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INDICE ARTICOLI di TESTA |
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PARTE
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Martedì
02 Febbraio
2010 |
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Mercoledì
03 Febbraio
2010 |
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Venerdì
05 Febbraio
2010 |
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Borsa:
voglia di rimbalzo o paura di correzione?
01 Febbraio 2010 17:48 BIELLA
– di Maurizio Milano*
*Questo
documento e' stato preparato da Maurizio Milano, resp.
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
________________________________________
Tentativo di assestamento ma tono ancora molto
debole. Dopo la scivolata delle ultime due ottave
l’azionario cerca una base sui supporti, indeciso tra la
voglia di rimbalzare e la paura di una prosecuzione della
fase correttiva.
Il Nasdaq Composite ha raggiunto il supporto in area
2110/55, la cui rottura proporrebbe il test del supporto
critico in area 2020/40. Sui livelli correnti sono possibili
dei rimbalzi verso 2200 (estensioni a testare 2265), ma
finché l’indice staziona sotto tale resistenza il tono
rimane molto debole. La rottura di 2110/55 (in fase di test)
provocherebbe un’ulteriore scivolata a testare il supporto
critico in area 2020/40, la cui tenuta (probabile) è
essenziale per mantenere un’impostazione positiva per i
prossimi mesi.
Il Dow Jones Industrial è molto prossimo al supporto in area
9950-10000, sotto cui si proporrebbe il test del supporto
critico a 9750, dove dovrebbero comunque tornare gli
acquisti. Sui livelli correnti sono possibili dei rimbalzi
verso 10400/500, ma finché l’indice staziona sotto tale
resistenza il tono rimane molto debole.
L’S&P500 sta scendendo verso 1065/80, sotto cui l’obiettivo
è il forte supporto in area 1020/40. Sui livelli correnti
sono possibili dei rimbalzi verso 1105/15 (estensioni, poco
probabili, verso 1130), ma finché l’indice staziona sotto
tale resistenza il tono rimane molto debole. La rottura di
1065/80 (in fase di test) provocherebbe un’ulteriore
scivolata a testare il forte supporto in area 1020/40, la
cui rottura (ancora poco probabile) darebbe un segnale
negativo per i mesi a venire.
L’incapacità di mettere a segno rimbalzi degni di nota sui
livelli correnti, unitamente ad una volatilità implicita che
rimane decisamente instabile, concorre a delineare un quadro
di perdurante fragilità per il mercato azionario.
Come sottolineato più volte, nelle settimane passate gli
indici avevano raggiunto gli obiettivi del bear market rally
partito dai minimi di marzo 2009, spinti dall’enorme
liquidità a buon prezzo riversata nel sistema dalle Banche
Centrali, Fed in primis. Col ritorno degli indici sui
livelli precedenti al tracollo della Banca d’affari
statunitense Lehman Brothers nel settembre 2008 si è andata
progressivamente chiudendo una grande fase, in cui la
"finanza", variamente declinata, è stata al centro
dell’attenzione.
Recuperate le quotazioni pre-crollo, mancano ora ragioni
"fondamentali" reali per cui il rialzo debba proseguire. La
finanza ha fatto la sua parte per far lievitare le
quotazioni delle Borse di tutto il mondo – non solo
l’azionario ma tutte le asset class, dalle obbligazioni alle
commodities –, e non si esclude che si siano formate nuove
piccole bolle.
Stiamo entrando ora in una stagione nuova, che potremmo
definire di "ritorno al reale": i mercati azionari dovranno
fare i conti con un’economia la cui ripresa appare ancora
molto incerta, in un contesto di trend occupazionali ancora
negativi e quindi di tenuta dei consumi dubbia. Esauritosi
il ciclo di ricostituzione delle scorte è ora necessaria una
ripresa del ciclo degli investimenti; l’anno in corso è
cruciale e dirà se siamo quasi al giro di boa oppure se
dobbiamo attenderci ancora alcuni anni di bibliche "vacche
magre".
Il quadro tecnico azionario rimarrà molto incerto, con un
andamento scarsamente direzionale ed erratico, quindi con
molti "falsi segnali". Andrà quindi privilegiata
un’operatività "contro-tendenza", di acquisti sulla
debolezza e vendite sulla forza, senza correre dietro a
tutti i segnali ed evitando un’eccessiva rotazione di
portafoglio. Bisognerà poi sapere scegliere, con un’accurata
selezione di settori e titoli, privilegiando comparti quali
l’energia, le utilities e l’alimentare e sottopesando i
settori che avevano innescato il bear market rally,
finanziario e automobilistico.
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Fonte -
Banca Sella
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AIUTI ALLE BANCHE:
RBS IN TESTA. POI LLOYDS E CITI
01 Febbraio 2010 20:09 NEW YORK -
di ANSA ______________________________________________
Ecco la classifica elaborata dal centro studi di Mediobanca
R&S. Conto salato per le casse di sua Maesta'. Tra Europa e
Stati Uniti, durante la crisi gli aiuti di stato hanno
toccato i $3.300 miliardi.
E' Royal Bank of Scotland la banca che ha incassato l'aiuto
di stato piu' sostanzioso al mondo per far fronte agli
effetti della crisi finanziaria. Il gigante anglosassone ha
ricevuto infatti circa 420 miliardi di euro (restituiti 49,5
mld), vale a dire 100 miliardi in piu' rispetto all'altro
colosso inglese, Lloyds (328 mld ricevuti, 299 restituiti).
Nella classifica, elaborata dal centro studi di Mediobanca
R&S, si posizionano rispettivamente al terzo e al quarto
posto i 'big' a stelle e strisce Citigroup (251 miliardi di
euro, 229 mld restituiti) e Bank of America (116 miliardi di
euro, 115 mld restituiti).
L'intervento piu' sostanzioso in Germania e' stato invece
sostenuto per rilanciare Hypo Real Estate che ha assorbito
risorse per 166 miliardi tra ricapitalizzazioni, garanzie e
Opa(la banca e' stata nazionalizzata). Ad oggi l'esposizione
del governo e' di 100 miliardi di euro. Complessivamente le
banche in Europa avevano ottenuto 1.401 miliardi di euro, e
ne hanno resi circa 842 mld (il 60%).
Si aggira sui 3.300 miliardi di euro il conto degli aiuti
forniti alle banche dai Governi delle due sponde
dell'Atlantico durante la crisi. Negli Usa l'anno piu'
pesante e' stato il 2008 con uno stock lordo di aiuti di
1.957 miliardi di dollari, che si sommano ai 608 miliardi
del 2009. Qui sono stati rimborsati 597 miliardi di dollari.
Fonte
-
ANSA
Vola il Pil Usa, ma
cade la Borsa americana
01 Febbraio 2010 21:09 NEW YORK -
di miaeconomia ______________________________________________
Alle volte le cifre nella loro essenzialita’ rendono meglio
l’idea di qualsiasi discorso od argomentazione. Venerdi’
Wall Street, dopo una apertura in deciso rialzo ha chiuso in
calo. A fine seduta il Dow Jones ha perso lo 0,5%, l’S&P500
l’1%, mentre l’indice tecnologico Nasdaq ha fatto peggio di
entrambi e ha ceduto a l’1,4% con il comparto dei
semiconduttori in caduta libera. Prima dell’apertura della
Borsa Usa erano stati diffusi i dati sul Pil americano del
quarto trimestre del 2009. Il prodotto interno lordo Usa nel
4° quarto dell’anno e’ salito del 5,7%, crescita che non
avveniva in queste dimensioni da ben sei anni, ovvero dal
lontano 2004. Non solocontemporaneamente venivano diffusi i
consumi personali delle famiglie americane nel quarto
trimestre del 2009, in rialzo del 2% oltre le attese del
mercato di una crescita dell'1,8%.
Se il Pil che corre a ritmi di economia emergente e i
consumi delle famiglie, che rappresentano i due terzi del
Pil americano, non riescono a risollevare la Borsa
americana, evidentemente tra gli operatori c’e’ la
convinzione che a questi prezzi Wall Street e’
sopravvalutata. In Borsa vige il detto: compra sui rumors e
vendi sulla notizia. Per settimane, mesi, la Borsa Usa,
insieme alle Borse occidentali, e’ salita con la convinzione
che l’economia globale fosse scampata ad una recessione che
poteva rivelarsi ben peggiore di quella degli ani ’30 e ai
primi segnali di rallentamento della crisi gli acquisti sui
mercati azionari sono piovuti, permettendo alle Borse di
fare in 10 mesi importanti recuperi. Adesso che la speranza
e’ diventata una realta’, che ci sono le conferme che
l’economia Usa e’ tornata a correre, che anche nell’Ue la
crescita secondo le ultime stime dell’Fmi e’ maggiore del
previsto, gli operatori passano alla cassa, per monetizzare
i guadagni sulla carta. Cosi' la seduta di venerdi’ puo’
essere anche letta come l’anticamera di un trend ribassista
Fonte
-
miaeconomia.leonardo.it
BORSA, PIMCO: IN
ARRIVO UN NUOVO SCIVOLONE
03 Febbraio 2010 14:52 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Lo scrive El-Erian, gestore del piu' grande fondo
obbligazionario su scala globale. Ripresa economica e
mercato del lavoro a rischio. Le stime dovranno essere
riviste. In peggio.
L’andamento del mercato azionario potrebbe peggiorare,
accentuando un calo che gia' adesso e' il piu' marcato degli
ultimi 11 mesi. Ne e’ convinto Mohamed A. El-Erian, chief
executive officer di Pacific Investment Management (Pimco),
il piu’ grande fondo obbligazionario del mondo. Le sue
considerazioni, pubblicate da Bloomberg News, si basano
sulla persistente disoccupazione americana e sulle incerte
prospettive di crescita economica.
Gli investitori, ha sostenuto El-Erian, hanno erroneamente
dato per scontato, e quindi incluso negli attuali prezzi di
borsa, il ritiro delle misure governative di stimolo, una
ripresa delle attivita’ di prestito da parte delle banche e
politiche governative coordinate per ristabilire la
crescita. Questo significa che le stime sui profitti delle
aziende quotate a Wall Street per l’anno in corso potrebbero
rivelarsi troppo ottimiste, per cui le quotazioni potrebbero
essere destinate a scivolare, scrive il CEO di Pimco.
"Gli operatori potrebbero scoprire che il sell-off
sull’azionario del mese di gennaio e’ stato soltanto
un'anticipazione di quello che potrebbe essere un anno
particolarmente deludente per molti tipi di asset, compreso
l'azionario", continua El-Erian su Bloomberg. "La crisi
finanziaria che ha coinvolto tutto il mondo ha messo a
repentaglio ripresa economica e creazione di posti di lavoro
e ha portato a livelli preoccupanti il deficit pubblico".
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Le
banche devono
restituire ai governi 2.427 miliardi
03 Febbraio 2010 10:24 MILANO
– di ASCA
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Non c'è dubbio che in questa fase abbiano fatto notizia più
i rimborsi che gli aiuti. Ma
l'esposizione dei Governi verso
il sistema bancario è aumentata ancora rispetto all'ultimo
scorcio del 2008, soprattutto in Europa, e, nonostante molti
istituti abbiano iniziato a restituire i fondi ricevuti, è
tuttora a livelli stratosferici.
Il calcolo aggiornato l'ha
fatto R&S-Mediobanca, che stima in 2.427 miliardi di euro
(1.398 miliardi gli Usa, 1028 miliardi l'Europa)
l'esposizione netta dei Governi occidentali nei confronti
del sistema bancario: come se a rischio ci fosse ancora un
paese delle dimensioni della Germania.
A livello complessivo, la potenza di fuoco messa in campo
dagli Stati Uniti non ha uguali. In tutto il Governo
federale ha aperto un ombrello da 2.565 miliardi di dollari
(di cui oltre il 70% a titolo di garanzia degli attivi) per
riparare il sistema dal diluvio che il crack Lehman avrebbe
potuto scatenare. Nel corso del 2009 le banche Usa hanno
rimborsato circa 600 miliardi di dollari, ma il "saldo
netto" degli aiuti a fine 2009 non risultava molto
differente dall'importo di fine 2008: 1.968 miliardi di
dollari contro i precedenti 1957 miliardi. In altri termini,
i 104 istituti che si sono dati da fare per rientrare con lo
Stato, hanno pareggiato gli interventi pubblici incrementali
dell'anno scorso. I big del settore hanno potuto fare
ricorso al mercato, in generale tutti sono stati "aiutati"
dalle modifiche ai principi contabili, ma alla fine il
diluvio non c'è stato anche se l'ombrello, bello ampio, è
ancora aperto. Oltretutto,
gli interventi a pioggia che
negli Usa hanno riguardato 838 istituti (di cui 726
beneficiari di iniezioni di capitale), non hanno evitato il
fallimento di 143 banche nel solo 2009.
Ma, a giudicare dai singoli stanziamenti, i problemi più
grossi li ha dovuti affrontare il Vecchio continente che si
è mosso con interventi mirati (solo 64 gli istituti
interessati). Nessuno al mondo è stato sostenuto infatti più
di Royal Bank of Scotland che è costata al Regno unito
un'esposizione di 420 miliardi di euro.
Non robetta, perchè
la cifra è superiore al Pil di un un paese come la Polonia
e, anche se il malato in terapia intensiva ha restituito di
recente una cinquantina di miliardi, avanzano ancora 370
miliardi. Lloyds Bank, l'altro istituto britannico oggetto
di attenzioni particolari, è stato più efficace:
nell'ottobre 2008 ha ricevuto aiuti per 328 miliardi di
euro, a novembre 2009 ne ha restituiti 300.
Nell'Europa continentale è stata invece la Germania a
doversi accollare lo sforzo maggiore: tra
ricapitalizzazioni, garanzie e Opa, la sola Hypo Real
Estate, che è stata nazionalizzata, ha assorbito risorse per
166 miliardi, ridimensionate a 100 miliardi a fine anno.
All'estremo opposto l'Italia, con appena 4,1 miliardi di
interventi, sotto forma di "Tremonti bond", a favore di
quattro istituti: Banco Popolare (che ha sottoscritto titoli
per 1,45 miliardi), Bpm (500 milioni), Mps (1,9 miliardi) e
Credito Valtellinese (200 milioni).
Nel complesso, in Europa gli interventi pubblici per il
credito sono stati concentrati nel primo trimestre 2009 e
nel corso dell'anno sono stati pari a due volte e mezzo
l'ammontare di fine 2008. Complessivamente gli interventi
assommano a 1.449 miliardi di euro, per l'80% a titolo di
garanzia, ma il saldo netto a fine 2009 risultava pari a
1028 miliardi. In particolare, a restituire in toto o in
parte gli aiuti ricevuti sono state sette banche: Bnp,
SocGen, Crédit Agricole, Ing, Lloyds, Rbs e Hypo Re.
Anche in Europa si è registrata qualche chiusura nel 2009:
per precisione, in Olanda ci sono state due liquidazioni e
una bancarotta (St.George Private finance, Dsb e De
Indonesische Overzeese bank). Ma i Governi sono stati
costretti a intervenire in extremis in molti altri casi.
Qualche mese fa per esempio l'Austria ha dovuto salvare la
Kommunalkredit, nazionalizzandola per il prezzo simbolico di
2 euro. E sono state nazionalizzate, oltre alle islandesi
Landsbanki e Kaupthing, anche la Hypo Real Estate in
Germania; la Northern Rock e la Bradford& Bingley in Gran
Bretagna, mentre per la London Scottish Bank è stata
necessaria l'amministrazione controllata. Infine il 2010 ha
battezzato le prime due bad bank, l'una in capo alla tedesca
WestLB e l'altra alla britannica Northern Rock.
Wall
Street all'attacco
della "regola Volcker"
03 Febbraio 2010 15:22 MILANO
– di Mario Margiocco
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Come la corazzata Bismarck braccata dalla Royal Navy non
doveva trovare rifugio in un porto amico, così la Volcker
rule, le regole o meglio i princìpi dettati dall'anziano ex
governatore della Federal reserve per scongiurare il
ripetersi di un'altra crisi finanziaria non devono approdare
a nessuna sponda legislativa. Su questo Wall Street, il
partito repubblicano, e non pochi amici democratici di Wall
Street si stanno muovendo con grande determinazione.
Nonostante la decisione di Obama, annunciata il 21 gennaio,
di dare alla Volcker rule veste ufficiale integrando così le
proposte di riforma finanziaria non ancora trasformate in
legge.
