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INDICE ARTICOLI di TESTA

 

PARTE  2

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Borsa: voglia di rimbalzo o paura di correzione?

Crisi creditizia - Situazione

Le banche devono restituire ai governi 2.427 miliardi

Crisi creditizia - Adeguamenti normativi

Wall Street all'attacco della "regola Volcker"

Borse e Mercati - Sentiment & Opinioni

Borse, questa correzione ha i contorni della crisi

Crisi greca - Analisi sviluppi crisi

Grandi banche in odore di speculazione

Storia mercati e investimenti

Ventennio emergente, futuro di frontiera

Storia mercati e investimenti

Gestore, non dimenticare come fare il panino

Crisi greca - Analisi sviluppi crisi

L'insolvenza (default) della Grecia è vera o no?

 
+++   ANSA   +++   Crisi, a Grecia servono 54mld euro   +++    Usa: bancarotte personali +32%   +++   Usa: Gensler (Cftc), Possibili Nuove Crisi Se Derivati Non Regolamentati   +++   Usa: Fed, Disoccupazione Restera' Alta e Limitera' Crescita   +++   Usa: Obama Vuole Recuperare 120 Miliardi Dlr Da Banche  +++   ANSA   +++ 
 
  Martedì 02 Febbraio 2010   Mercoledì 03 Febbraio 2010   Venerdì 05 Febbraio 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

AIUTI ALLE BANCHE: RBS IN TESTA. POI LLOYDS E CITI

GRECIA: GLI AIUTI UE CREANO UN PRECEDENTE PERICOLOSO

Vola il Pil Usa, ma cade la Borsa americana

Lehman è stato un affare. Parla il ceo di Nomura

BORSA, PIMCO: IN ARRIVO UN NUOVO SCIVOLONE

GRECIA: UE CHIEDE SPIEGAZIONI SUL RUOLO DI GOLDMAN

Mercati del credito: analisi di scenari estremi

Mercati del credito 15 Feb.: Dubai e hH nuovi problemi

Mercati del credito 4 Feb. – dopo Grecia, il Portogallo?

I dolori del giovane investitore

Mercati del credito 5 Febbraio 2010 – panico organizzato

La settimana, 7/2010

La settimana, 5/2010

High Yield, volatilità in arrivo

G-7 finanziario nell'artico canadese per parlare di ...

Il virus greco passa dalle banche

Goldman nel mirino Sec «Ha colpe nella caduta di Aig»

Grecia, segreti del piano che salvera’ Atene

Banche Usa, un altro anno sul rasoio?

Chi vince e chi perde col barilE

MERCATI EMERGENTI: BUY SUI RENDIMENTI CORPORATE

Fuga dal reddito fisso, alcune considerazioni

Gestori più prudenti sull’Asia

QUANDO UN BROKER DI 28 ANNI GUADAGNA $25 MILIONI L'ANNO

   
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  Borsa: voglia di rimbalzo o paura di correzione?

01 Febbraio 2010 17:48 BIELLA – di Maurizio Milano*

*Questo documento e' stato preparato da Maurizio Milano, resp. Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

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Tentativo di assestamento ma tono ancora molto debole. Dopo la scivolata delle ultime due ottave l’azionario cerca una base sui supporti, indeciso tra la voglia di rimbalzare e la paura di una prosecuzione della fase correttiva.

Il Nasdaq Composite ha raggiunto il supporto in area 2110/55, la cui rottura proporrebbe il test del supporto critico in area 2020/40. Sui livelli correnti sono possibili dei rimbalzi verso 2200 (estensioni a testare 2265), ma finché l’indice staziona sotto tale resistenza il tono rimane molto debole. La rottura di 2110/55 (in fase di test) provocherebbe un’ulteriore scivolata a testare il supporto critico in area 2020/40, la cui tenuta (probabile) è essenziale per mantenere un’impostazione positiva per i prossimi mesi.

Il Dow Jones Industrial è molto prossimo al supporto in area 9950-10000, sotto cui si proporrebbe il test del supporto critico a 9750, dove dovrebbero comunque tornare gli acquisti. Sui livelli correnti sono possibili dei rimbalzi verso 10400/500, ma finché l’indice staziona sotto tale resistenza il tono rimane molto debole.

L’S&P500 sta scendendo verso 1065/80, sotto cui l’obiettivo è il forte supporto in area 1020/40. Sui livelli correnti sono possibili dei rimbalzi verso 1105/15 (estensioni, poco probabili, verso 1130), ma finché l’indice staziona sotto tale resistenza il tono rimane molto debole. La rottura di 1065/80 (in fase di test) provocherebbe un’ulteriore scivolata a testare il forte supporto in area 1020/40, la cui rottura (ancora poco probabile) darebbe un segnale negativo per i mesi a venire.

L’incapacità di mettere a segno rimbalzi degni di nota sui livelli correnti, unitamente ad una volatilità implicita che rimane decisamente instabile, concorre a delineare un quadro di perdurante fragilità per il mercato azionario.

Come sottolineato più volte, nelle settimane passate gli indici avevano raggiunto gli obiettivi del bear market rally partito dai minimi di marzo 2009, spinti dall’enorme liquidità a buon prezzo riversata nel sistema dalle Banche Centrali, Fed in primis. Col ritorno degli indici sui livelli precedenti al tracollo della Banca d’affari statunitense Lehman Brothers nel settembre 2008 si è andata progressivamente chiudendo una grande fase, in cui la "finanza", variamente declinata, è stata al centro dell’attenzione.

Recuperate le quotazioni pre-crollo, mancano ora ragioni "fondamentali" reali per cui il rialzo debba proseguire. La finanza ha fatto la sua parte per far lievitare le quotazioni delle Borse di tutto il mondo – non solo l’azionario ma tutte le asset class, dalle obbligazioni alle commodities –, e non si esclude che si siano formate nuove piccole bolle.

Stiamo entrando ora in una stagione nuova, che potremmo definire di "ritorno al reale": i mercati azionari dovranno fare i conti con un’economia la cui ripresa appare ancora molto incerta, in un contesto di trend occupazionali ancora negativi e quindi di tenuta dei consumi dubbia. Esauritosi il ciclo di ricostituzione delle scorte è ora necessaria una ripresa del ciclo degli investimenti; l’anno in corso è cruciale e dirà se siamo quasi al giro di boa oppure se dobbiamo attenderci ancora alcuni anni di bibliche "vacche magre".

Il quadro tecnico azionario rimarrà molto incerto, con un andamento scarsamente direzionale ed erratico, quindi con molti "falsi segnali". Andrà quindi privilegiata un’operatività "contro-tendenza", di acquisti sulla debolezza e vendite sulla forza, senza correre dietro a tutti i segnali ed evitando un’eccessiva rotazione di portafoglio. Bisognerà poi sapere scegliere, con un’accurata selezione di settori e titoli, privilegiando comparti quali l’energia, le utilities e l’alimentare e sottopesando i settori che avevano innescato il bear market rally, finanziario e automobilistico.
 

Fonte - Banca Sella

 

 

 

 

 

AIUTI ALLE BANCHE: RBS IN TESTA. POI LLOYDS E CITI

01 Febbraio 2010 20:09 NEW YORK - di ANSA
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Ecco la classifica elaborata dal centro studi di Mediobanca R&S. Conto salato per le casse di sua Maesta'. Tra Europa e Stati Uniti, durante la crisi gli aiuti di stato hanno toccato i $3.300 miliardi.
E' Royal Bank of Scotland la banca che ha incassato l'aiuto di stato piu' sostanzioso al mondo per far fronte agli effetti della crisi finanziaria. Il gigante anglosassone ha ricevuto infatti circa 420 miliardi di euro (restituiti 49,5 mld), vale a dire 100 miliardi in piu' rispetto all'altro colosso inglese, Lloyds (328 mld ricevuti, 299 restituiti).

Nella classifica, elaborata dal centro studi di Mediobanca R&S, si posizionano rispettivamente al terzo e al quarto posto i 'big' a stelle e strisce Citigroup (251 miliardi di euro, 229 mld restituiti) e Bank of America (116 miliardi di euro, 115 mld restituiti).

L'intervento piu' sostanzioso in Germania e' stato invece sostenuto per rilanciare Hypo Real Estate che ha assorbito risorse per 166 miliardi tra ricapitalizzazioni, garanzie e Opa(la banca e' stata nazionalizzata). Ad oggi l'esposizione del governo e' di 100 miliardi di euro. Complessivamente le banche in Europa avevano ottenuto 1.401 miliardi di euro, e ne hanno resi circa 842 mld (il 60%).

Si aggira sui 3.300 miliardi di euro il conto degli aiuti forniti alle banche dai Governi delle due sponde dell'Atlantico durante la crisi. Negli Usa l'anno piu' pesante e' stato il 2008 con uno stock lordo di aiuti di 1.957 miliardi di dollari, che si sommano ai 608 miliardi del 2009. Qui sono stati rimborsati 597 miliardi di dollari.
 

Fonte - ANSA

 

 

Vola il Pil Usa, ma cade la Borsa americana

01 Febbraio 2010 21:09 NEW YORK - di miaeconomia
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Alle volte le cifre nella loro essenzialita’ rendono meglio l’idea di qualsiasi discorso od argomentazione. Venerdi’ Wall Street, dopo una apertura in deciso rialzo ha chiuso in calo. A fine seduta il Dow Jones ha perso lo 0,5%, l’S&P500 l’1%, mentre l’indice tecnologico Nasdaq ha fatto peggio di entrambi e ha ceduto a l’1,4% con il comparto dei semiconduttori in caduta libera. Prima dell’apertura della Borsa Usa erano stati diffusi i dati sul Pil americano del quarto trimestre del 2009. Il prodotto interno lordo Usa nel 4° quarto dell’anno e’ salito del 5,7%, crescita che non avveniva in queste dimensioni da ben sei anni, ovvero dal lontano 2004. Non solocontemporaneamente venivano diffusi i consumi personali delle famiglie americane nel quarto trimestre del 2009, in rialzo del 2% oltre le attese del mercato di una crescita dell'1,8%.
Se il Pil che corre a ritmi di economia emergente e i consumi delle famiglie, che rappresentano i due terzi del Pil americano, non riescono a risollevare la Borsa americana, evidentemente tra gli operatori c’e’ la convinzione che a questi prezzi Wall Street e’ sopravvalutata. In Borsa vige il detto: compra sui rumors e vendi sulla notizia. Per settimane, mesi, la Borsa Usa, insieme alle Borse occidentali, e’ salita con la convinzione che l’economia globale fosse scampata ad una recessione che poteva rivelarsi ben peggiore di quella degli ani ’30 e ai primi segnali di rallentamento della crisi gli acquisti sui mercati azionari sono piovuti, permettendo alle Borse di fare in 10 mesi importanti recuperi. Adesso che la speranza e’ diventata una realta’, che ci sono le conferme che l’economia Usa e’ tornata a correre, che anche nell’Ue la crescita secondo le ultime stime dell’Fmi e’ maggiore del previsto, gli operatori passano alla cassa, per monetizzare i guadagni sulla carta. Cosi' la seduta di venerdi’ puo’ essere anche letta come l’anticamera di un trend ribassista
 

Fonte - miaeconomia.leonardo.it
 

 

 

BORSA, PIMCO: IN ARRIVO UN NUOVO SCIVOLONE

03 Febbraio 2010 14:52 NEW YORK - di WSI
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Lo scrive El-Erian, gestore del piu' grande fondo obbligazionario su scala globale. Ripresa economica e mercato del lavoro a rischio. Le stime dovranno essere riviste. In peggio.
L’andamento del mercato azionario potrebbe peggiorare, accentuando un calo che gia' adesso e' il piu' marcato degli ultimi 11 mesi. Ne e’ convinto Mohamed A. El-Erian, chief executive officer di Pacific Investment Management (Pimco), il piu’ grande fondo obbligazionario del mondo. Le sue considerazioni, pubblicate da Bloomberg News, si basano sulla persistente disoccupazione americana e sulle incerte prospettive di crescita economica.

Gli investitori, ha sostenuto El-Erian, hanno erroneamente dato per scontato, e quindi incluso negli attuali prezzi di borsa, il ritiro delle misure governative di stimolo, una ripresa delle attivita’ di prestito da parte delle banche e politiche governative coordinate per ristabilire la crescita. Questo significa che le stime sui profitti delle aziende quotate a Wall Street per l’anno in corso potrebbero rivelarsi troppo ottimiste, per cui le quotazioni potrebbero essere destinate a scivolare, scrive il CEO di Pimco.

"Gli operatori potrebbero scoprire che il sell-off sull’azionario del mese di gennaio e’ stato soltanto un'anticipazione di quello che potrebbe essere un anno particolarmente deludente per molti tipi di asset, compreso l'azionario", continua El-Erian su Bloomberg. "La crisi finanziaria che ha coinvolto tutto il mondo ha messo a repentaglio ripresa economica e creazione di posti di lavoro e ha portato a livelli preoccupanti il deficit pubblico".
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Le banche devono restituire ai governi 2.427 miliardi

03 Febbraio 2010 10:24 MILANO – di ASCA

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Non c'è dubbio che in questa fase abbiano fatto notizia più i rimborsi che gli aiuti. Ma l'esposizione dei Governi verso il sistema bancario è aumentata ancora rispetto all'ultimo scorcio del 2008, soprattutto in Europa, e, nonostante molti istituti abbiano iniziato a restituire i fondi ricevuti, è tuttora a livelli stratosferici. Il calcolo aggiornato l'ha fatto R&S-Mediobanca, che stima in 2.427 miliardi di euro (1.398 miliardi gli Usa, 1028 miliardi l'Europa) l'esposizione netta dei Governi occidentali nei confronti del sistema bancario: come se a rischio ci fosse ancora un paese delle dimensioni della Germania.

A livello complessivo, la potenza di fuoco messa in campo dagli Stati Uniti non ha uguali. In tutto il Governo federale ha aperto un ombrello da 2.565 miliardi di dollari (di cui oltre il 70% a titolo di garanzia degli attivi) per riparare il sistema dal diluvio che il crack Lehman avrebbe potuto scatenare. Nel corso del 2009 le banche Usa hanno rimborsato circa 600 miliardi di dollari, ma il "saldo netto" degli aiuti a fine 2009 non risultava molto differente dall'importo di fine 2008: 1.968 miliardi di dollari contro i precedenti 1957 miliardi. In altri termini, i 104 istituti che si sono dati da fare per rientrare con lo Stato, hanno pareggiato gli interventi pubblici incrementali dell'anno scorso. I big del settore hanno potuto fare ricorso al mercato, in generale tutti sono stati "aiutati" dalle modifiche ai principi contabili, ma alla fine il diluvio non c'è stato anche se l'ombrello, bello ampio, è ancora aperto. Oltretutto, gli interventi a pioggia che negli Usa hanno riguardato 838 istituti (di cui 726 beneficiari di iniezioni di capitale), non hanno evitato il fallimento di 143 banche nel solo 2009.

Ma, a giudicare dai singoli stanziamenti, i problemi più grossi li ha dovuti affrontare il Vecchio continente che si è mosso con interventi mirati (solo 64 gli istituti interessati). Nessuno al mondo è stato sostenuto infatti più di Royal Bank of Scotland che è costata al Regno unito un'esposizione di 420 miliardi di euro. Non robetta, perchè la cifra è superiore al Pil di un un paese come la Polonia e, anche se il malato in terapia intensiva ha restituito di recente una cinquantina di miliardi, avanzano ancora 370 miliardi. Lloyds Bank, l'altro istituto britannico oggetto di attenzioni particolari, è stato più efficace: nell'ottobre 2008 ha ricevuto aiuti per 328 miliardi di euro, a novembre 2009 ne ha restituiti 300.
Nell'Europa continentale è stata invece la Germania a doversi accollare lo sforzo maggiore: tra ricapitalizzazioni, garanzie e Opa, la sola Hypo Real Estate, che è stata nazionalizzata, ha assorbito risorse per 166 miliardi, ridimensionate a 100 miliardi a fine anno.
All'estremo opposto l'Italia, con appena 4,1 miliardi di interventi, sotto forma di "Tremonti bond", a favore di quattro istituti: Banco Popolare (che ha sottoscritto titoli per 1,45 miliardi), Bpm (500 milioni), Mps (1,9 miliardi) e Credito Valtellinese (200 milioni).

