Le verità nascoste
sulla separazione Telecom-Tim
12
Settembre 2006 Roma - di Oscar Giannino
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*Oscar Giannino è il Vicedirettore di Finanza&Mercati
Caro direttore, Marco Tronchetti Provera ce
l'ha messa nel sacco, ieri. Per l'ennesima volta, a dire la verità, visto che è
la terza volta in cinque anni che cambia radicalmente le carte in tavola nella
"sua" Telecom.
Tutta l'estate passata per l'ennesima volta coi media a scannarsi sulla Mediaset
di Berlusconi, per decidere se espropriarla di una rete modificando la legge
Gasparri, oppure se rendere il Cavaliere stesso incandidabile alle elezioni,
modificando la legge Frattini sul conflitto d'interesse. Ma non una sola parola,
su quanto bolliva nella pentola Telecom.
Tronchetti ha dato in esca ai media per mesi e mesi l'indiscrezione del suo
incontro con il magnate australiano Rupert Murdoch, per far scatenare
l'immaginazione su ulteriori sviluppi ancor più del suo megagruppo di tlc.
Senza che nessuno osasse scrivere che in realtà Tronchetti lavorava alacremente
allo smantellamento di quello che resterà negli annali come un colossale errore
industriale e finanziario.
Riuscire a ottenere il silenzio pressoché assoluto è da maestri, quando si guida
un gruppo che controlla la dorsale delle tlc strategica per il Paese e come tale
considerata asset sensibile anche dalla Nato, quando si realizzano profitti per
quasi 4 miliardi di euro l'anno, quando si controlla il 40% delle telefonia
cellulare italiana. E soprattutto quando si è inquinato per anni la vita
pubblica italiana con migliaia di intercettazioni illecite, su cui la Procura di
Milano ha indagato per annimaha finora fatto cadere il silenzio.
Complimenti a Tronchetti, dunque. Dice
assai poco anche lo scarno comunicato diramato ieri sera dopo il cda di Telecom.
L'organo ha approvato all'unanimità l'opportunità di valorizzare al meglio la
rete fissa e quella mobile della società, e dunque si procederà al loro
scorporo. È evidente che nessuna persona seria al mondo dovrebbe evitare
di presentare un'operazione simile se non come l'estrema risorsa per far fronte
a un fallimento di strategia. Duplice: finanziario e industriale.
Finanziario, per il semplice fatto che il prezzo pagato da Marco Tronchetti
Provera cinque anni fa ai bresciani di Hopa per assicurarsi il controllo
dell'azienda - oltre 4 euro per titolo - si è rivelato totalmente lunare.
Complice l'esplosione della bolla Internet pochi mesi dopo, resta il fatto che
l'errore c'è tutto ed è rimasto irrimediabile nel tempo.
Un errore industriale pagato molto caro
Il secondo errore è quello industriale: visto che meno di due anni fa, per far
fronte al debito divenuto col tempo sempre più pressante, gli stessi azionisti
di controllo di oggi si presentarono davanti a tutti gli altri azionisti
sostenendo la bontà redentrice della sinergia tra telefonia fissa e mobile,
unendo ciò che era diviso.
In realtà, fecero così solo per portare
meglio in alto alla lunghissima catena di controllo, incorporando Tim in Telecom,
il ricco cash flow che era la società dei telefonini soprattutto a generare. Era
una mera emergenza finanziaria a ispirare la mossa, altroché sinergia
industriale. E oggi, solo pochi mesi dopo, gli stessi controllanti e
manager sostengono l'esatto opposto. Scusate tanto ma ci siamo sbagliati, fisso
emobile sono due mondi separati, il futuro sta tutto nel fisso su cui passa la
banda larga e i servizi-dati per le imprese, oltre all'offerta di Tv con
protocollo Internet.