La figura, il ruolo e il trattamento di Volcker e riservati
a Volcker, 82 anni, sono emblematici della situazione in cui
si trova l'élite di potere negli Stati Uniti. In campagna
elettorale Volcker, a lungo democratrico, poi indipendente
ma comunque schierato con Barack Obama, ebbe il ruolo e
molte foto e riprese tv da senior adviser, il saggio
banchiere centrale che parlava al giovane candidato.
Vinte le elezioni, Volcker fu subito messo da parte e le
leve del comando dell'economia affidate ad amici fidati di
Wall Street nei cui confronti Volcker è sempre stato
sospettoso, e da ultimo critico severo. Ricambiato con
uguale freddezza. Nel 1987 Volcker avrebbe proseguito
volentieri per un terzo mandato alla guida della Federal
Reserve, gestita con grande successo per otto anni, ma tutta
Wall street si mosse con discrezione contro di lui,
considerato troppo prudente in fatto di deregulation, e i
reaganiani lo sostituirono con Alan Greenspan.
Volcker va ripetendo da un anno la sua tesi, che ha tre
capisaldi. Le banche non possono essere troppo grandi per
fallire. Le banche che raccolgono risparmio e hanno quindi
la tutela dello Stato non possono rischiare con operazioni
in proprio, oltre una certa misura, sui mercati speculativi.
I derivati vanno posti sono attento controllo. Non è una
regola completa, non è nemmeno detto che sia tutta giusta,
ma pone i problemi veri.
Nonostante l'età e l'emarginazione pressoché totale dalla
Casa Bianca, dove aveva un fantomatico ruolo di consulente
part-time, Volcker ha ripetuto il suo messaggio senza
stancarsi, in America e in Europa.
Il voto del 19 gennaio
nel Massachusetts, dove il nodo Wall Street/Main Street ha
pesato molto, ha dimostrato che Volcker è popolare e
l'amministrazione, considerata troppo vicina all'alta
finanza, assai meno. L'anziano banchiere due giorni dopo era
davanti alle telecamere alla destra di Obama che dichiarava
la Volcker rule politica ufficiale.
Ma si tratta di principi che vanno articolati, correlati a
molte altre parti della normativa e all'azione degli
organismi di sorveglianza. E devono fare parte di un corpus
univoco, per essere efficaci. Basandosi sul fatto che la
Volcker rule, da sola, non è una formula magica che avrebbe
evitato i guai del 2008, Wall Street e alleati sono partiti
all'attacco.
I senatori della commissione bancaria, che ancora devono
preparare il loro testo di legge, dicono che è tardi.
Ricordano, come diceva a maggio lo stesso Obama, che la
coesistenza sotto lo stesso tetto di banca con depositi e
banca d'affari non è la causa perché in Canada e in Europa
questa coesistenza esiste e i problemi o non ci sono stati
(Canada) o sono diversi (Europa). «Wall Street se la ride
davanti a Volcker», scrive sul Daily Beast Charles Gasparino,
cronista finanziario fin troppo "in" a Wall Street,
spiegando come la riforma sarebbe acqua fresca – frutto di
una mente anziana dice, che ha perso il contatto con
l'evoluzione dei mercati - ma non spiegando come mai allora
Wall Street la osteggia così tanto.
L'episodio più chiaro, e un po' sgradevole, c'è stato il 2
febbraio in un'audizione davanti alla commissione bancaria.
Il senatore Mike Johanns, repubblicano del Nebraska, ha
insistito a lungo sempre con una domanda: ma con la Volcker
rule il 2008 ci sarebbe stato o no? Volcker rispondeva con
un principio: occorre fare in modo che il contribuente non
debba essere chiamato a coprire gli errori dell'attività
speculativa. Ma era un dialogo tra sordi.
Alla fine Volcker
dichiarava, rivolto a Johannes e a tutti, e senza ombra di
ironia: «Se le istituzioni saranno lasciate libere di
speculare, io forse non vedrò la prossima crisi, ma è certo
che la mia anima tornerà a tormentarvi».
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Fonte -
Il sole 24 Ore
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Mercati del credito:
analisi di scenari estremi
3 February, 2010 at 8:30 -
di Charles Dexter Ward ______________________________________________
Dopo un inizio d’anno all’insegna dell’entusiasmo, il
mercato del credito ha tirato un po’ il fiato, coinvolto nel
più generale movimento di ritorno dell’avversione al rischio
che ha caratterizzato le ultime settimane di gennaio, e che
si è tradotto in una correzione dei listini azionari
nell’ordine di sette o otto punti percentuali. Sotto gli
occhi di tutti è poi la pressione cui iniziano ad esser
sottoposti i bond governativi, con l’indice sintetico Sovx
che scambia ad uno spread più largo rispetto all’indice Main.
Pur tenendo conto di fattori tecnici che influenzano questo
confronto acuendone il trend di fondo, rimane evidente la
sovraperformance relativa dei crediti anche in queste
settimane dominate dal nervosismo.
Del resto, il consensus sul credito come asset class rimane
estremamente positivo: è indubbio che i bilanci aziendali
continuano a mostrare estrema solidità grazie alla pronta
risposta volta al contenimento dei costi, alla protezione
dei margini e all’adeguamento dei livelli della produzione.
Anche in prospettiva, uno scenario caratterizzato da
crescita moderata è tipicamente positivo per il mondo del
credito.
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Fonte - XXX |
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Sul grafico che segue si è provato a sintetizzare (in
maniera estremamente semplice e probabilmente semplicistica)
il pay-off di una posizione lunga di credito dove sull’asse
delle ordinate abbiamo il P&L (utili/perdite) e sull’asse
delle ascisse un indicatore di ciclo economico (per
semplicità abbiamo indicato il Pil, o Gdp). Visivamente il
grafico ricorda quello di un Top Straddle, ovvero la vendita
contestuale di una opzione call e una put con stesso strike
price e stessa scadenza: come in questo caso, nell’esser
lunghi di credito si beneficia di un carry positivo a fronte
di una vendita di volatilità rispetto allo scenario
centrale. I due scenari estremi qui sono stati indicati come
FIRE e ICE, ovvero l’ipotesi di ricaduta in un ambiente
recessivo o all’altro estremo una crescita molto sostenuta,
con implicazioni inflazionistiche.
Nella parte inferiore del grafico viene indicato
l’investimento che idealmente opera un hedging della
scommessa: chi crede nello scenario ICE (quello
recessivo-deflazionistico) dovrebbe evitare le obbligazioni
high yield e comprare titoli di stato, meglio se di area
core come i Bund; chi scommette sullo scenario di
surriscaldamento (FIRE) , sappia che in quel caso le
obbligazioni investment grade saranno perdenti, e dovrebbe
invece prendere in considerazione l’investimento in
obbligazioni convertibili.
Mercati del credito 4
Febbraio 2010 – dopo la Grecia, il Portogallo?
4 February, 2010 at 8:30 -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Mercati deboli, complici le preoccupazioni sui debitori
sovrani più deboli nell’area euro. Oltre alla Grecia, anche
il Portogallo comincia a cedere, mentre si fanno sempre più
volatili i prezzi per la protezione su Italia, Spagna,
Irlanda e Regno Unito.
All’apertura del mercato è proseguita l’ondata di panico in
atto da ieri, a causa del cattivo risultato dell’asta di
titoli di Stato in Portogallo e dell’insoddisfazione per i
piani finanziari di rientro proposti dalla nazione iberica e
dalla Grecia. L’ondata ha spinto l’indice SovX verso i
massimi storici fino a 103, prima di un rientro almeno
parziale; anche il resto dei nomi a rischio medio-alto,
quali Italia, Regno Unito e soprattutto Spagna ed Irlanda
stanno soffrendo.
Rimane notevole la resistenza del mercato del debito
aziendale, indebolito dai problemi sovrani, ma decisamente
più tonico di altri: in generale i CDS su emittenti di
nazioni appartenenti ai PIGS continuano a scambiare a
livelli migliori di quelli delle nazioni di riferimento,
un’anomalia decisamente evidente almeno nel lungo periodo.
Ancora più pericoloso è lo stretto divario fra gli indici
del debito bancario e quello del debito sovrano: vista
l’importanza della garanzia implicita statale nei confronti
delle banche, è sorprendente come gran parte degli istituti
di credito mostrino spread più contenuti di quelli della
propria nazine di riferimento, quella nazione che dovrebbe
salvarli in caso di ulteriori problemi.
Sul mercato corporate propriamente detto, prosegue intensa
l’attività di primario, nonostante la debolezza generale di
mercato. Fra le aziende italiane, segnaliamo il piazzamento
di un bond Telecom Italia a 7 anni. L’emissione,
inizialmente pianificata per 750 milioni di euro, è stata
aumentata ad un miliardo e 250 milioni, creando una certa
insoddisfazione fra gi acquirenti. L’emissione è un tasso
fisso con cedola al 5.25 % e pagava all’emissione un tasso
equivalente al midswap maggiorato di 157 basis points
(1.57%).
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati
in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno
negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del
mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un
cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle
condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Livello Var.ne da ieri
Main 83.5 +2.8
HiVol 119 +5.0
Crossover 453 +12.0
Livelli di CDS per emittenti sovrani , valori massimi
raggiunti in mattinata
Portugal…215/225 +20bps
Ireland….175/180 +15bps
Italy……140/145 +12bps
Greece…..420/430 +30bps
Spain……165/170 +15bps
Written by John Christian Falkenberg
Thursday, 4 February, 2010 at 13:46
Posted in Area Euro, Credito, Mercati
Tagged with grecia, Itraxx, PIGS, Portogallo
Mercati del credito 5
Febbraio 2010 – panico organizzato
5 February, 2010 at 8:30 -
di
John Christian Falkenberg
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Dopo un’apertura drammatica, i mercati del credito mostrano
una qualche stabilità vicino ai minimi.
L’apertura di oggi è stata sicuramente la peggiore da alcuni
mesi: la pessima chiusura di Wall Street, la débacle dei
mercati asiatici e il persistere dei problemi di bilancio in
Europa hanno causato un’ondata di acquisti di protezione e
di vendite di titoli che ha portato l’indice Main a 93 e il
Sovx a 108, rispettivamente il massimo assoluto di sempre
per i CDs sovrani e il massimo dal settembre scorso per
l’indice corporate. Un’ondata di prese di profitto ha poi
riportato gli indici a livelli più razionali, ma permane la
debolezza sia sui titoli che sui derivati. Un segnale
incoraggiante è dato dal riapparire di alcuni timidi
compratori fra gli investitori istituzionali più orientati
al medio-lungo termine.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati
in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno
negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del
mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un
cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle
condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Livello Var.ne da ieri
Main 90.75 +3.8
HiVol 134 +11.0
Crossover 488 +15.0
Written by John Christian Falkenberg
Friday, 5 February, 2010 at 14:06
Posted in Area Euro, Credito, Mercati
Tagged with Credito, grecia, Itraxx, SovX
Fonte
-
Macromonitor
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Sabato
06 Febbraio
2010 |
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Domenica
07 Febbraio
2010 |
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Martedì
09 Febbraio
2010 |
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La settimana, 5/2010
Friday, 5 February, 2010 at 16:36 -
di phastidio
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Settimana di forti turbolenze sui mercati, causate
soprattutto dai rinnovati timori riguardo la finanza
pubblica della Grecia, che si sono rapidamente estesi a
Portogallo e Spagna, e che hanno innescato un più generale
movimento di avversione al rischio che ha determinato un
movimento di allargamento generalizzato dei credit default
swaps su pressoché tutti i paesi, sviluppati ed emergenti,
ed una fuga verso il dollaro ed in uscita dall’euro.
L’approvazione, da parte della Commissione europea, del
piano greco di consolidamento fiscale, non ha
tranquillizzato i mercati, che continuano a ritenere il
paese ellenico incapace di raggiungere l’obiettivo. La
tensione si è in seguito estesa anche al Portogallo, dove il
governo di minoranza del socialista José Socrates potrebbe
essere costretto a dimettersi per l’impossibilità a far
passare le misure di stretta fiscale necessarie alla
riduzione del deficit. Anche la Spagna è tornata sotto i
riflettori, per analoghe considerazioni. Il futuro e le prospettive del debito sovrano dei paesi
dell’Area Euro preoccupano gli investitori, e le
dichiarazioni del presidente della Banca Centrale Europea,
Jean Claude Trichet, che giovedì ha parlato di “forti
fondamentali” della regione e di deficit non peggiori di
quelli di altri paesi, hanno accentuato un’incertezza che
deriva soprattutto dal rifiuto della Commissione europea (e
dei maggiori paesi, come la Germania) di riconoscere
pubblicamente di essere pronti al salvataggio, sia pure
condizionato. Il Fondo Monetario Internazionale, per bocca
del suo direttore generale, Dominique Strauss-Kahn, si dice
pronto ad intervenire a sostegno dei paesi che lo
richiederanno. Se da un lato l’eventuale azione del FMI
dovrebbe risultare più efficace di quella della Ue, perché
meno vincolata da considerazioni politiche, e quindi in
grado di imporre condizioni di risanamento più stringenti,
dall’altra parte susciterebbe il sospetto che la costruzione
europea manchi degli strumenti e, soprattutto, della volontà
politica per fronteggiare crisi di finanza pubblica dei
propri membri. I mercati azionari europei sono in evidente
difficoltà, come confermato anche dal fatto che l’indice
Eurostoxx 50 ha bucato al ribasso la propria media mobile a
200 giorni. Negli Stati Uniti sono tornati timori sulla
auto-sostenibilità della ripresa. Dal versante del mercato
del lavoro, il dato settimanale sui nuovi sussidi di
disoccupazione sembra confermare l’inversione della tendenza
alla riduzione del numero di sussidi. Il dato di gennaio su
occupati e disoccupati (due survey diverse, giova
ricordarlo), pur segnalando una ulteriore perdita di
occupati (pari a 20.000 unità), evidenzia anche (nella
Household Survey) un calo della disoccupazione, dal 10 al
9,7 per cento, che appare significativo perché ottenuto in
condizioni di lieve aumento del tasso di partecipazione alla
forza lavoro. Migliore anche il dato sui guadagni orari medi
e quello riferito alle ore lavorate in produzione, a
conferma dell’andamento relativamente migliore
dell’occupazione manifatturiera rispetto a quella del
settore dei servizi, come indirettamente confermato anche
dai rispettivi dati ISM di gennaio. Resta la cautela
relativa al fatto che tradizionalmente il mese di gennaio è
tra quelli sottoposti a rilevanti procedure di
destagionalizzazione.
La revisione annuale della serie storica sul numero degli
occupati ha inoltre evidenziato una maggiore distruzione di
occupazione rispetto alle precedenti stime, pari a poco più
di 600.000 unità, da ricondurre agli errori metodologici
prodotti soprattutto dal Birth/Death Model, che tenta di
stimare la creazione di occupazione nelle nuove imprese.
Fonte
-
Macromonito
G-7 finanziario nell'artico
canadese per parlare di ripresa, banche e mercati
05 Febbraio 2010 17:17 -
di ASCA ______________________________________________
I ministri e i governatori del G7 si incontreranno venerdì e
sabato a Iqaluit, quasi all'estremo nord del Canada, per
fare il punto sulla ripresa economica e sulle misure per
regolare il sistema finanziario. La scelta della città, a
2mila km a nord di Montreal, appare audace vista la
stagione, ma potrebbe anche essere un modo di dare rilievo
all'evento, al quale in molti hanno predetto una morte
lenta.
L'ultima riunione si era tenuta a Istanbul in un sabato di
ottobre ed era passata pressoché inosservata. Per l'Italia
parteciperanno il ministro del Tesoro Giulio Tremonti e
Mario Draghi, nella doppia veste di governatore della Banca
d'Italia e di presidente del Fsb. Il G-7 riunisce, oltre al
Canada che ha la presidenza, gli Stati Uniti, il Giappone e
quattro paesi europei, ossia Germania, Francia, Italia e
Regno Unito. All'incontro partecipano anche i rappresentanti
del Fondo monetario internazionale, del Financial Stability
Board e della Commissione europea. Gli organizzatori hanno
dichiarato di volere una riunione «più piccola, più
informale» e contano su una «discussione franca». Hanno
chiesto ai partecipanti di rinunciare a giacca e cravatta a
favore di un bel maglione pesante.