Nel complesso, in Europa gli interventi pubblici per il credito sono stati concentrati nel primo trimestre 2009 e nel corso dell'anno sono stati pari a due volte e mezzo l'ammontare di fine 2008. Complessivamente gli interventi assommano a 1.449 miliardi di euro, per l'80% a titolo di garanzia, ma il saldo netto a fine 2009 risultava pari a 1028 miliardi. In particolare, a restituire in toto o in parte gli aiuti ricevuti sono state sette banche: Bnp, SocGen, Crédit Agricole, Ing, Lloyds, Rbs e Hypo Re.
Anche in Europa si è registrata qualche chiusura nel 2009: per precisione, in Olanda ci sono state due liquidazioni e una bancarotta (St.George Private finance, Dsb e De Indonesische Overzeese bank). Ma i Governi sono stati costretti a intervenire in extremis in molti altri casi. Qualche mese fa per esempio l'Austria ha dovuto salvare la Kommunalkredit, nazionalizzandola per il prezzo simbolico di 2 euro. E sono state nazionalizzate, oltre alle islandesi Landsbanki e Kaupthing, anche la Hypo Real Estate in Germania; la Northern Rock e la Bradford& Bingley in Gran Bretagna, mentre per la London Scottish Bank è stata necessaria l'amministrazione controllata. Infine il 2010 ha battezzato le prime due bad bank, l'una in capo alla tedesca WestLB e l'altra alla britannica Northern Rock.
 

 

Fonte - ASCA

 

 

 

 

  Wall Street all'attacco della "regola Volcker"

03 Febbraio 2010 15:22 MILANO – di Mario Margiocco

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Come la corazzata Bismarck braccata dalla Royal Navy non doveva trovare rifugio in un porto amico, così la Volcker rule, le regole o meglio i princìpi dettati dall'anziano ex governatore della Federal reserve per scongiurare il ripetersi di un'altra crisi finanziaria non devono approdare a nessuna sponda legislativa. Su questo Wall Street, il partito repubblicano, e non pochi amici democratici di Wall Street si stanno muovendo con grande determinazione. Nonostante la decisione di Obama, annunciata il 21 gennaio, di dare alla Volcker rule veste ufficiale integrando così le proposte di riforma finanziaria non ancora trasformate in legge.
La figura, il ruolo e il trattamento di Volcker e riservati a Volcker, 82 anni, sono emblematici della situazione in cui si trova l'élite di potere negli Stati Uniti. In campagna elettorale Volcker, a lungo democratrico, poi indipendente ma comunque schierato con Barack Obama, ebbe il ruolo e molte foto e riprese tv da senior adviser, il saggio banchiere centrale che parlava al giovane candidato.
Vinte le elezioni, Volcker fu subito messo da parte e le leve del comando dell'economia affidate ad amici fidati di Wall Street nei cui confronti Volcker è sempre stato sospettoso, e da ultimo critico severo. Ricambiato con uguale freddezza. Nel 1987 Volcker avrebbe proseguito volentieri per un terzo mandato alla guida della Federal Reserve, gestita con grande successo per otto anni, ma tutta Wall street si mosse con discrezione contro di lui, considerato troppo prudente in fatto di deregulation, e i reaganiani lo sostituirono con Alan Greenspan.

Volcker va ripetendo da un anno la sua tesi, che ha tre capisaldi. Le banche non possono essere troppo grandi per fallire. Le banche che raccolgono risparmio e hanno quindi la tutela dello Stato non possono rischiare con operazioni in proprio, oltre una certa misura, sui mercati speculativi. I derivati vanno posti sono attento controllo. Non è una regola completa, non è nemmeno detto che sia tutta giusta, ma pone i problemi veri.
Nonostante l'età e l'emarginazione pressoché totale dalla Casa Bianca, dove aveva un fantomatico ruolo di consulente part-time, Volcker ha ripetuto il suo messaggio senza stancarsi, in America e in Europa. Il voto del 19 gennaio nel Massachusetts, dove il nodo Wall Street/Main Street ha pesato molto, ha dimostrato che Volcker è popolare e l'amministrazione, considerata troppo vicina all'alta finanza, assai meno. L'anziano banchiere due giorni dopo era davanti alle telecamere alla destra di Obama che dichiarava la Volcker rule politica ufficiale.
Ma si tratta di principi che vanno articolati, correlati a molte altre parti della normativa e all'azione degli organismi di sorveglianza. E devono fare parte di un corpus univoco, per essere efficaci. Basandosi sul fatto che la Volcker rule, da sola, non è una formula magica che avrebbe evitato i guai del 2008, Wall Street e alleati sono partiti all'attacco.

I senatori della commissione bancaria, che ancora devono preparare il loro testo di legge, dicono che è tardi. Ricordano, come diceva a maggio lo stesso Obama, che la coesistenza sotto lo stesso tetto di banca con depositi e banca d'affari non è la causa perché in Canada e in Europa questa coesistenza esiste e i problemi o non ci sono stati (Canada) o sono diversi (Europa). «Wall Street se la ride davanti a Volcker», scrive sul Daily Beast Charles Gasparino, cronista finanziario fin troppo "in" a Wall Street, spiegando come la riforma sarebbe acqua fresca – frutto di una mente anziana dice, che ha perso il contatto con l'evoluzione dei mercati - ma non spiegando come mai allora Wall Street la osteggia così tanto.
L'episodio più chiaro, e un po' sgradevole, c'è stato il 2 febbraio in un'audizione davanti alla commissione bancaria. Il senatore Mike Johanns, repubblicano del Nebraska, ha insistito a lungo sempre con una domanda: ma con la Volcker rule il 2008 ci sarebbe stato o no? Volcker rispondeva con un principio: occorre fare in modo che il contribuente non debba essere chiamato a coprire gli errori dell'attività speculativa. Ma era un dialogo tra sordi. Alla fine Volcker dichiarava, rivolto a Johannes e a tutti, e senza ombra di ironia: «Se le istituzioni saranno lasciate libere di speculare, io forse non vedrò la prossima crisi, ma è certo che la mia anima tornerà a tormentarvi».
 

Fonte - Il sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Mercati del credito: analisi di scenari estremi

3 February, 2010 at 8:30 - di Charles Dexter Ward
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Dopo un inizio d’anno all’insegna dell’entusiasmo, il mercato del credito ha tirato un po’ il fiato, coinvolto nel più generale movimento di ritorno dell’avversione al rischio che ha caratterizzato le ultime settimane di gennaio, e che si è tradotto in una correzione dei listini azionari nell’ordine di sette o otto punti percentuali. Sotto gli occhi di tutti è poi la pressione cui iniziano ad esser sottoposti i bond governativi, con l’indice sintetico Sovx che scambia ad uno spread più largo rispetto all’indice Main. Pur tenendo conto di fattori tecnici che influenzano questo confronto acuendone il trend di fondo, rimane evidente la sovraperformance relativa dei crediti anche in queste settimane dominate dal nervosismo.
Del resto, il consensus sul credito come asset class rimane estremamente positivo: è indubbio che i bilanci aziendali continuano a mostrare estrema solidità grazie alla pronta risposta volta al contenimento dei costi, alla protezione dei margini e all’adeguamento dei livelli della produzione. Anche in prospettiva, uno scenario caratterizzato da crescita moderata è tipicamente positivo per il mondo del credito.

 

  XXX  
     
... ...
 

Fonte - XXX

 


Sul grafico che segue si è provato a sintetizzare (in maniera estremamente semplice e probabilmente semplicistica) il pay-off di una posizione lunga di credito dove sull’asse delle ordinate abbiamo il P&L (utili/perdite) e sull’asse delle ascisse un indicatore di ciclo economico (per semplicità abbiamo indicato il Pil, o Gdp). Visivamente il grafico ricorda quello di un Top Straddle, ovvero la vendita contestuale di una opzione call e una put con stesso strike price e stessa scadenza: come in questo caso, nell’esser lunghi di credito si beneficia di un carry positivo a fronte di una vendita di volatilità rispetto allo scenario centrale. I due scenari estremi qui sono stati indicati come FIRE e ICE, ovvero l’ipotesi di ricaduta in un ambiente recessivo o all’altro estremo una crescita molto sostenuta, con implicazioni inflazionistiche.
Nella parte inferiore del grafico viene indicato l’investimento che idealmente opera un hedging della scommessa: chi crede nello scenario ICE (quello recessivo-deflazionistico) dovrebbe evitare le obbligazioni high yield e comprare titoli di stato, meglio se di area core come i Bund; chi scommette sullo scenario di surriscaldamento (FIRE) , sappia che in quel caso le obbligazioni investment grade saranno perdenti, e dovrebbe invece prendere in considerazione l’investimento in obbligazioni convertibili.

 

 

 

Mercati del credito 4 Febbraio 2010 – dopo la Grecia, il Portogallo?

4 February, 2010 at 8:30 - di John Christian Falkenberg
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Mercati deboli, complici le preoccupazioni sui debitori sovrani più deboli nell’area euro. Oltre alla Grecia, anche il Portogallo comincia a cedere, mentre si fanno sempre più volatili i prezzi per la protezione su Italia, Spagna, Irlanda e Regno Unito.
All’apertura del mercato è proseguita l’ondata di panico in atto da ieri, a causa del cattivo risultato dell’asta di titoli di Stato in Portogallo e dell’insoddisfazione per i piani finanziari di rientro proposti dalla nazione iberica e dalla Grecia. L’ondata ha spinto l’indice SovX verso i massimi storici fino a 103, prima di un rientro almeno parziale; anche il resto dei nomi a rischio medio-alto, quali Italia, Regno Unito e soprattutto Spagna ed Irlanda stanno soffrendo.
Rimane notevole la resistenza del mercato del debito aziendale, indebolito dai problemi sovrani, ma decisamente più tonico di altri: in generale i CDS su emittenti di nazioni appartenenti ai PIGS continuano a scambiare a livelli migliori di quelli delle nazioni di riferimento, un’anomalia decisamente evidente almeno nel lungo periodo. Ancora più pericoloso è lo stretto divario fra gli indici del debito bancario e quello del debito sovrano: vista l’importanza della garanzia implicita statale nei confronti delle banche, è sorprendente come gran parte degli istituti di credito mostrino spread più contenuti di quelli della propria nazine di riferimento, quella nazione che dovrebbe salvarli in caso di ulteriori problemi.
Sul mercato corporate propriamente detto, prosegue intensa l’attività di primario, nonostante la debolezza generale di mercato. Fra le aziende italiane, segnaliamo il piazzamento di un bond Telecom Italia a 7 anni. L’emissione, inizialmente pianificata per 750 milioni di euro, è stata aumentata ad un miliardo e 250 milioni, creando una certa insoddisfazione fra gi acquirenti. L’emissione è un tasso fisso con cedola al 5.25 % e pagava all’emissione un tasso equivalente al midswap maggiorato di 157 basis points (1.57%).
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Livello Var.ne da ieri
Main 83.5 +2.8
HiVol 119 +5.0
Crossover 453 +12.0
Livelli di CDS per emittenti sovrani , valori massimi raggiunti in mattinata
Portugal…215/225 +20bps
Ireland….175/180 +15bps
Italy……140/145 +12bps
Greece…..420/430 +30bps
Spain……165/170 +15bps
Written by John Christian Falkenberg
Thursday, 4 February, 2010 at 13:46
Posted in Area Euro, Credito, Mercati
Tagged with grecia, Itraxx, PIGS, Portogallo



 

 

Mercati del credito 5 Febbraio 2010 – panico organizzato

5 February, 2010 at 8:30 - di John Christian Falkenberg
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Dopo un’apertura drammatica, i mercati del credito mostrano una qualche stabilità vicino ai minimi.
L’apertura di oggi è stata sicuramente la peggiore da alcuni mesi: la pessima chiusura di Wall Street, la débacle dei mercati asiatici e il persistere dei problemi di bilancio in Europa hanno causato un’ondata di acquisti di protezione e di vendite di titoli che ha portato l’indice Main a 93 e il Sovx a 108, rispettivamente il massimo assoluto di sempre per i CDs sovrani e il massimo dal settembre scorso per l’indice corporate. Un’ondata di prese di profitto ha poi riportato gli indici a livelli più razionali, ma permane la debolezza sia sui titoli che sui derivati. Un segnale incoraggiante è dato dal riapparire di alcuni timidi compratori fra gli investitori istituzionali più orientati al medio-lungo termine.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Livello Var.ne da ieri
Main 90.75 +3.8
HiVol 134 +11.0
Crossover 488 +15.0
Written by John Christian Falkenberg
Friday, 5 February, 2010 at 14:06
Posted in Area Euro, Credito, Mercati
Tagged with Credito, grecia, Itraxx, SovX
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Sabato 06 Febbraio 2010   Domenica 07 Febbraio 2010   Martedì 09 Febbraio 2010  
       
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GR1 RAI - 08 Feb. ore 22:00

   

MP3 (40 KB)

 

GR1 RAI - 09 Feb. ore 22:00

   

MP3 (48 KB)

 

 

 

 

 

 

 

La settimana, 5/2010

Friday, 5 February, 2010 at 16:36 - di phastidio
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Settimana di forti turbolenze sui mercati, causate soprattutto dai rinnovati timori riguardo la finanza pubblica della Grecia, che si sono rapidamente estesi a Portogallo e Spagna, e che hanno innescato un più generale movimento di avversione al rischio che ha determinato un movimento di allargamento generalizzato dei credit default swaps su pressoché tutti i paesi, sviluppati ed emergenti, ed una fuga verso il dollaro ed in uscita dall’euro.
L’approvazione, da parte della Commissione europea, del piano greco di consolidamento fiscale, non ha tranquillizzato i mercati, che continuano a ritenere il paese ellenico incapace di raggiungere l’obiettivo. La tensione si è in seguito estesa anche al Portogallo, dove il governo di minoranza del socialista José Socrates potrebbe essere costretto a dimettersi per l’impossibilità a far passare le misure di stretta fiscale necessarie alla riduzione del deficit. Anche la Spagna è tornata sotto i riflettori, per analoghe considerazioni.

Il futuro e le prospettive del debito sovrano dei paesi dell’Area Euro preoccupano gli investitori, e le dichiarazioni del presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, che giovedì ha parlato di “forti fondamentali” della regione e di deficit non peggiori di quelli di altri paesi, hanno accentuato un’incertezza che deriva soprattutto dal rifiuto della Commissione europea (e dei maggiori paesi, come la Germania) di riconoscere pubblicamente di essere pronti al salvataggio, sia pure condizionato. Il Fondo Monetario Internazionale, per bocca del suo direttore generale, Dominique Strauss-Kahn, si dice pronto ad intervenire a sostegno dei paesi che lo richiederanno. Se da un lato l’eventuale azione del FMI dovrebbe risultare più efficace di quella della Ue, perché meno vincolata da considerazioni politiche, e quindi in grado di imporre condizioni di risanamento più stringenti, dall’altra parte susciterebbe il sospetto che la costruzione europea manchi degli strumenti e, soprattutto, della volontà politica per fronteggiare crisi di finanza pubblica dei propri membri. I mercati azionari europei sono in evidente difficoltà, come confermato anche dal fatto che l’indice Eurostoxx 50 ha bucato al ribasso la propria media mobile a 200 giorni.