Dunque si separa ciò che era stato
unito: dopo aver speso ben 14 miliardi di euro per acquistare le azioni Tim sul
mercato, per evitare che la quota di Telecom non fosse adeguata a procedere poi
all'incorporazione. Da allora, il titolo Telecom è sceso da 3 a 2 euro, e la
cosa si giudica da sé. L'ironia della sorte vuole che lo scorporo di fisso e
mobile fosse stata già una delle proposte avanzate da Colaninno, per
fronteggiare al meglio il problema del debito successivo all'acquisizione: ma
allora i giornali e la comunità finanziaria si mobilitarono ferocemente contro,
Colannino venne sopravanzato dalle critiche e la proposta fu ritirata.
Che singolare contrasto, col totale e compiacente silenzio che Tronchetti
Provera ha saputo costruire intorno alle proprie giravolte aziendali,
militarizzando all'interno il proprio gruppo e ottenendo dai media italiani solo
applausi e consensi grazie a una straordinaria abilità nel dosare massiccio
advertising e brutali messe al bando, per chi ogni tanto ha osato criticare. Ma,
ancora una volta, anche oggi è la pura emergenza finanziaria, a dettare la
scelta. Ma qui ancora il mercato non sa bene tutto ciò che c'è da sapere.
Perché i casi, a stringere, sono due. Pirelli e la catena di controllo
sovrastante, governata con una spaventosa leva finanziaria dalla Sapa
Tronchetti, si erano apparentemente messi in condizione di poter onorare anche
le prossime uscite da Olimpia delle banche, dopo Hopa, e persino le conversioni
di debito previste per Telecom l'anno prossimo.
Dunque, la prima ipotesi è che il debito
Telecom fosse in realtà assai superiore, ai poco meno di 40 miliardi di euro
dichiarati. Non ci sarebbe da stupirsi troppo: in tempi di tassi d'interesse che
crescono, quando si ha un debito simile in pancia ci si copre a tutti i livelli
possibili con derivati, e magari su qualcuno di questi ci si trova scoperti.
Magari per altri miliardi, che nei libri contabili non risultano. Fino a non
poter più guardare per il sottile, se si è sbagliato il conto su tassi
d'interesse: tanto vale dichiarare lo stop liability, come si chiama in gergo la
zattera di salvataggio da debiti insostenibili pur in presenza di forti utili
come avviene in Telecom.
E dunque, cedere la telefonia mobile
agli stranieri - Telefonica la vedo in forse, tra un valore della società sui 15
miliardi e debiti per una ventina in più sarebbe un bell'esborso, meglio invece
i fondi esteri di private equity, con in testa quel fondo Carlyle guidato da
Marco De Benedetti che la Tim l'ha guidata per anni e domani potrebbe, chissà,
rivenderla al padre.
Poi aprire la rete fissa all'ottemperanza delle condizioni di uso universale per
tutti i concorrenti che da mesi l'Agcom chiededi adottare, sul modello di quanto
è stato fatto per British Telecom in Gran Bretagna. E infine rinchiudersi in
un'altisonante terza scatola residua, la famosa "media company" che
convoglierebbe i servizi commerciali di Telecom svolti su rete fissa per aprirsi
alla mitica "convergenza" di tv, pc, film e dati che da ieri è la nuova parola
d'ordine dei tronchettiani.
In effetti, ieri è stato annunciato l'accordo per cui la Fox dell'australiano
Murdoch cede ad Alice - il portale di servizi Adsl di Telecom Italia -
l'utilizzo della sua library cinematografica. Ma quando non si hanno contenuti
in proprio, la media company si riduce a poca cosa, poco più che la capacità di
offrire l'infrastruttura di trasporto e l'intermediazione col cliente. Per avere
un'idea basti il seguente particolare: a oggi il portale Alice, quanto di più
simile alla "media company" c'è nell'intera pancia di Telecom Italia, vanta
ricavi per una dozzina di milioni di euro l'anno: milioni di euro, non miliardi,
avete letto bene.
