La percentuale e' salita al 20% dal 19.7% di due settimane prima e dal 19.5% dell'inizio dell'anno.
I dati evidenziano chiaramente perche' gli americani sostengono che il problema principale della nazione da risolvere oggi sia la creazione di posti di lavoro e lo stato di salute dell'occupazione in genere.

Il sondaggio della societa' di ricerca Gallup, che si basa su oltre 20.000 persone interpellate, tende a essere una previsione di quelli che saranno i report ufficiali governativi fra due settimane. Sebbene il tasso di disoccupazione calcolato dalla societa' sia calato al 10.3% dal 10.8% di meta' febbraio, tale percentuale e' messa in secondo piano dall'incremento registrato negli ultimi 30 giorni del numero di persone che lavorano a tempo ridotto e che vorrebbero invece lavorare a tempo pieno. Il tasso e' salito dal 9% di meta' febbraio al 9.7% di meta' marzo.

Il pericolo di concentrarsi troppo sulla disoccupazione, tralasciando il vero problema che e' quello della sotto-occupazione, e' stato segnalato dagli economisti di Morgan Stanley, secondo cui gli Stati Uniti potrebbero creare sino a 300.000 posti di lavoro in marzo, grazie ad un miglioramento delle condizioni meteorologiche, della crescita economica e del personale assunto a tempo determinato per raccogliere i dati census.

Se questa cifra fosse annunciata dal governo a inizio aprile, c'e' ragione per rimanere entusiasti e persino per festeggiare. Tuttavia le cifre pubblicate da Gallup relative ai livelli di sotto occupazione vanno in un'altra direzione. Le spese giornaliere dei lavoratori part-time che vogliono un impiego full-time sono state negli ultimi 30 mesi del 24% in media superiori rispetto a quelle dei disoccupati. Da un lato si tratta di un miglioramento ed e' positivo per l'economia, dall'altro non e' sicuramente paragonabile al +85% di quelli che hanno un lavoro a tempo pieno.

Spesso si e' portati a credere che la crescita degli impieghi part-time segnali una crescita delle posizioni a tempo pieno in futuro. Talvolta e' proprio cosi, ma non lo e' al punto in cui si trova ora l'economia. Secondo i dati raccolti da Gallup's, solo un dipendente part-time su tre, tra coloro che vorrebbero un contratto full-time, troveranno lavroo nei prossimi 30 giorni. Non si puo' dire che sia una conferma dell'idea che i nuovi lavori part-time di oggi diventeranno gli impieghi full-time di domani.

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

Il Sudamerica rallenta il passo

martedì, 23 marzo 2010 - 16:14 - di Marco Caprotti
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L’America latina si prepara a tirare il fiato e a rallentare la corsa che, nel 2009 ha permesso all’indice Msci della regione di guadagnare (calcolato in euro) quasi il 92% e che nell’ultimo mese (fino al 19 marzo) lo ha fatto salire di circa il 3%. La situazione nell’area, infatti, incomincia a dare segni di indebolimento che, spiegano tuttavia gli operatori, non ne comprometterà le potenzialità di lungo termine.

Secondo uno studio pubblicano dalla Banca centrale del Brasile, l’inflazione della prima economia sudamericana nel 2011 salirà al 5,10% nel 2010 per poi abbassarsi al 4,7% nel 2011. Per rispondere a questa situazione, l’istituto monetario brasiliano sarebbe pronto ad aumentare i tassi di interesse portandoli al 9,25% durante la riunione di aprile. Situazione difficile anche per l’Argentina (la terza locomotiva della regione dopo il Messico). Per l’Istituto nazionale di statistica, infatti, il Prodotto interno lordo del Paese nel 2009 è cresciuto dello 0,9% rispetto all’anno precedente. Un viaggio col freno a mano tirato per una congiuntura che, dal 2003 al 2008, ha tenuto un ritmo medio annuale dell’8,5%.

In realtà è tutta l’area Latam che sembra segnare un po’ il passo. Secondo un report della Inter-American Development Bank (IADB) i tassi di produzione della regione non riescono a tenere il passo con la rinnovata richiesta di materiali e prodotti da parte del resto del mondo. “I governi dovrebbero sfruttare questa situazione per mettere mano a una serie di nuove riforme fiscali ed economiche che permettano ai singoli Stati di recuperare terreno nei confronti degli altri Paesi del mondo”, dice lo studio.