Negli Stati Uniti sono tornati timori sulla auto-sostenibilità della ripresa. Dal versante del mercato del lavoro, il dato settimanale sui nuovi sussidi di disoccupazione sembra confermare l’inversione della tendenza alla riduzione del numero di sussidi. Il dato di gennaio su occupati e disoccupati (due survey diverse, giova ricordarlo), pur segnalando una ulteriore perdita di occupati (pari a 20.000 unità), evidenzia anche (nella Household Survey) un calo della disoccupazione, dal 10 al 9,7 per cento, che appare significativo perché ottenuto in condizioni di lieve aumento del tasso di partecipazione alla forza lavoro. Migliore anche il dato sui guadagni orari medi e quello riferito alle ore lavorate in produzione, a conferma dell’andamento relativamente migliore dell’occupazione manifatturiera rispetto a quella del settore dei servizi, come indirettamente confermato anche dai rispettivi dati ISM di gennaio. Resta la cautela relativa al fatto che tradizionalmente il mese di gennaio è tra quelli sottoposti a rilevanti procedure di destagionalizzazione.
La revisione annuale della serie storica sul numero degli occupati ha inoltre evidenziato una maggiore distruzione di occupazione rispetto alle precedenti stime, pari a poco più di 600.000 unità, da ricondurre agli errori metodologici prodotti soprattutto dal Birth/Death Model, che tenta di stimare la creazione di occupazione nelle nuove imprese.
 

Fonte - Macromonito

 

 

 

G-7 finanziario nell'artico canadese per parlare di ripresa, banche e mercati

05 Febbraio 2010 17:17 - di ASCA
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I ministri e i governatori del G7 si incontreranno venerdì e sabato a Iqaluit, quasi all'estremo nord del Canada, per fare il punto sulla ripresa economica e sulle misure per regolare il sistema finanziario. La scelta della città, a 2mila km a nord di Montreal, appare audace vista la stagione, ma potrebbe anche essere un modo di dare rilievo all'evento, al quale in molti hanno predetto una morte lenta.

L'ultima riunione si era tenuta a Istanbul in un sabato di ottobre ed era passata pressoché inosservata. Per l'Italia parteciperanno il ministro del Tesoro Giulio Tremonti e Mario Draghi, nella doppia veste di governatore della Banca d'Italia e di presidente del Fsb. Il G-7 riunisce, oltre al Canada che ha la presidenza, gli Stati Uniti, il Giappone e quattro paesi europei, ossia Germania, Francia, Italia e Regno Unito. All'incontro partecipano anche i rappresentanti del Fondo monetario internazionale, del Financial Stability Board e della Commissione europea. Gli organizzatori hanno dichiarato di volere una riunione «più piccola, più informale» e contano su una «discussione franca». Hanno chiesto ai partecipanti di rinunciare a giacca e cravatta a favore di un bel maglione pesante.

La presidenza canadese ha dichiarato di voler tornare alle "radici" del G7, concepito nel 1975 dal presidente francese Valéry Giscard d'Estaing come "una chiacchierata intorno al
fuoco" nella foresta di Rambouillet, vicino a Parigi, e divenuto nel corso degli anni una grande macchina diplomatico-politica. Per la prima volta dopo molti anni, non verrà pubblicato nessun comunicato al termine dell'incontro, evitando che il pesante lavoro di preparazione di un testo condiviso rubi tempo alla riunione. È prevista solamente la conferenza stampa comune, all'inizio della quale il ministro canadese Jim Flaherty fornirà un riassunto dei lavori. «Non ci saranno decisioni», ha avvertito un portavoce del ministero delle Finanze tedesco.

Al centro del dibattito ci saranno le condizioni dell'economia, con il ritorno di una crescita più o meno solida a seconda dei paesi, la regolamentazione del settore finanziario e i tassi di cambio, tema al centro della riunione di Istanbul. Un funzionario del Tesoro americano ha indicato alla stampa che il suo paese intende sollevare la questione della riduzione del debito di Haiti, per aiutare il paese a rimettersi in piedi dopo il terremoto. La discussione si annuncia più accesa in materia di sistema finanziario. I canadesi hanno «delle banche che sono uscite dalla crisi finanziaria largamente indenni, e senza sostegno pubblico, motivo per cui gli stessi padroni di casa hanno poca voglia di nuove imposizioni per il settore finanziario», spiega Julian Jessop, di Capital Economics.

Al contrario gli americani hanno fatto delle proposte ardite, tra cui quella di recuperare il denaro speso per salvare le banche americane tassando le principali istituzioni finanziarie presenti nel paese, comprese quelle straniere. Francesi, tedeschi e italiani sono fedeli al loro messaggio di coordinamento internazionale, e il ministro delle Finanze tedesco Rainer
Bruederle ha sottolineato martedì, nel corso di una visita a Washington, che nessun paese può permettersi di fare il cavaliere solitario in materia di riforma dei mercati finanziari. «Dal lato giapponese, la riunione sarà la prima del ministro Naoto Kan, in carica da appena un mese e favorevole, caso raro all'interno del G7, a degli interventi sul mercato per indebolire la sua valuta, lo yen. Il ministro delle Finanze canadese Jim Flaherthy, ha dichiarato di prevedere una discussione sui tassi di cambio, nel quadro più globale di un dibattito su una crescita mondiale equilibrata. Ripetendo il leitmotiv degli Stati Uniti, secondo cui lo yuan è «sottovalutato», il responsabile del Tesoro americano ha detto che «le questioni relative alla moneta cinese sono nella mente di tutti», lasciando intendere che saranno discusse.

Fonte - ASCA

 

 

 

 

 

 

  Borse, questa correzione ha i contorni della crisi

06 Febbraio 2010 10:37 – di Miaeconomia

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Quella che due settimane fa sembrava una semplice correzione dei mercati sta assumendo sempre più i contorni di una nuova crisi finanziaria. Per ora non c'è nulla di drammatico e molto probabilmente dovrebbe trattarsi di una di quelle turbolenze che interrompono per un po' la tendenza positiva dei mercati e che fanno ripensare gli investitori sulle loro precedenti certezze e sulla loro eccessiva esuberanza. Se così fosse, sarebbe un processo salutare perché questa crisi riproporrebbe una più corretta percezione dei rischi che si stavano quasi smarrendo nell'euforia dei mercati, dopo 10-11 mesi di forti rimbalzi.

La cognizione del rischio era scomparsa sui mercati delle materie prime, con i prezzi che sono raddoppiati o triplicati in pochi mesi: nell'illusione che la futura forte ripresa economica avrebbe giustificato quei prezzi e nella facilità con cui si trovava denaro quasi a costo zero. Questa euforia, che aveva raggiunto l'apice in Cina, ha cominciato a smorzarsi tra ottobre e novembre, quando la Banca del Popolo ha deciso una serie di interventi per rendere di fatto meno espansiva la politica monetaria.
La cognizione del rischio s'era smarrita sui mercati obbligazionari con il record di emissioni, tra bond societari a buon rating (investment grade) e junk bond, in un crescendo di attività che aveva raggiunto il parossismo nelle prime due settimane dell'anno, facendo quasi impallidire l'euforia del 2006: quella che aveva preluso allo scoppio della bolla sul credito. E non s'era arrivati molto lontano dagli eccessi di 3-4 anni fa, se si pensa che i differenziali di rendimento tra i titoli a basso rating e titoli di stato erano finiti quasi agli infimi livelli di allora. Dopo il 12 gennaio l'allegro meccanismo comincia ad incepparsi e i Cds sulle obbligazioni societarie (credit default swap, ossia una sorta di premio per assicurarsi sui rischi d'insolvenza) hanno ricominciato a salire. Adesso i Cds europei (iTraxx) sui titoli a peggior rating si ritrovano a 495 punti, ossia ai livelli dell'ottobre scorso: 120 in più dei minimi dell'11 gennaio. Quelli sui titoli investment grade sono volati da 65 a 92, più o meno come erano la scorsa estate. Per avere un'idea, i rendimenti di questi ultimi sono aumentati mediamente di 16-20 centesimi rispetto a quelli dei titoli di stato.

Il guaio è che nel frattempo sono aumentati anche i rendimenti dei titoli di stato o, meglio, sono volati quelli di alcune nazioni sulle quali si sono intensificati i rischi sulla sostenibilità del loro debito pubblico: nell'ordine Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia. È la crisi dei debiti sovrani innescata tra ottobre e novembre dalla Grecia e amplificata in dicembre dal quasi fallimento del Dubai. Se Atene è stata messa sotto cura dalla Bce e Lisbona è oggetto di forti attenzioni, è assai improbabile che per gli altri paesi si possano configurare condizioni d'insolvenza paragonabili a quella dell'Argentina nel 2001. Ma per la speculazione internazionale è comunque un'occasione d'oro e il gioco è spingere al ribasso le attività dei paesi a rischio (compresi i titoli delle loro banche) come pure l'euro, già affaticato fin da novembre dalla chiusura delle posizioni di carry trade sul dollaro.
Siccome la strategia di molti hedge fund è di andar corti (al ribasso, vendendo allo scoperto) su titoli di stato, azioni e valuta dei paesi a rischio per andar lunghi (comperare) su quelli di altri stati ritenuti più sicuri, ecco spiegato perché l'euro sia crollato del 10% sul dollaro in poco più di due mesi, perché le banche europee sono scese di oltre il 17% dai massimi di periodo, contro il 7% di quelle americane, perché le maggiori borse del Vecchio continente siano calate tra il 10% della Germania e il 12-12,5% di Francia e Italia. Per non parlare ovviamente del -17% della Spagna o del -35% della Grecia. Sul fatto che sulle banche europee abbiano pesato anche i nuovi criteri ristrettivi di Basilea3 è assai probabile. Ma non si capisce come mai non abbiano pesato a Wall Street le nuove regole proposte da Obama sulle banche oppure le crescenti preoccupazioni sui crediti al mercato degli immobili commerciali. È vero che sull'Europa grava la prospettiva di una crescita economica quanto meno dimezzata rispetto agli Usa. Ma qual è il tenore della crescita d'Oltreoceano?

Non quello immaginato da analisti ed economisti fino a qualche mese fa, come ha dimostrato anche ieri il calo degli occupati. E qui si inserisce il terzo fattore della crisi: la delusione che si sta diffondendo dopo aver constatato che l'economia non cresce secondo le attese. E anche l'appariscente rimbalzo del Pil Usa nel 4° trimestre è dovuto per quasi due terzi alla riduzione delle scorte. Infatti l'attività non manifatturiera segna il passo e, contando circa il 75% del Pil, potrebbe frenare il ritmo della ripresa economica. Ecco che la crisi, sbrigativamente liquidata come una turbolenza greca o spagnola, ha invece assunto i contorni di un ripensamento di tutti i mercati. Su quelli delle materie prime s'è già visto il petrolio e il rame correggere il 15-18% dai massimi: circa il doppio dell'S&P500. E inoltre bisognerebbe considerare che gli Usa hanno relativamente beneficiato dalle disavventure europee essendo ritenuti, come succede nei tempi di crisi, una sorta di porto sicuro. Anche in questo caso si consuma il paradosso di voler considerare equivalente a quello tedesco il rischio sul debito americano che, tra pubblico e privato, è assai più grande. Forse l'ultimo atto della crisi potrebbe concludersi con una accresciuta percezione dei rischi Usa.
In settimana l'S&P ha perso lo 0,7% (-0,3% il Nasdaq) e lo Stoxx il 3,8% (-4,9% Milano, -4,7% Parigi, -3,1% Francoforte, -2,5% Londra).
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 

 

Goldman nel mirino della Sec «Ha colpe nella caduta di Aig»

07 Febbraio 2010 19:15 - di ASCA
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NEW YORK - Secondo un'inchiesta della Sec, Goldman Sachs potrebbe aver giocato un ruolo decisivo nel processo che ha portato alla caduta del colosso assicurativo Aig e al successivo pacchetto di aiuti costato al contribuente americano 180 miliardi di dollari Le implicazioni dell'inchiesta sono molto imbarazzanti: la banca potrebbe aver spinto la Aig verso il fallimento per colpire indirettamente il mercato dei mutui americani su cui aveva scommesso contro, con importanti posizioni sottoscritte fin dal 2006. Goldman come molte altre istituzioni, aveva sottoscritto con Aig delle polizze assicurative chiamate Credit Default Swap per proteggersi dal rischio di default nel mercato dei mutui. Quando la situazione del mercato effettivamente peggioro', Goldman presento' le polizze all'incasso e ottenne fino a due miliardi di dollari gia' nel corso del 2007. Una cifra che Aig pero' contesto' poco dopo, quando sembrava che il mercato fosse in ripresa, chiedendo un rimborso che Goldman rifiuto', passando anzi all'attacco con nuove richieste di fondi. Goldman ha da sempre difeso le sue azioni, condotte, ha sostenuto la banca, in piena trasparenza e legalita', semplicemente riscattando ammontari assicurati in normali polizze, nell'interesse dei suoi azionisti.
Nuove rivelazioni raccolte dal New York Times da documentazione della Sec e pubblicate questa mattina offrono tuttavia un quadro piu' complesso. E gettano nuovi dubbi sul modus operandi della banca americana proprio quando l'istituzione sembrava uscire da un problema di immagine grazie alla scelta del fine settimana di pagare un bonus molto piu' contenuto delle attese al suo amministratore delegato, Lloyd Blankfein. L'inchiesta del Times poggia su testi e lettere in mano agli investigatori e su una registrazione telefonica di un negoziato fra le due istituzioni che fa risalire il punto di svolta a un incontro che si e' tenuto il 28 gennaio del 2008.

L'incontro avvenne in forma di conferenza telefonica e aveva in tutto 21 partecipanti delle due istituzioni. Si doveva discutere di un contenzioso aperto da tempo: Aig chiedeva il rimborso di almeno una parte di due miliardi di dollari che la banca aveva gia' ottenuto da Aig per il peggioramento di certe sue posizioni nei mesi precedenti, Goldman lo rifiutava. La conferenza e' stata registrata e il New York Times ha ottenuto di poterla ascoltare. Il quotidiano ha anche visionato numerosi documenti raccolti dalla Sec relativi a transazioni sul mercato dei mutui sia di Goldman che di altre istituzioni a partire dal 2006 . Le operazioni sono molte complesse, comportano l'analisi di prodotti derivati e di accordi di Credi Defalut Swaps, che, per come erano strutturati, sfuggivano al controllo e alle regole delle normali polizze di assicurazioni esponendo Aig a rischi molto forti del normale. Al di la' della leggerezza della compagnia di assicurazione nello strutturare il suo paccetto assicurativo sui rischi mutui, Goldman potrebbe aver tuttavia approfittato coscientemente della situazione: " bracci di ferro fra istituzioni finanziarie sono normali, ma il confronto fra AIG e Goldman, che si concluse dopo un'ora con un nulla di fatto, sarebbe diventato uno dei punti di svolta centrali nella storia di Wall Street...-scrive il New York Times - ...in tutto Goldman, prima ancora degli aiuti federali avrebbe ottenuto da Aig 7 miliardi di dollari, mettendola alle corde dal punto di vista finanziario ...ora la SEC vuole capire se alcune delle richieste di Goldman hanno indebolito impropriamente il mercato dei mutui immobiliare gia' molto debole.... " .

Secondo il New York Times in sostanza, Goldman avrebbe guadagnato da ogni parte: mettendo sotto pressione Aig sul mercato dei mututi, contribuiva a formare nuove preoccupazioni sul mercato, indeboliva una istituzione chiave per l'equilibrio di quel mercato e all'indebolimento progressivo dei mutui immobiliari, soprattutto del comparto subprime. Questo sviluppo consentiva a Goldman di accumulare enormi profitti su posizioni costituite appunto a partire dal 2006 che speculavano contro il mercato dei mutui. Quando poi Goldman si trovo' con altri strumenti nel suo portafoglio, riusci' a farsi coprire le perdite prima da Aig e poi, quando Aig non aveva piu' risorse per far fronte all'improvvisa crisi di liquidita', dallo stato, che le verso' attraverso Aig 12,5 miliardi di dollari e una porzione di altri 11 miliardi di dollari pagati alla Societe' Generale. "Non c'e' da stupirsi se poi Goldman ha avuto un anno record in termini di profitti" ha osservato ieri una fonte autorevole a Wall Street. In effetti ci sono state molte altre banche che hanno beneficiato di una dinamica simile, sia americane che straniere. Ma Goldman Sachs e' stata l'istituzione ad avere maggiori benefici in assoluto. Soprattutto sarebbe stata lei a condurre l'attacco originario che ha poi portato alla caduta di Aig e al successivo pericolo sistemico per i mercati finanziari in due settimane di fuoco di molti mesi dopo, nel settembre del 2008.
"Abbiamo chiesto i nostri collaterali a cui avevamo diritto, l'idea che Aig e' caduta per colpa delle nostre azioni e' ridicola" ha commentato Lucas Van Praag, il responsabile delle comunicazioni di Goldman Sachs, in relazione all'articolo del New York Times. Ma l'articolo e' molto dettagliato, offre una cronologia di numerose operazione e delle cifre in discussione ricostruendo il dialogo fra le istituzioni mese per mese, semper con una dicotomia: stabilire il reale valore di mercato dei titoli in discussione. Goldman riusci' a ottenre che fossero prezzi stracciati. E ora, quegli stessi titoli, con la ripresa del mercato, sono tornati attorno a valori su cui Aig non avrebbe dovuto sborsare un centesimo
 

Fonte - ASCA

 

 

Banche Usa, un altro anno sul rasoio?

