Turani
duetta con Fugnoli
01 Marzo 2010 04:09 MILANO
– di Giuseppe Turani
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La nota settimanale di Alessandro Fugnoli, uno dei
personaggi più attenti della finanza italiana, titola questa
volta «Noia e Paura», sensazioni che, secondo lui,
potrebbero essere le dominanti sui mercati di queste
settimane.
Noia perché sembra che succeda poco: andamenti laterali su
tutto. Paura perché ogni giorno c´è una Grecia, un deficit
pubblico, un pericolo - improvviso o quasi - con cui fare i
conti. E che spaventa, specie chi guarda le cose un po´
superficialmente.
La J. P. Morgan view della settimana sottolinea la fragilità
del sentiment di mercato, non sembra dare gran peso ai
problemi delle finanze degli stati, ammonisce più sul non
spaventarsi troppo che su eventi evidentemente considerati
non cosi gravi e, in fondo, conferma le sensazioni di
Fugnoli. In realtà da mesi su queste colonne si ipotizzava
un inizio d´anno prima più brillante, poi più soggetto a
subire notizie negative, in definitiva pronto «fare ancora
un giro al ribasso» di un altro cinque-dieci forse quindici
per cento prima di prepararsi ad una seconda metà dell´anno
che, tendenzialmente, dovrebbe essere buona. Almeno sui
mercati azionari.
L´economia reale continua a non andar bene in buona parte
del mondo, però la sensazione che nel corso del 2010 si
tocchi il fondo é sempre molto marcata. E´ già partita la
selezione delle aziende, con le migliori che hanno budget in
crescita decisa rispetto al 2009 e le altre - specie quelle
più indebitate - in sofferenza forte. Le banche giorno dopo
giorno privilegiano giustamente coloro che assai
probabilmente sopravvivranno e lasciano andare chi ha
esagerato con il leverage e non ce la può fare.
Anche sulle ristrutturazioni dei debiti si comincia ad
assistere a selezioni più drastiche e le banche più
intelligenti, prima o invece di avallare piani di semplice
allungamento dei rimborsi, spingono per facilitare
aggregazioni, fusioni, rafforzamenti sul piano strategico e
commerciale. In questo contesto i dati di crescita nei
singoli paesi finiscono per avere poca importanza, perché
saranno le singole società, in primis molte multinazionali,
ad imprimere alle loro personali crescite i ritmi che il
loro stato patrimoniale potrà permettere. E che il coraggio
dei singoli manager consentirà di attuare.
Con ciò si assisterà ad un interessantissimo
riposizionamento di gruppi in tutti i settori. Con vincitori
e vinti non facilissimi da individuare oggi.
Chi avrebbe infatti pensato, ad esempio, che gruppi russi
che fino a poco tempo fa acquistavano acciaierie,
cementifici e società tecnologiche si ponessero ben presto
nell´ottica - o si trovassero nella necessità - di
dismettere? Proprio nessuno. Ed invece é quello che sta
accadendo, con buon vantaggio di chi ha saputo aspettare.
Contrariamente a quello che tanti banchieri stanno
raccontando, l´anno 2010 non sarà poi caratterizzato da
tante quotazioni in Borsa, perché gli investitori hanno
ormai deciso di puntare sui forti che si possono ancora
rafforzare, piuttosto che scommettere su dei «new-comers».
Per cui chi avrà progetti credibili potrà facilmente
finanziare, anche con aumenti di capitale sul mercato, le
proprie strategie di crescita, ma si dovrà aspettare un bel
po´ per rivedere i lunghi elenchi di nuovi partecipanti ai
listini. Ed é giusto, perché tra le esagerazioni degli
ultimi anni c´è anche stata quella di voler far crescere
troppo chi non aveva la forza intrinseca per farlo.
Non é infatti un caso che si stia già spegnendo quel fuoco
fatuo delle emissioni obbligazionarie, anche di quelle ad
alto rischio, che ha caratterizzato la seconda metà dello
scorso perché non era logico dare troppi nuovi mezzi
finanziari a chi veramente non li meritava. E così, mentre
le varie Enel fanno il pieno di sottoscrizioni, tanti medi o
fragili non riusciranno più a trovar soldi freschi. Lo si é
detto più volte ed ogni giorno é più vero: é arrivata la
selezione, c´è poco da fare.
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Fonte -
La Repubblica
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Come Basilea 3
cambierà il modo di fare banca
Monday, 1 March, 2010 at 8:30 -
di Charles Dexter Ward ______________________________________________
La nuova regolamentazione del
comparto finanziario avrà ripercussioni estremamente
importanti sull’intero sistema economico: queste tematiche
di carattere generale vengono normalmente lasciate ai forum
di discussione tecnici mentre la gran parte degli operatori
di mercato si concentrano nel commentare la singola
trimestrale, la supposta bontà di un dato macro o un livello
tecnico particolarmente importante. Con la spasmodica
attenzione al dettaglio e al quotidiano guidata anche dal
focus a volte miope sul mark-to-market giornaliero, si
rischia di perdere di vista il quadro complessivo e le macro
dinamiche che guidano l’economia globale e quindi i mercati.
Basilea 3 sta riscrivendo in maniera profonda il modo di
fare banca, con conseguenze dirette sugli impieghi delle
istituzioni finanziarie, quindi sull’accesso al credito e in
ultima istanza sulle aziende e sui loro fabbisogni
finanziari.
Sempre sul fronte degli attivi ci saranno conseguenze sugli
assets direttamente detenuti dal sistema bancario, con
impatti evidenti nel pricing e nei flussi di tali strumenti.
Non dimentichiamoci infatti che le banche stesse, oltre ad
essere erogatori di credito, sono soggetti attivi sul
mercato, soprattutto degli ABS e sulle obbligazioni
finanziarie emesse da altre banche. Last but not least le
banche sono entità che emetteno bond e il cui capitale è
spesso quotato in borsa, rappresentando quindi il settore
finanziario una percentuale molto elevata dei principali
indici borsistici. Va da sé quindi che le proposte di
Basilea 3 avranno impatti importanti nei prezzi a cui
scambiano le azioni delle banche poiché i cambiamenti
proposti avranno conseguenze sulla profittabilità delle
banche medesime e sulla loro capacita di generare utili,
sulle loro politiche di dividendi e sui loro livelli di
capitale, sia in termini qualitativi che quantitativi. Nei
prossimi interventi concentreremo invece il nostro focus
sulle conseguenze ipotizzabili per le obbligazioni bancarie,
avendo in questo breve intervento voluto semplicemente
ricordare come le tematiche legate alla nuova
regolamentazione delle istituzioni finanziarie hanno
ripercussioni molto ampie ed estese che esulano dal pricing
del singolo strumento.
Fonte
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Macromonitor
È partita la grande
corsa all'oro nero nascosto
01 Marzo 2010 08:23 MILANO -
di Paolo Migliavacca ______________________________________________
Il tesoro per cui è partita la
caccia è potenzialmente enorme. Tanto da risollevare
addirittura i fantasmi di una guerra, quella che la Gran
Bretagna di Maggie Thatcher scatenò nella primavera del 1982
contro la giunta dei militari argentini che avevano invaso
le isole Falkland (o Malvinas, come le chiamano a Buenos
Aires, che le rivendicano fin dal 1833). Parliamo del
petrolio, che 4 piccole compagnie di esplorazione hanno
ripreso a cercare da alcune settimane nelle acque
dell'arcipelago sperduto alle porte dell'Antartide:
s'ipotizza la presenza di una gigantesca quantità di "oro
nero", fino a 60 miliardi di barili (equivalenti, come
termine di paragone, all'insieme delle riserve accertate
residue di Usa e Canada), con una stima più prudente di 3,5
miliardi nel cosiddetto "Bacino Nord", secondo la compagnia
di esplorazione indipendente Desire Petroleum (una ragione
sociale molto eloquente...) che lo indagherà. «Potremmo
anche non trovare nulla», ammette uno dei dirigenti di
Desire. Cosa che del resto già accadde alle ben più illustri
Shell e Lasmo, uscite «senza ritrovamenti commerciali
significativi» dalla perforazione di 6 pozzi condotta in
quelle acque nel 1988. L'attesa resta comunque carica di
speranze. L'avventura che si riapre
nell'Atlantico meridionale ripropone all'attenzione mondiale una
questione cruciale poichè appare sempre più difficile e costosa
la ricerca di risorse aggiuntive d'idrocarburi da affiancare a
quei 1.258 miliardi di barili di greggio e 185mila miliardi di
m³ di gas che costituiscono le riserve ufficiali mondiali
accertate all'inizio del 2009, secondo lo "Statistical Review of
World Energy" della Bp, ritenuta una delle fonti più attendibili
in materia. La sete inesauribile di petrolio e gas – la domanda
mondiale di greggio dovrebbe salire dagli attuali 86 milioni di
barili/giorno (mbg) a 106 mb/g nel 2030 – spinge economisti,
pianificatori e Cancellerie a chiedersi quanto greggio e gas,
oltre al citato totale "ufficiale", sia ulteriormente
ritrovabile ("undiscovered") per le favorevoli caratteristiche
geologiche del sottosuolo e attenda solo le migliori condizioni
del mercato (prezzi e livelli della domanda) per essere
esattamente individuato ed estratto. Ma, soprattutto, dove
queste nuove Falkland si trovino. Sul "quanto", il grafico a lato,
elaborato sui dati forniti dall'Usgs (United States Geological
Survey), fornisce cifre confortanti. Vi sono, individuati e
stimati con ragionevole probabilità, altri 662 miliardi di
barili di petrolio, il 52% in più rispetto alle riserve
ufficiali, cui vanno sommati altri 207 miliardi di barili di Ngl
(condensati), mentre per il gas le cose vanno addirittura ancora
meglio, con 191mila miliardi di metri cubi aggiuntivi (+103%).
Tradotti in anni di durata delle riserve ai livelli di consumo
attuali (42 anni per il petrolio e 60 per il gas), portano il
totale globale rispettivamente a 64 e a 122 anni: una quantità
molto più tranquillizzante rispetto agli sfracelli che la teoria
del cosiddetto "picco di Hubbert" (l'inizio dell'inesorabile
declino della produzione d'idrocarburi, fissato per l'inizio di
questo decennio) minaccia di causare a breve.
Tutto dipende, ovviamente, dai livelli di prezzo delle due
risorse, che possono giustificare (o meno) l'avvio della
ricerca, della definizione esatta delle quantità contenute nei
giacimenti e della loro messa in produzione. Non a caso - sempre
restando all'esempio dei giacimenti delle Falkland, Shell e
Lasmo abbandonarono le loro ricerche "anche" per il corso del
greggio di quel periodo (poco più di 10 dollari), che non
giustificava affatto la messa in valore di risorse così
"difficili". Resta il fatto che l'attività di
ricerca per la mappatura dei giacimenti sia fondamentale, in
primis per accertare l'effettiva presenza d'idrocarburi (per
evitare sorprese spiacevoli, come quelle ricordate nell'articolo
sottostante) e per definire le effettive quantità presenti ed
estraibili.
Sul "dove" queste risorse si trovino, la mappa accanto chiarisce
bene come la variabile geopolitica diventi un fattore decisivo
nella scelta delle priorità delle risorse da valorizzare. E
come, quindi, una collocazione "difficile" possa risultare
penalizzante su quantità e qualità per il resto molto
appetibili. È il caso, ad esempio, delle risorse poco note ma
(pare) cospicue e di ottima qualità racchiuse nella piattaforma
continentale di Cuba. Lo stesso Usgs stimava un paio di anni fa
la presenza di 9 miliardi di barili, elevati dall'autorevole
mensile Oil & Gas Journal a ben 21 miliardi: una quantità in
grado di cambiare la vita dei cubani oppressa da quasi mezzo
secolo di sanzioni economiche e le sorti del traballante regime
castrista. Anche se non appare facile per l'Avana mobilitare le
ingentissime risorse finanziarie necessarie al loro sviluppo. Discorso analogo vale per le
risorse (più modeste e, pare, in prevalenza metanifere) che si
vanno rinvenendo sui fondali del Golfo del Bengala, nelle acque
mal delimitate tra Bangladesh e Birmania. O quelle, ancor più
ipotetiche, che si troverebbero (ma la mappa di Usgs non le
conferma) nel Mar cinese meridionale, rivendicate dalla Cina da
un lato e da Filippine, Brunei, Malaysia e Vietnam dall'altro.
O, ancora, nelle acque del mar Nero, sulla piattaforma
continentale che collega Timor all'Australia, lungo le coste
della Somalia (mentre il paese è ridotto a "stato fallito") e
nell'Ogaden, da decenni conteso tra Somalia ed Etiopia.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
Guadagnare con l’euro
sotto attacco
01/03/2010 -
di miaeconomia.leonardo.it ______________________________________________
La strategia di aiuto alla Grecia
da parte dell’Unione europea ha subito una improvvisa
accelerazione nel finale della scorsa settimana, quando e’
uscita l’indiscrezione che un paio di settimane fa un gruppo
di gestori di Hedge Funds si era riunito per mettere a punto
un attacco concentrico all’euro. Per fare capire che la
minaccia non e’ velleitaria, alla riunione ha partecipato
anche il Soros Fund Management. Fu’ di Soros l’attacco che
mise in ginocchio la sterlina e poi la lira nel 1992 e che
gli permise di guadagnare un miliardo di dollari.
Cosi’ per evitare che la debolezza della Grecia possa
diventare una falla nella diga di sostegno alla moneta
unica, improvvisamente la Germania, la piu’ titubante finora
nel concedere sostegno alla Governo ellenico, si e’ fatta
promotrice di un piano di salvataggio da 30 miliardi di
euro, mettendo a disposizione le sue due maggiori banche, la
privata Deutsche Bank e la pubblica Kfw. Infatti, il default
della Grecia anche su uno solo dei bond in scadenza, si
ripercuoterebbe immediatamente come un’onda di tsunami sulle
altre economie deboli dell’Eurozona, ovvero Spagna e
Portogallo. La diga dell'euro sarebbe messa a dura prova e
le finanze di tutte le economie dell'eurozona sarebbero
messe sotto pressione, a partire dalla magore, ovvero la
Germania.
Ma l’attacco alla moneta unica e’ iniziato gia’ da due mesi.
A fine dicembre il rapporto col dollaro ha toccato un
massimo a 1,54 e oggi viaggia all’incirca attorno a 1,36. In
due mesi la moneta unica ha ceduto contro la valuta Usa
oltre il 10%, tutto il terreno guadagnato in 8 mesi, ovvero
da maggio alla fine dell’anno. E da gennaio l’economia
americana non ha avuto una forza tale da spingere il
rafforzamento del dollaro contro l’euro. Anche il biglietto
verde e’ debole, ma l’euro lo e’ ancora di piu’.
Il punto pero’ e’ che tutto sommato alle autorita’ europee
un euro debole non dispiace perche’ nel breve periodo aiuta
le merci esportate ad essere piu’ competitive, con una
boccata di ossigeno per bilancia commerciale e fatturato
derivante dall’export, molto importante per la Germania ma
anche per l’Italia, controbilanciando la carenza di domanda
interna. Un euro a 1,2 contro il dollaro potrebbe essere un
rapporto di equilibrio accettabile dalla Bce. Quindi la
moneta unica ha ancora margini di deprezzamento contro il
dollaro di un ulteriore 10%, che potrebbero essere sfruttati
in chiave speculativa dai risparmiatori per puntare sul
ribasso dell’euro nelle prossime settimane, con gli adeguati
strumenti messi a disposizione da Borsa Italiana, dai
covered warrant ai certificati. La soglia da tenere d’occhio
e’ di 1,35 dollari
Fonte
-
miaeconomia.leonardo.it
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Azionario:
ancora più rischi che opportunità
02 Marzo 2010 08:39 BIELLA
– di Maurizio Milano
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Dopo che gli indici azionari Usa avevano raggiunto gli
obiettivi del rimbalzo, la scorsa settimana sono prevalsi i
realizzi a conferma di un quadro tecnico che rimane
strutturalmente debole.
Sul finale di ottava sono tornati nuovi acquisti ma solo il
superamento dei massimi del 22 febbraio darebbe nuovo fiato
al mercato, altrimenti si rischia una ripresa delle vendite.
La situazione di stallo in cui si trovano gli indici
dovrebbe comunque risolversi in tempi brevi.