La media company aperta a nuovi soci
Ora, a parte il fatto degli immensi
problemi posti da chi comprerebbe la rete mobile - non ne resterebbe una sola
sola in Italia su quattro, alla faccia dei grandi capitalisti italiani pronti a
presentarsi come modelli di successo rispetto alla politica ingolfata - la
ritirata di Tronchetti sarebbe una sconfitta epocale di per sé, di quelle da non
potersi più presentare davanti a Financial Times e Wall Street Journal con
l'idea di essere il Gianni Agnelli della nuova Italia.
Ma c'è un altro caso. Quello in cui Tronchetti resti sì solo nella media company
tanto per non smobilitare del tutto. Ma in realtà, azzerato o quasi il debito
concentrandolo nella Tim cedenda, apra decisamente a terzi - bisogna sperare
privati - anche il capitale della rete fissa, e con ciò Tronchetti sciolga
pressoché definitivamente il vincolo che teneva Pirelli ancorata al pachiderma
telefonico dai piedi d'argilla.
Al momento, fossimo soci di Telecom a cui venisse sottoposta in assemblea
l'ennesima giravolta, ci verrebbe solo voglia di dire che chi ha già detto due
volte in cinque anni cose tanto diverse e di tanto si è sbagliato, di
credibilità ne ha pochissima se non zero. E compreremmo azioni della Fastweb
guidata da Stefano Parisi, ché loro almeno la media company con offerte
convergenti su rete fissa l'hanno già realizzata da anni, investendo su una rete
a tecnologia decisamente più avanzata di quella Telecom.
E
TRONCHETTI GETTA LA SPUGNA
Il presidente di Telecom, Marco
Tronchetti Provera, si e' dimesso. Al suo posto arriva Guido Rossi,
attuale commissario straordinario della Federcalcio, una sorta di
"commissario" anche in questo caso, per poter traghettare il colosso
delle TLC verso nuovi assetti. Lo si e' appreso da fonti finanziare
mentre era in corso il cda del gruppo. Fonte - ANSA
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Prodi
voleva la superholding delle reti
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Settembre 2006 Milano - di Francesco Nati
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Una
superholding controllata dalla Cassa depositi e prestiti e affidata alla guida
di Franco Bernabè, in cui far confluire le grandi reti infrastrutturali del
Paese, Telecom compresa. Questa la vera posta in palio nel braccio di ferro tra
il governo e Marco Tronchetti Provera.
Ed è proprio sull’ipotesi di rinazionalizzare gli asset strategici del Paese,
con la conseguente uscita di scena del manager dal business della telefonia
fissa, che si è consumato lo strappo. Il progetto immaginato da Palazzo Chigi e
affidato allo studio Vitale & Associati avrebbe dovuto portare alla nascita di
un colosso borsistico da almeno 20 miliardi di capitalizzazione (7 miliardi di
Snam rete gas, oltre 4 di Terna e circa 10 della rete Telecom, al netto del
debito).
Secondo quanto risulta a Finanza &
Mercati, il piano costitutivo della nuova società si trovava da tempo nel
cassetto del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. E il dossier
Telecom messo a punto dal consigliere politico-economico di Romano Prodi, Angelo
Rovati, che prevedeva lo «spin-off e quotazione successiva del gruppo con
partecipazione di controllo da parte della Cassa depositi», ne era evidentemente
un tassello fondamentale.
Non è un caso che il governo si sia
mosso proprio subito dopo il fallimento delle trattative tra Tronchetti e Rupert
Murdoch, che avrebbero permesso di creare un terzo polo alternativo a Rai e
Mediaset, ostacolando però il progetto della superholding. Una partita
che in qualche modo avrebbe inciso anche sull’operazione Auto-Abertis, alzando
la tensione nei rapporti tra il governo e la società di Ponzano Veneto.
Tra le ipotesi sul tappeto, infatti, vi era quella di far entrare in seno alla
Cdp anche la rete autostradale. Tensione salita alle stelle nella vicenda
Telecom, con il governo che ha mal digerito la marcia indietro di Tronchetti.