La stessa IADB, che in passato ha dato un grosso aiuto alla crescita della regione investendo soprattutto in infrastrutture (solo l’anno scorso ha speso 15,5 miliardi di dollari), sembra però avere le armi un po’ spuntate. Secondo il ministro brasiliano della pianificazione, Paulo Bernardo, l’istituto avrebbe bisogno di una ricapitalizzazione di almeno 100 miliardi di dollari per continuare a portare avanti i suoi progetti. Gli Stati Uniti (i maggiori azionisti della banca con una quota di circa il 30%) non sono disposti a sborsare più di 60 miliardi. Il resto, hanno detto gli Usa, verrà versato dopo l’accettazione da parte degli altri membri di un decalogo che, secondo molti Stati sudamericani, contiene condizioni inaccettabili, soprattutto in materia dei controlli di spesa. “Senza un aumento di capitale, gli investimenti potrebbero dimezzarsi già a partire da quest’anno”, ha detto Bernardo.

Nel frattempo, secondo uno studio di Oxford Analytica (OA), il Sudamerica può far conto sulle sue imprese che, in molti casi, sono diventate delle multinazionali in grado di fare concorrenza ai gruppi dei Paesi più sviluppati (gli analisti le indicano col nome di Multilatinas). “Nell’ultimo decennio molte aziende dell’area latina sono passate dalla semplice esportazione di prodotti al fare investimenti diretti all’estero”, spiega lo studio di OA. La classifica stilata annualmente dalla rivista Fortune sulle 500 maggiori imprese mondiali, nel 2009 contava 11 gruppi della zona Latam contro i cinque del 2005. “Questa tendenza continuerà anche nei prossimi anni”, conclude il report di OA. “Nel frattempo, le società che sono già diventate multinazionali, continueranno ad acquistare i concorrenti dei mercati sviluppati”.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

Eurozona come la corsa coi sacchi

24 Marzo 2010 13:48 MILANO - di Elysa Fazzino
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L'eurozona deve fare più gioco di squadra: se i paesi membri non coordineranno le loro azioni, cadranno insieme. E‘ la conclusione cui giunge Marco Annunziata, capo economista di Unicredit, in un'analisi pubblicata sul Financial Times.

L'aspro dibattito sugli squilibri nell'eurozona, scatenato dalla crisi della Grecia, sottolinea "la necessità che i paesi membri pensino e agiscano come una squadra", afferma Annunziata. La Francia, argomenta, si è di recente unita al drappello di chi chiede alla Germania di stimolare la domanda interna per rafforzare la crescita e aiutare a ridurre il deficit di paesi come Grecia, Portogallo e Spagna. I tedeschi rispondono che invece di criticare la Germania, gli altri devono imitarla se si vuole che l'Europa abbia un futuro.

Ma guardando più da vicino, emergono "alcuni fatti interessanti" sulle singole economie: "La competitività della Germania si basa più sulla bassa crescita delle retribuzioni che sulla crescita della produttività. La bassa produttività dell'Italia è un problema molto più serio della dinamica salariale. Grecia e Irlanda hanno sprecato significativi aumenti di produttività con l'eccessiva crescita delle retribuzioni".

"La nostra analisi – continua l'economista – conferma che sì, la Germania deve stimolare di più i consumi interni, ma altri paesi devono impegnarsi maggiormente per alzare la crescita della produttività e aumentare la loro competitività".

E' come in una "corsa coi sacchi" in cui i compagni devono correre con una gamba nello stesso sacco, conclude Annunziata: o coordinano le loro azioni, o cascano insieme.

I negoziati Ue sugli aiuti alla Grecia sono in primo piano in queste ore sui siti della stampa economica internazionale. Oltre al Financial Times, anche il Wall Street Journal punta i riflettori sull'Europa. "I leader dell'eurozona cercano compromesso sull'aiuto alla Grecia", titola il quotidiano newyorchese riferendo gli ultimi sviluppi: i leader stanno lavorando a un accordo che potrebbe assicurare l'appoggio tedesco a un piano di salvataggio finanziario della Grecia in cambio dell'intesa da parte degli altri paesi a lasciare svolgere al Fondo monetario internazionale "un ruolo sostanziale".

Ma la Germania pone "dure condizioni": l'aiuto dovrebbe arrivare solo per impedire il default della Grecia, cioè dopo che Atene abbia esaurito tutte le possibilità di raccolta dei fondi dai mercati. Berlino, inoltre, insiste perché i governi dell'Unione europea facciano un passo verso un controllo più centralizzato dell'economia, concordando regole più stringenti per disciplinare i paesi scostanti.