Lasciando perdere la seduta positiva di ieri di Wall Street,
guardando a come la situazione si è presentata alla fine
della scorsa settimana, si vede come il Nasdaq Composite non
sia riuscito a superare la resistenza a 2265 e abbia
ripiegato verso 2200. Discese sotto 2175 riproporrebbero il
ritorno sui minimi del 5 febbraio, a ridosso di 2100; il
tono migliorerebbe solo su assestamenti sopra 2265.
Il Dow Jones Industrial ha raggiunto la resistenza a 10400
per poi ridiscendere verso 10200. Al di sotto di 10100 si
aprirebbe la strada per un nuovo test dei minimi a 9835:
solo un assestamento sopra 10400 allontanerebbe questa
ipotesi.
Anche l’S&P500 ha raggiunto l’obiettivo del rimbalzo, la
resistenza a 1015, per poi scendere verso il supporto a
1080, sotto cui si rischierebbe un calo verso i minimi a
1045; solo un consolidamento sopra 1115 darebbe un segnale
distensivo convincente.
Dalla metà di gennaio l’umore degli operatori non è più
sicuramente ottimistico come nei mesi precedenti. La
consapevolezza che lo straordinario bear market rally
partito dai minimi del marzo 2009 era dovuto non tanto ad un
effettivo miglioramento del quadro economico ma soprattutto
all’effetto trainante del fiume di liquidità immesso nel
sistema finanziario dalle Banche centrali, è oramai di
dominio comune.
La finanza da sola non crea ricchezza né può indurre rialzi
sostenibili delle Borse. Passata la grande paura di fine
2008-inizio 2009 legata agli asset tossici – e cioè
all’effettivo valore degli attivi patrimoniali, in specie di
banche e assicurazioni – i riflettori sono puntati ora sulle
incertezze circa tempi e forza della ripresa del ciclo
economico, sulla sua capacità di generare occupazione e
quindi di stimolare i consumi.
Dagli stati patrimoniali l’attenzione si sta spostando sui
conti economici, perché senza utili reali nessun rialzo sano
sui mercati azionari è possibile.
Il rimbalzo del dollaro costringe a smontare posizioni di
carry-trade che avevano contribuito a far lievitare i corsi
azionari ed i prezzi delle materie prime.
Per di più, i segnali di maggiore attenzione agli aggregati
monetari, non solo da parte della Cina ma ora anche della
Fed, fanno pensare che se è ancora prematura l’exit strategy,
è però certo che il picco di espansione monetaria è dietro
le nostre spalle.
Con un quadro economico ancora molto difficile, le Banche
Centrali rimarranno sicuramente accomodanti, ma ciò servirà
ad evitare forti cali delle Borse, a far "galleggiare" il
mercato, non già a spingerlo ancora all’insù.
Sui livelli correnti sembrano quindi esserci ancora più
rischi che opportunità. A parte operazioni di trading
veloce, al superamento dei massimi del 22 febbraio, sembra
quindi opportuno attendere ancora pazientemente prima di
ipotizzare nuovi acquisti: nei prossimi mesi non dovrebbero
infatti mancare occasioni a prezzi più interessanti.
 |
Fonte -
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
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Il Risparmio gestito
si riscatta a fine 2009
03 Marzo 2010 08:39 MILANO -
MIAECONOMIA ______________________________________________
Il Risparmio gestito si riscatta
a fine 2009
03 Marzo 2010 08:39 MILANO - MIAECONOMIA
E’ stato un terzo trimestre positivo per il risparmio
gestito che ha permesso di portare la raccolta complessiva
nel 2009 a 35 miliardi di euro che permette al settore di
arrivare a un patrimonio di complessivi 950 miliardi di
euro. La raccolta e’ stata favorita dalla ripresa dei
listini azionari in rimbalzo da marzo e in crescita fino a
dicembre. Lo dimostra il fatto che l'afflusso di risparmio
si e’ fatto sempre piu’ positiva con lo scorrere dell’anno,
ovvero con la progressiva consapevolezza da parte dei
risparmiatori che le Borse stavano recuperando terreno.
Secondo la rilevazione di Assogestioni, alla fine dell’anno
tra flussi in uscita, disinvestimenti, e flussi in entrata,
nuove sottoscrizioni le Gestioni collettive, che comprendono
fondi comuni e Sicav, hanno realizzato un consuntivo annuale
negativo per soli 25 milioni, se si considera che
nell’ultimo trimestre la raccolta e’ stata per 6,5 miliardi,
portando il patrimonio oltre 476 miliardi. Per quanto
riguarda i fondi comuni di investimento aperti la raccolta
trimestrale e’ stata di 6,4 miliardi ma non sufficiente a
portare in positivo la raccolta netta annuale che segna un
valore negativo di 683 milioni e che fa scendere il
patrimonio totale gestito da i fondi aperti a 438 miliardi
di euro. Tra questi Azionari, Bilanciati, Obbligazionari,
Immobiliari e Non classificati chiudono l’anno con una
raccolta positiva. Raccolta negativa invece per Flessibili,
Monetari ed Hedge.
Se non stupisce la raccolta di 23 miliardi degli
obbligazionari, normale in un mercato azionario difficile,
colpiscono invece i 18 miliardi raccolti nel corso dell’anno
dai fondi Flessibili il quadruplo rispetto ai 4,4 miliardi
degli azionari. Lusinghiero il dato dei 9 miliardi raccolti
dai Bilanciati e interessante la raccolta positiva per 613
milioni della categoria Immobiliari, in un mercato, quello
della casa che nel 2009 ha conosciuto una delle stagioni
piu’ brutte degli ultimi 20 anni. Invece sono in coma
profondo gli Hedge Funds, un tempo acclamati e conclamati.
Nel 2009 il deflusso del risparmio su questa categoria
totale e’ stato di 5,5 miliardi.
Fonte
-
Niaeconomia
Un decennio da
dimenticare per i fondi comuni
giovedì, 4 marzo 2010 - 10:36 -
di BlueTG.it ______________________________________________
La prima decade del XXI secolo è
stata certamente poco felice per i mercati finanziari e per
i fondi comuni, che ovunque nel mondo hanno bruciato valore
salvo rare eccezioni.
Dalla debacle non si sono salvati nemmeno i nomi più noti,
come evidenzia oggi un articolo pubblicato su
Marketwatch.com (del gruppo Wall Street Journal) che
riprendendo i dati di uno studio di Morningstar evidenzia
come Janus Capital Group abbia bruciato circa 58,4 miliardi
di dollari di valore dal 2000 al 2009, pari ad un rendimento
complessivo ponderato negativo per l’1% su base annua.
Ma il caso di Janus non è unico: altri nomi celebri che
hanno distrutto valore, anziché crearlo, sono stati
AllianceBernstein Holdings (11,4 miliardi bruciati nel
decennio) e Invesco Aim (una controllata del gruppo Invesco,
che ha distrutto 10,1 miliardi).
A livello di categoria la peggiore del decennio è stata
quella dei fondi investiti in azioni tecnologiche e a
crescita (62,8 miliardi bruciati) e tra questi quelli che
hanno puntato su titoli a crescita di grande
capitalizzazione (107,6 miliardi persi).
Fonte
-
BlueTG.it
GOLDMAN TEME I MEDIA:
RISCHIO PER I BILANCI
04 Marzo 2010 16:30 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Per la prima volta nella storia
di Wall Street una banca ha aggiunto alla lista dei
possibili rischi un fattore insolito: la cattiva pubblicita',
ovvero l'attenzione indesiderata dai media (web al primo
posto). La banca e' sempre piu' isolata.
Qui non si parla di catastrofi naturali o di turbolenza dei
mercati. La banca d'affari Goldman Sachs avverte una
minaccia inconsueta per il proprio business: la campagna
pubblicitaria denigratoria degli organi media, con in testa
le testate internet (certamente in Italia WSI, vedi sotto).
Secondo gli esperti e' la prima volta che succede.
Nel suo report annuale il colosso newyorchese ha precisato
che "la cattiva pubblicita' potrebbe avere un impatto
negativo sulla nostra reputazione e sul morale e la
performance dei nostri dipendenti, finendo per influire
negativamente sul business e sui risultati delle
operazioni".
L'insolita motivazione, presente nella sezione di 12 pagine
riservata ai "fattori di rischio", che vanno dai turbolenti
mercati finanziari ai disastri naturali, e' un segnale dello
stato di isolamento della banca, che sta traballando sotto i
colpi dei rivali, dei politici e degli americani, che
continuano a non digerire gli ingenti profitti incassati dal
gigante finanziario soprattutto grazie ad aggressivi
speculazioni su vari mercati.
"Goldman e' diventata una gigantesca pignatta da
percuotere", ha dichiarato Charles M. Elson, direttore del
centro di corporate governance John L. Weinberg all'Universita'
del Delaware, aggiungendo di non ricordarsi una
dichiarazione del genere, in cui una societa' cita la
cattiva pubblicita' come un rischio per le proprie attivita'.
"Questo da' un'idea del clima politico abbastanza bizzarro
che si e' venuto a creare e nel quale ci troviamo a dover
operare".
Secondo alcuni esperti di corporate-governance l'iniziativa
non deve sorprendere, se si considera l'enorme e
indesiderata attenzione che Goldman ha ricevuto da quando la
crisi finanziaria e' scoppiata.
A luglio un articolo del settimanle Rolling Stone paragonava
la banca a "un enorme calamaro vampiro avvinghiato alla
faccia dell'umanita'". La frase e' stata riportata e citata
piu' volte da altri organi media, cosi' come avvenuto per i
commenti, ritenuti da molti fuori luogo, dell'amministratore
delegato Lloyd Blankfein, che in novembre ha dichiarato ad
un quotidiano britannico che la banca "sta svolgendo il
lavoro di Dio".
"Ritengono che questo tipo di storie potrebbero avere un
impatto materiale sui corsi dei titoli in Borsa e hanno
pertanto pensato di dover fare qualcosa per mettere al
corrente gli investitori", ha detto al Wall Street Journal
Michael Ryan, presidente della societa' di consulenza Proxy
Governance.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Sabato 06
Marzo
2010 |
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Martedì
09
Marzo
2010 |
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Giovedì
11
Marzo
2010 |
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Scenario
mercati: da Vegas a Ordos
05 Marzo 2010 15:57 MILANO
– di Alessandro Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist Kairos Partners SGR
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Un anno fa, il 9 marzo, qualcuno vendette l’SP 500 a 666.
Forse fu un trader che si coprì subito, ma forse fu qualcuno
che apparteneva a quella scuola di pensiero che sosteneva
che ci fosse ancora ampio spazio per scendere. Giravano
obiettivi da fare rizzare i capelli, 500 e anche sotto, e
non erano solo strategist deflazionisti alla Albert Edwards
(peraltro sempre stimolante e intellettualmente onesto) ma
anche economisti brillanti come Barry Eichengreen che non
indicavano target ma si limitavano a sovrapporre i grafici
di produzione industriale, occupazione e borsa del 1929-1930
a quelli del 2008-2009, pressoché identici, e mostravano
quanto ancora si poteva scendere se si continuava a seguire
quello schema.
La svolta del 9 marzo fu accolta da scetticismo e perfino
investitori veloci come i fondi hedge attesero un mese
intero di rialzi per coprire gli short. Al secondo mese di
rialzo si parlava ancora di sucker’s rally. Più tardi si
sarebbe andati avanti altri mesi con l’idea del bear market
rally in attesa dell’immancabile double dip.
La parte più costruttiva del mercato si consumò per sei mesi
in discussioni sulla ripresa a U, oppure a V o a radice
quadrata. Il consenso era che il recupero sarebbe stato
molto debole. Solo Michael Mussa provò a dire qualcosa di
diverso, sostenendo che la crescita poteva arrivare al 5-6
per
cento. L’argomentazione di Mussa non era però
particolarmente robusta e si basava sulla constatazione che
in passato a una forte caduta era sempre seguito un forte
recupero.
Alla fine tutti hanno avuto la loro parte di ragione e tutti
hanno avuto più o meno torto. L’intreccio tra una crisi che,
con qualche errore di policy in più, avrebbe potuto davvero
trasformarsi in depressione e interventi pubblici che, dopo
Lehman, sono stati all’altezza della situazione, ha prodotto
un esito originale nel quale ora ci troviamo a vivere.
La ripresa non è stata a U, perché siamo passati da una
velocità di meno 6 a una di più 5, con un’escursione di ben
11 punti tra marzo e ottobre. Non c’è stata però nemmeno la
V violenta alla Mussa. Se fossimo in una classica fase di
ripresa, come ad esempio quella dei primi anni Ottanta, oggi
staremmo crescendo a una velocità annualizzata dell’8 per
cento e invece siamo grosso modo al 4 negli Stati Uniti e
all’1.5 in Europa.
La ragione per questa V decente, ma non brillante, è che da
decenni il primo anno di ripresa è trainato tipicamente da
case e automobili (oltre che dalla ricostituzione di scorte
in generale). Questa volta, però, le case non partecipano
perché ce ne sono ancora troppe vuote, mentre le auto sono
la vittima d’elezione della nuova (e corretta, a lungo
termine) propensione a risparmiare. Insomma, l’insieme dei
consumi tiene bene, anche meglio del previsto, ma si aspetta
di più per cambiare la macchina e magari si rinuncia per
sempre, in America, alla seconda o alla terza vettura.
Case e auto, in frenata strutturale, peseranno sulla
crescita americana per parecchi anni. Gli incentivi fiscali
a contrarre mutui hanno toccato il loro massimo storico e da
qui in avanti verranno cautamente ridotti. Anche se questo
non dovesse avvenire, le banche finanzieranno meno
l’acquisto di case perché cercheranno di diversificare di
più il loro attivo.
Meno case e meno auto significheranno per l’America una
destinazione più produttiva dei capitali e lasceranno
risorse da dedicare alle esportazioni. In prospettiva
l’America riequilibrerà i suoi conti con l’estero con una
riduzione strutturale ulteriore del disavanzo delle partite
correnti.
E’ affascinante vedere come il riequilibrio macro tra Stati
Uniti e Cina abbia un esatto corrispettivo micro. Meno case
in America e più case in Cina. Meno auto in America e più
auto in Cina. Miglioramento della produttività del capitale
in America e peggioramento in Cina.
Quando si fanno paragoni tra America e Cina molti storcono
ancora il naso perché le due economie hanno dimensioni molto
diverse. I 5 trilioni della Cina, per quanto crescano
veloci, non possono bilanciare i 14 degli Stati Uniti.
Questo è vero se guardiamo alle grandezze monetarie, ma se
correggiamo il cambio tra dollaro e renminbi e se sgonfiamo
il Pil americano dai servizi (o gonfiamo quello cinese di
servizi che un giorno non lontano verranno fatturati) le due
economie sono comparabili. Quindici milioni di auto in Cina
e undici negli Stati Uniti.
Si è parlato molto, negli ultimi due anni, delle cittadine
nuove, le edge towns, costruite negli anni del boom nel
Mojave o intorno a Las Vegas e rimaste vuote. Ora ovviamente
non se ne costruiscono più, mentre piano piano si vendono a
metà prezzo quelle degli anni scorsi.
In Cina, in compenso, si sta ancora costruendo a Ordos, nel
deserto della Mongolia interna. Le edge towns americane sono
costruite per poche migliaia di abitanti, ma Ordos è una
metropoli programmata per un milione e mezzo di persone. Per
tre quarti è già pronta, ma è quasi completamente vuota e
non ci vuole andare a vivere nessuno. C’è un filmato su
YouTube che la mostra in tutta la sua bellezza metafisica.
Il riequilibrio del mondo si fa anche così. Molti sono
preoccupati per questo stato di cose e pensano con
apprensione alla salute delle banche che hanno finanziato le
varie Ordos e al collasso inevitabile di un modello di
sviluppo basato sulla costruzione ossessiva di capacità
produttiva per la quale non è chiaro se ci sarà mai una
domanda.
Dal punto di vista cinese, però, il finanziamento che
preoccupa di più non è quello per le varie Ordos (che un
giorno verranno in qualche modo popolate) ma quello erogato
agli Stati Uniti, quel trilione abbondante di cambiali del
Tesoro americano che intasa più della metà delle riserve
cinesi. I mattoni di Ordos sfideranno il vento e la sabbia
del deserto meglio di quanto le cambiali sfideranno la
svalutazione del dollaro.