La presidenza canadese ha dichiarato di voler tornare alle
"radici" del G7, concepito nel 1975 dal presidente francese
Valéry Giscard d'Estaing come "una chiacchierata intorno al
fuoco" nella foresta di Rambouillet, vicino a Parigi, e
divenuto nel corso degli anni una grande macchina
diplomatico-politica. Per la prima volta dopo molti anni,
non verrà pubblicato nessun comunicato al termine
dell'incontro, evitando che il pesante lavoro di
preparazione di un testo condiviso rubi tempo alla riunione.
È prevista solamente la conferenza stampa comune, all'inizio
della quale il ministro canadese Jim Flaherty fornirà un
riassunto dei lavori. «Non ci saranno decisioni», ha
avvertito un portavoce del ministero delle Finanze tedesco.
Al centro del dibattito ci saranno le condizioni
dell'economia, con il ritorno di una crescita più o meno
solida a seconda dei paesi, la regolamentazione del settore
finanziario e i tassi di cambio, tema al centro della
riunione di Istanbul. Un funzionario del Tesoro americano ha
indicato alla stampa che il suo paese intende sollevare la
questione della riduzione del debito di Haiti, per aiutare
il paese a rimettersi in piedi dopo il terremoto. La
discussione si annuncia più accesa in materia di sistema
finanziario. I canadesi hanno «delle banche che sono uscite
dalla crisi finanziaria largamente indenni, e senza sostegno
pubblico, motivo per cui gli stessi padroni di casa hanno
poca voglia di nuove imposizioni per il settore
finanziario», spiega Julian Jessop, di Capital Economics.
Al contrario gli americani hanno fatto delle proposte
ardite, tra cui quella di recuperare il denaro speso per
salvare le banche americane tassando le principali
istituzioni finanziarie presenti nel paese, comprese quelle
straniere. Francesi, tedeschi e italiani sono fedeli al loro
messaggio di coordinamento internazionale, e il ministro
delle Finanze tedesco Rainer
Bruederle ha sottolineato martedì, nel corso di una visita a
Washington, che nessun paese può permettersi di fare il
cavaliere solitario in materia di riforma dei mercati
finanziari. «Dal lato giapponese, la riunione sarà la prima
del ministro Naoto Kan, in carica da appena un mese e
favorevole, caso raro all'interno del G7, a degli interventi
sul mercato per indebolire la sua valuta, lo yen. Il
ministro delle Finanze canadese Jim Flaherthy, ha dichiarato
di prevedere una discussione sui tassi di cambio, nel quadro
più globale di un dibattito su una crescita mondiale
equilibrata. Ripetendo il leitmotiv degli Stati Uniti,
secondo cui lo yuan è «sottovalutato», il responsabile del
Tesoro americano ha detto che «le questioni relative alla
moneta cinese sono nella mente di tutti», lasciando
intendere che saranno discusse. Fonte
-
ASCA
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Borse,
questa correzione ha i contorni della crisi
06 Febbraio 2010 10:37
– di
Miaeconomia
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Quella che due settimane fa sembrava una semplice correzione
dei mercati sta assumendo sempre più i contorni di una nuova
crisi finanziaria. Per ora non c'è nulla di drammatico e
molto probabilmente dovrebbe trattarsi di una di quelle
turbolenze che interrompono per un po' la tendenza positiva
dei mercati e che fanno ripensare gli investitori sulle loro
precedenti certezze e sulla loro eccessiva esuberanza. Se
così fosse, sarebbe un processo salutare perché questa crisi
riproporrebbe una più corretta percezione dei rischi che si
stavano quasi smarrendo nell'euforia dei mercati, dopo 10-11
mesi di forti rimbalzi.
La cognizione del rischio era scomparsa sui mercati delle
materie prime, con i prezzi che sono raddoppiati o
triplicati in pochi mesi: nell'illusione che la futura forte
ripresa economica avrebbe giustificato quei prezzi e nella
facilità con cui si trovava denaro quasi a costo zero.
Questa euforia, che aveva raggiunto l'apice in Cina, ha
cominciato a smorzarsi tra ottobre e novembre, quando la
Banca del Popolo ha deciso una serie di interventi per
rendere di fatto meno espansiva la politica monetaria.
La cognizione del rischio s'era smarrita sui mercati
obbligazionari con il record di emissioni, tra bond
societari a buon rating (investment grade) e junk bond, in
un crescendo di attività che aveva raggiunto il parossismo
nelle prime due settimane dell'anno, facendo quasi
impallidire l'euforia del 2006: quella che aveva preluso
allo scoppio della bolla sul credito. E non s'era arrivati
molto lontano dagli eccessi di 3-4 anni fa, se si pensa che
i differenziali di rendimento tra i titoli a basso rating e
titoli di stato erano finiti quasi agli infimi livelli di
allora. Dopo il 12 gennaio l'allegro meccanismo comincia ad
incepparsi e i Cds sulle obbligazioni societarie (credit
default swap, ossia una sorta di premio per assicurarsi sui
rischi d'insolvenza) hanno ricominciato a salire. Adesso i
Cds europei (iTraxx) sui titoli a peggior rating si
ritrovano a 495 punti, ossia ai livelli dell'ottobre scorso:
120 in più dei minimi dell'11 gennaio. Quelli sui titoli
investment grade sono volati da 65 a 92, più o meno come
erano la scorsa estate. Per avere un'idea, i rendimenti di
questi ultimi sono aumentati mediamente di 16-20 centesimi
rispetto a quelli dei titoli di stato.
Il guaio è che nel frattempo sono aumentati anche i
rendimenti dei titoli di stato o, meglio, sono volati quelli
di alcune nazioni sulle quali si sono intensificati i rischi
sulla sostenibilità del loro debito pubblico: nell'ordine
Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia. È la crisi dei
debiti sovrani innescata tra ottobre e novembre dalla Grecia
e amplificata in dicembre dal quasi fallimento del Dubai. Se
Atene è stata messa sotto cura dalla Bce e Lisbona è oggetto
di forti attenzioni, è assai improbabile che per gli altri
paesi si possano configurare condizioni d'insolvenza
paragonabili a quella dell'Argentina nel 2001. Ma per la
speculazione internazionale è comunque un'occasione d'oro e
il gioco è spingere al ribasso le attività dei paesi a
rischio (compresi i titoli delle loro banche) come pure
l'euro, già affaticato fin da novembre dalla chiusura delle
posizioni di carry trade sul dollaro.
Siccome la strategia di molti hedge fund è di andar corti
(al ribasso, vendendo allo scoperto) su titoli di stato,
azioni e valuta dei paesi a rischio per andar lunghi
(comperare) su quelli di altri stati ritenuti più sicuri,
ecco spiegato perché l'euro sia crollato del 10% sul dollaro
in poco più di due mesi, perché le banche europee sono scese
di oltre il 17% dai massimi di periodo, contro il 7% di
quelle americane, perché le maggiori borse del Vecchio
continente siano calate tra il 10% della Germania e il
12-12,5% di Francia e Italia. Per non parlare ovviamente del
-17% della Spagna o del -35% della Grecia. Sul fatto che
sulle banche europee abbiano pesato anche i nuovi criteri
ristrettivi di Basilea3 è assai probabile. Ma non si capisce
come mai non abbiano pesato a Wall Street le nuove regole
proposte da Obama sulle banche oppure le crescenti
preoccupazioni sui crediti al mercato degli immobili
commerciali. È vero che sull'Europa grava la prospettiva di
una crescita economica quanto meno dimezzata rispetto agli
Usa. Ma qual è il tenore della crescita d'Oltreoceano?
Non quello immaginato da analisti ed economisti fino a
qualche mese fa, come ha dimostrato anche ieri il calo degli
occupati. E qui si inserisce il terzo fattore della crisi:
la delusione che si sta diffondendo dopo aver constatato che
l'economia non cresce secondo le attese. E anche
l'appariscente rimbalzo del Pil Usa nel 4° trimestre è
dovuto per quasi due terzi alla riduzione delle scorte.
Infatti l'attività non manifatturiera segna il passo e,
contando circa il 75% del Pil, potrebbe frenare il ritmo
della ripresa economica. Ecco che la crisi, sbrigativamente
liquidata come una turbolenza greca o spagnola, ha invece
assunto i contorni di un ripensamento di tutti i mercati. Su
quelli delle materie prime s'è già visto il petrolio e il
rame correggere il 15-18% dai massimi: circa il doppio
dell'S&P500. E inoltre bisognerebbe considerare che gli Usa
hanno relativamente beneficiato dalle disavventure europee
essendo ritenuti, come succede nei tempi di crisi, una sorta
di porto sicuro. Anche in questo caso si consuma il
paradosso di voler considerare equivalente a quello tedesco
il rischio sul debito americano che, tra pubblico e privato,
è assai più grande. Forse l'ultimo atto della crisi potrebbe
concludersi con una accresciuta percezione dei rischi Usa.
In settimana l'S&P ha perso lo 0,7% (-0,3% il Nasdaq) e lo
Stoxx il 3,8% (-4,9% Milano, -4,7% Parigi, -3,1%
Francoforte, -2,5% Londra).
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Fonte -
Miaeconomia
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Goldman nel mirino
della Sec «Ha colpe nella caduta di Aig»
07 Febbraio 2010 19:15 -
di ASCA ______________________________________________
NEW YORK - Secondo un'inchiesta della Sec, Goldman Sachs
potrebbe aver giocato un ruolo decisivo nel processo che ha
portato alla caduta del colosso assicurativo Aig e al
successivo pacchetto di aiuti costato al contribuente
americano 180 miliardi di dollari Le implicazioni
dell'inchiesta sono molto imbarazzanti: la banca potrebbe
aver spinto la Aig verso il fallimento per colpire
indirettamente il mercato dei mutui americani su cui aveva
scommesso contro, con importanti posizioni sottoscritte fin
dal 2006. Goldman come molte altre istituzioni, aveva
sottoscritto con Aig delle polizze assicurative chiamate
Credit Default Swap per proteggersi dal rischio di default
nel mercato dei mutui. Quando la situazione del mercato
effettivamente peggioro', Goldman presento' le polizze
all'incasso e ottenne fino a due miliardi di dollari gia'
nel corso del 2007. Una cifra che Aig pero' contesto' poco
dopo, quando sembrava che il mercato fosse in ripresa,
chiedendo un rimborso che Goldman rifiuto', passando anzi
all'attacco con nuove richieste di fondi. Goldman ha da
sempre difeso le sue azioni, condotte, ha sostenuto la
banca, in piena trasparenza e legalita', semplicemente
riscattando ammontari assicurati in normali polizze,
nell'interesse dei suoi azionisti.
Nuove rivelazioni raccolte dal New York Times da
documentazione della Sec e pubblicate questa mattina offrono
tuttavia un quadro piu' complesso. E gettano nuovi dubbi sul
modus operandi della banca americana proprio quando
l'istituzione sembrava uscire da un problema di immagine
grazie alla scelta del fine settimana di pagare un bonus
molto piu' contenuto delle attese al suo amministratore
delegato, Lloyd Blankfein. L'inchiesta del Times poggia su
testi e lettere in mano agli investigatori e su una
registrazione telefonica di un negoziato fra le due
istituzioni che fa risalire il punto di svolta a un incontro
che si e' tenuto il 28 gennaio del 2008. L'incontro avvenne in forma di conferenza telefonica e aveva
in tutto 21 partecipanti delle due istituzioni. Si doveva
discutere di un contenzioso aperto da tempo: Aig chiedeva il
rimborso di almeno una parte di due miliardi di dollari che
la banca aveva gia' ottenuto da Aig per il peggioramento di
certe sue posizioni nei mesi precedenti, Goldman lo
rifiutava. La conferenza e' stata registrata e il New York
Times ha ottenuto di poterla ascoltare. Il quotidiano ha
anche visionato numerosi documenti raccolti dalla Sec
relativi a transazioni sul mercato dei mutui sia di Goldman
che di altre istituzioni a partire dal 2006 . Le operazioni
sono molte complesse, comportano l'analisi di prodotti
derivati e di accordi di Credi Defalut Swaps, che, per come
erano strutturati, sfuggivano al controllo e alle regole
delle normali polizze di assicurazioni esponendo Aig a
rischi molto forti del normale. Al di la' della leggerezza
della compagnia di assicurazione nello strutturare il suo
paccetto assicurativo sui rischi mutui, Goldman potrebbe
aver tuttavia approfittato coscientemente della situazione:
" bracci di ferro fra istituzioni finanziarie sono normali,
ma il confronto fra AIG e Goldman, che si concluse dopo
un'ora con un nulla di fatto, sarebbe diventato uno dei
punti di svolta centrali nella storia di Wall
Street...-scrive il New York Times - ...in tutto Goldman,
prima ancora degli aiuti federali avrebbe ottenuto da Aig 7
miliardi di dollari, mettendola alle corde dal punto di
vista finanziario ...ora la SEC vuole capire se alcune delle
richieste di Goldman hanno indebolito impropriamente il
mercato dei mutui immobiliare gia' molto debole.... " . Secondo il New York Times in sostanza, Goldman avrebbe
guadagnato da ogni parte: mettendo sotto pressione Aig sul
mercato dei mututi, contribuiva a formare nuove
preoccupazioni sul mercato, indeboliva una istituzione
chiave per l'equilibrio di quel mercato e all'indebolimento
progressivo dei mutui immobiliari, soprattutto del comparto
subprime. Questo sviluppo consentiva a Goldman di accumulare
enormi profitti su posizioni costituite appunto a partire
dal 2006 che speculavano contro il mercato dei mutui. Quando
poi Goldman si trovo' con altri strumenti nel suo
portafoglio, riusci' a farsi coprire le perdite prima da Aig
e poi, quando Aig non aveva piu' risorse per far fronte
all'improvvisa crisi di liquidita', dallo stato, che le
verso' attraverso Aig 12,5 miliardi di dollari e una
porzione di altri 11 miliardi di dollari pagati alla Societe'
Generale. "Non c'e' da stupirsi se poi Goldman ha avuto un
anno record in termini di profitti" ha osservato ieri una
fonte autorevole a Wall Street. In effetti ci sono state
molte altre banche che hanno beneficiato di una dinamica
simile, sia americane che straniere. Ma Goldman Sachs e'
stata l'istituzione ad avere maggiori benefici in assoluto.
Soprattutto sarebbe stata lei a condurre l'attacco
originario che ha poi portato alla caduta di Aig e al
successivo pericolo sistemico per i mercati finanziari in
due settimane di fuoco di molti mesi dopo, nel settembre del
2008.
"Abbiamo chiesto i nostri collaterali a cui avevamo diritto,
l'idea che Aig e' caduta per colpa delle nostre azioni e'
ridicola" ha commentato Lucas Van Praag, il responsabile
delle comunicazioni di Goldman Sachs, in relazione
all'articolo del New York Times. Ma l'articolo e' molto
dettagliato, offre una cronologia di numerose operazione e
delle cifre in discussione ricostruendo il dialogo fra le
istituzioni mese per mese, semper con una dicotomia:
stabilire il reale valore di mercato dei titoli in
discussione. Goldman riusci' a ottenre che fossero prezzi
stracciati. E ora, quegli stessi titoli, con la ripresa del
mercato, sono tornati attorno a valori su cui Aig non
avrebbe dovuto sborsare un centesimo
Fonte
-
ASCA
Banche Usa, un altro
anno sul rasoio?
08/02/2010 -
di Miaeconomia ______________________________________________
La convinzione che il peggio della catastrofe economico
finanziaria sia passata ha fatto perdere di vista quello che
fino a qualche mese fa era visto come una specie di
indicatore.
Perche' nel 2009 sono stati registrati 140 fallimenti
bancari negli Stati Uniti, la peggiore annata mai vista dal
lontano 1992, quando il paese cercava di uscire dalla
tremenda crisi del comparto risparmi e prestiti.
Il guaio e' che le cose non sembrano per niente migliorare,
gli analisti statunitensi iniziano a pensare che il 2010
riuscira' perfino a essere peggiore del 2009 su questo
fronte, nonostante il recupero stellare del Prodotto interno
lordo e il miglioramento (leggero) del mercato del lavoro.
A conti fatti si inizia a pensare che il numero dei
fallimenti bancari negli Usa quest'anno potra' arrivare
allegramente a quota 200, un aumento di oltre il 40%
rispetto al 2009 e un costo potenziale di oltre 50 miliardi
di dollari a carico dei contribuenti, con i prestiti ad alto
rischio approvati tra il 2006 e il 2007 che adesso
presentano sul serio il conto.