08/02/2010 - di Miaeconomia
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La convinzione che il peggio della catastrofe economico finanziaria sia passata ha fatto perdere di vista quello che fino a qualche mese fa era visto come una specie di indicatore.
Perche' nel 2009 sono stati registrati 140 fallimenti bancari negli Stati Uniti, la peggiore annata mai vista dal lontano 1992, quando il paese cercava di uscire dalla tremenda crisi del comparto risparmi e prestiti.
Il guaio e' che le cose non sembrano per niente migliorare, gli analisti statunitensi iniziano a pensare che il 2010 riuscira' perfino a essere peggiore del 2009 su questo fronte, nonostante il recupero stellare del Prodotto interno lordo e il miglioramento (leggero) del mercato del lavoro.
A conti fatti si inizia a pensare che il numero dei fallimenti bancari negli Usa quest'anno potra' arrivare allegramente a quota 200, un aumento di oltre il 40% rispetto al 2009 e un costo potenziale di oltre 50 miliardi di dollari a carico dei contribuenti, con i prestiti ad alto rischio approvati tra il 2006 e il 2007 che adesso presentano sul serio il conto.
Nel solo 2009 l'agenzia pubblica federale che interviene a salvare i depositi dei cittadini americani - l'Fdic - ha speso 36,4 miliardi di dollari, mentre il totale degli asset coinvolti e' arrivato a quota 171,9 miliardi, con un tasso di perdite del 21%, come rende noto una stima Kbw.
Visto che al peggio non c'e' fine, molti esperti stimano che neppure il 2010 sara' il picco dei fallimenti bancari Usa, perche' il quadro potrebbe essere ancora piu' deteriorato nel 2011 e 2012 e oltre. Come dire, se e' vero che un ciclo finanziario legato al settore dei prestiti e' di 5 anni, allora potremmo perfino allungare i tempi bui fino al 2013.
Le banche statunitensi che stanno fallendo oggi, del resto, si trovano con l'acqua alla gola per i prestiti concessi tra il 2006 e il 2007, quando c'era il boom del mercato immobiliare.
Per salvare le banche piu' esposte agli ormai mutui subprime, si stima che il mercato immobiliare Usa dovrebbe recuperare il 50% del valore in neanche un anno. Intanto a gennaio altre 15 banche americane hanno gia' affrontato il fallimento e se il buon giorno si vede dal mattina, chissa' cosa potra' ancora accadere.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

MERCATI EMERGENTI: BUY SUI RENDIMENTI CORPORATE

09 Febbraio 2010 20:13 MILANO - di Legg Mason
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Nonostante i mercati asiatici stiano registrando delle correzioni significative, il trend rialzista continuera' anche nel 2010. Restano queste le migliori opportunita' d'investimento.
Batterymarch Financial Management, società del gruppo Legg Mason, ritiene che i rendimenti corporate dei mercati emergenti continueranno il trend rialzista anche nel 2010 e che, nonostante i mercati asiatici stiano vivendo una fase di sovraperformance e nello stesso tempo stiamo registrando delle correzioni significative, nel complesso questa asset class subirà un lieve perdita di valore.

Ray Prasad, di Batterymarch Financial Management, relativamente ai mercati azionari dell’area pacifico - asiatica, ha commentato: "Nel breve periodo, sembra che i mercati asiatici stiano entrando in una fase dove la sovraperformance potrebbe registrare uno spostamento settoriale, qualche volta in modo improvviso, con il potenziale per registrare di volta in volta correzioni significative all’interno dei settori. Ciò si potrebbe verificare manifestando nel complesso una lieve perdita di valore. Nel lungo periodo, la combinazione di valutazioni interessanti, prospettive di crescita superiori, solidi bilanci patrimoniali a livello statale, aziendale e familiare, ci spinge a essere fiduciosi nelle capacità dei mercati asiatici di assicurare buone performance".

"Guardando avanti, ci aspettiamo che una larga parte della crescita mondiale sia guidata dall’Asia e dagli altri mercati emergenti. L’attività economica cinese, supportata da un miglioramento dell’economia statunitense, sarà la chiave per l’attuale contesto economico. Nel complesso, i mercati asiatici continuano ad offrire una crescita di rendimenti migliore del previsto e rispetto ai mercati sviluppati, come pure una solida redditività. Inoltre, le stime sui rendimenti si stanno rivalutando e sono in crescita in tutta l’Asia e risultano positive in tutta la regione dal momento che gli analisti prevedono una ripresa."

Prosegue Ray Prasad sulle azioni dei mercati emergenti: "I driver macro economici e le dichiarazioni politiche stanno passando in secondo piano dato che gli investitori si focalizzano nuovamente sui fondamentali delle aziende e sulla selezione delle azioni. Società con un forte management e solidi bilanci patrimoniali trarranno beneficio dallo scoprire un ambiente in cui la fiducia dei consumatori aumenta, maggiore è la sicurezza occupazionale, dove si assiste ad una riduzione dei costi finanziari e in generale si assiste ad un aumento dell’attività economica."

"I mercati emergenti offrono ancora una crescita dei rendimenti attesi migliore di quella dei mercati sviluppati, così come una migliore profittabilità. La revisione delle stime sugli utili sono in aumento in tutti i mercati emergenti. Il rimbalzo delle valute considerate interessanti, forti riserve in valuta estera e un forte consumo interno in molti mercati emergenti continua a fornire un contesto favorevole per i rendimenti corporate".
 

Fonte - Batterymarch Financial Management per Wall Street Italia

 

 

 

Gestori più prudenti sull’Asia

11-02-10  - di Sara Silano
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Il 2010 è cominciato con una frenata delle Borse internazionali, ma per i gestori la situazione economico-finanziaria rimane favorevole ai titoli azionari. E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio condotto da Morningstar tra le principali case di gestione italiane ed estere che operano in Italia.
Le ragioni della battuta d’arresto dei listini sono molteplici. Innanzitutto, la politica monetaria della Cina che è diventata più restrittiva e si è riflessa negativamente sulla domanda di materie prime e, di conseguenza, sui Paesi emergenti che sono i produttori. In secondo luogo, la crisi greca che, anche se non porterà al default, potrebbe estendersi ad altre nazioni. In terzo luogo, la politica americana con la perdita da parte dei democratici del seggio del Massachussett, che minaccia la riforma sanitaria. A questo si aggiunge la proposta di norme più rigide nel settore bancario.

Europa in trend laterale
Le Borse europee potrebbero essere caratterizzate da un andamento laterale nei prossimi mesi, dopo il rally durato dieci mesi e le recenti prese di profitto. Le valutazioni dei titoli sono buone e i tassi di interesse bassi, ma la crescita economica non è omogenea. Inoltre, alcuni indicatori, come l’indice di fiducia dei consumatori tedeschi (Zew) e quello Pmi dei direttori degli acquisti dell’area Euro sono stati inferiori alle attese. Esiste anche qualche preoccupazione per la fine degli incentivi nel settore automobilistico, perché rende il Vecchio continente più dipendente dalle esportazioni, in particolare verso la Cina. Per queste ragioni, il numero di gestori che prevede un apprezzamento nei prossimi sei mesi è sceso dall’87% di gennaio al 78,9%.

Wall Street conquista i gestori
Secondo alcuni fund manager, gli Stati Uniti sono da sottopesare, secondo altri il vantaggio dell’Europa non è più così giustificato come in passato. Il problema è quello di interpretare i dati economici, perché, accanto ai chiari segnali di ripresa, ce ne sono altri che indicano un’uscita dalla recessione lenta, primo fra tutti la disoccupazione che rimane elevata. Non è concorde neppure il giudizio sul livello delle valutazioni: per alcuni intervistati sono “accettabili”, per altri “non a sconto”. In ogni caso, Wall Street è la piazza preferita dai gestori a febbraio, con l’84% degli intervistati che si attende una crescita nei prossimi sei mesi, dieci punti percentuali in più rispetto a gennaio.

Tokyo, il ritorno
Nelle prime settimane del 2010, la Borsa giapponese si è mossa in controtendenza rispetto ai ribassi degli altri mercati mondiali. A gennaio, il Sol Levante è il Paese che ha avuto il più alto flusso di investimenti. Nel breve può avvantaggiarsi della ripresa delle esportazioni, soprattutto in Asia, della debolezza dell’Europa e di possibili nuove politiche di espansione monetaria per contrastare la deflazione. I gestori rimangono comunque cauti: il 47% prevede un rialzo dell’indice Nikkei nei prossimi sei mesi e il 42% si attende stabilità attorno agli attuali livelli.

Asia economica e finanziaria
Dal punto di vista economico, l’area dell’Asia-Pacifico è quella che presenta le migliori prospettive di crescita; tuttavia la forte presenza nei portafogli globali può rappresentare un rischio. Inoltre, l’aumento degli utili è già incorporato nelle valutazioni. Secondo alcuni gestori, è meglio puntare sulle multinazionali che operano nel sub-continente. Rispetto al sondaggio di gennaio, la percentuale di coloro che prevedono un apprezzamento nei prossimi mesi è scesa dal 61 al 52,6%.

Il mercato dei bond fiuta la stretta
I gestori prevedono che i rendimenti dei titoli decennali aumenteranno leggermente sia nell’area Euro sia negli Stati Uniti, con conseguente lieve riduzione dei prezzi. I fund manager cominciano a ragionare sul possibile incremento dei saggi di riferimento nella seconda parte dell’anno, in particolare da parte della Federal Reserve. Un altro elemento da tenere in considerazione è l’elevato indebitamento di molti Paesi. Nel Vecchio continente, i vincoli imposti dalla moneta unica costringeranno gli Stati dell’Unione a tagliare la spesa ed aumentare le tasse. E’ da vedere come i mercati accoglieranno i piani di risanamento del deficit pubblico.

Euro sotto pressione
La moneta comunitaria continua a soffrire la crisi dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna). Inoltre, la possibilità che la Fed alzi i tassi prima della Banca centrale europea avvantaggia il dollaro. Per queste ragioni, il 73,2% dei gestori prevede che l’euro si indebolisca nei confronti del biglietto verde (erano il 65% a gennaio).

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 3 e il 10 febbraio, 19 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Banca Ifigest, Bnp Paribas Am Sgr, Credit Suisse, Eurizon Capital, Fideuram Investimenti, Henderson Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, M&G Investments, Pioneer Im, Prima Sgr, Schroders, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, Total Return, VG.SA, Vontobel.

 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

 

  Mercoledì 10 Febbraio 2010   Venerdì 12 Febbraio 2010   Domenica 14 Febbraio 2010  
       
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  Grandi banche in odore di speculazione

13 Febbraio 2010 00:21 ROMA – di Marcello De Cecco

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L’attacco speculativo in grande stile che interessa da un mese la zona Euro, e che si manifesta con vendite non solo della moneta unica europea ma specialmente dei titoli pubblici dei suoi membri più deboli, costituisce un unicum nella storia finanziaria. Esso colpisce infatti non un paese sovrano ma una Unione economica costituita da paesi ancora sovrani, che però hanno rinunciato ad una componente importante della sovranità, quella monetaria, sostituendo alle monete nazionali una moneta unica governata da una banca centrale indipendente dai governi , che non può acquistare titoli pubblici degli stati membri e che è ufficialmente anche sfornita delle prerogative del prestatori di ultima istanza nei confronti delle banche della stessa Unione monetaria.

Quando si varò la moneta unica, dando vita ad istituzioni tanto peculiari e inedite, si disse subito che i debiti pubblici dei paesi membri erano divenuti diversi da quelli dei paesi che avevano conservato la sovranità monetaria, come ad esempio il Regno Unito o gli Stati Uniti. I debiti pubblici dei paesi dell’Euro non potevano essere sostenuti dalla creazione monetaria, come accadeva agli stati che hanno una moneta nazionale.
Essendo l’area dell’euro formata da paesi di varia forza economica, quelli più deboli guadagnavano dall’adottare una moneta sostenuta da quelli forti della stesa area. Ma i differenziali tra i cambi, si diceva, sarebbero stati sostituiti, come termometro della condizione economica dei vari paesi, dai differenziali tra i rendimenti dei titoli pubblici e su di essi si sarebbe potuta riversare la speculazione finanziaria, una volta che fossero state abolite le monete nazionali dei paesi dell’Unione Monetaria.

L’Euro è entrato in funzione nel 1998 e in circolazione nel 2002. Da quel momento i paesi partecipanti più deboli hanno goduto solo dei vantaggi derivanti dall’appartenere ad una moneta unica. La reputazione dei governi e delle economie più forti, come Francia e Germania, si è estesa a quelli più deboli e i differenziali tra i rendimenti dei titoli pubblici sono restati assai più bassi di quelli tra i cambi delle monete nazionali prima dell’avvento dell’ Euro. Le pressioni derivanti al sistema monetario europeo dalla oscillazione tra i cambi delle monete partecipanti non si sono riprodotte sul mercato dei titoli di stato. A creare e mantenere questo stato di cose non erano estranee le condizioni di forte espansione monetaria scelte dalla banca centrale americana in tutto il periodo. Prima la crisi dell’high tech, poi quella indotta dall’attacco terroristico del settembre 2001, poi le necessità della guerra in Iraq e Afghanistan, hanno fatto sì che l’intero mondo e in esso i paesi dell’Euro, nuotasse in un mare sempre più vasto e profondo di liquidità.

Le cose sono cambiate con la crisi del 2008, che ha fatto crollare la domanda in tutto il mondo e in particolare nei paesi dell’Euro, molto dipendenti dalla economia internazionale. I deficit pubblici si sono gonfiati dappertutto, anche nella zona Euro. Particolare pesantezza hanno raggiunto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, come conseguenza non solo del crollo delle entrate fiscali indotto dalla crisi, ma anche della necessità di salvare il sistema delle banche private, messo in ginocchio da un decennio di avventatissime operazioni, per le quali la crisi ha significato un improvviso e disastroso redde rationem.

Anche per i paesi dell’euro la crisi ha significato il gonfiarsi patologico dei deficit pubblici, ma nella maggior parte di essi non nella misura in cui esso si è verificato in Gran Bretagna e Stati Uniti. Nei più deboli, come la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, invece, gli squilibri, che prima si erano manifestati solo con enormi deficit commerciali, sono esplosi come deficit pubblici, e si sono raggiunti livelli simili a quelli di Uk e Usa.

C’era da aspettarsi, e tutti se lo aspettavano, che questo avrebbe fatto divaricare i differenziali tra i rendimenti dei titoli pubblici dei paesi dell’Euro. Il fattore scatenante, infatti, la crisi finanziaria e le sue conseguenze sui conti pubblici, era servito a dissolvere l’effetto di convergenza tra i rendimenti indotto dalla politica permissiva della Fed e della Bce. Il dissolversi di tale effetto ha messo in evidenza alcune caratteristiche negative delle economie e delle finanze private e pubbliche dei paesi più deboli della zona euro.

Ma, dato che le stesse caratteristiche contraddistinguono paesi come Gran Bretagna e Stati Uniti, perché non è ancora accaduto che il rendimento dei loro titoli pubblici si sia elevato fino a raggiungere i livelli toccati nei giorni scorsi dai titoli pubblici dei paesi più deboli? E’ proprio questa domanda, che i mercati si sono posti nel mese scorso, che ha fatto tremare la dirigenza inglese e quella americana. Pareva infatti , fino a metà gennaio, che la grande speculazione internazionale avesse preso di mira il dollaro e la sterlina, facendo scendere il tasso di cambio della moneta americana fino a 1.47 dollari per euro.