La Cina, dunque, non collasserà necessariamente per le sue
Ordos e per le sue immense mall, come quella di Guangzhow,
la più grande del mondo e praticamente vuota da cinque anni.
L’America uscì dalla depressione con le spese per la seconda
guerra mondiale e gli economisti non l’accusano per questo
di essersi data a investimenti improduttivi per colmare
l’output gap.
Anche le auto che i cinesi comprano e parcheggiano davanti a
casa per farle vedere ai vicini e senza mai usarle sono una
spesa improduttiva, ma nessuno ha niente da ridire.
Insomma, tutti vorremmo che l’allocazione del capitale fosse
efficiente economicamente e magari anche indirizzata verso
obiettivi extraeconomici nobili (meglio finanziare la
ricerca contro il cancro che costruire stadi di calcio), ma
è sempre meglio colmare male l’output gap che non colmarlo
affatto e precipitare in una spirale di deflazione.
A un anno dai minimi del ciclo e dei mercati le fragilità
del mondo sono evidenti e la crisi greca, mettendo in luce i
rischi di crisi fiscale, ci ha resi tutti ancora più
consapevoli. Meno evidenti, a volte, sembrano però i punti
di tenuta (e perfino di forza) del sistema. Come ha scritto
efficacemente David Bowers di Absolute Strategy Research, a
furia di modellizzare un cigno nero dietro l’altro,
rischiamo di essere impreparati all’eventualità, per quanto
remota, di un cigno bianco.
A un anno dai minimi, il mondo nel suo insieme sta crescendo
a una velocità superiore al 4 per cento che potrebbe
mantenersi per tutto il 2010 e anche per il 2011.
E’ esattamente la stessa velocità dell’età dell’oro
2003-2007. Eppure oggi ci sentiamo a pezzi e con i manuali
di macro da riscrivere, mentre allora eravamo tronfi di
orgoglio e convinti di avere capito tutto.
In Europa ci sentiamo ancora peggio degli altri, perché nel
2008 e 2009 abbiamo licenziato meno che in America e ora ci
troviamo a essere meno leggeri di loro. In più, la più
grande industria europea, l’automobile, è stata sussidiata
pesantemente per tutto il 2009 (mentre il Cash for Clunkers
è durato quattro settimane esatte) e ora non riceve più un
euro. A ben guardare, però, avere l’auto che arretra in
tutto il continente e riuscire lo stesso a crescere dell’uno
e qualcosa non è così disprezzabile come appare.
Per l’America possiamo dire che il ciclo delle scorte, che
secondo alcuni doveva esaurire i suoi effetti positivi già
in ottobre, ha ancora molta strada davanti a sé. I consumi
tengono bene, le esportazioni vanno bene e tutta questa
domanda non potrà continuare a essere soddisfatta svuotando
i magazzini. L’ultimo ISM manifatturiero ci dice che quasi
tutti i clienti finali delle fabbriche (grandi magazzini e
negozi) hanno scorte troppo basse.
Tra gli emergenti, a compensare una Cina che sta provando a
frenare, ci sono Africa, Russia, Brasile, Corea e India che
vanno solidamente bene. L’India, in particolare, si propone
di diventare nei prossimi anni il paese a più alta crescita
del mondo e vuole superare il 10 per cento annuo.
Nelle scorse settimane abbiamo fatto indigestione di Grecia.
Tra le idee più ascoltate c’era quella dell’impossibilità di
fare sacrifici per un paese occidentale senza scatenare
chissà quali rivoluzioni. Avendo un minimo di esperienza di
paesi molto più poveri che avevano fatto (e fanno) sacrifici
molto più duri senza avere i carri armati per le strade a
garantire l’ordine non eravamo molto convinti che la Grecia
non potesse tirare un po’ la cinghia anche lei. Ora vediamo
una correzione fiscale greca di 4 punti tondi di Pil.
Buon segno. Ma ancora più incoraggiante è guardare a chi i
sacrifici veramente duri li ha già fatti e vedere che dopo
due anni di lavoro arrivano risultati lusinghieri e
ammirevoli. L’Estonia, che era arrivata a un passivo delle
partite correnti del 17 per cento (le partite correnti sono
ancora più significative del disavanzo pubblico, perché
includono anche il settore privato), è oggi in attivo. Senza
avere svalutato di un centesimo, senza manifestazioni di
protesta nel centro di Tallinn e con aiuti dall’estero più
avari di quelli che arriveranno alla Grecia. Oggi l’Estonia
è pronta a cogliere la ripresa della domanda internazionale
e a tornare a crescere rapidamente.
Per chi investe in titoli di stati sovrani è molto
importante, soprattutto in questa fase storica così fluida,
verificare il grado di flessibilità (del cambio nominale e
reale, della struttura politica e sociale) dei vari paesi.
Se rimaniamo strategicamente molto ottimisti sull’Europa
orientale (Balcani e Ucraina inclusi) anche se il 2010 sarà
un altro anno impegnativo, è perché sotto la superfice
apparentemente stagnante la ristrutturazione procede veloce
grazie alla flessibilità di quei sistemi.
L’alleggerimento delle paure sulla Grecia e l’abbandono
completo di quelle tentazioni populiste cui
l’Amministrazione Obama era sembrata per un momento disposta
a cedere tolgono ai mercati due delle tre ragioni che hanno
prodotto la correzione tra metà gennaio e metà febbraio. La
terza, l’ipercomprato di breve, si è rapidamente trasformata
in un significativo ipervenduto. La linea di minore
resistenza è ora verso l’alto.
 |
Fonte -
Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Kairos
Partners SGR
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Bond greci
ottima opportunita’ d’investimento
05/03/2010 -
di miaeconomia.leonardo.it ______________________________________________
Quando il presidente della Bce ha
preso a parlare nella conferenza che ha seguito la decisione
della Banca Centrale Europea di mantenere fermo il costo del
denaro in Eurolandia all’1%, molti operatori hanno iniziato
a seguire con molta attenzione quanto avrebbe detto di li' a
poco. Non erano tanto interessati alla motivazioni che hanno
portato la Bce a mantenere fermi i tassi. Oramai in Europa
la situazione e’ chiara, con una ripresa debole, penalizzata
da una disoccupazione alta, con un inflazione sotto l’1%, la
meta’ del limite massimo del 2% oltre il quale la Banca di
Francoforte non vuole fare salire il costo della vita. In
uno scenario simile mantenere i tassi all’1% era scontato. Gli investitori istituzionali
erano attenti soprattutto a quanto Trichet avrebbe detto
riguardo la situazione della Grecia, perche’ nella stessa
mattinata il Tesoro ellenico aveva offerto al mercato 5 miliardi
di titoli di stato a 10 anni, al tasso di interesse annuo del
6,37%, con un incremento dello 0,32% rispetto all’ultima
emissione di bond a scadenza decennale. Considerata la grave
difficolta’ finanziaria della Grecia, le valutazioni del
Presidente della Bce riguardo l’efficacia delle misure appena
prese dal governo greco per ridurre di 4 punti percentuali il
deficit entro la fine dell’anno, fatte di tagli di spesa e
aumento dell’imposizione fiscale indiretta, avrebbero impattato
notevolmente sulla decisione di acquistare i bond di Atene
emessi. Appena Jean Claude Trichet ha
manifestato apprezzamento su quanto deliberato in questi giorni
da Atene, escludendo categoricamente la possibilita’ di
un’uscita del paese dall’euro, la risposta dei mercati e’ stata
chiara con una corsa all’acquisto dei bond, tanto da fare dire a
Petros Christodoulou, direttore dell’Agenzia greca per la
gestione del debito pubblico, che la Grecia presto si potrebbe
apprestare a una o due nuove operazioni di collocamento di
titoli di stato per investitori istituzionali
Fonte
-
miaeconomia.leonardo.it
BATTUTI DA
BUFFETT
05 Marzo 2010 17:30 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La logica di lungo termine
dell'Oracolo di Omaha premia: un investimento da $10.000 nel
1965 frutterebbe ora $80 milioni. I migliori fondi ne
avrebbero garantiti soltanto nove. Vittime delle pressioni
sui risultati.
Molti investitori non possono che provare invidia quando
Warren Buffett dice che gli azionisti della sua conglomerata
hanno visto guadagni annualizzati del 20% negli ultimi 45
anni. Nemmeno il miglior fondo comune di investimento puo'
reggere il confronto.
Soltanto due fondi possono vagamente competere. Stando alle
analisi di Morningstar, Fidelity Magellan Fund e Templeton
Growth Fund hanno garantito ritorni rispettivamente del
16.3% e del 13.4%.
Se si guarda ai valori di mercato, le azioni di Classe A di
Berkshire Hathaway hanno garantito guadagni del 22% all'anno
a partire dal 1965. Se il calcolo viene fatto sulla base
delle valutazioni a libro, come preferisce fare l'oracolo di
Omaha, si ha un +20.3%.
Utilizzando il primo criterio, confrontato con quanto messo
a segno dai fondi comuni di investimento, e' facile capire
quanto possano dirsi soddisfatti coloro che hanno deciso di
scommettere sul gruppo guidato da Buffett e invidioso chi,
invece, si e' lasciato sfuggire questa opportunita'. Quegli
azionisti che il primo ottobre del 1964 hanno puntato nella
conglomerata $10.000 (pari a $60.000 ai nostri giorni), oggi
si ritrovano con un incasso di $80 milioni.
La stessa somma puntata sul fondo Fidelity avrebbe garantito
$9.1 milioni, di piu' di quanto non avrebbe reso quello di
Templeton, pari a $2.9 milioni. Scommettendo sull'S&P 500
invece, nell'arco degli ultimi 45 anni il guadagno sarebbe
stato di $560.000, considerato un incremento del principale
benchmark di Wall Street del 9.3% nel periodo considerato.
La dice lunga il fatto che i due suddetti casi siano i
migliori tra i 145 disponibili sul mercato nel 1965.
C'e' chi fa notare che il confronto tra Buffett e fondi non
sia sostenibile. Il primo ha margini di manovra piu' ampi
dei gestori. Ma le differenze che ne emergono mettono in
risalto i limiti dei secondi, in modo particolare le
pressioni cui sono sottoposti.
"Da sempre spinge gli investitori a considerare se stessi
come parte dell'azienda piuttosto che semplici azionisti,
fattore che e' calzante con un approccio di lungo termine",
ha detto Jonatyhan Rahbar, analista di fondi in Morninstar
riferendosi all'Oracolo di Omaha. "I gestori di fondi sono
incentivati a ottenere risultati su base annuale. Se in
quell'arco temporale non hanno raggiunto determinati
risultati rischiano il posto", ha aggiunto l'esperto.
C'e' un altro fattore da considerare: il funzionamento
dell'industria dei fondi rende piu' difficile investire
secondo le modalita' tipiche di Buffett. "I fondi di
investimento devo vendere i loro prodotti a istituzioni che
di fatto tengono in agguato i money manager: sono tenuto
sott'occhio di trimestre in trimestre e possono determinare
il loro futuro (professionale) ogni anno", ha commentato
Tomothy Vick, senior portfolio manager in Sanibel Captiva
Trust.
Il fiato sul collo dei gestori li spinge ad agire con
logiche di breve periodo, esattamente l'opposto
dell'approccio utilizzato dal numero uno di Berkshire
Hathaway. Timothy Vick, autore del libro "How to pick stocks
like Warren Buffett", riporta che l'oracolo di Omaha
generalmente esige un turnover di non piu' del 10-15%
mantendo in portafoglio un titolo per 8-10 anni. Una media
del 100% voluta nell'industria dei fondi sembra essere "un
gioco d'azzardo", ha concluso.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
La risalita delle Borse
a un anno dalla crisi
07 Marzo 2010 15:14 MILANO -
di Walter Riolfi ______________________________________________
Cos'è che fa dire a qualcuno:
adesso basta? Cosa mai avrà fatto scattare nella mente degli
investitori di Wall Street la sensazione che 20 mesi di
pesantissimi ribassi potevano bastare e che la Borsa aveva
toccato il fondo? Succedeva esattamente un anno fa: lunedì 9
marzo 2009, l'S&P500 (e pure lo Stoxx) toccarono il minimo,
scendendo a livelli che non s'erano più visti dal settembre
'96. E i titoli bancari, le stelle dei precedenti 4 anni,
quasi avessero ereditato l'insana euforia del 1999-2000 per
i titoli Internet e tecnologici, erano addirittura crollati
ai minimi degli ultimi 16 anni, dopo aver perso l'88% del
loro valore quelli americani e l'83% quelli europei. Il
peggior ribasso delle Borse dopo quello degli anni Trenta
aveva fatto perdere il 57% a Wall Street, oltre il 60% ai
mercati europei e il 72% alla fragile borsa italiana. Ma martedì 10 marzo i listini
invertirono decisamente rotta guadagnando oltre il 6% con quella
tipica reazione che segnala la chiusura precipitosa delle
posizioni allo scoperto. A dire il vero, qualcosa di nuovo s'era
già visto tre giorni prima, il 6 marzo, quando le banche
americane accennarono al primo rialzo dopo lunghi mesi: e nella
seduta successiva, videro esplodere del 12% le loro quotazioni
in una frenetica corsa a ricomprare i titoli che per mesi erano
stati venduti allo scoperto. Come osserva Alessandro Fugnoli di
Kairos, vi fu qualcuno che ancora il 9 marzo «vendette l'S&P500
(il future, ndr) a 666 punti» e «forse vi fu un trader che si
coprì subito». Ma in un clima di cupo pessimismo come si
respirava in quei giorni, con analisti che pronosticavano
ulteriori tracolli di Wall Street sotto i 500 punti e con Robert
Prechter, assurto al ruolo di guru per aver indovinato il
venerdì nero dell'87, a pronosticare l'S&P a 370 come all'inizio
degli anni 90, e con economisti del calibro di Nouriel Roubini
che prospettavano una depressione pari a quella degli anni
Trenta, il fatto che qualche investitore di prestigio
dichiarasse il minimo del mercato poteva suonare come un segnale
d'allerta. E ve ne fu uno che in quei giorni
"chiamò" il minimo di Wall Street: Doug Kass fondatore dell'hedge
fund Seabreeze PM, uno dei personaggi più noti nella finanza
Usa. Il «Sole 24Ore» del 14 marzo riportò il suo ragionamento,
avanzando per primo, tra il pessimismo di quasi tutta la stampa
internazionale, l'ipotesi di una inversione di tendenza. Kass,
confutando un'analisi di Robert Shiller, sostenne che prendendo
gli utili attesi e normalizzati (ossia depurati dalle componenti
straordinarie) per l'S&P e confrontandoli con quelli degli
ultimi 70 anni, si sarebbe individuata una sostanziale
sottovalutazione della Borsa. «Abbiamo toccato il fondo»,
dichiarò, e le sue parole si diffusero rapidamente a Wall
Street.
In realtà furono pochissimi gli
investitori convinti dell'inversione di tendenza. Già erano
stati scottati nel novembre 2008, quando per qualche giorno
montò la sensazione che le precipitose cadute degli indici dopo
il fallimento Lehman si stessero esaurendo. Nelle 3-4 settimane
successive a quel 9 marzo, la rapida ascesa dei listini fu
guidata quasi esclusivamente dalle ricoperture. Se il gioco dei
sei mesi precedenti era stato quello di vendere tutto, perché la
crisi del credito dopo i tracolli settembrini di Lehman, Aig,
Fannie Mae, Freddie Mac e via dicendo avrebbe inevitabilmente
portato alla recessione, la nuova impellente necessità era
invece di ricomprare tutto quello che era stato venduto allo
scoperto: soprattutto i titoli bancari che, come per Citigroup,
Rbs, Bank of America, s'erano quasi azzerati. Ma perdite vicine
al 90% le avevano patite anche istituti relativamente solidi
come UniCredit, nella irrazionale convinzione che sarebbe
fallito l'intero sistema finanziario occidentale. Dal 10 marzo gli indici hanno
corso quasi ininterrottamente, salendo a Wall Street di oltre il
68% e in Europa del 63%. Strepitosa l'ascesa dei bancari che si
misura in un 184% per quelli Usa e nel 143% per quelli europei:
cosicché adesso saremmo sotto i massimi storici del 2007 appena
del 27% per l'S&P e del 36% per lo Stoxx. Ma quell'«appena» è
illusorio: per rivedere i massimi, l'America dovrebbe salire
ancora del 40% e l'Europa del 56%. E le banche? Di quasi il 200%
quelle Usa. Approssimativamente saremmo a metà strada. Ma anche
questa immagine è piuttosto illusoria, giacché i mercati, dopo
crolli di queste dimensioni, sono soliti "sparare" verso l'alto
nella prima fase del rialzo e rallentare la corsa in seguito.