Nel solo 2009 l'agenzia pubblica federale che interviene a
salvare i depositi dei cittadini americani - l'Fdic - ha
speso 36,4 miliardi di dollari, mentre il totale degli asset
coinvolti e' arrivato a quota 171,9 miliardi, con un tasso
di perdite del 21%, come rende noto una stima Kbw.
Visto che al peggio non c'e' fine, molti esperti stimano che
neppure il 2010 sara' il picco dei fallimenti bancari Usa,
perche' il quadro potrebbe essere ancora piu' deteriorato
nel 2011 e 2012 e oltre. Come dire, se e' vero che un ciclo
finanziario legato al settore dei prestiti e' di 5 anni,
allora potremmo perfino allungare i tempi bui fino al 2013.
Le banche statunitensi che stanno fallendo oggi, del resto,
si trovano con l'acqua alla gola per i prestiti concessi tra
il 2006 e il 2007, quando c'era il boom del mercato
immobiliare.
Per salvare le banche piu' esposte agli ormai mutui subprime,
si stima che il mercato immobiliare Usa dovrebbe recuperare
il 50% del valore in neanche un anno. Intanto a gennaio
altre 15 banche americane hanno gia' affrontato il
fallimento e se il buon giorno si vede dal mattina, chissa'
cosa potra' ancora accadere.
Fonte
-
Miaeconomia
MERCATI EMERGENTI:
BUY SUI RENDIMENTI CORPORATE
09 Febbraio 2010 20:13 MILANO -
di Legg Mason ______________________________________________
Nonostante i mercati asiatici stiano registrando delle
correzioni significative, il trend rialzista continuera'
anche nel 2010. Restano queste le migliori opportunita'
d'investimento.
Batterymarch Financial Management, società del gruppo Legg
Mason, ritiene che i rendimenti corporate dei mercati
emergenti continueranno il trend rialzista anche nel 2010 e
che, nonostante i mercati asiatici stiano vivendo una fase
di sovraperformance e nello stesso tempo stiamo registrando
delle correzioni significative, nel complesso questa asset
class subirà un lieve perdita di valore.
Ray Prasad, di Batterymarch Financial Management,
relativamente ai mercati azionari dell’area pacifico -
asiatica, ha commentato:
"Nel breve periodo, sembra che i
mercati asiatici stiano entrando in una fase dove la sovraperformance potrebbe registrare uno spostamento
settoriale, qualche volta in modo improvviso, con il
potenziale per registrare di volta in volta correzioni
significative all’interno dei settori. Ciò si potrebbe
verificare manifestando nel complesso una lieve perdita di
valore. Nel lungo periodo, la combinazione di valutazioni
interessanti, prospettive di crescita superiori, solidi
bilanci patrimoniali a livello statale, aziendale e
familiare, ci spinge a essere fiduciosi nelle capacità dei
mercati asiatici di assicurare buone performance".
"Guardando avanti, ci aspettiamo che una larga parte della
crescita mondiale sia guidata dall’Asia e dagli altri
mercati emergenti. L’attività economica cinese, supportata
da un miglioramento dell’economia statunitense, sarà la
chiave per l’attuale contesto economico. Nel complesso, i
mercati asiatici continuano ad offrire una crescita di
rendimenti migliore del previsto e rispetto ai mercati
sviluppati, come pure una solida redditività. Inoltre, le
stime sui rendimenti si stanno rivalutando e sono in
crescita in tutta l’Asia e risultano positive in tutta la
regione dal momento che gli analisti prevedono una ripresa."
Prosegue Ray Prasad sulle azioni dei mercati emergenti: "I
driver macro economici e le dichiarazioni politiche stanno
passando in secondo piano dato che gli investitori si
focalizzano nuovamente sui fondamentali delle aziende e
sulla selezione delle azioni. Società con un forte
management e solidi bilanci patrimoniali trarranno beneficio
dallo scoprire un ambiente in cui la fiducia dei consumatori
aumenta, maggiore è la sicurezza occupazionale, dove si
assiste ad una riduzione dei costi finanziari e in generale
si assiste ad un aumento dell’attività economica."
"I mercati emergenti offrono ancora una crescita dei
rendimenti attesi migliore di quella dei mercati sviluppati,
così come una migliore profittabilità. La revisione delle
stime sugli utili sono in aumento in tutti i mercati
emergenti. Il rimbalzo delle valute considerate
interessanti, forti riserve in valuta estera e un forte
consumo interno in molti mercati emergenti continua a
fornire un contesto favorevole per i rendimenti corporate".
Fonte
-
Batterymarch Financial Management per Wall Street Italia
Gestori più prudenti
sull’Asia
11-02-10
-
di Sara Silano ______________________________________________
Il 2010 è cominciato con una frenata delle
Borse internazionali, ma per i gestori la situazione
economico-finanziaria rimane favorevole ai titoli azionari.
E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio condotto da
Morningstar tra le principali case di gestione italiane ed
estere che operano in Italia.
Le ragioni della battuta d’arresto dei listini sono
molteplici. Innanzitutto, la politica monetaria della Cina
che è diventata più restrittiva e si è riflessa
negativamente sulla domanda di materie prime e, di
conseguenza, sui Paesi emergenti che sono i produttori. In
secondo luogo, la crisi greca che, anche se non porterà al
default, potrebbe estendersi ad altre nazioni. In terzo
luogo, la politica americana con la perdita da parte dei
democratici del seggio del Massachussett, che minaccia la
riforma sanitaria. A questo si aggiunge la proposta di norme
più rigide nel settore bancario.
Europa in trend laterale
Le Borse europee potrebbero essere caratterizzate da un
andamento laterale nei prossimi mesi, dopo il rally durato
dieci mesi e le recenti prese di profitto. Le valutazioni
dei titoli sono buone e i tassi di interesse bassi, ma la
crescita economica non è omogenea. Inoltre, alcuni
indicatori, come l’indice di fiducia dei consumatori
tedeschi (Zew) e quello Pmi dei direttori degli acquisti
dell’area Euro sono stati inferiori alle attese. Esiste
anche qualche preoccupazione per la fine degli incentivi nel
settore automobilistico, perché rende il Vecchio continente
più dipendente dalle esportazioni, in particolare verso la
Cina. Per queste ragioni, il numero di gestori che prevede
un apprezzamento nei prossimi sei mesi è sceso dall’87% di
gennaio al 78,9%.
Wall Street conquista i gestori
Secondo alcuni fund manager, gli Stati Uniti sono da
sottopesare, secondo altri il vantaggio dell’Europa non è
più così giustificato come in passato. Il problema è quello
di interpretare i dati economici, perché, accanto ai chiari
segnali di ripresa, ce ne sono altri che indicano un’uscita
dalla recessione lenta, primo fra tutti la disoccupazione
che rimane elevata. Non è concorde neppure il giudizio sul
livello delle valutazioni: per alcuni intervistati sono
“accettabili”, per altri “non a sconto”. In ogni caso, Wall
Street è la piazza preferita dai gestori a febbraio, con
l’84% degli intervistati che si attende una crescita nei
prossimi sei mesi, dieci punti percentuali in più rispetto a
gennaio.
Tokyo, il ritorno
Nelle prime settimane del 2010, la Borsa giapponese si è
mossa in controtendenza rispetto ai ribassi degli altri
mercati mondiali. A gennaio, il Sol Levante è il Paese che
ha avuto il più alto flusso di investimenti. Nel breve può
avvantaggiarsi della ripresa delle esportazioni, soprattutto
in Asia, della debolezza dell’Europa e di possibili nuove
politiche di espansione monetaria per contrastare la
deflazione. I gestori rimangono comunque cauti: il 47%
prevede un rialzo dell’indice Nikkei nei prossimi sei mesi e
il 42% si attende stabilità attorno agli attuali livelli.
Asia economica e finanziaria
Dal punto di vista economico, l’area dell’Asia-Pacifico è
quella che presenta le migliori prospettive di crescita;
tuttavia la forte presenza nei portafogli globali può
rappresentare un rischio. Inoltre, l’aumento degli utili è
già incorporato nelle valutazioni. Secondo alcuni gestori, è
meglio puntare sulle multinazionali che operano nel
sub-continente. Rispetto al sondaggio di gennaio, la
percentuale di coloro che prevedono un apprezzamento nei
prossimi mesi è scesa dal 61 al 52,6%.
Il mercato dei bond fiuta la stretta
I gestori prevedono che i rendimenti dei titoli decennali
aumenteranno leggermente sia nell’area Euro sia negli Stati
Uniti, con conseguente lieve riduzione dei prezzi. I fund
manager cominciano a ragionare sul possibile incremento dei
saggi di riferimento nella seconda parte dell’anno, in
particolare da parte della Federal Reserve. Un altro
elemento da tenere in considerazione è l’elevato
indebitamento di molti Paesi. Nel Vecchio continente, i
vincoli imposti dalla moneta unica costringeranno gli Stati
dell’Unione a tagliare la spesa ed aumentare le tasse. E’ da
vedere come i mercati accoglieranno i piani di risanamento
del deficit pubblico.
Euro sotto pressione
La moneta comunitaria continua a soffrire la crisi dei
cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna).
Inoltre, la possibilità che la Fed alzi i tassi prima della
Banca centrale europea avvantaggia il dollaro. Per queste
ragioni, il 73,2% dei gestori prevede che l’euro si
indebolisca nei confronti del biglietto verde (erano il 65%
a gennaio).
Hanno partecipato al
sondaggio, condotto tra il 3 e il 10 febbraio, 19 delle
principali società di diritto italiano ed estero operanti
sul territorio, che contano per circa l’85% degli asset
gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Allianz
Global Investors Italia, Banca Ifigest, Bnp Paribas Am Sgr,
Credit Suisse, Eurizon Capital, Fideuram Investimenti,
Henderson Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, M&G
Investments, Pioneer Im, Prima Sgr, Schroders, Swiss&Global
AM Sgr, Threadneedle, Total Return, VG.SA, Vontobel.
Fonte
- Morningstar
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Mercoledì
10 Febbraio
2010 |
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Venerdì
12 Febbraio
2010 |
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Domenica 14 Febbraio
2010 |
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Grandi
banche in odore di speculazione
13 Febbraio 2010 00:21 ROMA
– di Marcello De Cecco
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L’attacco speculativo in grande stile che interessa da un
mese la zona Euro, e che si manifesta con vendite non solo
della moneta unica europea ma specialmente dei titoli
pubblici dei suoi membri più deboli, costituisce un unicum
nella storia finanziaria.
Esso colpisce infatti non un paese
sovrano ma una Unione economica costituita da paesi ancora
sovrani, che però hanno rinunciato ad una componente
importante della sovranità, quella monetaria, sostituendo
alle monete nazionali una moneta unica governata da una
banca centrale indipendente dai governi , che non può
acquistare titoli pubblici degli stati membri e che è
ufficialmente anche sfornita delle prerogative del
prestatori di ultima istanza nei confronti delle banche
della stessa Unione monetaria.
Quando si varò la moneta unica, dando vita ad istituzioni
tanto peculiari e inedite, si disse subito che i debiti
pubblici dei paesi membri erano divenuti diversi da quelli
dei paesi che avevano conservato la sovranità monetaria,
come ad esempio il Regno Unito o gli Stati Uniti. I debiti
pubblici dei paesi dell’Euro non potevano essere sostenuti
dalla creazione monetaria, come accadeva agli stati che
hanno una moneta nazionale.
Essendo l’area dell’euro formata da paesi di varia forza
economica, quelli più deboli guadagnavano dall’adottare una
moneta sostenuta da quelli forti della stesa area. Ma i
differenziali tra i cambi, si diceva, sarebbero stati
sostituiti, come termometro della condizione economica dei
vari paesi, dai differenziali tra i rendimenti dei titoli
pubblici e su di essi si sarebbe potuta riversare la
speculazione finanziaria, una volta che fossero state
abolite le monete nazionali dei paesi dell’Unione Monetaria.
L’Euro è entrato in funzione nel 1998 e in circolazione nel
2002. Da quel momento i paesi partecipanti più deboli hanno
goduto solo dei vantaggi derivanti dall’appartenere ad una
moneta unica. La reputazione dei governi e delle economie
più forti, come Francia e Germania, si è estesa a quelli più
deboli e i differenziali tra i rendimenti dei titoli
pubblici sono restati assai più bassi di quelli tra i cambi
delle monete nazionali prima dell’avvento dell’ Euro. Le
pressioni derivanti al sistema monetario europeo dalla
oscillazione tra i cambi delle monete partecipanti non si
sono riprodotte sul mercato dei titoli di stato. A creare e
mantenere questo stato di cose non erano estranee le
condizioni di forte espansione monetaria scelte dalla banca
centrale americana in tutto il periodo. Prima la crisi
dell’high tech, poi quella indotta dall’attacco terroristico
del settembre 2001, poi le necessità della guerra in Iraq e
Afghanistan, hanno fatto sì che l’intero mondo e in esso i
paesi dell’Euro, nuotasse in un mare sempre più vasto e
profondo di liquidità.
Le cose sono cambiate con la crisi del 2008, che ha fatto
crollare la domanda in tutto il mondo e in particolare nei
paesi dell’Euro, molto dipendenti dalla economia
internazionale. I deficit pubblici si sono gonfiati
dappertutto, anche nella zona Euro. Particolare pesantezza
hanno raggiunto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, come
conseguenza non solo del crollo delle entrate fiscali
indotto dalla crisi, ma anche della necessità di salvare il
sistema delle banche private, messo in ginocchio da un
decennio di avventatissime operazioni, per le quali la crisi
ha significato un improvviso e disastroso redde rationem.
Anche per i paesi dell’euro la crisi ha significato il
gonfiarsi patologico dei deficit pubblici, ma nella maggior
parte di essi non nella misura in cui esso si è verificato
in Gran Bretagna e Stati Uniti. Nei più deboli, come la
Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, invece, gli squilibri, che
prima si erano manifestati solo con enormi deficit
commerciali, sono esplosi come deficit pubblici, e si sono
raggiunti livelli simili a quelli di Uk e Usa.
C’era da aspettarsi, e tutti se lo aspettavano, che questo
avrebbe fatto divaricare i differenziali tra i rendimenti
dei titoli pubblici dei paesi dell’Euro. Il fattore
scatenante, infatti, la crisi finanziaria e le sue
conseguenze sui conti pubblici, era servito a dissolvere
l’effetto di convergenza tra i rendimenti indotto dalla
politica permissiva della Fed e della Bce. Il dissolversi di
tale effetto ha messo in evidenza alcune caratteristiche
negative delle economie e delle finanze private e pubbliche
dei paesi più deboli della zona euro.
Ma, dato che le stesse caratteristiche contraddistinguono
paesi come Gran Bretagna e Stati Uniti, perché non è ancora
accaduto che il rendimento dei loro titoli pubblici si sia
elevato fino a raggiungere i livelli toccati nei giorni
scorsi dai titoli pubblici dei paesi più deboli?
E’ proprio
questa domanda, che i mercati si sono posti nel mese scorso,
che ha fatto tremare la dirigenza inglese e quella
americana. Pareva infatti , fino a metà gennaio, che la
grande speculazione internazionale avesse preso di mira il
dollaro e la sterlina, facendo scendere il tasso di cambio
della moneta americana fino a 1.47 dollari per euro.
Poi il trend si è invertito e l’Euro ha cominciato a
scendere, spinto in basso dall’aprirsi improvviso del
differenziale tra i tassi dei titoli dei cosiddetti PIGS,
quelli che una volta si chiamavano il Club Mediterranee, e
il tasso di riferimento, quello sui titoli tedeschi.
Che l’anello debole della catena, tra i paesi meridionali
dell’Euro, fosse la Grecia, era noto a tutti da tempo. Tutti
ricordano le modalità poco sagge della condotta fiscale del
governo greco, a partire dal finanziamento delle olimpiadi,
ma anche delle imprese e delle banche greche, impegnate
molto seriamente nei confronti delle grandi banche
specialmente tedesche e francesi (ma anche inglesi). Così
come tutti sanno che, tra i paesi del Nord Europa, l’Irlanda
non ha tenuto di certo un comportamento più morigerato. E
che l’Austria ha impegnato le sue banche in avventurosi
prestiti nell’Europa che fu il suo Impero.
Ma, come hanno notato non solo Joe Stiglitz ma anche un
economista molto conservatore come Peter Bofinger, membro
del «consiglio dei saggi» tedeschi, e un giornale
ultraconservatore come lo Handelsblatt, quella che si è
scatenata contro la Grecia e contagia gli altri paesi del
Sud Europa e l’Irlanda (e potrebbe contagiare anche
l’Austria e la Svezia) è una manovra speculativa condotta
dalle grandi banche internazionali, per salvare molte delle
quali sono andati in deficit i bilanci pubblici di numerosi
stati. Esse cercano in questo modo di guadagnare profitti
veloci anche se, come ha scritto lo Handelsblatt, mordono la
mano che ha loro dato da mangiare.