Poi il trend si è invertito e l’Euro ha cominciato a scendere, spinto in basso dall’aprirsi improvviso del differenziale tra i tassi dei titoli dei cosiddetti PIGS, quelli che una volta si chiamavano il Club Mediterranee, e il tasso di riferimento, quello sui titoli tedeschi.

Che l’anello debole della catena, tra i paesi meridionali dell’Euro, fosse la Grecia, era noto a tutti da tempo. Tutti ricordano le modalità poco sagge della condotta fiscale del governo greco, a partire dal finanziamento delle olimpiadi, ma anche delle imprese e delle banche greche, impegnate molto seriamente nei confronti delle grandi banche specialmente tedesche e francesi (ma anche inglesi). Così come tutti sanno che, tra i paesi del Nord Europa, l’Irlanda non ha tenuto di certo un comportamento più morigerato. E che l’Austria ha impegnato le sue banche in avventurosi prestiti nell’Europa che fu il suo Impero.

Ma, come hanno notato non solo Joe Stiglitz ma anche un economista molto conservatore come Peter Bofinger, membro del «consiglio dei saggi» tedeschi, e un giornale ultraconservatore come lo Handelsblatt, quella che si è scatenata contro la Grecia e contagia gli altri paesi del Sud Europa e l’Irlanda (e potrebbe contagiare anche l’Austria e la Svezia) è una manovra speculativa condotta dalle grandi banche internazionali, per salvare molte delle quali sono andati in deficit i bilanci pubblici di numerosi stati. Esse cercano in questo modo di guadagnare profitti veloci anche se, come ha scritto lo Handelsblatt, mordono la mano che ha loro dato da mangiare.

Non è difficile leggere, sui principali giornali inglesi e americani, la speranza che la crisi speculativa attuale si concentri sull’Europa per parecchio tempo. Le famose agenzie di rating sembra stiano operando acché ciò accada. Standard&Poor’s ha dichiarato agli inizi dello scorso dicembre di aver messo sotto osservazione il debito a lungo termine greco, con implicazioni negative per il futuro. Non sembra che abbia fatto lo stesso per quanto riguarda Gran Bretagna e Stati Uniti, malgrado il fatto che ormai i titoli a lunga americani rendono più di mezzo punto di più di quelli tedeschi e che le prospettive del bilancio pubblico degli Stati Uniti siano pessime. Lo stesso vale per la Gran Bretagna, semmai peggiorato dal fatto che la sterlina non è più un moneta di riserva e non può imporre i propri passivi al resto del mondo.

Mentre la bufera imperversa sui paesi dell’Euro, incaute dichiarazioni di influenti personaggi come Jurgen Staerck e Joaquin Almunia hanno contribuito non poco ad attizzare il fuoco e a estenderlo ad altri paesi come Spagna e Portogallo. Le aspirazioni politiche dei due personaggi in questione spiegano in buona parte il loro comportamento antieuropeo e antinazionale. Si è notato poi un desiderio del Fmi di entrare in partita, senza dubbio motivato dalle ambizioni presidenziali di Strauss Kahn e da qualche autorevole consiglio. Né aiuta molto a ridurre la potenza dell’attacco a valuta e titoli europei la poco convinta e assai vaga dichiarazione uscita dalla riunione a 27 di giovedì. Non ci si poteva aspettare di più da una assemblea di così tanta gente, così eterogenea. Ma è mancata anche una dichiarazione congiunta franco tedesca che, in quella sede, chiarisse la volontà dei due paesi centro dell’Europa di sbarrare il passo alla speculazione.

Ora, con la direttiva emessa venerdì dalla banca centrale cinese alle banche di quel paese di aumentare le riserve sui prestiti, la seconda in poco tempo, le speranze della dirigenza anglo americana di spostare il temporale dalle proprie teste a quelle dei paesi dell’Euro si attenuano di nuovo. Se si ferma la Cina o se, ancor peggio, la bolla immobiliare cinese esplode, è possibile che la grande speculazione torni a occuparsi di dollaro e sterlina.

L’accumulazione di riserve in dollari da parte cinese diminuisce, proprio quando l’offerta di titoli americani sta aumentando oltre ogni limite. Questo spinge in giù il tasso di cambio del dollaro. Questa aspettativa può indurre gli operatori a vendere dollari, ulteriormente rinforzandone le aspettative di ulteriori ribassi.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

GRECIA: GLI AIUTI UE CREANO UN PRECEDENTE PERICOLOSO

13 Febbraio 2010 16:20 NEW YORK - di WSI
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Lo sostiene Erik Nielsen, chief economist di Goldman Sachs. Ora anche Portogallo e Spagna pretenderanno un trattamento simile a quello di Atene.
Nello stringere un accordo per correre in soccorso della Grecia, i leader dell'Unione Europea hanno cosi' creato un precedente storico, cui potranno rifarsi gli altri Paesi alle prese con un deficit di bilancio di dimensioni allarmanti, come il Portogallo.

Lo ha detto ai microfoni dell'emittente Cnbc Usa il chief economist per l'Europa di Goldman Sachs: "se fossi nei panni del ministro portoghese delle Finanze e avessi bisogno di un aiuto simile, avrei ottimi motivi per pretendere lo stesso trattamento".

Ora che i leader della Ue hanno trovato un accordo per aiutare la Grecia a ridurre il debito, faranno fatica a dire di no alle altre economie della zona euro che si trovano nella medesima difficile situazione.

I problemi con cui Atene e' alle prese sono piu' gravi di quelli degli altri Paesi e inoltre sono stati intensificati dal fatto che la Grecia non abbia detto tutta la verita' sullo stato dei propri conti. Nielsen ritiene che Atene non sara' in grado da sola di portare a compimento l'austero piano di ristrutturazione del debito, che prevede una riduzione del deficit pubblico dal 12.7% attuale al 3% entro la fine del 2012.
Prima che l'accordo venisse raggiunto, il presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet aveva dato la sua approvazione ufficiale al piano, definendolo la strada giusta da percorrere. Resta ancora da vedere se i finanziamenti dell'Ue saranno contingenti al piano originale o meno.

"Penso che richiederebbe una stretta e dei cambiamenti altrettanto radicali e, fatto ancora piu' importante, per implementare riforme di questo tipo bisogna avere un sistema costituzionale piu' solido di quello su cui possono invece contare i greci", ha osservato sempre Nielsen.

"Fissando un obietivo troppo ambizioso e in qualche modo irrealistico, corrono pertanto un rischio, ma ovviamente quando c'e' una crisi e' meglio avere ambizioni molto alte in modo da realizzare una riforma veramente completa".

In Grecia intanto i sindacati hanno organizzato una serie di scioperi e proteste conto il piano di ristrutturazione, che tra le altre misure prevede il congelamento degli stipendi per gli impiegati statali e un innalzamento dell'eta' pensionabile nazionale.

I bond del governo greco sono stati venduti a piene mani nel corso dell'ultima settimana, alimentando i timori di un contagio nella regione europea, con i governi di altri Paesi alle prese con deficit di bilancio superiori alla norma che hanno registrato un incremento del costi per raccogliere denaro tramite l'emissione di bond.

Il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz ha accusato pubblicamente gli speculatori per aver esacerbato la situazione, aggiungendo che la Grecia e' stata "vittima di un attacco sferrato dai mercati finanziari".

Nielsen pero' non concorda con l'opinione dell'economista e infatti ha dichiarato nell'intervista che non c'e' nessuna prova a dimostrazione che i movimenti dei mercati siano stati dettati da attivita' speculative. Tuttavia Nielsen ha riconosciuto che senza dubbio gli investitori a lungo termine hanno venduto i bond greci originando ulteriori pressioni sulle spalle dell'Unione Europea.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

Lehman è stato un affare. Parla il ceo di Nomura

13 Febbraio 2010 20:58 LONDRA - dal nostro corrispondente Leonardo Maisano
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Londra – "Nomura il vero vicintore del credit crunch ? Non sono così arrogante, ma se lo dice lei, le prometto che non sarà smentito". Sadeq Sayeed, pachistano, ceo della maison giapponese per Europa Medio Oriente Africa 57 anni, è l'uomo che ha negoziato l'acquisizione di Lehman e l'ha, poi, integrata in Nomura immaginando un'operazione estrema, ovvero l'emancipazione di una potenza finanziaria regionale, in potenza globale. Dal Giappone al mondo grazie alle spoglie di un grandissimo attore del banking internazionale. Tutti tremavano, tutti vendevano e Nomura ha finito per acquisire e forse strapagare avendo piazzato sul tavolo bonus garantiti per i banchieri dell'istituto in via di fallimento.

E' contento mister Sayed ?
"Se un anno e qualche mese fa, nei giorni dell'acquisizione di Lehman, qualcuno mi avesse detto che a marzo 2010 avremmo fatto i risultati verso i quali stiamo andando avrei dato qualsiasi cosa perché fosse vero. Abbiamo raggiunto ad ottobre gli obiettivi che ci eravamo posti per l'anno (quello fiscale inglese aprile su marzo n.d.r.), e abbiamo quasi centrato quelli che in autunno ci eravamo prefissati per marzo di quest'anno. Certo molto è dipeso dalle condizioni di mercato particolarmente vantaggiose, ma potevamo non essere pronti per sfruttarle al meglio. E invece continuiamo a prendere quote dalla concorrenza: alla fine di ottobre 2009 eravamo al 4% delle revenue globali mondiali oggi siamo al 5,3-5,4.

L'investment banking è tornato fare utili anche per voi, ma nell'ultimo trimestre il trading è calato, come valori, del 55 per cento…
Non si può prendere un trimestre né per il trading né per l'investment banking. Quest'ultimo ha goduto di un incredibile numero di Ipo lanciate in Giappone dove siamo ovviamente fortissimi.
Glielo ridomando: siete i veri vincitori del credit crunch ?
Be' non ne vedo altri, eccetto, forse, gli autori di lunghi e dotti libri sulla crisi. La realtà è che il credit crunch ha offerto opportunità, come avviene sempre in queste occasioni. Nomura non era esposta perché aveva già pulito il bilancio nel 2007 riducendo i propri rischi. Così, nel 2008, eravamo pronti a raccogliere.

Vuole cioè dire che avevate previsto la crisi ?
No. Bastava in realtà prevedere la probabilità e lo abbiamo fatto dando una spazzolata ai nostri bilanci. Poi siamo saliti sulla barca Lehman e l'abbiamo pilotata senza chiedere un dollaro di denari pubblici ma facendo ricorso due volte al mercato. Oggi abbiamo un tier 1 a quota 18, eccezionale per una banca d'investimento.

In realtà vista da fuori l'operazione Lehman appare come un "reverse takeover" con la banca americana lanciata ad "occupare" la maison giapponese, invece del contrario. E per questo la vecchia guardia di banchieri si sarebbe sentita scavalcata da quelli dell'istituto americano…
Sono in totale, assoluto disaccordo. Riconosco che Lehman abbia cambiato Nomura. Ne ha accresciuto le ambizioni e mutato l'approccio avendo avuto uno straordinaria capacità di trasformare il gruppo. Ma non c'è concorrenza interna con fazioni che vincono su altre. Oggi Nomura non è una società giapponese con attività in Europa e Stati Uniti, è un attore globale.

Condivide la linea annunciata dal presidente Obama e anche in una certa misura dal premier Gordon Brown ?
Penso che sui capitali il punto non sia stato colto con precisione. Ho simpatia per quanto si è detto su una forma di assicurazione, ma la gestione tecnica di un progetto del genere è complessa e ancora vaga. Per ora ognuno sembra agire in modo unilaterale, senza coerenza complessiva. Ci vuole un level playing field nel mondo e questo implica regole simmetriche. Regole che però non devono scoraggiare la concorrenza che resta la migliore forma di meccanismo di controllo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

GRECIA: UE CHIEDE SPIEGAZIONI SUL RUOLO DI GOLDMAN SACHS

15 Febbraio 2010 15:22 BRUXELLES - di ANSA-AGI-TELEBORSA
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Ovviamente a cose fatte. Lo scandalo monta ma senza clamore. E' sempre piu' chiaro che i finanziamenti ad Atene della banca americana hanno falsato l'entita' del debito della Repubblica Ellenica. Rischi di bilancio.
La Commissione Ue ed Eurostat hanno chiesto spiegazioni al governo greco sul presunto aiuto fornito ad Atene da banche d'affari americane, in particolare Goldman Sachs e JP Morgan Chase. L'aiuto avrebbe mascherato l'entita' del debito della Repubblica Ellenica. 'Aspettiamo le informazioni richieste entro fine febbraio', ha detto il portavoce del nuovo commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn. 'Poi - ha aggiunto - daremo la nostra valutazione sui fatti'.
Commento di Luca Ciarrocca fondatore e direttore del sito www.wallstreetitalia.com
Rumor: sarebbe la banca Usa, a Wall Street soprannominata "La Piovra", dietro al rialzo dei CDS (credit default swaps) ellenici. Gioco al massacro per scardinare l'euro.
I contratti stipulati dal Governo greco con le banche d'affari americane che avrebbero contribuito a "truccare" i dati dei conti pubblici di Atene negli scorsi anni "erano legali": lo ha chiarito, riferendosi alle rivelazioni dei giorni scorsi su contratti di tipo "swap", il ministro delle Finanze greco, George Papacostantinou".
Il New York Times, in un articolo peraltro ripreso da un articolo di una settimana fa pubblicato da Der Spiegel, ha evidenziato come due grandi banche quali Goldman Sachs e JP Morgan Chase, attraverso una serie di meccanismi swap hanno permesso alla Grecia di ipotecare alcuni settori della propria economia, nascondendo così parte del debito alla Commissione europea. Queste operazioni infatti non appaiono come prestiti bancari ma come vendite con pagamenti differiti. In particolare la Grecia avrebbe finanziato parte del suo deficit sulla sanità pubblica impegnando i futuri introiti sulle tasse aeroportuali, i pedaggi autostradali e gli incassi legati alle lotterie di stato.
Intanto il nuovo commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn, chiede ulteriori misure fiscali alla Grecia per il piano di risanamento dei conti pubblici. "I rischi di bilancio si stanno materializzando ci aspettiamo che il governo assuma a tempo debito misure supplementarie", ha affermato Rehn a margine del vertice dell'Eurogruppo odierno. Sempre oggi il numero uno dell'Eurogruppo, Jean-Claude Junker, ha dichiarato che bisognerà verificare se la Grecia dovrà ridurre il deficit per la portata indicata dal governo, ossia di quattro punti percentuali quest'anno. "Tutto dipenderà dalle risposte che giungeranno su questa domanda cruciale", ha aggiunto Juncker.
 