La crisi finanziaria e la recessione dalle quali siamo appena
usciti prospettano tuttavia uno scenario un po' più complicato
di quelli sperimentati nei cicli economici degli ultimi 30 anni.
Per le mature e indebitate economie occidentali la ripresa si
annuncia più difficile e il percorso delle borse assai più
tortuoso. Più lineare dovrebbe essere quello dei mercati
emergenti ai quali manca ancora un buon 37% per rivedere i
massimi del 2007.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
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12
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Sabato
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Lunedì
15
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Ma
la colpa non è dei CDS
March 9th, 2010
– di Mario Seminerio
________________________________________
Cosa c’è di meglio, per la classe politica, che trovare un
capro espiatorio eclatante come la speculazione? E’
perfetta, si porta in tutte le stagioni, crea un discreto
ricompattamento del campo domestico, anche in caso di
adozione di misure impopolari. Ecco spiegato il motivo della
caccia alle streghe nei confronti dei Credit Default Swap (CDS),
lo strumento più citato (e meno capito) da media ed eletti,
in questo periodo.
Nei giorni scorsi vi è stata una vasta chiamata alle armi
contro i CDS, responsabili (secondo alcuni)
dell’aggravamento della crisi greca, in termini di maggiori
oneri di servizio del debito, tali da soffocare nella culla
ogni tentativo di risanamento fiscale. Il grido di battaglia
di George Papandreou e del governo di Atene è “la Grecia
deve indebitarsi sui mercati allo stesso costo degli altri
paesi europei“. Proposito lodevole, che tuttavia prescinde
dal fatto che il costo del debito è legato alle prospettive
di rimborso, cioè al rischio di credito. Quest’ultimo ha
fatto irruzione in Eurolandia come un elefante nella
cristalleria, ed è destinato a restarvi. Papandreou ha
finito col credere, non è dato sapere se in buona fede o
meno, che ogni differenziale nel costo del debito greco
rispetto al resto della zona Euro sia imputabile
all’attività degli “speculatori”, segnatamente di quelli in
CDS. Per qualche giorno anche gli altri governi europei
hanno fatto mostra di credergli, ed hanno minacciato neppure
troppo velatamente di bandire il trading sui CDS.
L’operazione, che fosse studiata a tavolino o meno, è
servita nel breve termine perché molti “speculatori” hanno
deciso di chiudere le posizioni ribassiste sul rischio
sovrano greco, vendendo cioè la protezione che avevano in
precedenza acquistato. In parallelo a ciò (vedremo tra poco
il flusso causale), anche il cosiddetto mercato cash, cioè i
titoli di stato greci, sono stati interessati da correnti di
acquisto e riacquisto, ed hanno visto stringere
significativamente (pur se ancora su livelli molto elevati)
il differenziale con i Bund tedeschi. Negli stessi giorni in
cui in Eurolandia si discuteva del divieto di trading sui
CDS “naked” (“nudi”,cioè quelle situazioni in cui si compra
protezione su una entità creditizia senza possedere i titoli
sottostanti), il Dipartimento della Giustizia statunitense
si è messo ad investigare sulla possibilità che “alcuni
hedge funds” (pare non più di quattro o cinque) abbiano
“cospirato” per provocare un indebolimento dell’euro.
Questa tesi è quasi surreale: quanto può “muovere” un hedge
fund, inclusa la propria leva finanziaria? Diciamo cinquanta
miliardi di euro? Cento? Duecento? Moltiplicate per cinque,
e riflettete sul fatto che ogni giorno, sui mercati
valutari, vengono movimentate alcune migliaia di miliardi di
euro. E’ realistico pensare che sia possibile “attaccare
l’euro” orchestrando vendite per una frazione trascurabile
dell’interscambio giornaliero del mercato valutario? E
peraltro, indebolire la moneta unica avrebbe fatto solo un
favore ai governi di Eurolandia, desiderosi di far respirare
il proprio export. Forse non è un caso che l’indagine sia
partita dagli Stati Uniti, che dall’indebolimento dell’euro
hanno solo da perdere. Ma qui scadremmo nel cospirazionismo.
Tornando all’epica lotta dei greci contro i CDS, la
criminalizzazione dei derivati creditizi deriverebbe dal
fatto che gli stessi sono visti come driver delle discese di
prezzo dei titoli di stato. Le cose non stanno così, spesso
anzi accade il contrario: si inizia con correnti di vendita
sul cash che innescano acquisti di protezione sul CDS, che a
loro volta frenano la tendenza principale. E’ necessario, a
questo punto, introdurre una tecnicalità: si dice base (basis,
in inglese) la differenza tra il livello del CDS e quello
del bond fisico. Quando la base è negativa (cioè lo spread
del bond è più ampio di quello del CDS), gli arbitraggisti
comprano il titolo e si coprono comprando protezione. Così
facendo si blocca un profitto pari all’ampiezza della base.
In natura le basi negative non durano molto, vengono cioè
molto rapidamente arbitraggiate. Ciò che può durare
indefinitamente sono invece le basi positive, cioè
situazioni in cui il CDS è più largo dello spread sul bond
sottostante. In questi casi per eseguire l’arbitraggio
servirebbe vendere allo scoperto il titolo fisico e vendere
protezione sul CDS. Ciò difficilmente avviene, perché non
sempre è possibile vendere allo scoperto l’obbligazione
sottostante: spesso la richiesta di prestito del titolo è
talmente elevata che il medesimo diventa “special” sul
mercato repo, ed il canale di arbitraggio salta.
Da un grafico pubblicato nei giorni scorsi da FT-Alphaville,
si evince che i principali debitori europei hanno tutti la
base positiva, in modo più o meno accentuato, in particolare
Italia e Spagna, mentre la Grecia ha (o aveva, la scorsa
settimana) una base nulla. In concreto, che significa? Che
mentre è possibile guidare al rialzo il prezzo di un titolo
in presenza di base negativa, la presenza di una base
positiva non trasmette direttamente il movimento ribassista
ai titoli sottostanti. In altri termini, nel caso greco il
mercato ha cominciato a vendere i bond fisici, creando così
una base negativa che è stata arbitraggiata dai trader, che
hanno comprato protezione sui CDS. Senza questa operazione,
la corrente di vendita dei titoli di stato greci non avrebbe
trovato alcun elemento frenante. Detto in altri ed ulteriori
termini, la magnitudine di una base positiva ha
relativamente poco effetto sul livello dei bond sottostanti.
Ciò significa che incolpare i CDS per la discesa di prezzo
di titoli di stato di un paese con ampi e crescenti deficit
e debito pubblico ha assai poco senso.
Ora anche il regolatore finanziario tedesco, BaFin, è giunto
a concludere che i CDS non sono stati usati per condurre un
attacco speculativo contro la Grecia (qualsiasi cosa
significhi l’espressione “attacco speculativo”), ma George
Papandreou non si arrende ed è tornato a chiedere al mondo
un intervento di repressione contro il trading speculativo.
Programma mediamente impegnativo . E’ possibile che si
giunga a vietare l’operatività “nuda” sui CDS, cioè
l’acquisto di protezione senza possedere i titoli
sottostanti da proteggere. Lo stesso Mario Draghi, in sede
di Financial Stability Board, ha detto che i CDS suscitano
“disagio” (uneasiness); ma anche in questo caso non si
eviterà l’allargamento degli spread su entità il cui merito
di credito sta deteriorandosi.
Il governo greco, ed i politici di ogni latitudine,
farebbero meglio ad acquisire questo concetto. Solo il
risanamento e il ritorno alla crescita tengono lontana la
“speculazione”. E mai come in questa circostanza le
virgolette sono state più appropriate.
 |
Fonte -
Epistemes.org
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Investire dove Buffett
non può (più) andare
giovedì, 11 marzo 2010 - 13:39 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Dimenticate il Warren Buffet che
conoscevate. L'Oracolo di Omaha, famoso per la sua capacità
di investire su società sottovalutate dagli altri che poi
arrivavano alle stelle e per i suoi aforismi sulla finanza
(“E' meglio comprare una meravigliosa società a un giusto
prezzo che una società giusta a un prezzo meraviglioso”,
tanto per citarne uno), potrebbe cambiare strategia.
A dare l'avviso ai mercati è stato lo stesso amministratore
delegato e presidente della Berkshire Hathaway nella sua
annuale lettera ai soci. La società tessile in fallimento da
lui acquistata negli anni '60 e trasformata in una holding
con interessi in un'ottantina di società che vanno dai
servizi all'industria, alle assicurazioni, dalla biancheria
ai jet privati passando per la Coca Cola non sarà più in
grado di battere il mercato. “Gli investitori possono stare
tranquilli”, spiega Jeremy Glaser, analista di Morningstar.
“L'Oracolo non ha perso la sua capacità di scegliere le
società migliori. Più semplicemente, si è reso conto che la
sua creatura è diventata ormai troppo grande per occuparsi
di società a piccola capitalizzazione. Per muoversi, deve
ormai seguire i megadeal ”. L'ultimo in ordine di tempo è
stato l'acquisizione della società ferroviaria Burlington
Northern Santa Fe: un'operazione da 44 miliardi di dollari
che segna anche il massimo mai sborsato da Buffet per una
società. Sulle dimensioni di Berkshire (e
sulle capacità di Buffett) non si discute. Nel quarto trimestre
del 2009 la società ha avuto un utile di oltre 3 miliardi di
dollari, rispetto ai 117 milioni dello stesso periodo dell'anno
precedente. Il risultato del 2008, peraltro, era stato
condizionato da oltre 3 miliardi di dollari di cosiddette
“perdite non realizzate” (questa condizione si verifica quando
il valore delle azioni contenute in un portafoglio scende
rispetto al prezzo di acquisto, ma l'investitore non le vende
nella speranza che possano risalire). Il fatturato, intanto, è
salito del 23%, superando i 30 miliardi di dollari. Numeri che
non hanno risparmiato il titolo Berkshire da alcune revisioni al
ribasso dei giudizi. Keefe, Bruyette & Woods, per esempio, ha
portato il rating da outperform a market perform . Secondo Cliff
Gallant (l'analista che ha firmato il report) la holding ha
avuto “risultati buoni ma non spettacolari”.
Ma se dopo mezzo secolo di successi Buffett deve cambiare
strategia, non è detto che i principi che per tutto questo tempo
l'hanno guidato non siano più validi. Fra questi: la ricerca di
società di alta qualità, che abbiano un vantaggio competitivo
duraturo e che vengano trattate con uno sconto eccessivo
rispetto alle loro potenzialità. “Molti investitori non hanno il
problema del gigantismo che sta condizionando Berkshire”, dice
Glaser di Morningstar. “Per questo possono cercare e trovare
aziende che sarebbero interessanti anche per Buffett, ma che
ormai per lui sono troppo piccole”. Fra queste l'analista segnala
Total System Services (TSS), una società che si occupa di
pagamenti elettronici per le aziende. “Il settore in cui opera
TSS si sta consolidando”, spiega l'analista che sul titolo ha un
obiettivo di prezzo di 19 dollari (ora tratta intorno a 14,5
dollari). “Tuttavia la società è sempre riuscita ad avere un
vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, grazie alle sue
piattaforme tecnologiche che continua ad aggiornare”.
Un'altra azienda che potrebbe piacere all'Oracolo di Omaha è
Landstar System (servizi logistici per l'industria dei
trasporti). “Il gruppo è forte di 1.400 agenti, 25 mezzi e 8mila
autisti”, dice Glaser che sul titolo ha un target price di 53
dollari (ora tratta poco sopra i 39 dollari). “I costi e i tempi
per realizzare qualcosa che gli assomigli, costituiscono una
forte barriera all'ingresso dei concorrenti. Negli ultimi 10
anni ha avuto un Roe medio (Return on equity, una misura della
profittabilità, ndr) del 40%”.
Europa? Meglio
Usa e Asia
giovedì, 11 marzo 2010 - 15:08 -
di Sara Silano ______________________________________________
Non sono concordi le previsioni
dei gestori per il prossimo semestre, ma su un punto c’è
accordo: Europa, Stati Uniti, Giappone e resto dell’Asia non
si muoveranno tutti allo stesso modo. In questo contesto,
alcuni continuano a sovrappesare le azioni, altri
preferiscono prendere profitto. E’ quanto emerge dall’ultimo
sondaggio condotto da Morningstar tra le principali case di
gestione italiane ed estere che operano in Italia.
Europa, la domanda interna non riparte Il Vecchio continente
continua a fare i conti con una ripresa che non decolla.
Secondo Eurostat, nel quarto trimestre 2009, il Prodotto
interno lordo (Pil) dell’Eurozona è salito dello 0,1%
rispetto ai tre mesi precedenti, mentre su base annuale è
sceso del 2,1%. Secondo la Banca centrale, l’incremento sarà
dello 0,8% nel 2010. Tuttavia, la domanda domestica rimane
debole e la disoccupazione elevata, per cui molto dipenderà
dalle esportazioni. I mercati finanziari non sono rimasti
indifferenti a questa situazione. L’indice Msci Europa ha
reso meno di quello mondiale nei primi mesi dell’anno e le
Borse potrebbero continuare a muoversi attorno agli attuali
livelli nei prossimi mesi. Ne è convinto oltre il 54% dei
gestori interpellati da Morningstar, contro il 45,5% che
prevede un rialzo (78,9% a febbraio). Gestori in difesa con Wall Street
Nella fase di incertezza che ha caratterizzato le Borse mondiali
da gennaio, il mercato statunitense ha assunto una valenza
difensiva e si è comportato meglio di quello europeo. Gioca a
suo vantaggio l’essere la patria di aziende con alti livelli di
corporate governance e disciplina finanziaria. Come si legge in
una nota di M&G Investments, 94 società americane hanno
aumentato i propri dividendi ogni anno per 25 anni. Inoltre, il
mercato è ampio e diversificato e grandi investimenti vengono
fatti in innovazione scientifica. Sul fronte congiunturale, la
situazione sta migliorando, anche se la disoccupazione rimane un
fattore critico. Per quasi il 60% dei gestori la Borsa americana
salirà nei prossimi sei mesi e nessuno si attende un ribasso.
Yen versus Borsa E’ storicamente dimostrato che esiste una
relazione inversa tra l’andamento della divisa giapponese e la
Borsa di Tokyo. Secondo molti gestori, quindi, l’indebolimento
dello yen, causato da politiche monetarie più espansive volte a
contrastare la deflazione, gioverà al mercato, in quanto
influirà positivamente sugli utili, in particolare delle aziende
orientate alle esportazioni. Il mercato potrebbe anche
beneficiare di un aumento della propensione al rischio degli
investitori esteri. Per queste ragioni un gestore su due stima
una crescita del Nikkei nei prossimi sei mesi (erano il 47% a
febbraio).
I nuovi trend in Asia Nell’area del Pacifico, i gestori si
concentrano sui nuovi trend di sviluppo. Le economie asiatiche,
infatti, stanno passando da un orientamento prevalentemente alle
esportazioni a uno improntato ai consumi interni. Le prospettive
congiunturali rimangono buone, mentre i mercati azionari
potrebbero soffrire per la fine delle politiche espansive.
Rispetto a febbraio, la percentuale di ottimisti è tornata a
salire passando dal 52,6 al 63,7%.