Non è difficile leggere, sui principali giornali inglesi e
americani, la speranza che la crisi speculativa attuale si
concentri sull’Europa per parecchio tempo. Le famose agenzie
di rating sembra stiano operando acché ciò accada. Standard&Poor’s
ha dichiarato agli inizi dello scorso dicembre di aver messo
sotto osservazione il debito a lungo termine greco, con
implicazioni negative per il futuro. Non sembra che abbia
fatto lo stesso per quanto riguarda Gran Bretagna e Stati
Uniti, malgrado il fatto che ormai i titoli a lunga
americani rendono più di mezzo punto di più di quelli
tedeschi e che le prospettive del bilancio pubblico degli
Stati Uniti siano pessime. Lo stesso vale per la Gran
Bretagna, semmai peggiorato dal fatto che la sterlina non è
più un moneta di riserva e non può imporre i propri passivi
al resto del mondo.
Mentre la bufera imperversa sui paesi dell’Euro, incaute
dichiarazioni di influenti personaggi come Jurgen Staerck e
Joaquin Almunia hanno contribuito non poco ad attizzare il
fuoco e a estenderlo ad altri paesi come Spagna e
Portogallo. Le aspirazioni politiche dei due personaggi in
questione spiegano in buona parte il loro comportamento
antieuropeo e antinazionale. Si è notato poi un desiderio
del Fmi di entrare in partita, senza dubbio motivato dalle
ambizioni presidenziali di Strauss Kahn e da qualche
autorevole consiglio. Né aiuta molto a ridurre la potenza
dell’attacco a valuta e titoli europei la poco convinta e
assai vaga dichiarazione uscita dalla riunione a 27 di
giovedì. Non ci si poteva aspettare di più da una assemblea
di così tanta gente, così eterogenea. Ma è mancata anche una
dichiarazione congiunta franco tedesca che, in quella sede,
chiarisse la volontà dei due paesi centro dell’Europa di
sbarrare il passo alla speculazione.
Ora, con la direttiva emessa venerdì dalla banca centrale
cinese alle banche di quel paese di aumentare le riserve sui
prestiti, la seconda in poco tempo, le speranze della
dirigenza anglo americana di spostare il temporale dalle
proprie teste a quelle dei paesi dell’Euro si attenuano di
nuovo. Se si ferma la Cina o se, ancor peggio, la bolla
immobiliare cinese esplode, è possibile che la grande
speculazione torni a occuparsi di dollaro e sterlina.
L’accumulazione di riserve in dollari da parte cinese
diminuisce, proprio quando l’offerta di titoli americani sta
aumentando oltre ogni limite. Questo spinge in giù il tasso
di cambio del dollaro. Questa aspettativa può indurre gli
operatori a vendere dollari, ulteriormente rinforzandone le
aspettative di ulteriori ribassi.
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Fonte -
La Repubblica
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GRECIA: GLI
AIUTI UE CREANO UN PRECEDENTE PERICOLOSO
13 Febbraio 2010 16:20 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Lo sostiene Erik Nielsen, chief
economist di Goldman Sachs. Ora anche Portogallo e Spagna
pretenderanno un trattamento simile a quello di Atene.
Nello stringere un accordo per correre in soccorso della
Grecia, i leader dell'Unione Europea hanno cosi' creato un
precedente storico, cui potranno rifarsi gli altri Paesi
alle prese con un deficit di bilancio di dimensioni
allarmanti, come il Portogallo.
Lo ha detto ai microfoni dell'emittente Cnbc Usa il chief
economist per l'Europa di Goldman Sachs: "se fossi nei panni
del ministro portoghese delle Finanze e avessi bisogno di un
aiuto simile, avrei ottimi motivi per pretendere lo stesso
trattamento".
Ora che i leader della Ue hanno trovato un accordo per
aiutare la Grecia a ridurre il debito, faranno fatica a dire
di no alle altre economie della zona euro che si trovano
nella medesima difficile situazione.
I problemi con cui Atene e' alle prese sono piu' gravi di
quelli degli altri Paesi e inoltre sono stati intensificati
dal fatto che la Grecia non abbia detto tutta la verita'
sullo stato dei propri conti. Nielsen ritiene che Atene non
sara' in grado da sola di portare a compimento l'austero
piano di ristrutturazione del debito, che prevede una
riduzione del deficit pubblico dal 12.7% attuale al 3% entro
la fine del 2012.
Prima che l'accordo venisse raggiunto, il presidente della
Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet aveva dato la sua
approvazione ufficiale al piano, definendolo la strada
giusta da percorrere. Resta ancora da vedere se i
finanziamenti dell'Ue saranno contingenti al piano originale
o meno.
"Penso che richiederebbe una stretta e dei cambiamenti
altrettanto radicali e, fatto ancora piu' importante, per
implementare riforme di questo tipo bisogna avere un sistema
costituzionale piu' solido di quello su cui possono invece
contare i greci", ha osservato sempre Nielsen.
"Fissando un obietivo troppo ambizioso e in qualche modo
irrealistico, corrono pertanto un rischio, ma ovviamente
quando c'e' una crisi e' meglio avere ambizioni molto alte
in modo da realizzare una riforma veramente completa".
In Grecia intanto i sindacati hanno organizzato una serie di
scioperi e proteste conto il piano di ristrutturazione, che
tra le altre misure prevede il congelamento degli stipendi
per gli impiegati statali e un innalzamento dell'eta'
pensionabile nazionale.
I bond del governo greco sono stati venduti a piene mani nel
corso dell'ultima settimana, alimentando i timori di un
contagio nella regione europea, con i governi di altri Paesi
alle prese con deficit di bilancio superiori alla norma che
hanno registrato un incremento del costi per raccogliere
denaro tramite l'emissione di bond.
Il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz ha accusato
pubblicamente gli speculatori per aver esacerbato la
situazione, aggiungendo che la Grecia e' stata "vittima di
un attacco sferrato dai mercati finanziari".
Nielsen pero' non concorda con l'opinione dell'economista e
infatti ha dichiarato nell'intervista che non c'e' nessuna
prova a dimostrazione che i movimenti dei mercati siano
stati dettati da attivita' speculative. Tuttavia Nielsen ha
riconosciuto che senza dubbio gli investitori a lungo
termine hanno venduto i bond greci originando ulteriori
pressioni sulle spalle dell'Unione Europea.
Fonte
-
WallStreetItalia
Lehman è stato un
affare. Parla il ceo di Nomura
13 Febbraio 2010 20:58 LONDRA -
dal nostro corrispondente Leonardo
Maisano ______________________________________________
Londra – "Nomura il vero
vicintore del credit crunch ? Non sono così arrogante, ma se
lo dice lei, le prometto che non sarà smentito". Sadeq
Sayeed, pachistano, ceo della maison giapponese per Europa
Medio Oriente Africa 57 anni, è l'uomo che ha negoziato
l'acquisizione di Lehman e l'ha, poi, integrata in Nomura
immaginando un'operazione estrema, ovvero l'emancipazione di
una potenza finanziaria regionale, in potenza globale. Dal
Giappone al mondo grazie alle spoglie di un grandissimo
attore del banking internazionale. Tutti tremavano, tutti
vendevano e Nomura ha finito per acquisire e forse
strapagare avendo piazzato sul tavolo bonus garantiti per i
banchieri dell'istituto in via di fallimento.
E' contento mister Sayed ?
"Se un anno e qualche mese fa, nei giorni dell'acquisizione
di Lehman, qualcuno mi avesse detto che a marzo 2010 avremmo
fatto i risultati verso i quali stiamo andando avrei dato
qualsiasi cosa perché fosse vero. Abbiamo raggiunto ad
ottobre gli obiettivi che ci eravamo posti per l'anno
(quello fiscale inglese aprile su marzo n.d.r.), e abbiamo
quasi centrato quelli che in autunno ci eravamo prefissati
per marzo di quest'anno. Certo molto è dipeso dalle
condizioni di mercato particolarmente vantaggiose, ma
potevamo non essere pronti per sfruttarle al meglio. E
invece continuiamo a prendere quote dalla concorrenza: alla
fine di ottobre 2009 eravamo al 4% delle revenue globali
mondiali oggi siamo al 5,3-5,4.
L'investment banking è tornato fare utili anche per voi, ma
nell'ultimo trimestre il trading è calato, come valori, del
55 per cento…
Non si può prendere un trimestre né per il trading né per l'investment
banking. Quest'ultimo ha goduto di un incredibile numero di
Ipo lanciate in Giappone dove siamo ovviamente fortissimi.
Glielo ridomando: siete i veri vincitori del credit crunch ?
Be' non ne vedo altri, eccetto, forse, gli autori di lunghi
e dotti libri sulla crisi. La realtà è che il credit crunch
ha offerto opportunità, come avviene sempre in queste
occasioni. Nomura non era esposta perché aveva già pulito il
bilancio nel 2007 riducendo i propri rischi. Così, nel 2008,
eravamo pronti a raccogliere.
Vuole cioè dire che avevate previsto la crisi ?
No. Bastava in realtà prevedere la probabilità e lo abbiamo
fatto dando una spazzolata ai nostri bilanci. Poi siamo
saliti sulla barca Lehman e l'abbiamo pilotata senza
chiedere un dollaro di denari pubblici ma facendo ricorso
due volte al mercato. Oggi abbiamo un tier 1 a quota 18,
eccezionale per una banca d'investimento.
In realtà vista da fuori l'operazione Lehman appare come un
"reverse takeover" con la banca americana lanciata ad
"occupare" la maison giapponese, invece del contrario. E per
questo la vecchia guardia di banchieri si sarebbe sentita
scavalcata da quelli dell'istituto americano…
Sono in totale, assoluto disaccordo. Riconosco che Lehman
abbia cambiato Nomura. Ne ha accresciuto le ambizioni e
mutato l'approccio avendo avuto uno straordinaria capacità
di trasformare il gruppo. Ma non c'è concorrenza interna con
fazioni che vincono su altre. Oggi Nomura non è una società
giapponese con attività in Europa e Stati Uniti, è un attore
globale.
Condivide la linea annunciata dal presidente Obama e anche
in una certa misura dal premier Gordon Brown ?
Penso che sui capitali il punto non sia stato colto con
precisione. Ho simpatia per quanto si è detto su una forma
di assicurazione, ma la gestione tecnica di un progetto del
genere è complessa e ancora vaga. Per ora ognuno sembra
agire in modo unilaterale, senza coerenza complessiva. Ci
vuole un level playing field nel mondo e questo implica
regole simmetriche. Regole che però non devono scoraggiare
la concorrenza che resta la migliore forma di meccanismo di
controllo.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
GRECIA: UE
CHIEDE SPIEGAZIONI SUL RUOLO DI GOLDMAN SACHS
15 Febbraio 2010 15:22 BRUXELLES -
di ANSA-AGI-TELEBORSA ______________________________________________
Ovviamente a cose fatte. Lo
scandalo monta ma senza clamore. E' sempre piu' chiaro che i
finanziamenti ad Atene della banca americana hanno falsato
l'entita' del debito della Repubblica Ellenica. Rischi di
bilancio.
La Commissione Ue ed Eurostat hanno chiesto spiegazioni al
governo greco sul presunto aiuto fornito ad Atene da banche
d'affari americane, in particolare Goldman Sachs e JP Morgan
Chase. L'aiuto avrebbe mascherato l'entita' del debito della
Repubblica Ellenica. 'Aspettiamo le informazioni richieste
entro fine febbraio', ha detto il portavoce del nuovo
commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn.
'Poi - ha aggiunto - daremo la nostra valutazione sui
fatti'.
Commento di Luca Ciarrocca fondatore e direttore del sito
www.wallstreetitalia.com
Rumor: sarebbe la banca Usa, a Wall Street soprannominata
"La Piovra", dietro al rialzo dei CDS (credit default swaps)
ellenici. Gioco al massacro per scardinare l'euro.
I contratti stipulati dal Governo greco con le banche
d'affari americane che avrebbero contribuito a "truccare" i
dati dei conti pubblici di Atene negli scorsi anni "erano
legali": lo ha chiarito, riferendosi alle rivelazioni dei
giorni scorsi su contratti di tipo "swap", il ministro delle
Finanze greco, George Papacostantinou".
Il New York Times, in un articolo peraltro ripreso da un
articolo di una settimana fa pubblicato da Der Spiegel, ha
evidenziato come due grandi banche quali Goldman Sachs e JP
Morgan Chase, attraverso una serie di meccanismi swap hanno
permesso alla Grecia di ipotecare alcuni settori della
propria economia, nascondendo così parte del debito alla
Commissione europea. Queste operazioni infatti non appaiono
come prestiti bancari ma come vendite con pagamenti
differiti. In particolare la Grecia avrebbe finanziato parte
del suo deficit sulla sanità pubblica impegnando i futuri
introiti sulle tasse aeroportuali, i pedaggi autostradali e
gli incassi legati alle lotterie di stato.
Intanto il nuovo commissario europeo agli Affari economici,
Olli Rehn, chiede ulteriori misure fiscali alla Grecia per
il piano di risanamento dei conti pubblici. "I rischi di
bilancio si stanno materializzando ci aspettiamo che il
governo assuma a tempo debito misure supplementarie", ha
affermato Rehn a margine del vertice dell'Eurogruppo
odierno. Sempre oggi il numero uno dell'Eurogruppo,
Jean-Claude Junker, ha dichiarato che bisognerà verificare
se la Grecia dovrà ridurre il deficit per la portata
indicata dal governo, ossia di quattro punti percentuali
quest'anno. "Tutto dipenderà dalle risposte che giungeranno
su questa domanda cruciale", ha aggiunto Juncker.
Fonte
-
ANSA-AGI-TELEBORSA
Mercati del credito 15
Febbraio 2010: Dubai e high-yield, nuovi problemi
Monday, 15 February, 2010 at
16:07 -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Mercati del credito deboli in una
giornata semifestiva data la chiusura dei mercati americano
e cinese per festività. Al centro dell’attenzione, oltre
alla Grecia, riemergono due vecchi problemi: Dubai ed i
titoli ad alto rischio ed alto rendimento.
Secondo quanto riportato dalla stampa, l’emirato di Dubai
avrebbe ammesso di non voler ripagare i propri creditori e
di stare cercando un accordo per evitare un fallimento
formale, tramite un accordo i cui termini sarebbero quasi
equivalente ad una dichiarazione di insolvenza. La Grecia è
differente dallo stato del Golfo Persico, ma l’illusione
dell’onnipotenza dei debitori sovrani comincia a dissiparsi.
Sul fronte dei titoli societari, cattive notizie dal mercato
obbligazioni ad altro rendimento: i premi al rischio sono ai
massimi da un anno e i fondi dedicati hanno subito deflussi
miliardari nelle ultime settimane. La pesante flessione del
segmento più rischioso del mercato del credito è un segnale
preoccupante riguardo per le speranze di ripresa del flusso
di finanziamento per le imprese.
Sul fronte greco, Atene sembra prepararsi a resistere alle
richieste di riforma che metterebbero un freno parziale ai
propri problemi di bilancio. La posizione greca è
comprensibile: è ormai evidente che Germania e Francia non
sono disposte ad andare a vedere il bluff ateniese e che si
limiterà a pagare i debiti ellenici, pur di limitare la
volatilità dei mercati nel breve periodo. Le conseguenze
negative sulla credibilità e quindi sull’efficienza dei
mercati del debito nel lungo periodo saranno pesanti, ma
questo non preoccupa la classe politica delle nazioni
europee.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati
in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno
negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del
mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un
cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle
condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Fonte
-
Macromonitor
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Ventennio
emergente, futuro di
frontiera
17-02-10
– di Mark Mobius - Templeton Asset
Management
________________________________________
L’evoluzione degli investimenti che ha portato alla
creazione di una specifica categoria di mercati emergenti è
stata lunga e riflette gli interessanti cambiamenti che sono
avvenuti nelle strategie di investimento globali.
Il termine “mercati emergenti” è stato coniato
dall’International Finance Corporation (IFC) nel 1981, allo
scopo di dare a questi mercati un nome più adatto e
attraente. Precedentemente, venivano identificati con
diverse, e spesso poco lusinghiere, denominazioni come
“Paesi poveri”, “Paesi sottosviluppati” o “Paesi meno
sviluppati”.