Per il manager, del resto, il piano del governo sarebbe stato uno schiaffo
troppo forte e avrebbe comportato sicuramente la sua uscita di scena. Un boccone
reso ancor più indigesto dalla scelta di Palazzo Chigi di affidare la regia
dell’intera operazione proprio a Franco Bernabè, l’ex ad di Telecom che si
oppose strenuamente all’Opa lanciata da Roberto Colaninno nel 1999, e ora in
pole position per prendere le redini della Cassa depositi e prestiti.
L’operazione «Reti italiane holding»,
peraltro anticipata sabato scorso da Borsa & Finanza, non sembra raccogliere
consensi in tutta la maggioranza («Non bisogna compromettere il futuro
industriale di Telecom con disarticolazioni, vendite e pubblicizzazioni», ha
detto ieri il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani), ma è
fortemente sponsorizzata da Prodi. Il progetto messo a punto dai tecnici
del governo per riunire sotto un unico cappello gli asset strategici del Paese
sarebbe articolato in tre tappe: la realizzazione di un’apposita holding nella
Cdp; il trasferimento in tale società delle reti Terna, Snam, Telecom e
Autostrade; l’accorpamento delle reti sotto il tetto di un’unica holding
controllata dalla Cdp; la quotazione della holding in Borsa.
A livello industriale, spiegano fonti vicine all’Economia, potrebbero essere
ricavate sinergie significative per quanto riguarda la manutenzione e la
gestione dei rapporti con gli enti locali, elemento quest’ultimo che spesso è
causa di ritardi rilevanti. Vista dal lato dell’investitore (vale a dire la Cdp),
una superholding avrebbe il vantaggio di mettere insieme diverse tipologie di
attività con un basso profilo di rischio e un rendimento stabile nel tempo. Un
biglietto da visita che certo non spiacerebbe alle Fondazioni bancarie,
principali azioniste della Cassa. E che potrebbe convogliare nel capitale
dell’ipotetica Superholding anche un nucleo di soci privati del calibro di
Generali, già presente nel capitale di Terna.
E trattavano
Ricucci
da pezzente
24 Settembre 2006 Milano -
di Vittorio Feltri
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I fessi disperati di Telecom si erano ridotti
a spiare anche noi di Libero, ai loro occhi colpevoli di aver sgamato ogni
lordura aziendale e di averla raccontata in un libro. Titolo dell'opera, Il
Grande Intrigo, in cui c'è tutto ma proprio tutto quanto ora viene fuori con
mesi di ritardo. Gran parte del volume edito dal nostro giornale è stato scritto
da Davide Giacalone (...). È un esperto della materia, tanto è vero che i
fetenti della telefonia telecomiana lo hanno intercettato come fosse un
criminale mentre i criminali semmai sono loro.
Questo per dirvi con che razza di gente a volte si deve trattare, uomini che se
la tirano da morire, un birignao che ti raccomando, barche di qua e supercar di
là, un sacco di presidenze, gnocche da infarto e poi, gratta gratta, saltan
fuori dei barbonacci abituati a ogni immondizia. Intercettano Davide Giacalone,
il quale provvede da sé a riferire cosa gli è toccato subire. A me spettano
alcune considerazioni.
Prima considerazione. L'avvocato Guido Rossi ha lasciato la Federazione gioco
calcio dove si era annoiato, perché allo scandalo del pallone sono sempre di
meno coloro che credono. O meglio. Il calcio è sozzo ma non più del resto, ad
esempio l'economia e la politica, per cui è inutile mettere giù tanto ciocco.
Rossi ha un naso lungo quarantadue centimetri e ha fiutato l'andazzo ed è
montato in groppa alla Telecom che aveva appena disarcionato Tronchetti Provera,
suo assistito. A una settimana di distanza, il famoso (anche per le parcelle)
legale ha preso le carte degli ultimi consigli di amministrazione e le ha
portate in Procura, a Milano, per pararsi le terga. Noi quelle carte non le
abbiamo visionate, tuttavia ci punge il sospetto che contengano elementi tali da
poter incastrare Prodi.