Gestori attratti dai corporate La Grecia ha portato al centro
dell’attenzione il problema della sostenibilità delle finanze
pubbliche. Infatti, i governi sono ricorsi a misure eccezionali
per fronteggiare la crisi con conseguente aumento
dell’indebitamento e necessità di fare nuove emissioni
obbligazionarie. Le difficoltà dei Paesi periferici (oltre alla
Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda) e la bassa inflazione
obbligheranno la Banca centrale a rimandare il rialzo dei tassi
di interesse. Negli Stati Uniti, invece, la Federal Reserve
potrebbe agire nella seconda parte dell’anno. In questo contesto
aumentano i gestori che preferiscono i bond societari, anche se
non ripeteranno i risultati del 2009. Per quanto riguarda quelli
governativi, i manager non si attendono sostanziali scostamenti
rispetto ai prezzi attuali. Euro ancora giù Il dollaro si è
rapidamente apprezzato nei confronti dell’euro dall’inizio
dell’anno. Nei prossimi mesi, secondo alcuni gestori, potrebbe
esserci una pausa accompagnata da ampie oscillazioni del
rapporto di cambio. Molto dipenderà dall’evoluzione della crisi
greca e dall’andamento dell’economia americana. Quasi il 64%
degli intervistati, comunque, prevede un ulteriore calo della
divisa comunitaria. Meno del 10% si attende un’inversione del
trend rispetto alla prima parte del 2010.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 3 e il 10 marzo,
22 delle principali società di diritto italiano ed estero
operanti sul territorio, che contano per circa il 90% degli
asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Asset Managers,
Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Banca Ifigest,
Banca Profilo, Bnp Paribas Am Sgr, Credit Suisse, Eurizon
Capital, Ing IM, Investitori Sgr, JC&Associati sim, MC Gestioni,
M&G Investments, Nemesis Asset Management, Pictet, Pioneer Im,
Prima Sgr, Schroders, Sella Gestioni, Swiss&Global AM Sgr,
Threadneedle, VG.SA.
Fonte
-
Morningstar
I manager di Lehman
hanno affondato Lehman
12 Marzo 2010 14:28 NEW YORK -
di Vittorio Carlini ______________________________________________
Un documento di centinaia di
pagine, il primo, che mette a nudo la storia del fallimento
di Lehman Brothers. Un "paper" della corte fallimentare che
ha investigato sui come e sui perché del crak finanziario
che, nel week end del 13-14 settembre, ha fatto tremare
l'intero sistema planetario della finanza.
Centinaia di pagine da cui emerge, secondo quanto riportato
dal Wall Street Journal, uno spaccato della banca poco
edificante. Di quella istituzione il cui ceo Richard Fuld si
sentiva orgoglioso anche per la sua abilità nella gestione
del rischio. Le cose, però, stavano un po' diversamente.
La manipolazione di bilancio
Nel report viene indicato che i top executive dell'azienda
hanno manipolato i bilanci, hanno nascosto informazioni al
consiglio d'amministrazione, e gonfiato il valore degli
asset tossici immobiliari. Lehman decise di «non seguire
corettamente il controllo del rischio in maniera
sistematica», anche quando il mercato del credito e quello
immobiliare davano segnali di irregolarità.
I mancati controlli
Nel maggio 2008, un vicepresidente di Lehman allertò, scrive
sempre il Wall Street Journal, il management delle
potenziali irregolarità contabili; un allarme che, secondo
l'indagine condotta da Anton Valukas, fu ignorato dal
revisore di Lehman Ernst&Young.
Ma come riusciva la banca a far apparire i conti migliori?
Sempre secondo il report, bisogna focalizzarsi sul
cosiddetto "repo" market, con cui un'azienda vende degli
asset in cambio di cash per finanziare la sua operatività a
breve. Ebbene, Valukas sottolinea che Lehman, nell'intento
di mantenere un merito di credito favorevole, ha gestito
un'attività di contabilizzazione interna, chiamata "Repo
50", per portare fuori bilancio circa 50 miliardi di asset.
Con questa mossa Lehman, ad occhi esterni, appariva meno
oberata di debito e con libri contabili migliori. In una
ordinaria transazione "repo", Lehman avrebbe realizzato il
cash con la vendita degli asset, obbligandosi
simultaneamente a riaquistarli in pochi giorni. L'operazione
avrebbe dovuto essere contabilizzata come un finanziamento,
e gli asset avrebbero dovuto rimanere iscritti a bilancio.
Ma attraverso "repo 50" così non è stato.
E non è finita qui. Con il "repo 105 trensaction", sempre
secondo l'inchiesta, Leham raggiunse lo stesso risultato,
seppure attraverso una strada diversa. Solo perché gli asset
interessati alla transazione rappresentavano il 105%, o
anche di più, del cash ricevuto le norme contabili gli
permettevano di trattarli come "vendite" e non come
"finanziamento". Risultato? Gli asset in questione sparivano
dal bilancio di Lehman, si riduceva l'ammontare del debito e
gli investitori plaudivano all'efficienza dell'istituto
finanziario.
La speculazione esterna
Ma non è solo l'attività interna. Ci sono stati anche,
secondo l'analisi presieduta da Valukas, interventi esterni
che hanno dato le "giuste" spinte alla banca per cadere.
Diverse investment banking, tra cui Jp Morgan, hanno infatti
richiesto garanzie e modificato gli accordi con Lehman,
tanto da ridurre la sua liquidità e spingerla, così, verso
la bancarotta. Insomma, se le indicazioni in arrivo
dall'America saranno confermate e provate ancora una volta,
a distanza di anni dal caso Enron, potremo dire che...nulla
è cambiato.
Fonte
-
Sole 24 ore
JP MORGAN E CITI
DIETRO AL COLLASSO LEHMAN
12 Marzo 2010 16:21 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
L'accusa e' di quelle pesanti:
chiedendo garanzie e cambiando gli accordi in corso, i due
istituti ridussero la liquidita' della banca, contribuendo
in maniera decisiva alla piu' memorabile bancarotta della
storia.
Le banche d'affari JP Morgan Chase e Citigroup hanno
contribuito in maniera decisiva al fallimento di Lehman
Brothers, il cui collasso due anni fa getto' nel panico il
mondo della finanza, e lo avrebbero fatto chiedendo debito
collaterale e modificando gli accordi in corso, tanto da
ridurre la liquidita' dell'istituto.
E' quanto emerge da uno studio di centinaia di pagine del
tribunale fallimentare che riporta il risultato delle
indagini sulla maggiore bancarotta della storia della
finanza e che fa tornare a Wall Street l'incubo dello
scandalo Enron.
"Le richieste di debito collaterale da parte dei creditori
di Lehman hanno avuto un impatto diretto sulla liquidita'
dello stesso istituto", afferma in un documento consegnato
ieri al tribunale federale di Manhattan Anton Valukas,
incaricato di occuparsi delle indagini sulla bancarotta. "La
liquidita' disponibile della banca e' uno dei fattori
fondamentali per capire i motivi del fallimento di Lehman".
Stando sempre alle indagini, l'ex amministratore delegato di
Lehman, Richard Fuld, l'ex direttore finanziario Erin Callan,
l'ex vice presidente esecutivo Ian Lowitt e l'ex managing
director Christopher O’Meara avrebbero affondato la banca,
prendendo decisioni dannose e facendo dichiarazioni
incongruenti sulle finanze dell'istituto. Fuld, 63 anni, e'
stato "come minimo negligente in modo grossolano", secondo
Valukas.
La banca d'affari di New York, che secondo il rapporto ha
"ripetutamente ecceduto i limiti e i controlli interni sui
livelli di rischio", e' collassata nel settembre del 2008
con $639 miliardi di asset.
Valukas, dello studio legale newyorkese Jenner & Block, e'
stato scelto a gennaio 2009 dal tribunale fallimentare della
circoscrizione meridionale di New York per esaminare e
trovare i motivi del collasso di Lehman Brothers.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Derivati,
la riforma che coinvolge Goldman, JpMorgan, Citi e BofA
13 Marzo 2010 10:24 MILANO
– di
La Stampa
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Dopo l'attacco alla Grecia via cds, governi e controllori
hanno deciso di mettere mano al mondo dei derivati. Dal
presidente del Financial stability forum Mario Draghi fino
al cancelliere tedesco Angela Merkel il coro è unanime: ci
vuole una stretta. Una concordia d'intenti confermata
dall'incontro di ieri a Londra tra il premier inglese Gordon
Brown e il presidente francese Nicolas Sarkozy.
Di fronte a tanta unanimità il mercato ha subito reagito: «I
derivati non sono il male . Solamente, sono stati usati
male». Ancora: «Pensare a regolare piattaformi globali è
pura utopia». Di più: «Quando sono serviti, anche a stati ed
enti locali, nessuno ha detto alcunché. Adesso li si vuole
eliminare, troppo facile». E l'elenco delle critiche
potrebbe continuare. Tanto che la domanda è inevitabile: chi
ha ragione? Il tardivo risveglio politico è demagogia o chi
critica le riforme è spinto da interessi di parte? Un primo
passo per capirci qualcosa è sgombare il campo dalle molte
mistificazioni.
L'obiettivo? Solo i derivati over the
counter
La stretta riguarderebbe non i derivati tout court, bensì
quelli scambiati sui mercati non regolamentati, i cosiddetti
Over the counter (Otc). Verso i primi anni '80, negli Usa, i
contratti standard erano praticamente la maggioranza.
Talvolta, però, accadeva che questi titoli, scambiati nelle
Borse tradizionali, non fossero adatti a difendere le
società da particolari rischi: per esempio, dal rialzo dei
tassi d'interesse. Ecco, allora, la necessità di creare un
prodotto ad hoc.
Basta pensare ad una società che deve fare degli
investimenti e si finanzia con obbligazioni a tasso
variabile. Il tesoriere dell'azienda potrà decidere di
pagare, rispetto alla cedola variabile, solo fino a un tetto
massimo (il cosiddetto cap). Chiederà a una banca (o anche
di più, per spuntare un costo minore) di "costruirgli" un
derivato in cui, se la cedola andrà oltre il cap, la somma
in più sarà sborsata dall'istituto di credito che emette il
derivato, in cambio del pagamento di un premio. Insomma: è
un un vestito di sartoria cucito su misura per l'azienda. E
fin qui nessun problema. Ma allora, perché si è arrivati
alle difficoltà odierne?
La mancanza di trasparenza permette la
speculazione
La risposta è: un mix di cause. In primis, l'innovazione
tecnologica, sia con la digitalizzazione dei prodotti sia
attraverso la creazione di veloci network, ha abbassato i
costi di negoziazione e facilitato le contrattazioni; poi,
l'enorme liquidità che è stata immessa nei mercati negli
ultimi anni (non solo durante l'attuale crisi) «ha permesso
di assorbire - spiega Andrea Resti, direttore di FinMonitor
alla Bocconi - l'offerta di protezione del rischio» creata
dagli intermediari, «mantenendone allo stesso tempo basso il
suo prezzo».
In questo modo, si è creato un mercato molto liquido: i
contratti costruiti su misura per l'azienda si sono, nei
fatti, anch'essi standardizzati e hanno iniziato ad essere
scambiati nelle piattaforme Otc come singoli titoli, slegati
dal sottostante per cui erano nati. In un simile habitat i
grandi broker hanno capito che potevano guadagnare parecchi
soldi: o con le commissioni, o con gli arbritaggi. Non va
infatti dimenticato che, grazie alla deregulation del
settore (fondamentale è il "Commodity Futures Modernization
Act" del 2000), la mancanza di trasparenza sulla formazione
dei prezzi ha dato vita alla creazione di buoni spread
denaro/lettera. Una situazione in cui, per i trader, portare
a casa profitti è molto facile.
Il caso di Aig...
«Così - ricorda Gary Gensler, presidente della Commodity
Futures Trading Commission - il valore nominale dei derivati
Otc negli Usa ha raggiunto i 300 trilioni di dollari, cioè
circa dieci volte quello dei derivati regolamentati». Si
dirà ancora: ma che male c'è? Niente, se non fosse che,
sottolinea Gensler: «Gli Otc derivates sono stati, per
esempio, al centro del fallimento di Aig». Il colosso
assicurativo ha sfruttato a piene mani i cds, vendendoli a
clienti intenzionati a coprirsi dal rischio di fallimento di
certi titoli. Erano ben 60 i miliardi di dollari di questi
derivati nei sui bilanci, con spesso a garanzia i
tristemente famosi subprime. Tutti sanno com è andata a
finire.
...e quello della Grecia
E poi come dimenticare che, qualche anno fa, i derivati (in
particolare uno swap) hanno permesso «alla Grecia - dice
Gensler- di falsificare i conti pubblici; per, poi, mettere
sotto pressione la sua stessa stabilità finanziaria, con i
cds, quando» il trucco è saltato fuori. Insomma, «nati per
proteggere dal rischio adesso sono usati per sfruttarlo» al
fine di accrescere il proprio utile. E non importa se la
conseguenza è una crisi di sistema che può mettere in
ginocchio l'economia di uno stato. A questo punto, conclude
Gensler, non si può fare a meno«di regolamentare il
settore».
Una proposta di legge presentata al Congresso Usa prevede
l'obbligo, per le grandi banche che vendono i derivati, di
spostare gli scambi su piattaforme pubbliche e trasparenti.
«Un'idea insensata - ribatte l'International Swap and
Derivatives Association, la "confidustria" di settore -.
Provocherebbe un abbandono dei mercati da parte dei grandi
intermediari, con il conseguente calo della liquidità e il
balzo dei costi». «Mi sembra un timore eccessivo - ribatte
Andrea Beltratti, professore di economia politica alla
Bocconi -. Una riduzione del profitto potrà creare qualche
problema ma, di certo, non farà sparire gli operatori».
Le big four di Wall Street
Quel che è sicuro, invece, è che l'eventuale stretta
coinvolgerebbe soprattutto alcuni big di Wall Street. Questa
considerazione la si desume dai dati pubblicati dal
Comptroller of the Currency. Secondo i numeri dell'agenzia
americana, su circa 202 trilioni di dollari di derivati
scambiati Over the counter oltre il 90% è intermediato da
sole quattro banche: JpMorgan, Goldman Sachs, Bank of
America e Citibank. Al di là dell'inevitabile "sospetto" su
chi riesca a guadagnare con simili contratti, ciò che più
rileva è il rischio insito in un mercato concentrato in
poche mani. Se, infatti, una di queste banche dovesse avere
dei problemi l'intero sistema potrebbe saltare. Finora non è
successo perché Washington lo ha impedito: too
interconnected to fail, è il mantra cui si aggrappa Wall
Street. Ma è un circolo vizioso.
«A ben vedere - dice Beltratti - la soluzione sensata
potrebbe essere l'istituzione di una controparte
centralizzata, che garantisca il pagamento nelle
contrattazioni. Insomma la creazione di una clearing house».
Anche se non è solo questione di stanza di compensazione.
«L'impostazione che sembra prendere forma in Basilea III -
spiega Resti - di maggiori garanzie patrimoniali per chi
opera con questi contratti mi vede favorevole. Io sono per
il libero mercato, ma nel senso vero del termine». Vale a
dire? «Bisogna che chi agisce si assuma lui il rischio delle
suo operato. Se un'azienda inquina deve essere lei a pagare
il costo del danno ambientale.
Analogamente, le banche non
possono esternalizzare il rischio della loro attività: al
contrario, bisogna che lo riportino al loro interno».
Chi dubita dell'efficacia di una regolamentazione, però,
sottolinea anche un altro elemento: avviare una stretta in
un solo paese ha poco senso; se si vuole continuare la
stessa attività, si può benissimo spostarla su altri
prodotti o in altri stati. «In effetti - ammette Beltratti -
la delocalizzazione è plausibile. Per questo c'è bisogno di
una normativa il più possibile globale. Per raggiungere
questo scopo, la promulgazione di una nuova legge negli
Stati Uniti sarebbe importante: farebbe da apripista ad
altri stati». Magari non si arriverà ad una norma globale,
ma pensare ad un coordinamento maggiore, per esempio delle
autorità di controllo, sulla base di maggiori requisiti di
trasparenza ( «la simmetria informativa -afferma Beltratti -
, oltre ad una maggiore cultura finanziaria del retail, è
buona cosa») e di garanzie patrimoniali è un passo
auspicabile.
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Fonte -
La Stampa
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Mercoledì
17
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2010 |
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20
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DOLLARO: PIACE
COME PRIMA DEL CRACK LEHMAN
14 Marzo 2010 21:30 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La fiducia sul biglietto verde ai
massimi di 18 mesi. Investitori convinti che gli States
cresceranno piu' veloci di Europa e Giappone. Rendimenti dei
titoli di stato in crescita.
Gli investitori non erano mai stati cosi' aggressivi sul
dollaro dal fallimento di Lehman Brothers. Il perche' di
tale ritrovato ottimismo? La convinzione che gli Stati Uniti
torneranno a crescere a un ritmo piu' veloce di Europa e
Giappone.
Stando al Professional Global Confidence Index monitorato da
Bloomberg, e che misura le aspettative sull'outlook
dell'economia globale, il biglietto verde e' destinato a
correre nei prossimi sei mesi. Tra i 1612 partecipanti alla
rilevazione, l'umore sulle condizioni degli States e'
migliorato, ma le aspettative sulla ripresa mondiale sono
calate per il secondo mese consecutivo.