Ricercando rendimenti sopra la media, gli investitori hanno
iniziato a puntare su nazioni che erano ai primi stadi dello
sviluppo, aspettandosi da essi una crescita economica rapida
come risultato dell’adozione di politiche orientate al
mercato e alla globalizzazione. Perciò, i primi
scommettitori sui mercati emergenti sono stati in grado di
investire in società con valutazioni molto attrattive,
perché erano poco conosciute dalla comunità finanziaria.
Capire i mercati emergenti
Tipicamente, i mercati emergenti includono Paesi
dell’America Latina, dell’Africa, dell’Est Europa (compresa
la Russia) e dell’Asia (esclusi Giappone, Austrialia e Nuova
Zelanda). Nel corso dell’ultimo ventennio, queste regioni
hanno iniziato a registrare tassi di sviluppo maggiori delle
nazioni sviluppate, integrandosi con il mercato globale.
Queste aree hanno l’80% circa della popolazione mondiale e
hanno registrato una crescita media annua del 4,7% negli
ultimi 20 anni (circa il doppio del 2,4% dei Paesi
sviluppati, secondo i dati del Fondo monetario
internazionale). In particolare, la formazione di un ceto
medio, con un reddito maggiore e una domanda di beni di
consumo in aumento, ha supportato l’espansione economica,
specialmente in Cina e India. Il profilo di
rischio-rendimento di questi mercati ha permesso agli
investitori di raggiungere performance sopra la media negli
ultimi due decenni.
Il maggiore interesse degli operatori per l’investimento nei
mercati emergenti ha spinto le Borse di questi Paesi.
Inizialmente, gli investitori erano meno propensi a puntare
su listini diversi da quelli principali, come Regno Unito,
Germania o Giappone, perché presentavano problemi differenti
rispetto alle nazioni industrializzate, tra cui la mancanza
di una regolamentazione adeguata, di trasparenza e corretta
informazione, instabilità politica, sociale ed economica,
restrizioni agli investimenti stranieri e svalutazioni
monetarie. Alcuni di questi rischi persistono ancora, ma non
sono preponderanti come negli anni ‘80 e ‘90. Inoltre, gli
investitori hanno imparato che la volatilità può essere
gestita e dare come contropartita maggiori rendimenti.
Gli emergenti entrano nei fondi
Nel 1987 Franklin Templeton lanciò il Templeton Emerging
Market Fund, che fu il primo fondo chiuso al mondo quotato
al New York Stock Exchange, specializzato sugli emergenti.
Gli alti rendimenti, assieme al successo di altri comparti,
hanno generato un considerevole interesse nel mondo
finanziario. I flussi di denaro sono così diventati sempre
più consistenti. Nel frattempo, si sono sviluppati circuiti
di Borsa ufficiali, strutture societarie migliori e sistemi
di trading che hanno favorito lo sviluppo di portafogli
azionari internazionali più diversificati, includendo i
mercati emergenti.
All’inizio non è stato facile, perchè, nonostante ci fossero
molti Paesi emergenti in Asia, Africa, America Latina ed
Europa, pochi erano aperti agli investimenti stranieri o
avevano una capitalizzazione sufficiente. Inoltre, c’erano
controlli molto severi sugli scambi con l’estero e
limitazioni agli investimenti, oltre a problemi legati alla
sicurezza e alla liquidità del mercato. Da allora, tuttavia,
si sono registrati grandi cambiamenti: l’apertura della
Turchia verso la fine degli anni ‘80, quella del Brasile,
della Korea e di Taiwan negli anni ‘90, la fine
dell’apartheid in Sud Africa, la caduta delle barriere nei
Paesi dell’Est Europa (compresa la Russia), l’apertura
dell’India e poi, naturalmente, della Cina. Tutto ciò ha
fornito agli investitori un maggior accesso ai mercati
globali. Quando abbiamo lanciato il nostro primo fondo
potevamo investire solo in una manciata di Paesi; dopo
vent’anni, il nostro universo si è esteso fino a comprendere
più di 70 mercati.
La crescita dei mercati emergenti
I mercati emergenti si sono sviluppati negli anni fino a
diventare una major asset class, come evidenziano i flussi
di capitale in entrata e le attività dei fondi, così come il
successo di iniziative tra cui i comparti dedicati ai BRIC
(Brasile, Russia, India, Cina). La capitalizzazione di
mercato degli emergenti inclusa nel S&P/IFC Emerging Market
Index è cresciuta dai 600 miliardi di dollari stimati alla
fine del 1989 ai 13,3 mila miliardi alla fine del 2009. Il
volume di trading totale, invece, è aumentato da 1.100
miliardi di dollari a 15,7 mila miliardi nello stesso
periodo.
I collocamenti e le successive offerte sono state di circa
1,7 mila miliardi di dollari nell’ultimo ventennio, a
testimonianza della fiducia degli investitori. Inoltre, i
portafogli dei fondi dedicati ai mercati emergenti hanno
totalizzato oltre 160 miliardi di flussi in entrata dal 1995
(il primo anno in cui l’istituto di ricerca EPFR Global ha
cominciato a monitorarli). Il crescente interesse verso
questi mercati nell’ultimo ventennio è anche provato
dall’aumento del loro peso nell’indice Msci All Country
World, da meno del 2% alla fine del 1989 al 13% alla fine
del 2009.
Frontiere future
I mercati di frontiera, che potrebbero trasformarsi domani
in emergenti, hanno cominciato ad apparire davvero
interessanti solo negli ultimi anni. Essi si trovano ora
dove la maggior parte dei mercati emergenti erano 15 o 20
anni fa. Tuttavia, essi possono offrire agli investitori
opportunità d’investimento molto interessanti a confronto
con la situazione degli anni ‘80. L’attenzione verso tali
aree ha portato i fornitori di indici Msci e IFC/S&P a
lanciare benchmark specializzati, garantendone la copertura.
Per i mercati di frontiera la strada è segnata: diventare
emergenti. Gli investitori non dovrebbero perdere questa
opportunità.
Il nuovo orizzonte per gli investitori internazionali sono i
mercati di frontiera, che comprendono alcune regioni
dell’Africa (ad eccezione del Sud Africa), il Medio Oriente,
l’area balcanica e baltica. E’ un universo tipicamente più
piccolo e meno liquido di quello dei mercati emergenti, ma
comunque è abbastanza ampio e ha generato un interesse
significativo da parte degli investitori.
Uno degli aspetti più interessanti è la creazione di nuovi
mercati azionari, in particolare in quei Paesi che sono
passati da un’economia socialista e comunista a quella di
mercato. In Vietnam, ad esempio, le richieste di
privatizzazione delle società statali hanno generato un
interesse del governo nella creazione di un mercato dei
capitali. Il Vietnam ha lanciato la sua prima Borsa del dopo
guerra nel luglio del 2000, con solo due azioni quotate ora
ce ne sono circa 500 su due listini (fonte Bloomberg)
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Fonte -
Templeton Asset Management
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Mercoledì
17 Febbraio
2010 |
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Venerdì
19 Febbraio
2010 |
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Sabato 20 Febbraio
2010 |
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Gestore,
non dimenticare come fare il panino
17-02-10 – di
Sergio Vicinanza
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“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi”. Non
è il 2019 immaginato da Ridley Scott, non sono un androide e
l’atmosfera non è poi così cupa. Ma, se guardo indietro,
vedo macerie fumanti.
L’evoluzione della nostra industria è tutta da raccontare.
Dagli anni ‘80 a oggi, ha creato occupazione, sviluppato
prodotti. L’innovazione c’è stata, è vero, ma poche volte
abbiamo avuto l’idea che potesse soddisfare un “bisogno”
genuino del cliente, e troppe volte è stata confezionata in
laboratorio guardando ad altri “bisogni”; è stata insomma
stimolata dal produttore (o dal distributore) più che dal
mercato (inteso come utilizzatore).
La premessa è d’obbligo per introdurre l’evoluzione del
mestiere di gestore nel corso di questi anni.
All’inizio, con tassi nominali a due cifre, è davvero
difficile consegnare performance negative: CCT, poche
azioni, e via. Ma siamo agli albori. Poi le gestioni
diventano fondi d’investimento, e non certo a “grande
richiesta” da parte dei risparmiatori. Il progresso, si
dice. La crescita della cultura finanziaria. La
trasposizione in “prodotto” della vecchia gestione si chiama
fondo bilanciato. Un fiume di soldi si riversa sulla piccola
borsa di Milano. Vincono i campioni dell’insider trading, i
front-runners diventano ricchi. Dal boom allo sboom il passo
è breve dopo la crisi dell’87. Al bilanciato si affianca lo
specializzato, prima per classe di attività, poi per area
geografica e per settore. I vecchi campioni sono spazzati
via, travolti dal mercato. Si scoprono i benchmark ed è
un’eccellente occasione per scaricare responsabilità. Arriva
la proliferazione dei prodotti.
Metaforicamente dal pane e salame si passa al tramezzino
etnico, al tramezzino di tramezzini etnici e poi al club
sandwich multistrato, ma chi lo confeziona si limita a
ricevere informazioni sulle intolleranze alimentari e lo
farcisce in modo coerente senza preoccuparsi troppo del
gusto finale. Il cliente è senza alternative, rassegnato a
farsi servire senza aver voce in capitolo. Di tanto in
tanto, inutilmente, protesta. L’offerta intanto si
arricchisce: preconfezionati, precotti, liofilizzati e altre
diavolerie.
Passa l’87, il 92, il 94, scoppia la bolla delle dot com,
cadono le Torri Gemelle, si gonfia la bolla del credito
(panini precotti e prodotti liofilizzati al gusto di
panino), puntualmente scoppia, ed eccoci ai nostri giorni.
Forse siamo tornati alle cose semplici e il pane e salame
del terzo decennio punta al rendimento assoluto, come negli
anni 80: l’avventore ha fame e chiede di mangiare. Un panino
al salame soddisfa il bisogno primario: il gestore lo
prepara e il distributore lo serve. Semplice, no?
Dunque torniamo alla semplicità: il cliente tipo ti affida i
suoi risparmi e si aspetta che crescano nel tempo, un po’
più o un po’ meno, a prescindere o quasi dai benchmark, dai
cicli di borsa, dalle strette monetarie e dai fallimenti
bancari. Il problema è capirsi. Il distributore, che nel
frattempo arriverà a chiamarsi consulente, dovrà farsi
interprete.
Riassumendo, con alterne fortune abbiamo risposto al bisogno
presentato dal distributore. Con la gestione bilanciata
abbiamo dovuto sviluppare capacità di timing, variando il
peso di azioni e obbligazioni. Con l’avvento dei prodotti
globali, la faccenda è diventata maledettamente complessa.
Per fortuna hanno inventato i benchmark e tutto è diventato
relativo. Abbiamo gestito anche prodotti puri e quelli
azionari li abbiamo gestiti nel massimo confort, con tanto
di mini-tracking error, fino a che gli Etf non sono comparsi
all’orizzonte. Ora dobbiamo generare alpha, per giustificare
il 2% di commissioni che il cliente inesorabilmente paga e
dobbiamo competere con gestori di ogni parte del mondo.
Chi si ferma è perduto; nella ricerca dell’equilibrio sono
arrivate le varie misure del rischio, e il gioco è diventato
un po’ più onesto: abbiamo dovuto sbilanciarci sulle
prospettive di rischio, di rendimento relativo, o, (udite,
udite!) assoluto.
Ora i liofilizzati non vanno più, dobbiamo assicurare la
tracciabilità degli ingredienti, preparare panini
digeribili, gustosi, che mantengano le caratteristiche senza
deperire. In cambio speriamo di allineare la nostra unità di
tempo a quella del cliente, sperando che sia più lunga del
giorno, della settimana e del mese.
La volatilità, il tracking error e il VaR sono entrati nel
lessico comune. In slang tutto questo si chiama Trasparenza.
In suo nome abbiamo imparato a comunicare; abbiamo dovuto
misurare i rischi e gestire in condizioni di vincolo. Molti
di noi hanno imparato un mestiere diverso, ora utilizzano
modelli matematici e statistici, selezionano altri gestori
per costruire portafogli. Splendido. Ma a una condizione:
non dimentichiamo come si prepara e a che cosa serve un bel
panino col salame.
 |
Fonte -
MorningStar.it
|
I dolori del
giovane investitore
Dai BoT ai bond strutturati.
Tante delusioni nel decennio e una lezione per ripartire.
18-02-10 -
di Sara Silano ______________________________________________
Nel 2000, il “popolo dei BoT” si
è trasformato in day trader. Tanti piccoli Gordon Gekko (lo
spregiudicato protagonista di Wall Street, impersonato da
Michael Douglas nel film di Oliver Stone) si sono riversati
in Piazza affari a caccia di Tiscali, Seat Pagine gialle e
StMicroelectronics. Guadagnare sembrava facile sia con i
singoli titoli sia con i fondi hi-tech (che proliferavano
nell’offerta delle società di gestione e che oggi sono una
categoria in via di estinzione). Poi la bolla è scoppiata e
con essa il sogno che il mercato possa sempre salire.
Il “popolo dei day trader” è diventato un ristretto gruppo e
nell’immaginario di molti la Borsa non si è mai più ripresa,
contrariamente a quanto in realtà è accaduto tra il 2003 e
la prima metà del 2007.
Uno studio, elaborato da Morningstar negli Stati Uniti, dove
le serie storiche coprono l’intero decennio, mostra che il
ritorno degli investitori (o Investor return, misurato
tenendo conto dei flussi in ingresso e uscita dai fondi) è
stato sensibilmente inferiore al rendimento medio dei fondi
(l’1,68% contro il 3,18% annualizzato). E’ significativo il
confronto tra le performance assolute degli Azionari Usa
(+1,59%) e il corrispondente Investor return, pari a uno
scarno 0,22% annualizzato.
E’ vero non è stato un decennio prosperoso per le Borse.
L’indice Msci World ha vissuto cinque anni di rialzi e
cinque di ribassi (in euro), terminando il periodo con un
rendimento negativo. Gli alti e bassi hanno messo a dura
prova la pazienza degli investitori, i quali sono usciti in
massa dai fondi azionari nel 2007 e 2008, proprio mentre
questi si preparavano per uno dei migliori anni del
decennio.
In Italia, secondo le statistiche di Assogestioni, i
deflussi dai fondi specializzati sulle Borse, nel biennio
(2007-08), sono stati pari a quasi 54 miliardi di euro.
L’analisi dell’Investor return riferito ai risparmiatori
italiani mostra che in questo periodo di forti turbolenze è
stata modificata bruscamente la composizione del
portafoglio, in senso più difensivo, e sono state perse
occasioni di profitto.
Non sono mancate le scottature anche per chi ha investito in
obbligazioni. I casi più eclatanti sono stati il default
dell’Argentina nel 2001 e successivamente i crack di Cirio e
Parmalat. Ma in tempi più recenti hanno regalato amare
sorprese le obbligazioni strutturate, che sono state vendute
in abbondanza prima della crisi finanziaria, nonostante (o
forse proprio per) il loro velo di opacità. Eppure il primo
decennio del nuovo millennio ha registrato migliori
performance nel reddito fisso piuttosto che nel settore
azionario. Nell’era delle dot com e della finanza creativa
ha guadagnato di più chi ha investito sulle obbligazioni
governative (l’indice Citi Emu Gbi ha reso in media il 5,4%
annulizzato contro il -3,7% dell’Msci World).
Uscito dalla culla protettiva dei BoT, l’investitore ha
compiuto molti passi falsi (non sempre e solo per causa
sua). Si è buttato sui titoli tecnologici, poi ne è uscito
in perdita, giurando a se stesso che non si sarebbe mai più
avvicinato alla Borsa. Poi si è rifugiato nelle obbligazioni
bancarie, fuggendo dai fondi, che nessuno più gli
consigliava. E ora?
Un primo proposito per il prossimo decennio potrebbe essere
quello di smettere di dare troppa importanza alle
performance recenti di un fondo o di un altro strumento
finanziario e alle “mode”. Un secondo proposito potrebbe
esser quello di evitare che l’euforia e la paura prendano il
sopravvento, peggiorando situazioni che sono già critiche.
Gordon Gekko probabilmente tornerà al cinema in primavera e
non sarà lo stesso trader senza scrupoli di 23 anni fa.