Se ben ricordate, Tronchetti in piena lite con il premier disse: parleranno i
documenti, e si vedrà chi fra me e Romano ha torto in questa storia. Una domanda
è ancora sospesa in aria: Rossi è amico di Prodi o di Tronchetti? Fu amico di
Prodi, col quale poi litigò. Se è per questo litigò anche con Tronchetti con cui
però, grazie a un comune conoscente, si è rappacificato. Quindi? A nostro
avviso, Guido baderà anzitutto a salvare la propria faccia. In seconda istanza
cercherà di fare l'interesse del cliente pagante Tronchetti e quello del cliente
pagante Benetton; Prodi, che non paga, nel suo cuore è all'ultimo posto.
Seconda considerazione. Telecom sta peggio di quanto si pensasse. E di quanto
pensasse il neopresidente. I debiti della azienda sono asfissianti. L'imperativo
è vendere. Ma a chi? Il piano che prevedeva l'intervento della Cassa depositi e
prestiti è saltato. Chi, dicevamo, può comprare l'impresa o un pezzo di essa?
Berlusconi oppure De Benedetti. Ne hanno voglia? De Benedetti è uno bravissimo a
comprare gratis. Ma ammesso gli regalino il baraccone, chi salda i debiti di cui
si è appesantito? Diocarlo non sborsa. Silvio Berlusconi se c'è da sborsare due
soldi non si tira indietro, ma solo due. L'idea di abbandonare la politica per
gestire i cellulari gli provoca l'orticaria? Attenzione: non dimentichiamo che
il Cavaliere ne ha piena l'anima di Casini e Fini e Bossi: se oltre a Telecom
(quasi gratis) gli garantissero una sorta di impunità per le grane giudiziarie
potrebbe abbandonareil Palazzo rendendo inutile una nuova legge (più severa) sul
conflitto di interessi.
Un addio di Silvio alla politica aprirebbe una crisi mostruosa nel centrodestra,
già fiaccato dai capricci di Casini e dalla malavoglia di Fini per non dire
delle assenza patologiche di Bossi. Che ne sarebbe della Cdl? Impossibile
rispondere. C'è da sottolineare che l'elettorato non perdonerebbe a Berlusconi
una fuga finalizzata a questioni di palanche. Consiglio al Cavaliere: rifletti a
lungo prima di ritirarti; dopo di te, al momento, c'è il deserto.
Terza considerazione. Rammentate Parmalat? Mentre divampava lo scandalo, negli
ambienti finanziari si mormorava: il prossimo che finisce nella melma è
Tronchetti Provera. Davvero? Sembrava impossibile che un figo come Marco, pieno
di boria e - si presumeva - di denaro fosse candidato al traumatologico.
Personalmente pensavo: non può essere in bolletta uno che fa il vicepresiden te
dell'Inter, cioè la società più spendacciona dell'orbe terracqueo. E invece,
guarda un po', quelli che spendono e spandono e vanno a Portofino a esibire il
battello talvolta sono alla vigilia del trapasso. Mi domando, ma se tutti erano
al corrente che il Fusto di Afef (che bella assonanza) era moribondo, come mai
si è atteso fino adesso a far scoppiare il bubbone?
Quando Ricucci scalava il Corriere della Sera, gli azionisti del salotto buono
si scandalizzavano perché un palazzinaro romano osava suonare alla loro porta; e
tra gli scandalizzati chi c'era? Lui, proprio lui: Tronchetti Provera. Il quale
rilasciò un'intervista al Sole 24 Ore in cui faceva cadere le parole dall'alto e
criticava Stefano con disgusto, senza dargli del pezzente ma si intuiva che lo
pensava. Ecco la Nemesi. Ora a rischio pezze al culo c'è Marco, perché le banche
che lo hanno imbottito di prestiti prima di smenarci un euro lo strizzeranno
come bucato da stendere.