Nel dettaglio l'indice ha toccato quota 66.39 questo mese
contro 55.72 di febbraio. Si ricorda che il livello posto a
50 rappresenta lo spartiacque oltre il quale ci si aspetta
un rafforzamento della valuta a stelle e strisce. Il massimo
toccato a 68.86 risale al settembre 2008 quando gli
operatori consideravano il dollaro come un porto sicuro dopo
la bancarotta di Lehman Brothers.
Il rafforzamento del biglietto verde e' gia' in atto. Questo
mese ha raggiunto il top dello scorso maggio contro l'euro.
Tutta colpa dei timori legati allo stato di salute delle
finanze della Grecia. Altro fattore da monitorare e'
rappresentato dalle politiche monetarie delle principali
banche centrali. Aleggia l'idea che la Federal Reserve
ritocchera' all'insu' il costo del denaro prima di Bce e
Bank of Japan. Questo tipo di speculazione non fa che
sostenere la valuta americana.
"Gli Stati Uniti, magari non quest'anno, saranno i primi a
rialzare i tassi di interesse", ha anticipato Fabian
Eliasson, a capo della divisione dedicata alle valute di
Mizuho Corporate Bank. Secondo quanto raccolto tra 75
economisti, Bloomberg riporta che nel terzo trimestre il
governatore americano Ben Bernanke alzara' i tassi allo 0.5%
dall'attuale range dello 0-0.25%. Nei tre mesi successivi
sara' Trichet a stringere i cordoni portando il costo del
denaro all'1.25%, 25 punti base piu' su di ora. La Banca
centrale giapponese, invece, dovrebbe tenere le braccia
incrociate fino a meta' del 2011.
"Differenze in termini di crescita e tassi di interesse", ha
spiegato Meg Browne, vicepresidente della societa
specializzata sul mercato dei cambi Brown Brothers Harriman
& Co., "hanno aiutato il dollaro. La Grecia e' stato uno dei
principali driver del suo rafforzamento".
Tra gli intervistati, pessimismo sul mercato dei titoli di
stato. I rendimenti sono visti in crescita sul decennale
americano. Stessa musica anche per Germania, Svizzera e
Francia.
"La vicenda greca e' stato senza dubbio un elemento che ha
permesso un'accelerazione del biglietto verde", ha aggiunto
Shaun Osborne, capo strategist nel valutario in Toronto
Dominion Bank. "Ha ripreso vita da solo. Ora il mercato sta
aspettando di capire dove si spingera' rispetto agli attuali
livelli".
Fonte
-
WallStreetItalia.com
Delusi dai mercati
i risparmiatori si rifugiano in banca
15 Marzo 2010 08:40 MILANO -
di Rossella Cadeo ______________________________________________
Bear Stearns, Fannie&Freddie, e
poi il fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008:
un anno e mezzo è passato dal peggior crack finanziario
dell'ultimo decennio, ma le ondate create dalla barca
affondata allora non hanno ancora smesso di farsi sentire.
Determinando, in questo arco di tempo, un profondo
cambiamento nell'atteggiamento delle famiglie nei confronti
del risparmio. Il 15 settembre 2008 ha segnato infatti uno
sorta di spartiacque tra quello che si faceva prima con il
denaro e quello che si è cominciato a fare poi. Un'ulteriore
conferma viene dalla lettura delle statistiche provinciali
di Banca d'Italia su depositi, prestiti e sofferenze delle
famiglie: dall'elaborazione effettuata dal Centro studi
Sintesi sull'evoluzione nel periodo pre-Lehman
(gennaio-settembre 2008) e in quello post-Lehman (ottobre
2008-dicembre 2009), si nota un deciso cambio di passo nelle
due "stagioni".
Prendendo come riferimento la variazione media per
trimestre, i principali misuratori del risparmio delle
famiglie segnalano un'accelerazione: i depositi sono
cresciuti del 2,2% (contro l'1,5% nel periodo precedente) e
i prestiti dell'1,5% (contro lo 0,2% di prima e sempre su
base trimestrale). Le variazioni si sono differentemente
declinate sul territorio, ma tranne in pochissimi casi
l'incremento ha riguardato tutte le province.
Effetti da scudo fiscale a parte, il fenomeno trova
spiegazione nella fuga della liquidità dai mercati più a
rischio, l'azionario o l'obbligazionario. La serie di
fallimenti di fine 2008 «ha innescato un ripiegamento del
risparmio delle famiglie su forme più sicure – osserva
Fabrizio Guelpa, responsabile Ufficio Industry & Banking del
Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo – come il conto
corrente e i certificati di deposito: su base annua i conti
correnti nel 2009 sono cresciuti quasi del 12 per cento. Le
banche, dal canto loro, in difficoltà sul fronte del mercato
dei capitali, si sono concentrate sulla clientela retail per
alimentare la raccolta». In crescita anche i prestiti,
costituiti per la stragrande maggioranza da mutui per
l'acquisto della casa.
«Considerati i tassi variabili a livelli così bassi e la
propensione al mattone degli italiani – continua Guelpa – la
dinamica non poteva che seguire un percorso di crescita. Va
anche detto che i prestiti non sono un indicatore di
povertà, dato che normalmente sono le aree più ricche a
distinguersi per gli importi più alti». Maggiormente
indicativo della crisi in atto è invece il dato delle
sofferenze, cresciute più del 50% da ottobre 2008 a dicembre
2009 (l'incidenza sui prestiti del flusso annuale di nuove
sofferenze è passata dallo 0,9 a oltre 1,33% ma in certe
aree come Gorizia, Napoli, Crotone o Caserta va dal 2 a
oltre il 3%).
«La crisi del 2008 ha immediatamente trasmesso lo shock dal
settore finanziario a quello reale e questi dati ci
dimostrano una sorta di "sciopero cautelativo della spesa" –
commenta Luigi Campiglio, prorettore e ordinario di politica
economica all'università Cattolica di Milano –. Un po'
ovunque, nonostante lo scenario di difficoltà economiche e
occupazionali, è aumentata la propensione al risparmio: le
famiglie nel giro di brevissimo tempo si sono spostate sulla
liquidità, cercando ove possibile di risparmiare di più. E
il fatto che questa crescita perduri sta a significare che
l'atteggiamento di cautela non è stato ancora abbandonato».
Del resto i prestiti – l'altra faccia della medaglia –
confermano questa prudenza delle famiglie: anch'essi in
crescita, ma a un ritmo un po' meno sostenuto rispetto ai
depositi e con la casa, investimento "sicuro", a far la
parte del leone.
Sul territorio (si vedano le tabelle in pagina) raccolta e
finanziamenti delle banche vedono svettare milanesi e romani
come importi per famiglia (intorno ai 38mila euro i depositi
e ai 23mila euro i prestiti, a fronte di una media italiana
pari rispettivamente a 25mila e 16mila euro). Se invece si
considerano le variazioni da ottobre 2008, spiccano Rimini
nei depositi (+5,5% trimestrale e +28% in totale) e ben tre
province pugliesi nei prestiti, Foggia, Lecce e Taranto (con
crescite trimestrali intorno al 3-4% ma fino al +18 nella
stagione dopo-Lehman).
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
La sveglia suona
anche per il Giappone
lunedì, 15 marzo 2010 - 10:43 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
La sveglia della ripresa sembra
essere suonata anche per il Giappone. Almeno, è la speranza
che anima investitori quando guardano i grafici del Sol
levante e li mettono in relazione con l'andamento del resto
del mondo. L'indice Msci del Paese asiatico nell'ultimo mese
(fino al 12 marzo e calcolato in euro) ha guadagnato quasi
il 3%. Nel 2009, invece, aveva perso il 25,4%. Negli stessi
periodi il paniere generale World ha segnato rispettivamente
+6% e +23%.
A far bene alla Borsa nipponica è stato un mix di notizie
macroeconomiche e finanziarie che ha ridato un po' di
fiducia agli investitori. Il Prodotto interno lordo (Pil)
nel quarto trimestre è salito del 4,6%, rispetto ai tre mesi
precedenti. “Merito soprattutto della domanda domestica,
anche se la richiesta dall'estero ha fatto la sua parte”,
spiega un report firmato dalla società di consulenza Oxford
Analytica (OA). “Al di là del dato positivo, comunque,
bisogna sottolineare che le famiglie stanno tornando a
spendere”.
A dare gas ai dati sul Pil sono stati soprattutto gli
acquisti di auto e beni per la casa, anche grazie agli
incentivi del governo per far comprare ai giapponesi beni
ecocompatibili. “Un'altra motivazione è la caduta dei prezzi
dovuta alla deflazione (l'opposto dell'inflazione, ndr)”,
continuano da OA. “Una situazione nella quale il Giappone si
trova a causa della forte concorrenza, dei magazzini pieni e
della scelta degli acquirenti di orientarsi su prodotti a
basso prezzo”.
In questo scenario, le aziende sono tornate a spendere
soldi. Alla fine dell'anno scorso gli investimenti societari
sono cresciuti del 4%, dopo un collasso del 25% nel giro di
sei trimestri. Gli ordini di macchinari dall'estero sono
cresciuti del 20%. “Un trend che dovrebbe continuare per
tutto il 2010”, continua il report. Il mercato principale di
sbocco per i prodotti made in Japan è l'Asia (+33%) ma sono
in ripresa anche gli Stati Uniti (+13%) e l'Europa (+29%).
Un altro segnale importante, secondo gli analisti, è il
ritorno in territorio positivo dell'indice sulla fiducia dei
consumatori. “Non siamo ancora ai livelli precedenti la
recessione”, precisa lo studio di OA. “Tuttavia si tratta di
un segnale sicuramente positivo”.
Per quanto riguarda il breve periodo, un dato da osservare
attentamente è quello dell'occupazione. Soprattutto per
quanto riguarda i salari che, dal triennio 2006-2008 sono
scesi del 2,5%. “La ripresa delle vendite, tuttavia, entro
la fine dell'anno dovrebbe ribaltare la situazione”, dice lo
studio. “Bisogna comunque aspettare che le aziende
esauriscano le scorte di magazzino e riprendano a produrre a
pieno ritmo”.
Sul fronte operativo, molto dipenderà da come si
comporteranno le aziende, sia dal punto di vista
industriale, sia nei confronti dei propri azionisti. “Molte
società al momento preferiscono non distribuire dividendi e
utilizzare i capitali o come riserva o come fonte di
investimento per aumentare la capacità produttiva”, conclude
lo studio. “Anche questo, però, insieme ai bassi stipendi,
rischia di influire sulla capacità di spesa delle famiglie e
può allungare i tempi di uscita dalla deflazione”.
Fonte
-
Morningstar
|
Crisi:
vi piace la tesi pessimista moderata, quella radicale o
siete ottimisti?
19 Marzo 2010 00:55 MILANO
– di *Alessandro Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist Kairos Partners SGR
________________________________________
Sulla crisi del 2008-2009 ha dominato a lungo una
storiografia in tempo reale profondamente pessimista. Si è
pensato sulla falsariga della Grande Depressione degli anni
Trenta, dimezzata in durata e gravità grazie a imponenti
misure di policy. Si è parlato della rottura completa di un
modello di sviluppo e di distribuzione del reddito. Quel che
più conta, si è teorizzata l’impossibilità di ripristinare
quel modello di crescita.
C’è stata una lettura pessimista che definiremo moderata e
ce n’è stata una radicale. Pessimismo moderato è la New
Normal di El Erian e di Bill Gross. Il mondo ha finito di
crescere del 3-4 per cento e si avvia a una lunga fase
storica di crescita bassa, tra l’uno e il due, di pesante
interventismo statale e di attacco fiscale e salariale ai
profitti. Le borse dovranno scontare questo flusso
strutturalmente più basso di utili e di dividendi
posizionandosi molto al di sotto dei livelli pre-crisi.
Nella New Normal di Pimco la vita è stentata, ma almeno si
vive. E’ una prospettiva di semistagnazione, non di
deflagrazione. Più pessimista è invece la lettura di quanti
mettono l’accento sulla pesante eredità della crisi,
l’accumulo di uno stock di debito pubblico che non ha
precedenti in tempo di pace. Come si è ben visto con la
vicenda della Grecia, il deterioramento fiscale rende
fragile e pericoloso l’attraversamento del prossimo
decennio. Non solo si cammina lentamente e con fatica, come
dice Pimco. Si cammina su un campo minato.
La storiografia radicale, dal canto suo, fa un altro passo
verso il fondo della notte. Non si limita a considerare
l’ultima crisi, ma sottolinea come dai primi anni Ottanta in
avanti, dall’inizio cioè del ciclo secolare di Nuovo Ordine
seguito alla parentesi caotica degli anni Settanta, le
riprese siano state comprate con dosi crescenti di debito.
Le crisi, di conseguenza, sono state (e continueranno a
essere) sempre più pesanti e profonde. Il crash del 1987
appare oggi come un episodio tanto appariscente quanto
superficiale. Più grave appare la crisi asiatica del
1997-1998, pesante ma ancora circoscritta.
Planetaria (Cina esclusa, a dire il vero) è invece la crisi
seguita allo scoppio della bolla di Internet. Un nulla, se
paragonata con il 2008-2009, a sua volta poca cosa se
spingiamo lo sguardo alla prossima crisi, fatta di default
sovrani su scala globale, di iperinflazione, protezionismo,
collasso sociale, anarchia e tirannide.
E’ rinfrescante, in questo contesto, vedere emergere in nuce
una storiografia non tragica della crisi. Jim O’Neill,
personaggio dotato di una dose non comune di testosterone
intellettuale, azzarda la tesi che la crisi non abbia
ridotto in modo permanente e strutturale la capacità di
espansione dell’economia globale. La media storica della
crescita nel quarto di secolo che ha preceduto la crisi è
stata del 3.7 per cento. Ci sono stati il 2008 e il 2009 che
ben conosciamo, ma per il 2010 la stima di Goldman Sachs è
del 4.6 e per il 2011 del 4.7. Il Fondo Monetario è ancora
fermo al 4.2, ma leggendo tra le righe Strauss-Kahn è
evidente che nel prossimo Outlook ci sarà una revisione
verso l’alto.
Facciamo un passo oltre Jim O’Neill e avanziamo l’ipotesi,
un semplice esperimento mentale, che la Grande Recessione
non sia stata una crisi terminale, ma un provvidenziale
incidente di percorso. Nelle numerose dimensioni
dell’universo ne è concepibile una in cui, fra qualche anno
o decennio, il 2008 e il 2009 verranno ricordati come
un’increspatura che ha reso possibile, al prezzo di milioni
di posti di lavoro distrutti, un’esplosione della
produttività e un riequilibrio su basi molto più solide
dell’economia globale.
La New Normal ipotizza una crescita bassa nel mondo
sviluppato perché sostiene correttamente che in Europa,
America e Giappone dovremo risparmiare di più e consumare di
meno. La New Normal tende però a identificare il Pil con i
consumi interni. Il Pil è però fatto anche di investimenti e
di esportazioni.
Per molti, troppi anni l’America ha avuto una crescita della
produzione del 3 per cento e un aumento dei consumi del 4.
Da qui in avanti è possibile ipotizzare un aumento dei
consumi del 2 mantenendo la crescita della produzione al 3.
In altre parole, invece di importare quell’uno in più, lo
può benissimo esportare.
Il mondo emergente, dal canto suo, ha tutta l’aria di essere
uscito dalla crisi con una capacità di espansione ancora più
forte. Cina, India e Brasile cresceranno nei prossimi dieci
anni molto di più di quanto non si pensava nel 2007, prima
della crisi. Il Brasile ha scoperto di essere un paese
petrolifero. L’India ha apportato progressivi ritocchi alla
sua politica economica e ha scoperto che può tranquillamente
crescere del 10 per cento l’anno.
La Cina sta avanzando a una velocità annualizzata del 13 per
cento e cercherà di rallentare, rimanendo però al di sopra
del suo tradizionale 8 per cento. (A quanti si ostinano a
parlare di dati cinesi truccati ricordiamo che la Cina ha
costruito in due anni il doppio delle linee ferroviarie ad
alta velocità, 7 mila chilometri, di quanto l’Europa dei Tgv,
degli Ice e delle Frecce Rosse abbia fatto in vent’anni,
mentre gli Stati Uniti, nonostante i piani obamiani, sono
ancora a zero).