Dovrà fare i conti con la crisi di Wall Street. Sul “piccolo
schermo” della gestione quotidiana dei propri soldi, anche
l’investitore deve rimettersi all’opera, facendo tesoro
degli errori passati, per ricominciare dalla pianificazione
dei propri obiettivi e della propria propensione al rischio.
Meno “attore” e più protagonista. Fonte
-
MorningStar.it
La settimana,
7/2010
Friday, 19 February, 2010 at
16:02 -
di phastidio ______________________________________________
Settimana di recuperi per i
mercati azionari, malgrado la correzione indotta, nella
giornata di venerdì, dalla decisione della Fed di alzare il
tasso di sconto di un quarto di punto. La vicenda greca
resta sospesa, con il governo di Atene che ha rifiutato
l’invito della Banca centrale europea e dell’Eurogruppo ad
adottare misure aggiuntive prima della verifica comunitaria
prevista per il 16 marzo. Gli spread sui titoli di stato
tedeschi e quelli espressi dai credit default swap ellenici
sono rimasti su livelli elevati, a conferma del congelamento
della vicenda fino alla verifica dell’efficacia delle prime
misure di austerità adottate dal governo di Atene.
Come detto, nella giornata di giovedì 18 febbraio la Federal
Reserve ha deciso l’aumento di un quarto di punto, allo 0,75
per cento, del tasso di sconto, cioè del costo che le banche
sostengono per indebitarsi presso la banca centrale
statunitense. Ridotto anche il periodo di indebitamento, da
28 giorni all’overnight. La misura, che ha prodotto un lieve
aumento della volatilità dei mercati ed un rafforzamento del
dollaro, non era inattesa, dopo le osservazioni di Ben
Bernanke nella testimonianza congressuale del 10 febbraio,
che ha segnalato l’inizio del lungo processo di
normalizzazione delle condizioni monetarie. All’atto pratico
la misura non rappresenta una stretta monetaria, ma solo
l’avvio del ripristino del differenziale con i tassi sui Fed
Funds (oggi situati tra 0 e 0,25 per cento), che prima della
crisi si collocava ad un punto percentuale. L’effettiva
stretta monetaria verrà probabilmente attuata attraverso il
rialzo dei tassi sulla remunerazione delle riserve detenute
dalle banche presso la Fed, ma al momento resta ipotesi
molto lontana. Tra gli altri dati settimanali,
si conferma il rischio di prossimo rallentamento della
congiuntura statunitense, come suggerito anche dal dato degli
indicatori anticipatori di gennaio mentre, tra gli indicatori
coincidenti, riscontri positivi emergono dall’indice Empire
della Fed di New York riferito al mese di febbraio, e dalla
produzione manifatturiera di gennaio. Anche in Europa si
riscontra un andamento positivo per la manifattura, come
evidenziato dall’indice dei direttori acquisti di febbraio, con
un dato particolarmente brillante per la Germania.
Settimana di dati problematici per il Regno Unito: in gennaio il
paese ha registrato il suo primo deficit mensile di cassa in
quello che rappresenta il mese principale di esazione delle
imposte. Cresce quindi il rischio di sforamento delle stime di
deficit, e ciò renderà necessarie nuove emissioni di titoli
pubblici, in aggiunta ad un calendario di emissioni già pesante.
Aumenta pertanto la probabilità che la Bank of England debba
tornare a monetizzare il debito pubblico, riprendendo le
pratiche di easing quantitativo. Il mercato ha reagito con un
aumento dei rendimenti sui Gilt, in precedenza colpiti anche dal
forte aumento dell’indice dei prezzi al consumo, il cui indice
tendenziale in gennaio ha toccato il 3,5 per cento. In forte
ripiegamento anche la sterlina, ma solo contro dollaro, mentre
contro euro il cambio è rimasto stabile, per effetto della
debolezza della valuta unica europea, indotta dalla crisi greca.
A livello tecnico, l’indice Eurostoxx 50 ha recuperato nel corso
della settimana la propria media mobile a 200 giorni,
neutralizzando il precedente ipervenduto.
High Yield,
volatilità in arrivo
Friday, 19 February, 2010 at
20:27 -
di Charles Dexter Ward ______________________________________________
Il secondo dato consecutivo molto
negativo fatto registrare dai flussi sui fondi High Yield
americani (rosso da due miliardi in appena due settimane)
riporta sotto i riflettori il tema delle dinamiche
allocative e l’importanza via via crescente dei cosiddetti
technicals nel mercato del credito.
Per tutto il 2009 flussi e fondamentali sono andati a
braccetto, spingendo il mercato dei Junk Bond a rialzi
stellari: la pagina 1 del libro di testo sulle dinamiche di
mercato insegna che all’uscita di una profonda crisi
finanziaria è il mondo del credito a beneficiare per primo
della fase di Repair/Riparazione. Se a questo si somma il
livello da Giorno del Giudizio Universale raggiunto dagli
spread un anno fa e la solidità relativa dei bilanci
aziendali, si spiega con relativa facilità il movimento
dello scorso anno.
Queste ultime settimane ci dipingono un quadro parzialmente
mutato: l’unica costante rimane la solidità nei
fondamentali, confermata anche dall’ultima tornata di
trimestrali. In termini di pricing, i livelli di spread sono
sulla strada della piena normalizzazione: se probabilmente
ancora interessanti in senso assoluto, in termini relativi
il credito è rapidamente divenuto piu “expensive” sia
rispetto all’azionario che ai governativi periferici. Last
but not least, l’Investment Clock del nostro famoso libro di
testo ricordato in precedenza inizia con insistenza a
scandire l’ora dell’azionario, mercato naturalmente più
indicato in fasi in cui la ripresa va consolidandosi per
tradursi in un ciclo di crescita decisa.
Ed è qui il problema: ad una rinnovata crescita, forte e
decisa, in fondo in fondo non sembra credere proprio
nessuno, a causa della zavorra che il mondo occidentale si
porta dietro come conseguenza della profondissima crisi del
2008. Lo stock di debito complessivo nel sistema non è
diminuito, è solo passato di mano spostandosi dal privato al
pubblico. Il sistema finanziario è stato puntellato, ma non
sanato. Requisiti più stringenti in termini di capitale
(qualità e quantita) e di rischiosità degli impieghi non
depongono certo a favore di un sistema finanziario incline a
pompare finanziamenti nel sistema e a soffiare sul fuoco
della ripresa: anzi.
In un clima di crescita bassa e poco brillante, il rischio è
che nel prossimo futuro bisognerà “accontentarsi” degli
extrarendimenti offerti dal credito e rimarrà difficile
rinunciare a quel piccolo extra in un mondo che si
preannuncia davvero avaro di rendimenti. Su tutti i fronti.
E’ forse troppo presto quindi per celebrare la fine del
trade lungo sul credito: la novità nel 2010 sarà la
volatilità, assente dall’universo del credito negli ultimi
12 mesi. Fonte
-
Macromonitor
Il virus greco
passa dalle banche
22-02-10 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Il virus greco potrebbe infettare
il resto d’Europa. E, aggiungono gli analisti, il contagio
potrebbe passare dalle banche. La preoccupazione che i
problemi di solvibilità ellenici siano gli stessi di altri
Paesi della regione è diventato evidente quando le banche
d’affari internazionali hanno coniato il termine Pigs per
indicare (attraverso un acronimo) gli Stati che, insieme
alla Grecia, hanno gli stessi problemi di debito pubblico
alle stelle: Portogallo, Irlanda e Spagna.
La reazione dei mercati era prevedibile. L’indice Msci
Europe nell’ultimo mese (fino al 22 febbraio e calcolato in
euro) ha perso più del 3,8%. “Le banche europee che hanno
fatto prestiti alla Grecia e magari anche a Paesi dell’est
Europa come l’Ungheria, d’improvviso hanno visto la loro
situazione diventare più rischiosa”, spiega uno studio
firmato da Carmen Reinhart, professoressa di economia
internazionale all’Università del Maryland. Storicamente, la
situazione è simile a quella verificatasi in Asia nel 1997,
quando la Tailandia ha svalutato la sua moneta.
Improvvisamente si è capita l’esposizione che le banche
giapponesi avevano nei confronti di quel Paese e la crisi
rapidamente si è allargata alla Corea del sud e
all’Indonesia per poi coinvolgere tutti gli Stati della
regione. “La stessa storia può ripetersi
in Europa dove gli istituti di credito dei diversi Paesi sono
fortemente legati gli uni agli altri”, continua la
professoressa. Un esempio di questo legame pericoloso lo
fornisce la francese Crédit Agricole che controlla la greca
Emporiki Bank. L’istituto ellenico, a causa di alcuni prestiti
diventati inesigibili e a dei costi di ristrutturazione, ha
generato una perdita di 834 milioni di euro per i transalpini.
In una situazione simile, secondo la società di analisi
Creditsights si trovano istituti tedeschi, austriaci e svedesi
che hanno anche esposizioni nei confronti di Paesi dell’Europa
dell’est, una zona da sempre considerata instabile, sia dal
punto di vista politico, sia finanziario. “La differenza di
questa crisi, rispetto ad altre simili scoppiate in passato in
altre parti del mondo, è che i mercati finanziari se
l’aspettavano”, continua la docente del Maryland. “Gli Stati più
ricchi e in generale l’Unione europea ci possono mettere una
pezza. Ricordandosi però che non dispongono di fondi
illimitati”. Anche gli insospettabili,
peraltro, iniziano a mostrare qualche problema. L’Inghilterra a
gennaio ha avuto il suo primo deficit di bilancio dal 1993.
Secondo gli ultimi dati forniti dall’Office for National
Statistic il rosso ammonta a 4,3 miliardi di sterline (4,9
miliardi di euro). La notizia ha colto di sorpresa gli
economisti. Quelli interpellati da Bloomberg, ad esempio, si
aspettavano un surplus di 2,6 miliardi.
Per quanto riguarda la Borsa, nel Vecchio continente come negli
Stati Uniti è tempo di bilanci. Sempre in Gran Bretagna il
gruppo finanziario Barclays nel 2009 ha registro un raddoppio
degli utili rispetto all’anno precedente. Andamento simile in
Francia per Bnp Paribas che ha registrato il quarto trimestre
positivo di seguito. Va peggio per l’auto. Renault, per esempio,
ha chiuso il 2009 con un passivo netto di oltre 3 miliardi di
euro. In Italia, Fiat ha detto di aver finito l'anno 2009 con
una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante
questo e un indebitamento netto a 4,4, miliardi, verrà
distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni.
Fonte
-
MorningStar.it
Grecia, segreti del
piano che salvera’ Atene
22/02/2010 -
di Miaeconomia ______________________________________________
Esiste o e’ un invenzione un
piano europeo per salvare la Grecia? Il portavoce del
commissario agli Affari economici Olli Rehn ha smentito
dichiarando che non c'e' alcun piano di salvataggio
finanziario per la Grecia. Eppure le indiscrezioni riportate
dal settimanale tedesco Der Spiegel uscite stamani erano
abbastanza dettagliate. L‘articolo sostiene che il ministero
delle Finanze dell’Unione Europea ha predisposto un piano
europeo da 20-25 miliardi di euro in soccorso alla Grecia.
Anche il governo tedesco ha smentito l'esistenza del piano,
ma i giornali tedeschi sono tornati a parlare con insistenza
delle misure in cantiere.
La verita’ sta nel mezzo. E’ vero che non e’ stato, ancora,
varato alcun un piano ma e’ certo che sul tavolo del
ministro del commissario agli Affari economici dell’Ue vi
sono piu’ ipotesi di soluzioni di un eventuale intervento.
Forse le cifre non combaciano ma e’ certo che nelle stanze
della commissione Ue, del ministero delle finanze tedesco,
in quelle dell’Eurogruppo e probabilmente anche alla Bce, si
sta lavorando per scegliere la strada maestra da adottare in
caso alla verifica di inizio marzo la Grecia richieda un
intervento di salvataggio.
La Germania e’ il Paese a cui piu’ preme la salute
dell’economia greca. Secondo uno studio di Commerzbank il
default della Grecia e la propagazione verso altri Paesi in
difficolta' come Spagna o Italia potrebbe costituire un
incalcolabile rischio per il settore bancario tedesco e per
quello finanziario dell'intera area euro, di cui la Germania
e’ il rappresentante maggiore. Infatti secondo uno studio
dell'Autorita' di Vigilanza della Germania, l'esposizione
delle banche tedesche verso Grecia, Portogallo, Irlanda,
Italia e Spagna ammonterebbe a circa 522,4 miliardi di euro,
circa il 25% dell’intero Pil tedesco del 2009. Un default
della Grecia metterebbe a rischio anche le finanze di Spagna
e Irlanda, con danni incalcolabili per il sistema bancario
tedesco, per non parlare dell’euro che con la capitolazione
della Grecia, la Spagna e Irlanda in difficolta’ e il
sistema bancario tedesco con l’acqua alla gola, potrebbe
rischiare di dissolversi.
Fonte
-
Miaeconomia
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L'insolvenza
(default) della Grecia
è vera o no?
22 Febbraio 2010 20:17 TORINO – di
*Beppe Scienza
*Beppe Scienza
e' professore all'Università degli Studi di Torino,
Dipartimento di Matematica. Ha collaborato Alessandra
Barbarigo da Atene.
________________________________________
I greci ricordano la frase di due sole parole pronunciata da
Harílaos Trikúpis al parlamento ateniese il 10 dicembre
1893: "Distihós eptohéfsamen" che significa "Purtroppo siamo
falliti". Così infatti, senza mezzi termini, l’allora primo
ministro comunicò l’insolvenza dello stato.
È vero che un precedente così remoto non significa quasi
nulla. A rigor di termini l’Italia non è mai stata
insolvente, mentre di fatto la Germania sì, come conseguenza
della riforma monetaria del 20 giugno 1948. Ma non per
questo lo stato tedesco è ora ritenuto meno affidabile di
quello italiano.
Comunque gli stessi greci non prendono alla leggera la
situazione finanziaria del proprio paese, come testimoniano
i commenti sulle testate più autorevoli, quale la
Kathimerinì. Si può infatti convenire che un crac della
Grecia è improbabile soprattutto per motivi politici
internazionali (leggi: implicazioni su euro e Unione
Europea), ma come si fa a definirlo impossibile?
Tuttavia, esaminando
con attenzione come si sono mossi i prezzi dei titoli di
stato greci negli ultimi mesi, c’è qualcosa che sorprende.
Da un debitore meno affidabile, società o stato che sia, è
normale pretendere rendimenti più alti come compenso per il
maggiore rischio. Logico quindi che una crisi di fiducia si
ripercuota sui titoli con un calo delle quotazioni, che è
l’altra faccia dell’aumento dei rendimenti.
Ma chi ritiene troppo aumentato il rischio di default, si
disfa di tutte le emissioni e anzi soprattutto delle più
lunghe. Lo stato ellenico potrebbe riuscire a far fronte ai
suoi impegni finanziari ancora per un po’, ma poi non
farcela più.
Invece negli ultimi mesi sono risultati penalizzati i titoli
brevi o medio-brevi, mentre quelli lunghi sono apparsi
tetragoni a ogni cattivo presagio (vedi la tabella in
basso). I casi estremi sono i titoli a un anno che hanno
evidenziato perdite anche del 2,5% mentre il prestito con
scadenza nel 2040 è tuttora ai livelli di metà dicembre
scorso.
Dunque i timori di
insolvenza non bastano a spiegare i cali di molti titoli. Le
cause possono essere anche altre e sono da ricercare
piuttosto nel comportamento di alcuni investitori
istituzionali nella gestione di portafogli di fondi hedge,
tesorerie di banche, assicurazioni ecc...
Nei mesi scorsi
alcuni gestori hanno infatti messo in piedi operazioni
cosiddette di carry trade, indebitandosi per comprare titoli
greci. Il vantaggio appariva notevole, finanziandosi per
esempio all’1,3% per comprare titoli biennali o triennali
che rendevano il 4,2%.
Arrivata però sulle prime pagine dei giornali la precaria
situazione finanziaria della Grecia, costoro si sono
spaventati o sono stati messi alle strette da chi li aveva
finanziati; e hanno chiuso le operazioni, vendendo in gran
quantità le emissioni comprate.
Molto raramente operazioni simili vengono invece messe in
piedi con titoli lunghi, i cui possessori non risulta
abbiano manifestato turbamenti. Sapevano di avere titoli
adatti a chi non fa uso di tranquillanti e non gli è parso
che nella sostanza fosse cambiato molto.