Quarta considerazione. Gad Lerner, sotto contratto a "La7", emittente di
Tronchetti, ha ripreso il programma L'Infedele, giunto alla quinta stagione di
sopravvivenza. Auguri. Nessuna novità rispetto al passato tranne un'assenza:
quella di Renato Farina, vicedirettore di Libero e consulente della
trasmissione. Lerner ha cacciato il vecchio amico e collaboratore perché questi
è stato non coinvolto, ma "travolto" dallo scandalo Sismi. Ullallà! Il bravo
conduttore ha confezionato uno spot per informare che Farina non è più della
partita; Betulla è stato infedele all'Infedele. Pace amen, almeno d'ora in poi
sarà solo farina del sacco di Lerner. Vi rendete conto a che punto siamo
arrivati? Gad, che sputa in faccia a Farina perché ha dato una mano ai servizi
di sicurezza, come si comporterà col suo padrone Tronchetti Provera, presidente
di una società che aveva fatto dello spionaggio l'unica attività non in passivo?
Per coerenza, dovrebbe dimettersi, ma non lo farà. Senza la farina di Farina si
può forse resistere, ma senza il grano (residuale) di Tronchetti non si va in
onda. E neanche a spasso in Africa.
24 Settembre 2006 Milano -
di Gianluigi Nuzzi e Gian Marco
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Il
superteste dell'affaire Telecom ci dà appuntamento nella hall di un grande
albergo di Bucarest. Marco Bernardini, cinquant'anni circa, un passato come
agente operativo per il Sisde, detective consulente del gruppo Pirelli per il
quale cura la sicurezza nell'area danubiana, è scampato all'arresto in extremis.
Il suo nome è in cima all'elenco dell'ordinanza di custodia cautelare che ha
mandato in galera venti persone, tra cui il manager Giuliano Tavaroli e
l'investigatore privato Emanuele Cipriani. Ci fa una premessa e una promessa:
«Non parlo di cose coperte dal segreto istruttorio, ma vi do le giuste chiavi di
lettura di una storia che non è quella che leggo sui giornali».
Signor Bernardini, si considera un pentito? «Non sono pentito perché ritengo che
quando un magistrato che rappresenta lo Stato pone delle domande, è giusto
rispondere. E peraltro nessuno si è accorto, o fa finta di non accorgersene, che
gli ordini di custodia cautelare erano pronti già dalla metà di luglio mentre io
sono stato ascoltato solo ai primi d'agosto, ovvero a cose fatte».
Ma lei, «confessando», ha evitato il
carcere e ha rivelato cose che hanno messo nei guai alcuni suoi coindagati...
«Intanto io non ho confessato nulla. Mi sono stati contestati fatti a cui io ho
risposto: a un Pm si può non rispondere, mentire o dire la verità. Io ho scelto
quest'ultima strada. Leggo sui giornali che le mie dichiarazioni occupano nove
pagine, ma leggo anche che ci sono dichiarazioni “confessorie” che hanno
riempito oltre 39 pagine, quindi non credo di essere io il pentito di cui si
parla né il supertestimone. Un pentito ha dei benefici, io non ne ho avuti».
Evitare la galera è un bel beneficio... «Se non mi hanno arrestato è perché
evidentemente non ce n'era più motivo. E comunque io ho perso il lavoro. E da
ieri sono anche preoccupato».
Sta dicendo che teme per la sua vita? «Anche. Ma intendevo dire che sono
pre-occupato, cioè avevo degli incarichi di consulenza con alcuni gruppi
industriali che giusto ieri mi sono stati revocati. Non disoccupato, non
inoccupato, ma pre-occupato».
Ha detto però che teme per la sua
vita... «Essendo indicato come il responsabile dell'arresto di 20 persone posso
anche pensare che qualcuno si voglia vendicare mettendomi una palla in testa o
che, pensando che io sia depositario di chissà quali segreti, pensi a togliermi
di torno».