Fonte - ANSA-AGI-TELEBORSA

 

 

 

Mercati del credito 15 Febbraio 2010: Dubai e high-yield, nuovi problemi

Monday, 15 February, 2010 at 16:07 - di John Christian Falkenberg
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Mercati del credito deboli in una giornata semifestiva data la chiusura dei mercati americano e cinese per festività. Al centro dell’attenzione, oltre alla Grecia, riemergono due vecchi problemi: Dubai ed i titoli ad alto rischio ed alto rendimento.
Secondo quanto riportato dalla stampa, l’emirato di Dubai avrebbe ammesso di non voler ripagare i propri creditori e di stare cercando un accordo per evitare un fallimento formale, tramite un accordo i cui termini sarebbero quasi equivalente ad una dichiarazione di insolvenza. La Grecia è differente dallo stato del Golfo Persico, ma l’illusione dell’onnipotenza dei debitori sovrani comincia a dissiparsi.
Sul fronte dei titoli societari, cattive notizie dal mercato obbligazioni ad altro rendimento: i premi al rischio sono ai massimi da un anno e i fondi dedicati hanno subito deflussi miliardari nelle ultime settimane. La pesante flessione del segmento più rischioso del mercato del credito è un segnale preoccupante riguardo per le speranze di ripresa del flusso di finanziamento per le imprese.
Sul fronte greco, Atene sembra prepararsi a resistere alle richieste di riforma che metterebbero un freno parziale ai propri problemi di bilancio. La posizione greca è comprensibile: è ormai evidente che Germania e Francia non sono disposte ad andare a vedere il bluff ateniese e che si limiterà a pagare i debiti ellenici, pur di limitare la volatilità dei mercati nel breve periodo. Le conseguenze negative sulla credibilità e quindi sull’efficienza dei mercati del debito nel lungo periodo saranno pesanti, ma questo non preoccupa la classe politica delle nazioni europee.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Ventennio emergente, futuro di frontiera

17-02-10 – di Mark Mobius - Templeton Asset Management

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L’evoluzione degli investimenti che ha portato alla creazione di una specifica categoria di mercati emergenti è stata lunga e riflette gli interessanti cambiamenti che sono avvenuti nelle strategie di investimento globali.
Il termine “mercati emergenti” è stato coniato dall’International Finance Corporation (IFC) nel 1981, allo scopo di dare a questi mercati un nome più adatto e attraente.
Precedentemente, venivano identificati con diverse, e spesso poco lusinghiere, denominazioni come “Paesi poveri”, “Paesi sottosviluppati” o “Paesi meno sviluppati”.
Ricercando rendimenti sopra la media, gli investitori hanno iniziato a puntare su nazioni che erano ai primi stadi dello sviluppo, aspettandosi da essi una crescita economica rapida come risultato dell’adozione di politiche orientate al mercato e alla globalizzazione. Perciò, i primi scommettitori sui mercati emergenti sono stati in grado di investire in società con valutazioni molto attrattive, perché erano poco conosciute dalla comunità finanziaria.

Capire i mercati emergenti
Tipicamente, i mercati emergenti includono Paesi dell’America Latina, dell’Africa, dell’Est Europa (compresa la Russia) e dell’Asia (esclusi Giappone, Austrialia e Nuova Zelanda). Nel corso dell’ultimo ventennio, queste regioni hanno iniziato a registrare tassi di sviluppo maggiori delle nazioni sviluppate, integrandosi con il mercato globale.
Queste aree hanno l’80% circa della popolazione mondiale e hanno registrato una crescita media annua del 4,7% negli ultimi 20 anni (circa il doppio del 2,4% dei Paesi sviluppati, secondo i dati del Fondo monetario internazionale). In particolare, la formazione di un ceto medio, con un reddito maggiore e una domanda di beni di consumo in aumento, ha supportato l’espansione economica, specialmente in Cina e India. Il profilo di rischio-rendimento di questi mercati ha permesso agli investitori di raggiungere performance sopra la media negli ultimi due decenni.
Il maggiore interesse degli operatori per l’investimento nei mercati emergenti ha spinto le Borse di questi Paesi. Inizialmente, gli investitori erano meno propensi a puntare su listini diversi da quelli principali, come Regno Unito, Germania o Giappone, perché presentavano problemi differenti rispetto alle nazioni industrializzate, tra cui la mancanza di una regolamentazione adeguata, di trasparenza e corretta informazione, instabilità politica, sociale ed economica, restrizioni agli investimenti stranieri e svalutazioni monetarie. Alcuni di questi rischi persistono ancora, ma non sono preponderanti come negli anni ‘80 e ‘90. Inoltre, gli investitori hanno imparato che la volatilità può essere gestita e dare come contropartita maggiori rendimenti.

Gli emergenti entrano nei fondi
Nel 1987 Franklin Templeton lanciò il Templeton Emerging Market Fund, che fu il primo fondo chiuso al mondo quotato al New York Stock Exchange, specializzato sugli emergenti. Gli alti rendimenti, assieme al successo di altri comparti, hanno generato un considerevole interesse nel mondo finanziario. I flussi di denaro sono così diventati sempre più consistenti. Nel frattempo, si sono sviluppati circuiti di Borsa ufficiali, strutture societarie migliori e sistemi di trading che hanno favorito lo sviluppo di portafogli azionari internazionali più diversificati, includendo i mercati emergenti.
All’inizio non è stato facile, perchè, nonostante ci fossero molti Paesi emergenti in Asia, Africa, America Latina ed Europa, pochi erano aperti agli investimenti stranieri o avevano una capitalizzazione sufficiente. Inoltre, c’erano controlli molto severi sugli scambi con l’estero e limitazioni agli investimenti, oltre a problemi legati alla sicurezza e alla liquidità del mercato. Da allora, tuttavia, si sono registrati grandi cambiamenti: l’apertura della Turchia verso la fine degli anni ‘80, quella del Brasile, della Korea e di Taiwan negli anni ‘90, la fine dell’apartheid in Sud Africa, la caduta delle barriere nei Paesi dell’Est Europa (compresa la Russia), l’apertura dell’India e poi, naturalmente, della Cina. Tutto ciò ha fornito agli investitori un maggior accesso ai mercati globali. Quando abbiamo lanciato il nostro primo fondo potevamo investire solo in una manciata di Paesi; dopo vent’anni, il nostro universo si è esteso fino a comprendere più di 70 mercati.

La crescita dei mercati emergenti
I mercati emergenti si sono sviluppati negli anni fino a diventare una major asset class, come evidenziano i flussi di capitale in entrata e le attività dei fondi, così come il successo di iniziative tra cui i comparti dedicati ai BRIC (Brasile, Russia, India, Cina). La capitalizzazione di mercato degli emergenti inclusa nel S&P/IFC Emerging Market Index è cresciuta dai 600 miliardi di dollari stimati alla fine del 1989 ai 13,3 mila miliardi alla fine del 2009. Il volume di trading totale, invece, è aumentato da 1.100 miliardi di dollari a 15,7 mila miliardi nello stesso periodo.
I collocamenti e le successive offerte sono state di circa 1,7 mila miliardi di dollari nell’ultimo ventennio, a testimonianza della fiducia degli investitori. Inoltre, i portafogli dei fondi dedicati ai mercati emergenti hanno totalizzato oltre 160 miliardi di flussi in entrata dal 1995 (il primo anno in cui l’istituto di ricerca EPFR Global ha cominciato a monitorarli). Il crescente interesse verso questi mercati nell’ultimo ventennio è anche provato dall’aumento del loro peso nell’indice Msci All Country World, da meno del 2% alla fine del 1989 al 13% alla fine del 2009.

Frontiere future
I mercati di frontiera, che potrebbero trasformarsi domani in emergenti, hanno cominciato ad apparire davvero interessanti solo negli ultimi anni. Essi si trovano ora dove la maggior parte dei mercati emergenti erano 15 o 20 anni fa. Tuttavia, essi possono offrire agli investitori opportunità d’investimento molto interessanti a confronto con la situazione degli anni ‘80. L’attenzione verso tali aree ha portato i fornitori di indici Msci e IFC/S&P a lanciare benchmark specializzati, garantendone la copertura. Per i mercati di frontiera la strada è segnata: diventare emergenti. Gli investitori non dovrebbero perdere questa opportunità.
Il nuovo orizzonte per gli investitori internazionali sono i mercati di frontiera, che comprendono alcune regioni dell’Africa (ad eccezione del Sud Africa), il Medio Oriente, l’area balcanica e baltica. E’ un universo tipicamente più piccolo e meno liquido di quello dei mercati emergenti, ma comunque è abbastanza ampio e ha generato un interesse significativo da parte degli investitori.
Uno degli aspetti più interessanti è la creazione di nuovi mercati azionari, in particolare in quei Paesi che sono passati da un’economia socialista e comunista a quella di mercato. In Vietnam, ad esempio, le richieste di privatizzazione delle società statali hanno generato un interesse del governo nella creazione di un mercato dei capitali. Il Vietnam ha lanciato la sua prima Borsa del dopo guerra nel luglio del 2000, con solo due azioni quotate ora ce ne sono circa 500 su due listini (fonte Bloomberg)

 

Fonte - Templeton Asset Management

 

 

 

 

  Mercoledì 17 Febbraio 2010   Venerdì 19 Febbraio 2010   Sabato 20 Febbraio 2010  
       
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  Gestore, non dimenticare come fare il panino

17-02-10 – di Sergio Vicinanza

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“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi”. Non è il 2019 immaginato da Ridley Scott, non sono un androide e l’atmosfera non è poi così cupa. Ma, se guardo indietro, vedo macerie fumanti.
L’evoluzione della nostra industria è tutta da raccontare. Dagli anni ‘80 a oggi, ha creato occupazione, sviluppato prodotti. L’innovazione c’è stata, è vero, ma poche volte abbiamo avuto l’idea che potesse soddisfare un “bisogno” genuino del cliente, e troppe volte è stata confezionata in laboratorio guardando ad altri “bisogni”; è stata insomma stimolata dal produttore (o dal distributore) più che dal mercato (inteso come utilizzatore).
La premessa è d’obbligo per introdurre l’evoluzione del mestiere di gestore nel corso di questi anni.
All’inizio, con tassi nominali a due cifre, è davvero difficile consegnare performance negative: CCT, poche azioni, e via. Ma siamo agli albori. Poi le gestioni diventano fondi d’investimento, e non certo a “grande richiesta” da parte dei risparmiatori. Il progresso, si dice. La crescita della cultura finanziaria. La trasposizione in “prodotto” della vecchia gestione si chiama fondo bilanciato. Un fiume di soldi si riversa sulla piccola borsa di Milano. Vincono i campioni dell’insider trading, i front-runners diventano ricchi. Dal boom allo sboom il passo è breve dopo la crisi dell’87. Al bilanciato si affianca lo specializzato, prima per classe di attività, poi per area geografica e per settore. I vecchi campioni sono spazzati via, travolti dal mercato. Si scoprono i benchmark ed è un’eccellente occasione per scaricare responsabilità. Arriva la proliferazione dei prodotti.

Metaforicamente dal pane e salame si passa al tramezzino etnico, al tramezzino di tramezzini etnici e poi al club sandwich multistrato, ma chi lo confeziona si limita a ricevere informazioni sulle intolleranze alimentari e lo farcisce in modo coerente senza preoccuparsi troppo del gusto finale. Il cliente è senza alternative, rassegnato a farsi servire senza aver voce in capitolo. Di tanto in tanto, inutilmente, protesta. L’offerta intanto si arricchisce: preconfezionati, precotti, liofilizzati e altre diavolerie.
Passa l’87, il 92, il 94, scoppia la bolla delle dot com, cadono le Torri Gemelle, si gonfia la bolla del credito (panini precotti e prodotti liofilizzati al gusto di panino), puntualmente scoppia, ed eccoci ai nostri giorni.
Forse siamo tornati alle cose semplici e il pane e salame del terzo decennio punta al rendimento assoluto, come negli anni 80: l’avventore ha fame e chiede di mangiare. Un panino al salame soddisfa il bisogno primario: il gestore lo prepara e il distributore lo serve. Semplice, no?
Dunque torniamo alla semplicità: il cliente tipo ti affida i suoi risparmi e si aspetta che crescano nel tempo, un po’ più o un po’ meno, a prescindere o quasi dai benchmark, dai cicli di borsa, dalle strette monetarie e dai fallimenti bancari. Il problema è capirsi. Il distributore, che nel frattempo arriverà a chiamarsi consulente, dovrà farsi interprete.

Riassumendo, con alterne fortune abbiamo risposto al bisogno presentato dal distributore. Con la gestione bilanciata abbiamo dovuto sviluppare capacità di timing, variando il peso di azioni e obbligazioni. Con l’avvento dei prodotti globali, la faccenda è diventata maledettamente complessa. Per fortuna hanno inventato i benchmark e tutto è diventato relativo. Abbiamo gestito anche prodotti puri e quelli azionari li abbiamo gestiti nel massimo confort, con tanto di mini-tracking error, fino a che gli Etf non sono comparsi all’orizzonte. Ora dobbiamo generare alpha, per giustificare il 2% di commissioni che il cliente inesorabilmente paga e dobbiamo competere con gestori di ogni parte del mondo.
Chi si ferma è perduto; nella ricerca dell’equilibrio sono arrivate le varie misure del rischio, e il gioco è diventato un po’ più onesto: abbiamo dovuto sbilanciarci sulle prospettive di rischio, di rendimento relativo, o, (udite, udite!) assoluto.
Ora i liofilizzati non vanno più, dobbiamo assicurare la tracciabilità degli ingredienti, preparare panini digeribili, gustosi, che mantengano le caratteristiche senza deperire. In cambio speriamo di allineare la nostra unità di tempo a quella del cliente, sperando che sia più lunga del giorno, della settimana e del mese.
La volatilità, il tracking error e il VaR sono entrati nel lessico comune. In slang tutto questo si chiama Trasparenza. In suo nome abbiamo imparato a comunicare; abbiamo dovuto misurare i rischi e gestire in condizioni di vincolo. Molti di noi hanno imparato un mestiere diverso, ora utilizzano modelli matematici e statistici, selezionano altri gestori per costruire portafogli. Splendido. Ma a una condizione: non dimentichiamo come si prepara e a che cosa serve un bel panino col salame.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

I dolori del giovane investitore

Dai BoT ai bond strutturati. Tante delusioni nel decennio e una lezione per ripartire.

18-02-10 - di Sara Silano
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Nel 2000, il “popolo dei BoT” si è trasformato in day trader. Tanti piccoli Gordon Gekko (lo spregiudicato protagonista di Wall Street, impersonato da Michael Douglas nel film di Oliver Stone) si sono riversati in Piazza affari a caccia di Tiscali, Seat Pagine gialle e StMicroelectronics. Guadagnare sembrava facile sia con i singoli titoli sia con i fondi hi-tech (che proliferavano nell’offerta delle società di gestione e che oggi sono una categoria in via di estinzione). Poi la bolla è scoppiata e con essa il sogno che il mercato possa sempre salire.
Il “popolo dei day trader” è diventato un ristretto gruppo e nell’immaginario di molti la Borsa non si è mai più ripresa, contrariamente a quanto in realtà è accaduto tra il 2003 e la prima metà del 2007.
Uno studio, elaborato da Morningstar negli Stati Uniti, dove le serie storiche coprono l’intero decennio, mostra che il ritorno degli investitori (o Investor return, misurato tenendo conto dei flussi in ingresso e uscita dai fondi) è stato sensibilmente inferiore al rendimento medio dei fondi (l’1,68% contro il 3,18% annualizzato). E’ significativo il confronto tra le performance assolute degli Azionari Usa (+1,59%) e il corrispondente Investor return, pari a uno scarno 0,22% annualizzato.
E’ vero non è stato un decennio prosperoso per le Borse. L’indice Msci World ha vissuto cinque anni di rialzi e cinque di ribassi (in euro), terminando il periodo con un rendimento negativo. Gli alti e bassi hanno messo a dura prova la pazienza degli investitori, i quali sono usciti in massa dai fondi azionari nel 2007 e 2008, proprio mentre questi si preparavano per uno dei migliori anni del decennio.
In Italia, secondo le statistiche di Assogestioni, i deflussi dai fondi specializzati sulle Borse, nel biennio (2007-08), sono stati pari a quasi 54 miliardi di euro. L’analisi dell’Investor return riferito ai risparmiatori italiani mostra che in questo periodo di forti turbolenze è stata modificata bruscamente la composizione del portafoglio, in senso più difensivo, e sono state perse occasioni di profitto.
Non sono mancate le scottature anche per chi ha investito in obbligazioni. I casi più eclatanti sono stati il default dell’Argentina nel 2001 e successivamente i crack di Cirio e Parmalat. Ma in tempi più recenti hanno regalato amare sorprese le obbligazioni strutturate, che sono state vendute in abbondanza prima della crisi finanziaria, nonostante (o forse proprio per) il loro velo di opacità. Eppure il primo decennio del nuovo millennio ha registrato migliori performance nel reddito fisso piuttosto che nel settore azionario. Nell’era delle dot com e della finanza creativa ha guadagnato di più chi ha investito sulle obbligazioni governative (l’indice Citi Emu Gbi ha reso in media il 5,4% annulizzato contro il -3,7% dell’Msci World).
Uscito dalla culla protettiva dei BoT, l’investitore ha compiuto molti passi falsi (non sempre e solo per causa sua). Si è buttato sui titoli tecnologici, poi ne è uscito in perdita, giurando a se stesso che non si sarebbe mai più avvicinato alla Borsa. Poi si è rifugiato nelle obbligazioni bancarie, fuggendo dai fondi, che nessuno più gli consigliava. E ora?
Un primo proposito per il prossimo decennio potrebbe essere quello di smettere di dare troppa importanza alle performance recenti di un fondo o di un altro strumento finanziario e alle “mode”. Un secondo proposito potrebbe esser quello di evitare che l’euforia e la paura prendano il sopravvento, peggiorando situazioni che sono già critiche.
Gordon Gekko probabilmente tornerà al cinema in primavera e non sarà lo stesso trader senza scrupoli di 23 anni fa. Dovrà fare i conti con la crisi di Wall Street. Sul “piccolo schermo” della gestione quotidiana dei propri soldi, anche l’investitore deve rimettersi all’opera, facendo tesoro degli errori passati, per ricominciare dalla pianificazione dei propri obiettivi e della propria propensione al rischio. Meno “attore” e più protagonista.