Se questa
interpretazione è vera, sono proprio i titoli sui 4-5 anni a
apparire più interessanti per puntare su un qualche
intervento di salvataggio della Grecia. Mentre sul lungo
periodo merita segnalare due indicizzati all’inflazione
europea: uno che scade nel 2025 quotato alla Borsa Italiana
nel segmento Euromot e uno con rimborso (salvo cattive
sorprese...) nel 2030, trattato sull’euromercato oltre che
ovviamente alla Borsa di Atene.
________________________________________________________
Grecia: stranamente penalizzati i titoli più brevi.
quotazioni rendimenti variazione del rendimento
durata in anni 15-dic-09 15-feb-10 15-dic-09 15-feb-10
Grecia 4,3% 30-2-2012 2,0 100,2 98,5 4,20% 5,08% +0,88%
Grecia 3,7% 20-7-2015 5,5 92,5 90,5 5,20% 5,80% +0,60%
Grecia 6,5% 22-10-2019 9,8 105,8 102,6 5,70% 6,10% +0,40%
Grecia 5,3% 20-3-2026 16,2 90,6 90,8 6,22% 6,20% -0,02%
La sfiducia nello stato greco si è ripercossa in maniera
incoerente sulle quotazioni dei suoi prestiti. Da metà
dicembre 2009 sono saliti molto i rendimenti dei titoli più
brevi, meno quelli di titoli più lunghi e sono addirittura
rimasti stabili i prezzi della Grecia 5,3% 2026. I maggiori
timori di un crac non bastano per spiegare un tale fenomeno.
Fonte: tabella elaborata dalla Tokos di Torino.
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Fonte -
La Repubblica
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Martedì
23 Febbraio
2010 |
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Mercoledì
24 Febbraio
2010 |
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Giovedì
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Chi vince e chi
perde col barile
mercoledì, 24 febbraio 2010 -
15:01 -
di Miaeconomia ______________________________________________
Chi si ricorda quando il petrolio
è arrivato a un passo dai 150 dollari al barile alzi la
mano. Era l’estate del 2008 e la corsa dell’oro nero, per
alcuni giorni, aveva guadagnato le prime pagine dei
giornali. Poi è finita nel dimenticatoio, superata dal picco
della crisi finanziaria internazionale e dalla paura di un
collasso del settore finanziario. Nel frattempo la
recessione mondiale ha ridotto la domanda di greggio con un
conseguente calo del prezzo.
“Anche se adesso abbiamo un eccesso di offerta di petrolio,
ragionando in un’ottica di medio e lungo termine dobbiamo
capire cosa ci riserva il futuro di questa materia prima”,
spiega uno studio firmato da Paul Larson, analista di
Morningstar. “I bassi prezzi del barile tagliano i costi
delle imprese e riducono le barriere geografiche, mentre le
valutazioni alte rappresentano una specie di tassa
sull’intero sistema economico”.
Il problema, in sostanza, è capire quanto petrolio ci sia
ancora a disposizione e quanto costa estrarlo. “Quando si
guarda alla storia delle scoperte di nuovi giacimenti, si
nota che la maggior parte delle riserve a basso costo sono
state ormai trovate. Il massimo è stato toccato negli anni
’60”, continua l’analista. “Oggi consumiamo più oro nero di
quello che troviamo”. Nonostante il numero di scoperte
effettuato nel 2009, considerato un anno fortunato, il mondo
continua a utilizzare 31 miliardi di barili all’anno. “In
pratica rimpiazziamo solo un terzo di quello che bruciamo”,
continua lo studio”.
Stiamo quindi finendo il petrolio disponibile?
“Assolutamente no”, risponde Larson. “Solo che stiamo
esaurendo quello che costa poco estrarre”. L’esempio viene
dal Tiber, l’ultimo giacimento scoperto nel Golfo del
Messico. Per estrarre il petrolio bisogna trivellare a una
profondità maggiore dell’altezza del Monte Everest. Ci
vorranno quindi dai sette ai 10 anni prima che quella
riserva dia qualche frutto. “Di sicuro non si tratterà di
petrolio a buon prezzo”, chiosa l’analista.
In uno scenario di prezzi che continueranno a salire, può
essere utile capire quali sono le società che avranno da
perderci e quelli che ci guadagneranno. Lasciando da parte
per un momento le società che lavorano direttamente nel
campo petrolifero – i cui bilanci si muoveranno a seconda di
come sapranno adattarsi alla nuova situazione – a fare le
spese della nuova situazione potrebbero essere due colossi
delle bevande come Coca Cola e Pepsi. “La recessione ha
minato la popolarità delle bibite in bottiglia”, spiega
Larson. “Prendiamo l’acqua, che rappresenta una voce
importante del fatturato delle due società: molti
consumatori hanno abbandonato quella confezionata per
tornare a quella che esce dal rubinetto. Continuare con
questo prodotto significa stare in un business costoso e ad
alto dispendio di energia mentre i consumatori, grazie alla
crisi, si stanno abituando a un’alternativa più ecologica e
meno costosa. I due gruppi, comunque, se decideranno di
uscire dal business dell’acqua, potranno contare sugli altri
loro prodotti per compensare le perdite”.
Fra chi ci guadagnerà, vanno sicuramente inserite le società
che si occupano di energie alternative che riusciranno a
occupare le quote di mercato lasciate libere dai produttori
di petrolio. Vento, sole e biocarburanti diventeranno sempre
più popolari soprattutto se i governi mondiali continueranno
sulla strada degli incentivi per chi si converte a questi
tipi di energia. “Sfortunatamente per gli investitori, molte
delle aziende che lavorano in questi settori fanno tutte
parte di grandi conglomerati come General Electric e
Siemens”, continua l’analista di Morningstar. “Questo
significa che chi vuole investire nell’ecologia deve per
forza comprare anche altri settori. Le più piccole, come
First Solar, SunTech e SunPower, per rimanere nel campo
dell’energia solare, non hanno infatti ancora i numeri per
competere con i colossi”.
Fonte
-
Miaeconomia
Fuga dal reddito fisso,
alcune considerazioni
giovedì, 25 febbraio 2010 - 9:12 -
di John Gabriel ______________________________________________
Riflettendo sulla crisi
finanziaria del 2008, molti investitori avranno realizzato
che erano troppo concentrati sull’azionario e che un
portafoglio bilanciato tra azioni e obbligazioni avrebbe
potuto mitigare considerevolmente le loro perdite. Molte
asset class sono sprofondate nel periodo nero del 2008, nel
bel mezzo della crisi globale, ma non bisogna dimenticare
che, in un profondo processo di “flight to safety”, abbiamo
assistito ad una esplosione nella domanda di titoli di
Stato.
Confidiamo che la maggior parte dei 6,3 miliardi di euro di
nuovi asset coinfluiti negli Etf obbligazionari nel corso
del 2009 non siano solo frutto della rincorsa alle
performance. Tuttavia, sulla base delle nostre conoscenze
sul comportamento dell’investitore tipico, non è poi così
improbabile che il panico e la paura abbiano spinto notevoli
flussi verso Etf e fondi comuni obbligazionari (secondo la
European Fund and Asset Management Association, nel corso di
novembre 2009, i fondi obbligazionari hanno raccolto 71,9
dei 139,4 miliardi di euro totali, relativi ai flussi in
entrata dei fondi aperti conformi Ucits). Durante il corso
dell’anno, molti provider di Exchange traded fund hanno
lanciato nuovi prodotti per venire incontro alla crescente
domanda di fondi a reddito fisso. Ora, con i riflettori puntati sui
rischi intrinsechi dell’investimento obbligazionario, qualcuno
sta teorizzando che i flussi dovrebbero abbandonare gli Etf e i
fondi comuni obbligazionari e ricercare rendimenti maggiori in
altri lidi. La nostra visione, invece, predilige un investimento
obbligazionario che si collochi in una strategia di asset
allocation di lungo periodo, piuttosto che tentare di sfruttare
il giusto timing di entrata e uscita.
A questo proposito, David Rosemberg, economista di Gluskin Sheff,
afferma che le divergenze attuali tra i flussi in entrata
azionari e obbligazionari potrebbero continuare ancora a causa
di ciò che egli stesso definisce “il cambiamento secolare nel
comportamento”. In un report del primo dicembre 2009, Rosemberg
sosteneva che meno del 7% degli asset delle famiglie era
investito in bond, il 25% era in azioni e il 30% in investimenti
immobiliari. Sulla spinta dell’invecchiamento demografico,
Rosemberg crede che gli investitori continueranno a scivolare
verso il reddito fisso, accettuando ulteriormente la divergenza
trai i flussi azionari e obbligazionari. Per essere chiari,
offriamo qui il punto di vista di Rosemberg solo a scopo
informativo.
In ogni caso, gli enormi flussi confluiti nei fondi
obbligazionari ci portano a riflettere sulla differenza tra
possedere quote di un fondo comune obbligazionario e possedere
una singola obbligazione. Naturalmente, gli investitori che
stanno solo parcheggiando il proprio capitale nel mercato a
reddito fisso dovrebbero preferire gli Exchange traded fund,
grazie alla loro superiore liquidità. Quegli investitori che,
invece, guardano al mercato obbligazionario in un’ottica di
lungo periodo dovrebbero essere consapevoli dei pro e dei contro
di possedere un’obbligazione piuttosto che un Etf
obbligazionario.
Quando un Etf investe in azioni, i titoli che lo compongono
conservano le caratteristiche del mercato azionario. Al
contrario, possedere un replicante obbligazionario è molto
diverso da possedere un titolo qualsiasi tra quelli che lo
compongono. I bond facenti parte di un Etf non si comportano più
come bond normali. Spiegato semplicemente, i bond hanno scadenze
temporali, mentre gli Etf no. È quindi importante ricordare che
il tasso d’interesse di un determinato bond scende con
l’avvicinarsi della scadenza. Un Etf obbligazionario, invece,
mantiene il rischio di tasso d’interesse sempre costante. Questo
può rappresentare un punto critico per gli investitori.
Un esempio potrebbe aiutare la comprensione di questo aspetto. È
pratica comune investire in portafogli obbligazionari disegnati
con specifiche scadenze. Questo ha senso per quelli che
programmano un evento futuro per disinvestire, come l’acquisto
di una casa, o che attendono semplicemente l’arrivo della
scadenza prestabilita. Il prezzo che oscilla a seconda dei
movimenti del tasso d’interesse è una preoccupazione relativa
per questo tipo di investitore, il quale conosce già il
rendimento alla scadenza, sempre a condizione che il creditore
sia solvibile.
Nonostante il nostro team di ricerca possa a volte presentare
delle preferenze sulle strutture degli Etf, siamo consapevoli
che esistono scenari che spesso favoriscono determinate
strutture. Pensiamo che, in molti casi, gli Etf obbligazionari
siano più adatti a coprire un ruolo di player complementare,
magari tra il 10 e il 30% dell’esposizione obbligazionaria
dell’investitore. La restante esposizione a reddito fisso, di
conseguenza, potrebbe essere composta da obbligazioni
individuali con scadenze specifiche e adatte all’investitore.
Per misurare la sensibilità ai movimenti del tasso d’interesse
di un bond o di un Etf obbligazionario, gli investitori
dovrebbero fare riferimento a un concetto dal nome di modified
average duration (duration media modificata). Ad esempio, se il
tasso d’interesse salisse improvvisamente dell’1%, ci si
aspetterebbe una corrispondente discesa del 10% di un Etf
obbligazionario con una duration di 10 anni. La caduta del
prezzo del bond compensa il fatto che le nuove emissioni
offrirebbero un rendimento superiore a causa dell’aumento del
tasso d’interesse.
Ancora una volta è importante distinguere gli investitori in
cerca di un parcheggio temporaneo e quelli che usano gli Etf
come parte della propria strategia di asset allocation a lungo
periodo. Noi siamo dell’idea di scoraggiare il secondo gruppo
(esposizione a lungo termine) dal provare a lucrare utilizzando
la propria esposizione a reddito fisso, sfruttando il giusto
timing di entrata e uscita dal mercato. Con un orizzonte
temporale superiore a cinque anni, consigliamo gli investitori
semplicemente di mantenere la propria posizione sugli Etf
obbligazionari.
La ragione risiede nel fatto che l’indice sottostante si
aggiusterà automaticamente nel corso del tempo per mantenere la
maturity di riferimento. Visto che il portafoglio degli Etf si
ricostituisce, aggiungerà titoli a rendimento superiore (con
stessa maturiy) man mano che diventano disponibili. Perciò, dopo
un rallentamento iniziale, il total return dell’Etf dovrebbe
migliorare gradualmente insieme alla porzione di portafoglio
dedicata ai titoli ad alto reddito.
Quindi, la maggior parte degli investitori farebbe sicuramente
meglio a mantenere la propria esposizione nel corso del tempo.
Le strategie market-timing sono notoriamente complesse e
difficili. Inoltre, i costi di transazione a cui si andrebbe
incontro rischierebbero di abbassare notevolmente i rendimenti.
Al posto di inseguire le performance o il giusto market-timing ,
siamo convinti che gli investitori con una propensione di lungo
termine dovrebbero sfruttare le opportunità a breve per
ribilanciarsi.
Sarà interessante vedere come si comporterà la domanda per gli
Etf obbligazionari nel 2010. Probabilmente non rivedremo gli
ingenti flussi del 2009, guidati in gran parte dalla paura. In
ogni caso, se la tesi di Rosemberg dovesse rivelarsi fondata, la
domanda degli investitori orientati al lungo periodo potrebbe
portare flussi d’entrata netti negli Etf obbligazionari.
Fonte
-
MorningStar.it
BANCHE: QUANDO
UN BROKER DI 28 ANNI GUADAGNA $25 MILIONI L'ANNO
25 Febbraio 2010 20:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Parla il presidente di Morgan
Stanley (che negli ultimi tre anni ha rinunciato ai bonus).
Non c'e' niente da fare con i super-stipendi. Storia di un
giovane rampante passato a un hedge fund, che ora intasca
quanto 15mila cinesi.
Chi lavora nelle banche di investimento e' strapagato e il
trend non sembra affatto destinato a cambiare in barba alla
rabbia dell'opinione pubblica. Il motivo? Wall Street non
vuole lasciarsi scappare gli operatori migliori. A
sostenerlo e' niente meno che il presidente di Morgan
Stanley John Mack.
Parlando da Charlotte (North Carolina), dove ha partecipato
ad una sessione moderata dal Ceo di Bank of America Hugh
McColl Jr alla Queens University, Mack ha dimostrato con un
caso pratico l'andameto degli stipendi nel settore
finanziario. Quello di un trader 28enne la cui divisione,
all'interno della stessa MS, ha guadagnato qualcosa come
$300-400 milioni. Il premio offerto dall'istituto e' stata
la proposta di uno stipendio da $11 milioni. Peccato che il
giovane rampante sia passato sotto il tetto di un hedge fund
che ha messo per lui sul piatto un compenso da $25 milioni,
quel che guadagnano in 12 mesi 15mila cinesi ($134 dollari
in media al mese).
L'ex amministratore delegato di Morgan Stanley (ruolo
lasciato lo scorso dicembre) e' stato chiaro, anche con lo
stesso presidente Obama che, insieme ai legislatori, ha piu'
volte criticato simili politiche mentre il governo era stato
costretto a metter mano al portafoglio per salvare molte
banche: gli istituti di investimento non si taglieranno gli
stipendi su loro spontanea volonta'. Tradotto: c'e' la
consapevolezza che su di loro pende comunque una spada di
Damocle. Ecco perche' lo stesso Mack ha proposto "una
discussione aperta" sugli stipendi che coinvolga regolatori
e banche. "Se non facciamo qualcosa, lo fara' la Casa
Bianca", ha ammonito.
La rabbia dell'opinione pubblica restera' fino a quando
l'economia a stelle e strisce migliorera' piu' rapidamente,
ha anticipato: "se si perde il proprio lavoro e anche la
propria casa e' molto facile prendersela con il settore
bancario".
Stando a quanto comunicato da Morgan Stanley lo scorso 20
gennaio, la banca stessa ha distribuito il 62% dei ricavi
2009 per pagare i propri dipendenti. Si tratta della piu'
alta percentuale in oltre dieci anni. Stipendi e benefit
sono cresciuti del 31% toccando quota $14.4 miliardi mentre
i ricavi sono cresciuti del 28%. Per Mack nessun bonus negli
ultimi tre anni. Il suo stipendio nel 2009 e' risultato pari
a $800.000.
Fonte
-
WallStreetItalia
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