Ah, ma allora l’inflazione, penserà qualcuno. In realtà,
nell’universo parallelo che stiamo esaminando, vale ancora
la legge di Okun, una regoletta empirica semplice semplice.
Perché la disoccupazione scenda dell’uno per cento in un
anno occorre che il Pil cresca del doppio, cioè del due,
oltre al suo livello tendenziale. Negli Stati Uniti la
crescita tendenziale è stimata al 2.7 per cento l’anno. La
disoccupazione è ora, arrotondata, al 10 per cento. Per
passare dal 10 al 9 occorre che il Pil salga per tutto un
anno del 2.7 più 2 per cento, ovvero del 4.7.
Pochi, nei mercati, scommettono per il 2010 su una crescita
americana così alta, ma nel nostro universo parallelo certe
cose succedono. Andiamo dunque mentalmente al 31 dicembre.
Il Pil è cresciuto del 4.7 e la disoccupazione è al 9. E’
impellente la necessità di alzare i tassi? L’inflazione
salariale è già tra noi?
Proseguiamo il nostro viaggio mentale e portiamoci al 31
dicembre 2011. L’economia è cresciuta un’altra volta del
4.7, non male, e la disoccupazione è scesa all’8. Il Nairu,
il livello di disoccupazione che fa partire l’inflazione
salariale, è molto più in basso (prima della crisi si
pensava fosse il 4, ora forse è più vicino al 5). Dall’8 al
5 c’è spazio per altri tre anni al 4.7 di crescita senza
inflazione salariale. Per prudenza i tassi vanno
normalizzati prima, ma stiamo parlando di 2012, 2013 e 2014.
Oggi siamo nel 2010.
Uno studio pubblicato la settimana scorsa dalla Fed di San
Francisco sostiene addirittura che l’esplosione della
produttività ha rallentato nel 2009 il funzionamento della
legge di Okun. Il rallentamento, secondo gli autori, si
protrarrà nel futuro prevedibile. Questo significa che
occorrerà ancora più crescita per fare scendere la
disoccupazione.
Abbandoniamo a questo punto questo strano universo parallelo
e torniamo nel nostro, popolato da facce lunghe e
stranamente turbato da ansie non per la disoccupazione, ma
per l’inflazione in agguato, i default dietro l’angolo e la
Fed che non vede l’ora di alzare i tassi.
Smettiamo di fantasticare ridicolmente su una riscrittura
della storia della crisi del 2008-2009 e riassumiamo un’aria
mesta e preoccupata, più consona allo spirito dei tempi.
Torniamo soprattutto dentro un orizzonte di aspettative
limitate, in cui il meglio che si può chiedere alla vita è
un altro giorno senza default sovrani e senza che accadano
cose strane all’euro e a Eurolandia.
Bene, pare effettivamente che queste aspettative limitate
abbiano qualche chance, almeno per qualche settimana o
addirittura mese. Feldstein, uomo intelligente ma anche
parecchio cocciuto che si dice tuttora convinto che la
Grecia non ce la farà e che l’euro imploderà, dovrà
pazientare almeno fino alle grandi aste greche d’autunno,
visto che le prossime sono di fatto già coperte da garanzie
europee o, in caso estremo, dal Fondo Monetario.
Uno dopo l’altro, i semafori rossi che avevano bloccato il
rialzo azionario a metà gennaio si sono girati al verde.
L’atteggiamento aggressivamente antibusiness e antibanche
dell’amministrazione Obama si è stemperato. La bomba greca è
stata, salvo imprevisti, disinnescata. La crescita è più
alta del previsto. L’inflazione è bassa e scende. La Cina
non è esplosa. L’ipercomprato dopo nove mesi di rialzo è
diventato ipervenduto. Una lunga teoria di semafori verdi e
bond e azioni salgono insieme, tenendosi per mano. L’euro ha
finito di scendere.
Qualcuno si chiede che cos’altro di positivo potrà sostenere
i corsi azionari. I tassi non possono scendere, gli utili
sono già scontati, i default sono già dati per rinviati e la
liquidità dei fondi istituzionali è piuttosto bassa.
La risposta è che i flussi verso l’azionario riprenderanno
quando verrà meno la prospettiva di capital gain sui bond.
Comprare un bond è un’avventura che può farci percorrere un
numero infinito di strade, ma queste strade si concludono
tutte invariabilmente a 100. Ad un trader a leva questo non
importa, ma l’investitore individuale finale prima o poi si
rende conto che 100 è 100 e non c’è modo di cambiarlo, né
con le buone né con le cattive.
Quanto dureranno le luci verdi? Se il traffico sarà regolare
e se non ci saranno i soliti invasati che vogliono mettersi
a correre qualche settimana di lentissimo rialzo è
possibile. Le luci gialle non tarderanno troppo a comparire.
Qualche indicatore anticipato comincia a segnalare piccoli
rallentamenti in Asia. La Cina darà altri piccoli colpi di
freno. Rivedremo
presto tra noi i bollofobi ad ammonirci. Un’asta
obbligazionaria nell’Isola di Pasqua potrebbe andare male.
Il dollaro più forte potrebbe ammaccare i risultati di
qualche esportatore americano.
Insomma, in un mercato attentamente sorvegliato dai policy
maker lo spazio di rialzo sarà molto modesto. In compenso è
davvero difficile trovare al momento motivi seri per una
nuova flessione.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Kairos
Partners SGR
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Lunedì
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Martedì
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Venerdì
26
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Quelle tensioni
geopolitiche che pesano sulle borse mondiali
20 Marzo 2010 10:44 -
di Walter Riolfi ______________________________________________
A chi, come chi scrive, si
sentisse desolato per non avere idea di quel che succederà
sui mercati finanziari nei prossimi mesi, viene in soccorso
un bel sondaggio Reuters di tre giorni fa. Tra la sessantina
di gestori, strategist e top dealer di Wall Street
intervistati dall'agenzia, si arguisce che l'indice S&P
dovrebbe finire il 2010 a 1.225 punti: dunque con un rialzo
del 5,7% rispetto alla chiusura di ieri e di quasi il 10% da
inizio anno. Per lo Stoxx le cose andrebbero un po' meno
bene, mentre per i mercati emergenti si prevedono ovviamente
rialzi superiori al 10%. L'effetto consolatorio di questi
sondaggi sta semplicemente nella probabilità che l'evento si
verifichi. E anche uno sprovveduto come lo scrivente ritiene
che sia un po' più probabile che Wall Street salga del 10%
in un anno piuttosto che del 20 o del 30%, oppure che scenda
del 10%. Questi sondaggi misurano semplicemente l'umore
degli investitori e quello che mediamente si respira è un
moderato ottimismo, ben esemplificato nell'analisi mensile
di Barclays. L'umore lo fa il mercato: cosicchè non ci
stupiremmo nei prossimi mesi nel veder gli obiettivi
sensibilmente alzati se le borse dovessero correre. E
viceversa. Tuttavia, la relativa modestia di
queste cifre riflette una serie di preoccupazioni sul futuro dei
mercati. Già gli analisti tecnici avvertono come il nuovo
massimo (relativo) delle borse toccato mercoledì sia avvenuto
con scambi in calo, creando una condizione di «ipercomprato». E
gli strategist, più attenti ai problemi macroeconomici, temono
una scivolata degli indici nella seconda metà dell'anno, quando
verranno meno alcuni degli stimoli monetari creati dalle banche
centrali: cosicchè, sempre secondo un altro sondaggio Reuters,
il Nikkei e la gran parte degli indici europei si troverebbero
nel dicembre 2010 a livelli più bassi di sei mesi prima. Potrebbero aver ragione: i tecnicisti, perché sui mercati, come
s'è sottolineato su queste pagine nei precedenti articoli,
mancano i grandi attori e a fare gli scambi sono per lo più gli
algoritmi quantitativi elaborati dalle macchine; gli economisti,
perché ci sono almeno due grosse incognite a pesare sulla
ripresa e sulla salute dei mercati finanziari. Sulla
sostenibilità della ripresa economica s'è già discusso nelle
scorse settimane e anche i recenti segnali sembrerebbero
confermare un sensibile rallentamento della crescita. Sui rischi
geopolitici occorre invece soffermarsi un poco, perché la crisi
dei debiti sovrani, unita alle preoccupazioni sulle possibili
bolle speculative in Cina, è destinata a diventare uno dei
fattori dominanti in futuro. Non si tratta di fenomeni isolati
ma della ideale continuazione della crisi del credito scoppiata
nel 2007 e della recessione del 2008-2009: perché adesso sono
gli stati, praticamente tutti, che si fanno farsi carico della
montagna di debiti creata in precedenza dal sistema finanziario. Le nuove tensioni sui credit
default swap sui paesi del Sud Europa e dell'Irlanda e l'aumento
degli spread (differenziali di rendimento) dei loro titoli
decennali rispetto al Bund tedesco sono la dimostrazione che i
problemi legati alla sostenibilità di ingenti debiti pubblici
sono destinati a riproporsi per un lungo periodo,
indipendentemente dall'esito della crisi greca. Ai prezzi di
ieri, tutti i Cds erano sensibilmente più alti rispetto a una
settimana fa: compresi quelli sull'Italia saliti a 85 punti e
sulla Gran Bretagna a 70 punti. Lo spread dei Btp è aumentato di
7 centesimi a 84 e quello del Portogallo di ben 18 centesimi a
121. Parallelamente sono peggiorate anche le condizioni sul
mercato del credito corporate (bond societari) e soprattutto
l'euro ha subìto un nuovo attacco speculativo scivolando a 1,35
sul dollaro. Sul franco svizzero la valuta europea è precipitata
al minimo storico di 1,43.
In settimana l'S&P è salito dello 0,9% (+0,3% il Nasdaq) e lo
Stoxx dello 0,7% (+0,6% Francoforte e Milano, +0,4% Londra,
-0,1% Parigi).
Fonte
-
Sole 24 ore
CORPORATE BOND:
UNA MINIERA D'ORO
22 Marzo 2010 05:04 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Buffett ci vide giusto: le
obbligazioni aziendali erano su livelli ridicoli rispetto ai
Titoli di Stato. Cosi' il rally ha aiutato molti gestori a
pareggiare i bilanci. Recuperando i salassi dovuti al crollo
del mercato immobiliare e finanziario.
Seguendo il consiglio di Warren Buffett, l'anno scorso le
compagnie assicuratrici Usa, detentrici di oltre $2200
miliardi di debito societario, hanno comprato i corporate
bond con un'intensita' che non si vedeva da cinque anni,
approfittando di un mercato che lo stesso oracolo di Omaha
aveva definito una "pioggia d'oro".
La somma acquistata dalle societa' assicuratrici americane
e' salita a $153 miliardi nel 2009: il periodo piu' attivo
e' stato il primo trimestre. Allora i rendimenti si
trovavano sui livelli piu' alti dell'anno, secondo i dati
pubblicati da Bloomberg e presi da un rapporto della Federal
Reserve. Tale cifra si confronta con i 59
miliardi del 2008 e rappresenta l'ammontare piu' consistente dai
$172 miliardi del 2004. La decisione di acquistare bond
societari "ha decisamente dato i suoi frutti", ha commentato
Judy Greffin, chief investment officer di Allstate Corp, in
un'intervista rilasciata a Bloomberg.
Il poderoso rally del mercato del debito corporate ha aiutato
compagnie di assicurazione come MetLife e Prudential Financial a
recuperare le perdite in conto capitale subite a causa del
crollo del mercato immobiliare e finanziario tra il 2008 e il
2009.
Buffett ci vide giusto a inizio 2009, quando dichiaro' che i
bond comunali e societari avevano "prezzi ridicoli se
confrontanti con i titoli di Stato Usa". Grandi opportunita'
cosi' non capitano di frequente e "quando piove oro, bisogna
raccogliere la pioggia con un secchio non con un palmo di mano".
Fonte
-
WallStreetItalia.com
L’euro aspetta
la soluzione greca
lunedì, 22 marzo 2010 - 15:37 -
di Valerio Baselli ______________________________________________
Il salvataggio greco è divenuto
ormai un caso. In queste ultime settimane si è discusso
molto sul come e sul quando implementare un piano di aiuti,
ipotizzato inizialmente dai governi tedesco e francese. Si è
discusso della creazione di un Fondo monetario europeo, del
possibile ruolo del Fondo monetario internazionale e
addirittura di una eventuale uscita dall’euro per i Paesi
non virtuosi.
Atene tra Berlino e Washington Il punto di svolta, però,
sembra essere dietro l’angolo. Lo scorso giovedì, il premier
greco George Papandreou ha lanciato un ultimatum al
Parlamento europeo: se il Consiglio dell’Ue non metterà sul
piatto i 25 miliardi di euro che la Grecia ha bisogno, il
ricorso all’Fmi diventerà inevitabile.
La Germania, che ha più volte espresso la propria posizione
favorevole ad un eventuale intervento a favore della
repubblica ellenica, sembra aver cambiato idea. Il
consulente economico del governo tedesco Wolfgang Franz, ha
infatti dichiarato in un’intervista all’agenzia Dow Jones ,
che Berlino sarebbe pronta a lasciare il compito al Fondo
monetario internazionale presieduto da Dominique
Strauss-Kahn.
“L’Unione europea è davanti ad una scelta”, afferma Ashraf
Laidi, responsabile delle strategie di mercato di CMC
Markets. “Deve scegliere se aiutare la Grecia rischiando di
violare la “no-bailout clause” del Trattato di Maastricht,
oppure accettare l’aiuto dell’Fmi, accogliendo una
Washington solution e riducendo così il peso dell’Ue”. Il
Trattato, infatti, vieta il salvataggio di un Paese della
zona euro da parte delle altre nazioni.
Movimenti valutari “I mercati valutari sono restii a
spingere l’euro sopra 1,38 dollari”, spiega Ashraf Laidi.
“Gli operatori hanno realizzato che la recente diminuzione
di 100 punti base nello spread tra i titoli di Stato greci e
tedeschi si è basata sulle voci di un salvataggio piuttosto
che su di un vero pacchetto di aiuti”. Sono passati tre mesi
dal crack greco e ancora non si vedono soluzioni credibili.
“Per questi fattori”, conclude Laidi, “è più probabile che
l’euro scenda verso i minimi di febbraio (1,34 dollari)
piuttosoto che risalga verso la soglia di 1,38”.
“Gli investitori sono comunque diventati più prudenti”,
commenta Martin Arnold, senior analyst di Etf Securities. “I
governi dell’Eurozona hanno bisogno di un intervento
coordinato per mitigare i timori del mercato verso possibili
default di alcuni Paesi. Il Fondo monetario europeo sembra
essere un primo passo verso la giusta direzione”. Questo non
riguardo solo la Grecia. “I governi devono cercare di
tappare i buchi di bilancio, nel caso contrario la valuta
dovrà sostenere il colpo della insoddisfazione degli
investiotri”.
Quindi cosa ci si dovrà attendere nel 2010 dal punto di
vista valutario? “Il 2010 sembra essere ancora più
interessante del 2009”, risponde Arnold. “La stretta
monetaria cinese, le preoccupazioni europee sulla Grecia e
le incognite sulla ripresa globale hanno contribuito ad
affievolire il sentiment positivo dell’anno passato. I Paesi
che saranno in grado di implementare programmi di riduzione
del debito credibili ed efficaci saranno probabilmente
premiati, mentre gli altri puniti duramente”.
Fonte
-
Morningstar
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Ecco
come la finanza creativa
ha danneggiato gli enti pubblici
22 Marzo 2010 15:38 MILANO
– di Sole 24 ore
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Un mix di furbizia, incompetenza, superficialità e, se verrà
dimostrata, anche volontà di truffare. C'è un po' di tutto
nel mondo dei derivati che incontra quello degli enti
pubblici. Certo, ci sono i casi in cui la finanza crativa ha
portato dei benefici alle casse del comune di turno. Ma
troppi sono gli esempi in cui l'incanto del guadagno
immediato si è dissolto come neve al sole, lasciando solo
costi insopportabili per la Pubblica aministrazione.
Il sole24ore.com ha visionato alcuni contratti stipulati da
diverse municipalità, tentando di capire, al di là delle
generiche denunce, cosa concretamente è accaduto, o accade
ancora. Un derivato cui le amministrazioni ricorrono spesso
è il cosiddetto Interest rate swap. Di cosa si tratta? Lo
swap, in generale, è un contratto con cui due parti si
impegnano a scambiarsi reciprocamente dei pagamenti di
interessi calcolati su un determinato capitale.