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

La settimana, 7/2010

Friday, 19 February, 2010 at 16:02 - di phastidio
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Settimana di recuperi per i mercati azionari, malgrado la correzione indotta, nella giornata di venerdì, dalla decisione della Fed di alzare il tasso di sconto di un quarto di punto. La vicenda greca resta sospesa, con il governo di Atene che ha rifiutato l’invito della Banca centrale europea e dell’Eurogruppo ad adottare misure aggiuntive prima della verifica comunitaria prevista per il 16 marzo. Gli spread sui titoli di stato tedeschi e quelli espressi dai credit default swap ellenici sono rimasti su livelli elevati, a conferma del congelamento della vicenda fino alla verifica dell’efficacia delle prime misure di austerità adottate dal governo di Atene.
Come detto, nella giornata di giovedì 18 febbraio la Federal Reserve ha deciso l’aumento di un quarto di punto, allo 0,75 per cento, del tasso di sconto, cioè del costo che le banche sostengono per indebitarsi presso la banca centrale statunitense. Ridotto anche il periodo di indebitamento, da 28 giorni all’overnight. La misura, che ha prodotto un lieve aumento della volatilità dei mercati ed un rafforzamento del dollaro, non era inattesa, dopo le osservazioni di Ben Bernanke nella testimonianza congressuale del 10 febbraio, che ha segnalato l’inizio del lungo processo di normalizzazione delle condizioni monetarie. All’atto pratico la misura non rappresenta una stretta monetaria, ma solo l’avvio del ripristino del differenziale con i tassi sui Fed Funds (oggi situati tra 0 e 0,25 per cento), che prima della crisi si collocava ad un punto percentuale. L’effettiva stretta monetaria verrà probabilmente attuata attraverso il rialzo dei tassi sulla remunerazione delle riserve detenute dalle banche presso la Fed, ma al momento resta ipotesi molto lontana.

Tra gli altri dati settimanali, si conferma il rischio di prossimo rallentamento della congiuntura statunitense, come suggerito anche dal dato degli indicatori anticipatori di gennaio mentre, tra gli indicatori coincidenti, riscontri positivi emergono dall’indice Empire della Fed di New York riferito al mese di febbraio, e dalla produzione manifatturiera di gennaio. Anche in Europa si riscontra un andamento positivo per la manifattura, come evidenziato dall’indice dei direttori acquisti di febbraio, con un dato particolarmente brillante per la Germania.
Settimana di dati problematici per il Regno Unito: in gennaio il paese ha registrato il suo primo deficit mensile di cassa in quello che rappresenta il mese principale di esazione delle imposte. Cresce quindi il rischio di sforamento delle stime di deficit, e ciò renderà necessarie nuove emissioni di titoli pubblici, in aggiunta ad un calendario di emissioni già pesante. Aumenta pertanto la probabilità che la Bank of England debba tornare a monetizzare il debito pubblico, riprendendo le pratiche di easing quantitativo. Il mercato ha reagito con un aumento dei rendimenti sui Gilt, in precedenza colpiti anche dal forte aumento dell’indice dei prezzi al consumo, il cui indice tendenziale in gennaio ha toccato il 3,5 per cento. In forte ripiegamento anche la sterlina, ma solo contro dollaro, mentre contro euro il cambio è rimasto stabile, per effetto della debolezza della valuta unica europea, indotta dalla crisi greca.
A livello tecnico, l’indice Eurostoxx 50 ha recuperato nel corso della settimana la propria media mobile a 200 giorni, neutralizzando il precedente ipervenduto.

 

 

 

High Yield, volatilità in arrivo

Friday, 19 February, 2010 at 20:27 - di Charles Dexter Ward
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Il secondo dato consecutivo molto negativo fatto registrare dai flussi sui fondi High Yield americani (rosso da due miliardi in appena due settimane) riporta sotto i riflettori il tema delle dinamiche allocative e l’importanza via via crescente dei cosiddetti technicals nel mercato del credito.
Per tutto il 2009 flussi e fondamentali sono andati a braccetto, spingendo il mercato dei Junk Bond a rialzi stellari: la pagina 1 del libro di testo sulle dinamiche di mercato insegna che all’uscita di una profonda crisi finanziaria è il mondo del credito a beneficiare per primo della fase di Repair/Riparazione. Se a questo si somma il livello da Giorno del Giudizio Universale raggiunto dagli spread un anno fa e la solidità relativa dei bilanci aziendali, si spiega con relativa facilità il movimento dello scorso anno.
Queste ultime settimane ci dipingono un quadro parzialmente mutato: l’unica costante rimane la solidità nei fondamentali, confermata anche dall’ultima tornata di trimestrali. In termini di pricing, i livelli di spread sono sulla strada della piena normalizzazione: se probabilmente ancora interessanti in senso assoluto, in termini relativi il credito è rapidamente divenuto piu “expensive” sia rispetto all’azionario che ai governativi periferici. Last but not least, l’Investment Clock del nostro famoso libro di testo ricordato in precedenza inizia con insistenza a scandire l’ora dell’azionario, mercato naturalmente più indicato in fasi in cui la ripresa va consolidandosi per tradursi in un ciclo di crescita decisa.
Ed è qui il problema: ad una rinnovata crescita, forte e decisa, in fondo in fondo non sembra credere proprio nessuno, a causa della zavorra che il mondo occidentale si porta dietro come conseguenza della profondissima crisi del 2008. Lo stock di debito complessivo nel sistema non è diminuito, è solo passato di mano spostandosi dal privato al pubblico. Il sistema finanziario è stato puntellato, ma non sanato. Requisiti più stringenti in termini di capitale (qualità e quantita) e di rischiosità degli impieghi non depongono certo a favore di un sistema finanziario incline a pompare finanziamenti nel sistema e a soffiare sul fuoco della ripresa: anzi.
In un clima di crescita bassa e poco brillante, il rischio è che nel prossimo futuro bisognerà “accontentarsi” degli extrarendimenti offerti dal credito e rimarrà difficile rinunciare a quel piccolo extra in un mondo che si preannuncia davvero avaro di rendimenti. Su tutti i fronti. E’ forse troppo presto quindi per celebrare la fine del trade lungo sul credito: la novità nel 2010 sarà la volatilità, assente dall’universo del credito negli ultimi 12 mesi.

Fonte - Macromonitor

 

 

 

Il virus greco passa dalle banche

22-02-10 - di Marco Caprotti
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Il virus greco potrebbe infettare il resto d’Europa. E, aggiungono gli analisti, il contagio potrebbe passare dalle banche. La preoccupazione che i problemi di solvibilità ellenici siano gli stessi di altri Paesi della regione è diventato evidente quando le banche d’affari internazionali hanno coniato il termine Pigs per indicare (attraverso un acronimo) gli Stati che, insieme alla Grecia, hanno gli stessi problemi di debito pubblico alle stelle: Portogallo, Irlanda e Spagna.
La reazione dei mercati era prevedibile. L’indice Msci Europe nell’ultimo mese (fino al 22 febbraio e calcolato in euro) ha perso più del 3,8%. “Le banche europee che hanno fatto prestiti alla Grecia e magari anche a Paesi dell’est Europa come l’Ungheria, d’improvviso hanno visto la loro situazione diventare più rischiosa”, spiega uno studio firmato da Carmen Reinhart, professoressa di economia internazionale all’Università del Maryland. Storicamente, la situazione è simile a quella verificatasi in Asia nel 1997, quando la Tailandia ha svalutato la sua moneta. Improvvisamente si è capita l’esposizione che le banche giapponesi avevano nei confronti di quel Paese e la crisi rapidamente si è allargata alla Corea del sud e all’Indonesia per poi coinvolgere tutti gli Stati della regione.

“La stessa storia può ripetersi in Europa dove gli istituti di credito dei diversi Paesi sono fortemente legati gli uni agli altri”, continua la professoressa. Un esempio di questo legame pericoloso lo fornisce la francese Crédit Agricole che controlla la greca Emporiki Bank. L’istituto ellenico, a causa di alcuni prestiti diventati inesigibili e a dei costi di ristrutturazione, ha generato una perdita di 834 milioni di euro per i transalpini. In una situazione simile, secondo la società di analisi Creditsights si trovano istituti tedeschi, austriaci e svedesi che hanno anche esposizioni nei confronti di Paesi dell’Europa dell’est, una zona da sempre considerata instabile, sia dal punto di vista politico, sia finanziario. “La differenza di questa crisi, rispetto ad altre simili scoppiate in passato in altre parti del mondo, è che i mercati finanziari se l’aspettavano”, continua la docente del Maryland. “Gli Stati più ricchi e in generale l’Unione europea ci possono mettere una pezza. Ricordandosi però che non dispongono di fondi illimitati”.

Anche gli insospettabili, peraltro, iniziano a mostrare qualche problema. L’Inghilterra a gennaio ha avuto il suo primo deficit di bilancio dal 1993. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Office for National Statistic il rosso ammonta a 4,3 miliardi di sterline (4,9 miliardi di euro). La notizia ha colto di sorpresa gli economisti. Quelli interpellati da Bloomberg, ad esempio, si aspettavano un surplus di 2,6 miliardi.
Per quanto riguarda la Borsa, nel Vecchio continente come negli Stati Uniti è tempo di bilanci. Sempre in Gran Bretagna il gruppo finanziario Barclays nel 2009 ha registro un raddoppio degli utili rispetto all’anno precedente. Andamento simile in Francia per Bnp Paribas che ha registrato il quarto trimestre positivo di seguito. Va peggio per l’auto. Renault, per esempio, ha chiuso il 2009 con un passivo netto di oltre 3 miliardi di euro. In Italia, Fiat ha detto di aver finito l'anno 2009 con una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante questo e un indebitamento netto a 4,4, miliardi, verrà distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

Grecia, segreti del piano che salvera’ Atene

22/02/2010 - di Miaeconomia
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Esiste o e’ un invenzione un piano europeo per salvare la Grecia? Il portavoce del commissario agli Affari economici Olli Rehn ha smentito dichiarando che non c'e' alcun piano di salvataggio finanziario per la Grecia. Eppure le indiscrezioni riportate dal settimanale tedesco Der Spiegel uscite stamani erano abbastanza dettagliate. L‘articolo sostiene che il ministero delle Finanze dell’Unione Europea ha predisposto un piano europeo da 20-25 miliardi di euro in soccorso alla Grecia. Anche il governo tedesco ha smentito l'esistenza del piano, ma i giornali tedeschi sono tornati a parlare con insistenza delle misure in cantiere.
La verita’ sta nel mezzo. E’ vero che non e’ stato, ancora, varato alcun un piano ma e’ certo che sul tavolo del ministro del commissario agli Affari economici dell’Ue vi sono piu’ ipotesi di soluzioni di un eventuale intervento. Forse le cifre non combaciano ma e’ certo che nelle stanze della commissione Ue, del ministero delle finanze tedesco, in quelle dell’Eurogruppo e probabilmente anche alla Bce, si sta lavorando per scegliere la strada maestra da adottare in caso alla verifica di inizio marzo la Grecia richieda un intervento di salvataggio.
La Germania e’ il Paese a cui piu’ preme la salute dell’economia greca. Secondo uno studio di Commerzbank il default della Grecia e la propagazione verso altri Paesi in difficolta' come Spagna o Italia potrebbe costituire un incalcolabile rischio per il settore bancario tedesco e per quello finanziario dell'intera area euro, di cui la Germania e’ il rappresentante maggiore. Infatti secondo uno studio dell'Autorita' di Vigilanza della Germania, l'esposizione delle banche tedesche verso Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna ammonterebbe a circa 522,4 miliardi di euro, circa il 25% dell’intero Pil tedesco del 2009. Un default della Grecia metterebbe a rischio anche le finanze di Spagna e Irlanda, con danni incalcolabili per il sistema bancario tedesco, per non parlare dell’euro che con la capitolazione della Grecia, la Spagna e Irlanda in difficolta’ e il sistema bancario tedesco con l’acqua alla gola, potrebbe rischiare di dissolversi.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 

 

 

  L'insolvenza (default) della Grecia è vera o no?

22 Febbraio 2010 20:17 TORINO – di *Beppe Scienza

*Beppe Scienza e' professore all'Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Matematica. Ha collaborato Alessandra Barbarigo da Atene.

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I greci ricordano la frase di due sole parole pronunciata da Harílaos Trikúpis al parlamento ateniese il 10 dicembre 1893: "Distihós eptohéfsamen" che significa "Purtroppo siamo falliti". Così infatti, senza mezzi termini, l’allora primo ministro comunicò l’insolvenza dello stato.
È vero che un precedente così remoto non significa quasi nulla. A rigor di termini l’Italia non è mai stata insolvente, mentre di fatto la Germania sì, come conseguenza della riforma monetaria del 20 giugno 1948. Ma non per questo lo stato tedesco è ora ritenuto meno affidabile di quello italiano.
Comunque gli stessi greci non prendono alla leggera la situazione finanziaria del proprio paese, come testimoniano i commenti sulle testate più autorevoli, quale la Kathimerinì. Si può infatti convenire che un crac della Grecia è improbabile soprattutto per motivi politici internazionali (leggi: implicazioni su euro e Unione Europea), ma come si fa a definirlo impossibile?

Tuttavia, esaminando con attenzione come si sono mossi i prezzi dei titoli di stato greci negli ultimi mesi, c’è qualcosa che sorprende. Da un debitore meno affidabile, società o stato che sia, è normale pretendere rendimenti più alti come compenso per il maggiore rischio. Logico quindi che una crisi di fiducia si ripercuota sui titoli con un calo delle quotazioni, che è l’altra faccia dell’aumento dei rendimenti.
Ma chi ritiene troppo aumentato il rischio di default, si disfa di tutte le emissioni e anzi soprattutto delle più lunghe. Lo stato ellenico potrebbe riuscire a far fronte ai suoi impegni finanziari ancora per un po’, ma poi non farcela più.
Invece negli ultimi mesi sono risultati penalizzati i titoli brevi o medio-brevi, mentre quelli lunghi sono apparsi tetragoni a ogni cattivo presagio (vedi la tabella in basso). I casi estremi sono i titoli a un anno che hanno evidenziato perdite anche del 2,5% mentre il prestito con scadenza nel 2040 è tuttora ai livelli di metà dicembre scorso.

Dunque i timori di insolvenza non bastano a spiegare i cali di molti titoli. Le cause possono essere anche altre e sono da ricercare piuttosto nel comportamento di alcuni investitori istituzionali nella gestione di portafogli di fondi hedge, tesorerie di banche, assicurazioni ecc...

Nei mesi scorsi alcuni gestori hanno infatti messo in piedi operazioni cosiddette di carry trade, indebitandosi per comprare titoli greci. Il vantaggio appariva notevole, finanziandosi per esempio all’1,3% per comprare titoli biennali o triennali che rendevano il 4,2%.
Arrivata però sulle prime pagine dei giornali la precaria situazione finanziaria della Grecia, costoro si sono spaventati o sono stati messi alle strette da chi li aveva finanziati; e hanno chiuso le operazioni, vendendo in gran quantità le emissioni comprate.