Questa storia di Telecom ha già un morto eccellente… «Sì, il mio amico Adamo
Bove. Persona stimata, professionista serio. Per quello che ho saputo era molto
preoccupato che qualcuno potesse fare molto del male a lui e alla sua famiglia»
Qualcuno chi? «Qualcuno che probabilmente ha cercato di screditarlo anche
professionalmente. E non intendo i giornalisti che lo hanno esposto alla gogna
mediatica ma qualcuno a lui molto vicino».
Lei ha fatto il nome al magistrato? «Su questo punto non rispondo perché c'è il
segreto istruttorio».
Se la dovessero chiamare i magistrati di Napoli che indagano sulla morte del
manager di Tim, lei sarebbe disposto? «Ripeto: se un magistrato chiede non vedo
perché non rispondere».
Lei crede al suicidio dal cavalcavia
della Tangenziale di Napoli? «Io posso solamente dire che non prendeva l'aereo
perché soffriva di vertigini».
Per restare a Bove, però, ci sono le dichiarazioni accusatorie della sua
segretaria che parla di ordini inusuali che le venivano dati per fare ricerche
sui tabulati attraverso il sistema «Radar». «Rimango profondamente perplesso.
Adamo non faceva assolutamente queste cose. Io lo frequentavo spesso per
discutere dei lavori di natura particolarmente delicata e non illecita che mi
affidava riguardante la tutela dell'azienda da rischi di varia natura. Quasi
tutti i dirigenti della Security di Telecom mi davano incarichi dello stesso
tema».
I suoi rapporti con Tavaroli e Cipriani. «Con il fiorentino (Cipriani, ndr) ho
lavorato per un periodo di tempo, poi come tutti gli addetti ai lavori sanno,
essendo persona che paga poco, molto in ritardo, che rincara del duecento per
cento lavori fatti da altri, ho preferito interrompere ogni rapporto. Quanto a
Giuliano (Tavaroli, ndr) è un caro amico, professionalmente è il migliore che ci
sia, gli devo molto e mi è stato vicino in momenti difficili come io gli sono
stato vicino fino a pochi giorni fa...»
Bell'amico se lei ha contribuito a
mandarlo in galera. «Guardi, quello che io ho detto è a verbale e non ne posso
parlare. Il tempo è galantuomo, chi ha facoltà di leggere gli interrogatori sa
che io non ho contribuito a mandarlo in galera, anzi. A condannare il mio amico
ci hanno pensato altri, anche interni a Telecom. Giuliano dava fastidio
perché è un professionista serio, non è quel mostro che viene dipinto. Non
avrebbe mai accettato di farsi corrompere né avrebbe mai permesso che qualcuno
danneggiasse il gruppo e Marco Tronchetti Provera».
Chi ha provato a corromperlo? «Forse qualcuno, mandato da qualcun altro, provava
a ottenere appalti o favori in maniera proprio non lineare ricorrendo anche alle
minacce...».
Torniamo a Tronchetti Provera. In molti - secondo le vostre indagini - hanno
provato a danneggiare il suo gruppo? «Sì, e il fatto che nonostante le
dimissioni del Presidente si siano continuati ad accanire sull'azienda vuol dire
che probabilmente Giuliano era solo uno strumento per colpire più in alto. Non
mi riferisco ai magistrati bensì a certe campagne stampa...».