Come funziona lo swap
In particolare, l'Interest rate swap serve a coprirsi, per
esempio, dalla variazione del costo del denaro. Ecco come:
Il Comune contrae un debito a tasso variabile;
Per difendersi dalla volatilità del costo del denaro, l'ente
si accorda con una banca;
La banca pagherà somme periodiche, legate all'andamento del
tasso variabile, al Comune;
Il Comune, a sua volta, sborserà alla Banca delle cedole che
sono però legate a un tasso fisso.
Alla fine, lo scambio (lo swap) tra i pagamenti permette di
compensare gli eventuali sbalzi della rata variabile. È
questo l'uso classico che si fa di un simile contratto.
E qui tutto potrebbe andare bene. Dov'è allora il problema?
«Fino a qualche anno fa - risponde Fabio Amatucci,
economista dell' università del Salento e dello Sda Bocconi
- simili contratti sono stati, in realtà, spesso utilizzati
come strumenti di finanziamento e non di semplice copertura
del rischio». Cosa intende dire? «Capitava che, per esempio,
il derivato potesse prevedere la clausola dell'up front,
cioè l'anticipazione al Comune di una determinata somma di
denaro che, poi, sarebbe stata compensata dal gioco delle
reciproche rate».
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Flussi di cassa |
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Fonte - Il Sole 24 Ore
22/03/10 |
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Il caso di un comune del sud Italia
Così è stato, ad esempio, per un contratto tra un piccolo
comune del sud Italia e un istituto finanziario. La
municipalità aveva un debito di 4 milioni di euro, ad un
tasso medio del 5,09%, con la Cassa depositi e prestiti (Cdp).
L'intesa prevede che: da un lato, l'istituto bancario
anticipa alle casse comunali 248.000 euro; dall'altro, il
Comune - oltre ad un complesso incrocio di cedole con la
banca- si obbliga a sborsare una rata supplettiva del 7,7%
se il tasso di mercato (l'Euribor a 6 mesi) supera, in un
primo lasso di tempo, la soglia del 5,4 per cento. «Un
rischio non da poco - spiega Amatucci -. La differenza tra
il saggio medio pagato alla Cdp e la soglia limite è di soli
31 basis points. Un cuscinetto di sicuretta troppo stretto,
a fronte del rischio di dover pagare ben il 7,7 % in più sul
capitale. Tanto che il costo del contratto per il comune,
all'inizio dell'operazione, era ben più alto dei 248.000
euro ricevuti». Vale a dire? «Abbiamo calcolato che
l'accordo valeva circa 370 mila euro, quindi molto di più
dei denari dati al comune». Insomma, la municipalità si è
legata mani e piedi ad un derivato che aveva dei "costi
occulti" notevoli e, ancora oggi, l'eventuale uscita
dall'accordo sarebbe onerosa per la municipalità.
Tra incompetenza e contabilità
In tale situazione la domanda sorge spontanea: per quale
motivo l'amministrazione di una piccola comunità si infila
in un simile tunnel? «La risposta non è univoca - dice
Amatucci -. C'è la voglia di incassare subito del denaro,
con la speranza di posticiparne la restituzione nel tempo».
Cosa che, però, spesso non accade, con i problemi che tutti
conosciamo. «Inoltre, esiste un importante aspetto di natura
contabile: l'up front, l'anticipazione di denaro, viene
considerata un'entrata corrente quando, di fatto, fa parte
di un debito che dovrà essere restituito». Ebbene, proprio
grazie a questo "artificio" contabile si aggira il vincolo
del limite di bilancio. Attualmente il patto di stabilià
interno delle pubbliche amministrazioni prevede che: il
rapporto rate di debit0/ entrate correnti sia inferiore al
15 per cento.
«Considerando l'up front non come debito che dovrà essere
restituito, bensì un'entrata - sottolinea Amatucci -, il
denominatore di questa frazione addirittura aumenta, facendo
sembrare migliore la situazione contabile dell'ente
comunale». Un vero paradosso, per non dire peggio. «Tanto
che - precisa l'economista - nel 2007 il limite era stato
portato all'1% e, di recente, diverse magistrature contabili
regionali hanno statuito il divieto dell'utilizzo della
clausola dell'up front».
Basterà a risolvere la situazione? Difficile dire. Da una
parte l'incompetenza, la "golosità" di amministratori che
vogliono liquidità per creare consenso è dura a morire.
Dall'altra, l'interesse delle banche a sfruttare l'occasione
per portare a casa plusvalenze è molto forte. A ben vedere i
derivati non sono il male in sé: secondo dati recenti,
l'esposizione degli enti pubblici in Italia sui derivati
verso le banche è oltre 35 miliardi e molti di questi sono
utilizzati a fini di copertura, cioè in maniera
assolutamente utile. Tuttavia, come si è visto, non sempre
l'hedging è al centro dei pensiero delle due contro parti e,
giocoforza, va trovato un limite al loro utilizzo. Anche
perché bisogna evitare che gli istituti finanziari, facendo
firmare «manleve in cui si indica che la controparte è un
operatore qualificato», possano sfuggire alle loro
responsabilità, ovviamente quando queste vengano dimostrate.
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Fonte -
Sole 24 ore
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Corporate
people
giovedì, 25 marzo 2010 - 15:06 -
di Sara Silano ______________________________________________
Per gli investitori,
“obbligazioni” è sempre meno sinonimo di titoli di Stato,
anche se questi ultimi sono ancora ben rappresentati nei
portafogli dei piccoli risparmiatori. Uno studio di
Morningstar, mostra che nel 2009 i flussi si sono diretti
soprattutto sui fondi specializzati in corporate bond.
I corporate fanno meno paura Il mercato del credito ha
registrato un forte rialzo l’anno scorso, che ha interessato
sia i prezzi dei titoli investment grade sia gli high yield
(ossia quelli di minor qualità). Dopo la grande paura del
2008, gli investitori sono tornati ad amare il rischio.
Ancor più rilevante,
la crisi della Grecia ha segnato il sorpasso del “rischio
Paese” su quello corporate in Europa. In sostanza, l’indice
iTraxx dei credit default swap sulle obbligazioni societarie
(che indica la probabilità di fallimento) è più basso dell’iTraxx
sul debito governativo. Questo significa che i
titoli di Stato sono un porto un po’ meno sicuro di un tempo
e che l’aumento del rischio sovrano non implica più in modo
automatico come in passato una maggior volatilità del
segmento corporate.
Secondo lo studio,
presentato da Morningstar nel corso di una conferenza
organizzata in collaborazione con Threadneedle, nel 2009
sono entrati nei fondi obbligazionari corporate europei
distribuiti in Italia circa 12 miliardi di euro, concentrati
prevalentemente nel secondo e terzo trimestre, ossia quello
in cui questi prodotti hanno registrato le performance più
elevate. Il rendimento realizzato dagli
investitori (il cosiddetto investor return , che tiene conto
dei flussi) è stato a due cifre (in media il 15,66%), ma
inferiore al total return che è stato del 16,64% (calcolato
ipotizzando che la sottoscrizione avvenga all’inizio
dell’anno e che la posizione non muti fino alla fine).
Qualcuno è arrivato tardi I dati indicano che chi ha
comprato quando il rally era già cominciato ha ottenuto un
rendimento più basso, una riconferma del fatto che inseguire
le mode non paga. S’impongono quindi due ordini di
considerazioni per chi intende entrare ora sul mercato dei
corporate. La prima è che la scelta non deve essere fatta
sulla base delle performance passate, anche perché il 2009 è
stato un anno eccezionale e difficilmente si ripeterà nel
2010. E’ meglio, dunque, definire un’asset allocation
coerente con i propri obiettivi e la propensione al rischio
e rimanervi fedele. Se poi si decide di sottoscrivere un
fondo corporate, più che i rendimenti è bene guardare alla
qualità della gestione e ai costi (questi ultimi sono molto
più predittivi delle performance passate).
Il mercato non è più lo stesso La seconda considerazione è
di mercato. La situazione economica globale è in graduale
miglioramento, ma i tassi di interesse rimarranno bassi
ancora per un po’ di tempo.
La maggior
resistenza mostrata dal credito corporate rispetto a quello
sovrano è un fenomeno relativamente nuovo ed è tutto da
provare. Secondo alcuni analisti, questa situazione non è
giustificata, perché i default degli Stati sviluppati sono
piuttosto rari (per evitarlo possono aumentare le tasse o
tagliare la spesa). Di conseguenza, l’aumento del rischio
sovrano potrebbe influenzare l’appetito per il rischio e
quindi la domanda di obbligazioni societarie.
E’ anche vero però che il contesto attuale è molto diverso
da quello del settembre 2008, quando fallì Lehman Brothers e
i governi dovettero iniettare liquidità nel sistema, in
quanto i timori oggi riguardano la solvibilità di nazioni
periferiche (come Grecia, Spagna e Portogallo) e in una
certa misura anche di quelle core , come il Regno Unito.
Fonte
-
Morningstar
Dubai World evita il default
L'emirato converte i crediti
26 Marzo 2010 08:36 DUBAI -
di Angelo Mincuzzi ______________________________________________
DUBAI - Il salvataggio è davvero
oneroso per le casse di Dubai ma alla fine, dopo settimane
di trattative serrate con le banche creditrici, la mina che
quattro mesi fa aveva fatto tremare la Las Vegas del Golfo
persico è stata disinnescata. Quarantotto ore prima
dell'inizio della Dubai World Cup, la più esclusiva corsa di
cavalli del mondo e vanto dell'emiro Al Maktoum – che si
correrà quest'anno su un tracciato costato più di due
miliardi di dollari – Dubai World ha raggiunto un accordo
con i creditori che la salverà dal default. La holding, sommersa da 23,5
miliardi di dollari di debiti, ripagherà interamente in otto
anni le banche che le hanno prestato soldi, mentre il governo
dell'emirato pomperà nelle dissanguate casse della società nuovi
fondi per 9,5 miliardi di dollari. «È la soluzione migliore che
si potesse trovare», è il commento di un operatore finanziario
europeo a Dubai. E i mercati sono d'accordo: ieri la borsa
dell'emirato ha festeggiato la notizia con un rialzo del 4,3% e
il prezzo dei credit default swaps, che assicurano contro il
rischio di fallimento dell'emirato, sono scesi di 50 punti base.
Dubai tira un sospiro di sollievo. Finalmente.
Certo, il piano di ristrutturazione presentato da Dubai World
dovrà essere accettato dalle banche creditrici, ma si tratta
ormai solo di un atto solo perché i suoi contenuti sono stati
discussi ampiamente all'inizio della settimana in una riunione
fiume a Dubai e sarebbero stati accolti favorevolmente. Secondo i dettagli diffusi ieri,
il governo di Dubai convertirà in azioni i suoi crediti verso
Dubai World (8,9 miliardi, il 38% del totale), aumentando il suo
peso nell'azionariato. Gli altri creditori, che vantano un
credito complessivo di 14,2 miliardi, saranno rimborsati al 100%
in due tranche, a cinque e a otto anni. Attraverso il Dubai
Financial Support Fund (istituito lo scorso anno per far fronte
alla crisi finanziaria), il governo di Dubai assicurerà alla
holding nuove risorse per 1,5 miliardi di dollari. Al piano di ristrutturazione di
Dubai World si affiancherà quello per il salvataggio della
controllata Nakheel, la società che ha realizzato Palm Jumeirah,
l'isola a forma di palma, e che è stata costretta a interrompere
o a frenare alcuni importanti progetti. Anche in questo caso i
creditori saranno rimborsati al 100%. Il governo ricapitalizzerà
Nakheel con otto miliardi di dollari e convertirà in azioni la
sua quota di crediti nella società, pari a 1,2 miliardi di
dollari. L'iniezione di denaro fresco consentirà a Nakheel di
ripagare i creditori e di portare avanti le maxiopere già
avviate ma attualmente bloccate per mancanza di soldi.
Dei 9,5 miliardi di dollari di nuove risorse (gli otto destinati
a Nakheel e gli 1,5 per Dubai World), la quota maggiore (5,7
miliardi) sarà prelevata dalla linea di credito garantita nei
mesi scorsi dall'emirato di Abu Dhabi, mentre 3,8 miliardi
saranno attinti direttamente dalle casse del governo di Dubai.
Archiviato l'accordo, domani l'emiro Al Maktoum sarà in prima
fila al concerto di inaugurazione della Dubai World Cup. Sul
palco Elton John e Carlos Santana, in pista i cavalli, in
tribuna star e milionari. Tutto come sempre a Dubai. Il momento
difficile è ormai alle spalle.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
Il debito
delle aziende
spaventa gli Usa
lunedì, 29 marzo 2010 - 7:28 -
di
Marco Caprotti ______________________________________________
“Apocalisse”,
“disastro”, “valanga”. Non lesinano sui vocaboli
catastrofisti le società di rating sul debito quando danno
il quadro del mercato obbligazionario corporate degli Stati
Uniti. A preoccupare gli analisti dei bond è l'ammontare
della carta che nei prossimi cinque anni arriverà a scadenza
e che quelli di Moody's hanno quantificato in 1.400 miliardi
di dollari. Nello scenario peggiore dipinto dall'agenzia
americana di merito del credito, la maggior parte delle
aziende emittenti non sarà in grado di restituire il dovuto
agli obbligazionisti, imboccando in questo modo la strada
della bancarotta.
Concordano sulla somma, ma sono meno pessimisti, i loro
colleghi di Fitch secondo cui gli emittenti più vulnerabili
potranno contare sull'aiuto delle banche (che preferiscono
allungare i termini di scadenza piuttosto che affrontare un
default del debitore) e su un risveglio degli investitori in
obbligazioni. Spulciando i report delle due agenzie, si nota
che circa 600 miliardi di dollari corrispondono
all'ammontare di emissioni da parte di grandi società senza
particolari problemi di bilancio e che, quindi, non
dovrebbero avere difficoltà a rifinanziare il debito o a
ripagare i propri bondholder .
Il ritorno dei CLO
Il problema vero, quindi, è per i circa 800 miliardi di
dollari che mancano. Una parte di questi, (circa 425
miliardi) potrebbero essere rifinanziati attraverso uno
strumento chiamato Collateralized Loan Obligation (CLO): in
pratica si tratta di chiudere all'interno di diversi
“pacchetti” una serie di debiti di piccole e grandi società
per poi rivenderli ad investitori interessati. Si tratta
comunque di strumenti decisamente speculativi, destinati a
istituzioni finanziarie e che, per inciso, hanno contribuito
non poco a gonfiare la bolla che ha portato alla crisi degli
ultimi tre anni. “Ma siccome i prestiti fanno
guadagnare o perdere i creditori in base alle fluttuazioni
dei tassi di interesse, un aumento del costo del denaro
darebbe nuova linfa ai CLO. “Quando la Federal Reserve
ricomincerà ad alzare i tassi dai minimi storici, le banche
potrebbero essere spinte a utilizzare sempre più spesso
questo strumento”, spiega lo studio di Fitch. “Al di là
delle considerazioni morali sull'uso di questi asset di
investimento dopo quello che è successo dal 2007, bisogna
comunque riconoscere che potrebbero essere l'unica strada
per salvare molte società e i loro investitori dal
disastro”.
Un accordo fra le
parti Un'altra via, secondo l'agenzia di analisi di Thomson
Reuters (TR), potrebbe essere un accordo fra creditore ed
emittente. In questo modo si potrebbero salvare bond per
circa 135 miliardi di dollari. Con questo sistema,
conosciuto come amend and extend (modifica ed estendi), nel
2009 in base ai calcoli di TR sono state salvate emissioni
corporate per 60,6 miliardi. Resterebbero in pericolo circa
240 miliardi di dollari di bond. Una cifra decisamente
ridimensionata rispetto ai 1.400 miliardi iniziali,
considerando anche che non tutte le società che li hanno
emessi andranno necessariamente in default .
La questione, in ogni caso, è destinata a ripresentarsi a
intervalli regolari. La Corporate America , infatti, sta
facendo ancora un massiccio uso delle obbligazioni per
finanziarsi e rifinanziare il debito. Secondo i dati di TR,
in meno di tre mesi dall'inizio dell'anno, negli Stati Uniti
si sono registrate emissioni corporate per quasi 40 miliardi
di dollari.
Fonte
-
Morningstar
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