Sembra emergere un compromesso, scrive il Wsj. L'articolo di Marcus Walker e Charles Forelle cita tra l'altro le dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini: "Abbiamo bisogno di un compromesso greco. Quando un paese dell'eurozona attraversa una fase difficile, abbiamo il dovere morale e istituzionale di intervenire".

Ma un accordo questa settimana "è tutt'altro che certo", aggiunge il Wsj. E gli addetti ai lavori europei avvertono: non ci si aspetta che i leader Ue decidano al vertice di capi di Stato e di governo di giovedì.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

La settimana, 12/2010

Friday, 26 March, 2010 at 16:30 - di phastidio
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Nella giornata di giovedì 25 marzo Francia e Germania hanno raggiunto un accordo per sostenere la Grecia, basato sul concorso di prestiti del Fondo Monetario Internazionale e di paesi dell’Ue in proporzione delle quote di partecipazione dei singoli stati al capitale della Banca centrale europea. La decisione suscita molti interrogativi, essendo sinora mancante di dettagli operativi fondamentali quali il ruolo del FMI e della Ue (o meglio della Bce) nel salvataggio.

Inoltre, il prestito avverrà a “tassi non sussidiati”, cioè di mercato, e solo in caso la Grecia si veda precluso l’accesso ai mercati finanziari. Come si nota, le richieste del premier greco Papandreou di avere tassi in linea con la “media normale della Ue” sono state frustrate. Il mercato non ha mostrato reazioni significative in termini di restringimento degli spread del debito greco su quello tedesco, né di credit default swap, a conferma della difficoltà a comprendere quali scenari ci attendono. Sempre su questo tema, in precedenza la Banca centrale europea aveva lanciato un salvagente alla Grecia, decidendo di mantenere anche oltre la fine del 2010 il livello di rating minimo che consente di ottenere prestiti dalla Bce, oggi a BBB-. In compenso, verrà introdotto un sistema di scarti di garanzia, crescenti al diminuire della qualità dei titoli presentati alla Bce.

Nel corso della settimana si è verificata una tendenza all’aumento dei rendimenti obbligazionari, innescata negli Stati Uniti dall’andamento non particolarmente brillante di due aste di Treasury Bond. Ciò ha avuto riflessi anche in Area Euro. La Fed ha completato per il momento il proprio easing quantitativo, con il riacquisto di mutui e cartolarizzazioni sui mutui ed i mercati temono che ciò, unitamente agli elevati volumi di emissione di nuovo debito, finirà con l’esercitare pressioni al rialzo sui rendimenti di mercato. L’aumento dei rendimenti, tuttavia, avviene in condizioni di pressioni inflazionistiche pressoché inesistenti. L’aumento di rendimenti reali che da ciò deriva rischia di esercitare un effetto depressivo sui mercati azionari.
Tra i dati macroeconomici della settimana, si conferma la debolezza del mercato immobiliare statunitense, sia per le vendite di case esistenti che per il nuovo. I mercati azionari hanno tratto sollievo, a metà settimana, da dichiarazioni di Janet Yellen, presidente della Fed di San Francisco e prossima vice di Ben Bernanke, considerata una “colomba” in politica monetaria, che ha confermato di ritenere “appropriato” l’attuale livello di tassi a zero, a causa dell’enorme “buco” nei livelli di attività (output gap). Concetto indirettamente confermato dallo stesso Bernanke nel corso di un’audizione al Congresso, in settimana. Rivisto in lieve rialzo il Pil del quarto trimestre, a più 5,6 per cento annualizzato, con ulteriore limatura del contributo alla crescita fornito da consumi e immobiliare residenziale.

In Area Euro migliorano in marzo le condizioni dell’indice dei direttori acquisti delle imprese manifatturiere e di servizi, situazione confermata anche dall’indice IFO tedesco. In Eurolandia prosegue la contrazione della massa monetaria M3, scesa in febbraio dello 0,4 per cento su base annuale, a conferma di condizioni di erogazione del credito ancora depresse, in conseguenza sia dell’inasprimento degli standard creditizi che della ridotta domanda delle imprese, in un contesto congiunturale ancora stagnante.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