Molto raramente operazioni simili vengono invece messe in piedi con titoli lunghi, i cui possessori non risulta abbiano manifestato turbamenti. Sapevano di avere titoli adatti a chi non fa uso di tranquillanti e non gli è parso che nella sostanza fosse cambiato molto.
Se questa interpretazione è vera, sono proprio i titoli sui 4-5 anni a apparire più interessanti per puntare su un qualche intervento di salvataggio della Grecia. Mentre sul lungo periodo merita segnalare due indicizzati all’inflazione europea: uno che scade nel 2025 quotato alla Borsa Italiana nel segmento Euromot e uno con rimborso (salvo cattive sorprese...) nel 2030, trattato sull’euromercato oltre che ovviamente alla Borsa di Atene.
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Grecia: stranamente penalizzati i titoli più brevi.
quotazioni rendimenti variazione del rendimento
durata in anni 15-dic-09 15-feb-10 15-dic-09 15-feb-10
Grecia 4,3% 30-2-2012 2,0 100,2 98,5 4,20% 5,08% +0,88%
Grecia 3,7% 20-7-2015 5,5 92,5 90,5 5,20% 5,80% +0,60%
Grecia 6,5% 22-10-2019 9,8 105,8 102,6 5,70% 6,10% +0,40%
Grecia 5,3% 20-3-2026 16,2 90,6 90,8 6,22% 6,20% -0,02%
La sfiducia nello stato greco si è ripercossa in maniera incoerente sulle quotazioni dei suoi prestiti. Da metà dicembre 2009 sono saliti molto i rendimenti dei titoli più brevi, meno quelli di titoli più lunghi e sono addirittura rimasti stabili i prezzi della Grecia 5,3% 2026. I maggiori timori di un crac non bastano per spiegare un tale fenomeno.
Fonte: tabella elaborata dalla Tokos di Torino.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

  Martedì 23 Febbraio 2010   Mercoledì 24 Febbraio 2010   Giovedì 25 Febbraio 2010  
       
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GR1 RAI - 22 Feb. ore 22:00

   

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GR1 RAI - 23 Feb. ore 22:00

   

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Chi vince e chi perde col barile

mercoledì, 24 febbraio 2010 - 15:01  - di Miaeconomia
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Chi si ricorda quando il petrolio è arrivato a un passo dai 150 dollari al barile alzi la mano. Era l’estate del 2008 e la corsa dell’oro nero, per alcuni giorni, aveva guadagnato le prime pagine dei giornali. Poi è finita nel dimenticatoio, superata dal picco della crisi finanziaria internazionale e dalla paura di un collasso del settore finanziario. Nel frattempo la recessione mondiale ha ridotto la domanda di greggio con un conseguente calo del prezzo.

“Anche se adesso abbiamo un eccesso di offerta di petrolio, ragionando in un’ottica di medio e lungo termine dobbiamo capire cosa ci riserva il futuro di questa materia prima”, spiega uno studio firmato da Paul Larson, analista di Morningstar. “I bassi prezzi del barile tagliano i costi delle imprese e riducono le barriere geografiche, mentre le valutazioni alte rappresentano una specie di tassa sull’intero sistema economico”.

Il problema, in sostanza, è capire quanto petrolio ci sia ancora a disposizione e quanto costa estrarlo. “Quando si guarda alla storia delle scoperte di nuovi giacimenti, si nota che la maggior parte delle riserve a basso costo sono state ormai trovate. Il massimo è stato toccato negli anni ’60”, continua l’analista. “Oggi consumiamo più oro nero di quello che troviamo”. Nonostante il numero di scoperte effettuato nel 2009, considerato un anno fortunato, il mondo continua a utilizzare 31 miliardi di barili all’anno. “In pratica rimpiazziamo solo un terzo di quello che bruciamo”, continua lo studio”.

Stiamo quindi finendo il petrolio disponibile? “Assolutamente no”, risponde Larson. “Solo che stiamo esaurendo quello che costa poco estrarre”. L’esempio viene dal Tiber, l’ultimo giacimento scoperto nel Golfo del Messico. Per estrarre il petrolio bisogna trivellare a una profondità maggiore dell’altezza del Monte Everest. Ci vorranno quindi dai sette ai 10 anni prima che quella riserva dia qualche frutto. “Di sicuro non si tratterà di petrolio a buon prezzo”, chiosa l’analista.

In uno scenario di prezzi che continueranno a salire, può essere utile capire quali sono le società che avranno da perderci e quelli che ci guadagneranno. Lasciando da parte per un momento le società che lavorano direttamente nel campo petrolifero – i cui bilanci si muoveranno a seconda di come sapranno adattarsi alla nuova situazione – a fare le spese della nuova situazione potrebbero essere due colossi delle bevande come Coca Cola e Pepsi. “La recessione ha minato la popolarità delle bibite in bottiglia”, spiega Larson. “Prendiamo l’acqua, che rappresenta una voce importante del fatturato delle due società: molti consumatori hanno abbandonato quella confezionata per tornare a quella che esce dal rubinetto. Continuare con questo prodotto significa stare in un business costoso e ad alto dispendio di energia mentre i consumatori, grazie alla crisi, si stanno abituando a un’alternativa più ecologica e meno costosa. I due gruppi, comunque, se decideranno di uscire dal business dell’acqua, potranno contare sugli altri loro prodotti per compensare le perdite”.

Fra chi ci guadagnerà, vanno sicuramente inserite le società che si occupano di energie alternative che riusciranno a occupare le quote di mercato lasciate libere dai produttori di petrolio. Vento, sole e biocarburanti diventeranno sempre più popolari soprattutto se i governi mondiali continueranno sulla strada degli incentivi per chi si converte a questi tipi di energia. “Sfortunatamente per gli investitori, molte delle aziende che lavorano in questi settori fanno tutte parte di grandi conglomerati come General Electric e Siemens”, continua l’analista di Morningstar. “Questo significa che chi vuole investire nell’ecologia deve per forza comprare anche altri settori. Le più piccole, come First Solar, SunTech e SunPower, per rimanere nel campo dell’energia solare, non hanno infatti ancora i numeri per competere con i colossi”.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

Fuga dal reddito fisso, alcune considerazioni

giovedì, 25 febbraio 2010 - 9:12 - di John Gabriel
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Riflettendo sulla crisi finanziaria del 2008, molti investitori avranno realizzato che erano troppo concentrati sull’azionario e che un portafoglio bilanciato tra azioni e obbligazioni avrebbe potuto mitigare considerevolmente le loro perdite. Molte asset class sono sprofondate nel periodo nero del 2008, nel bel mezzo della crisi globale, ma non bisogna dimenticare che, in un profondo processo di “flight to safety”, abbiamo assistito ad una esplosione nella domanda di titoli di Stato.
Confidiamo che la maggior parte dei 6,3 miliardi di euro di nuovi asset coinfluiti negli Etf obbligazionari nel corso del 2009 non siano solo frutto della rincorsa alle performance. Tuttavia, sulla base delle nostre conoscenze sul comportamento dell’investitore tipico, non è poi così improbabile che il panico e la paura abbiano spinto notevoli flussi verso Etf e fondi comuni obbligazionari (secondo la European Fund and Asset Management Association, nel corso di novembre 2009, i fondi obbligazionari hanno raccolto 71,9 dei 139,4 miliardi di euro totali, relativi ai flussi in entrata dei fondi aperti conformi Ucits). Durante il corso dell’anno, molti provider di Exchange traded fund hanno lanciato nuovi prodotti per venire incontro alla crescente domanda di fondi a reddito fisso.

Ora, con i riflettori puntati sui rischi intrinsechi dell’investimento obbligazionario, qualcuno sta teorizzando che i flussi dovrebbero abbandonare gli Etf e i fondi comuni obbligazionari e ricercare rendimenti maggiori in altri lidi. La nostra visione, invece, predilige un investimento obbligazionario che si collochi in una strategia di asset allocation di lungo periodo, piuttosto che tentare di sfruttare il giusto timing di entrata e uscita.
A questo proposito, David Rosemberg, economista di Gluskin Sheff, afferma che le divergenze attuali tra i flussi in entrata azionari e obbligazionari potrebbero continuare ancora a causa di ciò che egli stesso definisce “il cambiamento secolare nel comportamento”. In un report del primo dicembre 2009, Rosemberg sosteneva che meno del 7% degli asset delle famiglie era investito in bond, il 25% era in azioni e il 30% in investimenti immobiliari. Sulla spinta dell’invecchiamento demografico, Rosemberg crede che gli investitori continueranno a scivolare verso il reddito fisso, accettuando ulteriormente la divergenza trai i flussi azionari e obbligazionari. Per essere chiari, offriamo qui il punto di vista di Rosemberg solo a scopo informativo.
In ogni caso, gli enormi flussi confluiti nei fondi obbligazionari ci portano a riflettere sulla differenza tra possedere quote di un fondo comune obbligazionario e possedere una singola obbligazione. Naturalmente, gli investitori che stanno solo parcheggiando il proprio capitale nel mercato a reddito fisso dovrebbero preferire gli Exchange traded fund, grazie alla loro superiore liquidità. Quegli investitori che, invece, guardano al mercato obbligazionario in un’ottica di lungo periodo dovrebbero essere consapevoli dei pro e dei contro di possedere un’obbligazione piuttosto che un Etf obbligazionario.
Quando un Etf investe in azioni, i titoli che lo compongono conservano le caratteristiche del mercato azionario. Al contrario, possedere un replicante obbligazionario è molto diverso da possedere un titolo qualsiasi tra quelli che lo compongono. I bond facenti parte di un Etf non si comportano più come bond normali. Spiegato semplicemente, i bond hanno scadenze temporali, mentre gli Etf no. È quindi importante ricordare che il tasso d’interesse di un determinato bond scende con l’avvicinarsi della scadenza. Un Etf obbligazionario, invece, mantiene il rischio di tasso d’interesse sempre costante. Questo può rappresentare un punto critico per gli investitori.
Un esempio potrebbe aiutare la comprensione di questo aspetto. È pratica comune investire in portafogli obbligazionari disegnati con specifiche scadenze. Questo ha senso per quelli che programmano un evento futuro per disinvestire, come l’acquisto di una casa, o che attendono semplicemente l’arrivo della scadenza prestabilita. Il prezzo che oscilla a seconda dei movimenti del tasso d’interesse è una preoccupazione relativa per questo tipo di investitore, il quale conosce già il rendimento alla scadenza, sempre a condizione che il creditore sia solvibile.
Nonostante il nostro team di ricerca possa a volte presentare delle preferenze sulle strutture degli Etf, siamo consapevoli che esistono scenari che spesso favoriscono determinate strutture. Pensiamo che, in molti casi, gli Etf obbligazionari siano più adatti a coprire un ruolo di player complementare, magari tra il 10 e il 30% dell’esposizione obbligazionaria dell’investitore. La restante esposizione a reddito fisso, di conseguenza, potrebbe essere composta da obbligazioni individuali con scadenze specifiche e adatte all’investitore.
Per misurare la sensibilità ai movimenti del tasso d’interesse di un bond o di un Etf obbligazionario, gli investitori dovrebbero fare riferimento a un concetto dal nome di modified average duration (duration media modificata). Ad esempio, se il tasso d’interesse salisse improvvisamente dell’1%, ci si aspetterebbe una corrispondente discesa del 10% di un Etf obbligazionario con una duration di 10 anni. La caduta del prezzo del bond compensa il fatto che le nuove emissioni offrirebbero un rendimento superiore a causa dell’aumento del tasso d’interesse.

Ancora una volta è importante distinguere gli investitori in cerca di un parcheggio temporaneo e quelli che usano gli Etf come parte della propria strategia di asset allocation a lungo periodo. Noi siamo dell’idea di scoraggiare il secondo gruppo (esposizione a lungo termine) dal provare a lucrare utilizzando la propria esposizione a reddito fisso, sfruttando il giusto timing di entrata e uscita dal mercato. Con un orizzonte temporale superiore a cinque anni, consigliamo gli investitori semplicemente di mantenere la propria posizione sugli Etf obbligazionari.
La ragione risiede nel fatto che l’indice sottostante si aggiusterà automaticamente nel corso del tempo per mantenere la maturity di riferimento. Visto che il portafoglio degli Etf si ricostituisce, aggiungerà titoli a rendimento superiore (con stessa maturiy) man mano che diventano disponibili. Perciò, dopo un rallentamento iniziale, il total return dell’Etf dovrebbe migliorare gradualmente insieme alla porzione di portafoglio dedicata ai titoli ad alto reddito.
Quindi, la maggior parte degli investitori farebbe sicuramente meglio a mantenere la propria esposizione nel corso del tempo. Le strategie market-timing sono notoriamente complesse e difficili. Inoltre, i costi di transazione a cui si andrebbe incontro rischierebbero di abbassare notevolmente i rendimenti. Al posto di inseguire le performance o il giusto market-timing , siamo convinti che gli investitori con una propensione di lungo termine dovrebbero sfruttare le opportunità a breve per ribilanciarsi.
Sarà interessante vedere come si comporterà la domanda per gli Etf obbligazionari nel 2010. Probabilmente non rivedremo gli ingenti flussi del 2009, guidati in gran parte dalla paura. In ogni caso, se la tesi di Rosemberg dovesse rivelarsi fondata, la domanda degli investitori orientati al lungo periodo potrebbe portare flussi d’entrata netti negli Etf obbligazionari.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

BANCHE: QUANDO UN BROKER DI 28 ANNI GUADAGNA $25 MILIONI L'ANNO

25 Febbraio 2010 20:00 NEW YORK - di WSI
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Parla il presidente di Morgan Stanley (che negli ultimi tre anni ha rinunciato ai bonus). Non c'e' niente da fare con i super-stipendi. Storia di un giovane rampante passato a un hedge fund, che ora intasca quanto 15mila cinesi.
Chi lavora nelle banche di investimento e' strapagato e il trend non sembra affatto destinato a cambiare in barba alla rabbia dell'opinione pubblica. Il motivo? Wall Street non vuole lasciarsi scappare gli operatori migliori. A sostenerlo e' niente meno che il presidente di Morgan Stanley John Mack.

Parlando da Charlotte (North Carolina), dove ha partecipato ad una sessione moderata dal Ceo di Bank of America Hugh McColl Jr alla Queens University, Mack ha dimostrato con un caso pratico l'andameto degli stipendi nel settore finanziario. Quello di un trader 28enne la cui divisione, all'interno della stessa MS, ha guadagnato qualcosa come $300-400 milioni. Il premio offerto dall'istituto e' stata la proposta di uno stipendio da $11 milioni. Peccato che il giovane rampante sia passato sotto il tetto di un hedge fund che ha messo per lui sul piatto un compenso da $25 milioni, quel che guadagnano in 12 mesi 15mila cinesi ($134 dollari in media al mese).

L'ex amministratore delegato di Morgan Stanley (ruolo lasciato lo scorso dicembre) e' stato chiaro, anche con lo stesso presidente Obama che, insieme ai legislatori, ha piu' volte criticato simili politiche mentre il governo era stato costretto a metter mano al portafoglio per salvare molte banche: gli istituti di investimento non si taglieranno gli stipendi su loro spontanea volonta'. Tradotto: c'e' la consapevolezza che su di loro pende comunque una spada di Damocle. Ecco perche' lo stesso Mack ha proposto "una discussione aperta" sugli stipendi che coinvolga regolatori e banche. "Se non facciamo qualcosa, lo fara' la Casa Bianca", ha ammonito.

La rabbia dell'opinione pubblica restera' fino a quando l'economia a stelle e strisce migliorera' piu' rapidamente, ha anticipato: "se si perde il proprio lavoro e anche la propria casa e' molto facile prendersela con il settore bancario".

Stando a quanto comunicato da Morgan Stanley lo scorso 20 gennaio, la banca stessa ha distribuito il 62% dei ricavi 2009 per pagare i propri dipendenti. Si tratta della piu' alta percentuale in oltre dieci anni. Stipendi e benefit sono cresciuti del 31% toccando quota $14.4 miliardi mentre i ricavi sono cresciuti del 28%. Per Mack nessun bonus negli ultimi tre anni. Il suo stipendio nel 2009 e' risultato pari a $800.000.
 

Fonte - WallStreetItalia