La crisi dei debiti sovrani tocca gli Usa

27 Marzo 2010 10:21 MILANO - di Walter Riolfi
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C'è qualcosa di nuovo sui mercati finanziari. E non è propriamente un buon segnale. L'ha avvertito persino Wall Street, seppure inconsapevolmente, crescendo appena dello 0,6% in settimana, nonostante lo straripante ottimismo dei suoi operatori. Quel qualcosa di nuovo è il problema dei debiti sovrani che comincia a farsi sentire anche negli Stati Uniti, non solo nei ragionamenti degli economisti, ma per la prima volta nel comportamento dei titoli di stato e delle obbligazioni. Finora a Wall Street è interessato assai poco della crisi greca e delle possibili conseguenze su Portogallo, Spagna o Italia. L'attenzione degli americani s'è concentrata nel coniare acronimi (Piigs o STUPID) con le iniziali dei paesi europei (e della Turchia), senza immaginare che ci sarebbe voluta una "U" in più (come Usa) oltre quella di United Kingdom. Quanto succedeva alla Grecia o all'euro, erano cose europee. Un sondaggio di qualche giorno fa, condotto da Market Forecast Projet su 300 investitori professionisti americani, ha rivelato che il 66% di costoro è convinto che la crisi sul debito greco non avrà un grande impatto sulle borse mondiali. Figuriamoci per quella di New York.

E invece mercoledì e ancora giovedì i rendimenti dei Treasury decennali sono volati verso l'alto, passando dal 3,65% al 3,9% che rappresenta il massimo degli ultimi 10 mesi, allo stesso livello del novembre 2007, quando nessuno s'immaginava una crisi finanziaria di quelle dimensioni e tanto meno una recessione. Si potrebbe pensare che rendimenti in rialzo sono il segnale di un'economia in miglioramento. E difatti s'è sentito qualche operatore sostenere questa tesi: alquanto bizzarra, visto che erano calate le vendite di case nuove e di quelle esistenti, nonostante prezzi in ulteriore calo, che gli ordini di beni durevoli erano cresciuti meno del previsto e che le nuove richiede di sussidio erano sì leggermente inferiori al consenso, ma che a beneficiare dei sussidi erano quasi 100mila disoccupati in più delle stime.

Wall Street ha avvertito solo inconsapevolmente che qualcosa di diverso era nell'aria. Quando mercoledì l'S&P aveva perso un modesto 0,5%, reduce dall'ennesimo massimo relativo toccato il giorno prima, gli operatori avevano addotto le preoccupazioni sul Portogallo, il cui rating sovrano era stato abbassato da Fitch. In sè la spiegazione era pretestuosa, visto che era a tutti noto un declassamento da parte delle varie agenzie: e non a caso, quel giorno, lo spread dei titoli di stato portoghesi era semmai sceso rispetto al bund. Ma era inconsciamente vera, perché sul mercato obbligazionario Usa stavano salendo i rendimenti dei titoli di stato, al punto che quelli decennali hanno per la prima volta superato il tasso swap decennale (quello praticato alla clientela corporate di miglior livello). Come a significare che c'è più rischio in un Treasury che in un bond emesso da General Electric.

È una assurdità, ma il fatto che ancora ieri il tasso swap fosse di 7-8 centesimi inferiore a quello del titolo di stato decennale, complici anche due emissioni non accolte entusiasticamente dal mercato, sta a significare che le preoccupazioni sui debiti sovrani europei hanno cominciato a trasferirsi negli Usa. Ci sono abbondanti motivi che giustificano il fenomeno. Il rapporto tra debito pubblico ufficialmente dichiarato (12.606 miliardi $) e Pil è oggi pari all'87,2%. Ma aggiungendo i 6.264 miliardi di debiti in carico alle agenzie (Fannie Mae, Freddie Mac che sono interamente controllate dallo stato) si arriva a un rosso complessivo di 18.870 miliardi: ossia al 130,6% del Pil. Le finanze Usa sarebbero in condizioni peggiori di quelle dei paesi identificati dal gentile acronimo di piigs. Secondo Bill Gross, il maggior rischio insito nei Treasury finirà per contagiare anche i bond societari, al punto da far dichiarare al fondatore di Pimco che le azioni potrebbero addirittura far meglio delle obbligazioni per qualche mese. Ed è tutto dire per uno che da tempo non crede alle borse.
In settimana l'S&P ha guadagnato lo 0,6% (+0,9% il Nasdaq) e lo Stoxx l'1,3% (+2,3% Francoforte, +1,7% Milano, +1,6% Parigi, +0,9% Londra).
 

Fonte - Sole 24 ore