Il riferimento va alle accuse di
Tronchetti a Repubblica dopo il suicidio di Bove? Per questo lei ha indagato su
De Benedetti? «Vorrei far presente una cosa: tutti gli imprenditori se hanno il
dubbio che qualcuno si comporta in maniera scorretta cercano di prendere
informazioni. Non capisco perché se lo fa una multinazionale, la cosa deve
suscitare scalpore. Avete scritto che noi schedavamo i dipendenti,
nemmeno fossimo la Gestapo o il Kgb. Una follia. Vi faccio un esempio: c'era un
dipendente che lavorava come autista del gruppo e con la macchina aziendale, una
volta lasciato un alto dirigente, effettuava acquisti e vendite di modeste
quantità di droga. Il compito della Security è tutelare anche l'immagine del
gruppo oltreché l'integrità fisica dei propri dipendenti. Nessuno si scandalizza
se le banche chiedono informazioni per farti aprire un conto, se le famiglie
chiedono referenze sulle colf. Se Telecom si tutela diventa un reato. Assurdo».
Ma lei non ha risposto su De
Benedetti... «È scritto nell'ordinanza che ho fatto delle indagini, lo confermo.
Se mi hanno dato incarico di farle evidentemente c'erano motivi validi».
Quali? «Non ne posso parlare perché sono cose molto serie, e gravi. Comunque le
ho riferite al magistrato».
Ha indagato su De Benedetti padre e
figlio? «Padre e figlio».
Ma quest'ultimo non lavorava in Telecom? «Appunto, lavorava. Le prime veline su
Telecom Serbia pubblicate su giornali non proprio amici dell'azienda, forse
arrivavano dal suo entourage...».
Ha spiato giornalisti? «Spiato è una parola grossa, diciamo che si cerca di
avere delle chiavi di lettura su come alcuni cronisti, divulgando informazioni
riservate sul gruppo, possono provocare un crollo in borsa a vantaggio di ditte
concorrenti».
Ma perché proprio lei, e non altri investigatori, ha indagato sui De Benedetti?
«Perché uno dei compiti specifici che avevo era quello di indagare su dipendenti
o dirigenti che abusavano del loro ruolo ai danni del socio o dell'azienda».
Ne ha trovati? «Ne ho trovati, certo. Molti altri sono ancora al loro posto
mentre Giuliano, che li aveva messi sotto audit, è dentro».
Politici spiati? «No comment».
Sportivi? «Non io».
Gente dello spettacolo? «Poca roba».
Ma che c'entrano attori e veline con
Telecom? «Io non so il motivo per cui veniva chiesto un accertamento, magari
queste persone speravano di poter essere appoggiate per lavorare su qualche
televisione o magari fare spot per l'azienda».
Ha svolto lei indagini su Della Valle, Tanzi, Geronzi, Carraro ecc? «Solo sul
duo Della Valle-Tanzi. E dirò di più. Ho dato un importante contributo per il
ritrovamento all'estero di parte del tesoro di Parmalat».
Lei passerà alla storia come il piromane
di Telecom per il falò alle porte di Milano dove vennero distrutti i dossier più
delicati. Come andò realmente? E cosa c'era in questi rapporti? «Io non c'ero al
falò ma se ho dato ordine ai miei uomini di bruciare tutto è perché ho avuto
ordine di farlo».
Da chi? «L'avete anche scritto sui giornali, da una stagista di Pirelli che
aveva fatto training dal ragioniere fiorentino».
E lei prende ordini da una stagista? «Io non prendevo ordini ma incarichi, e li
prendevo da chi aveva il potere di darli. Quanto al falò va fatta una
precisazione: da contratto nessun fornitore deve tenere copia dei lavori svolti
perché un'eventuale divulgazione comporta il pagamento di una penale. Noi
avevamo da parte i lavori fatti perché Telecom e Pirelli tardavano a saldare le
fatture, conseguentemente facemmo presente che se non ce le saldavano
significava che i lavori non erano di fatto mai stati realizzati e che quindi il
materiale poteva anche essere divulgato non avendo alcun obbligo con alcun
committente».
Sì ma voi distruggete tutto all'indomani della perquisizione a Tavaroli. «La
magistratura aveva già sequestrato negli uffici Telecom tutti i nostri lavori,
quindi non dovevo bruciare niente di compromettente. Volevo solo evitare di
pagare penali».
Rapporti con il Sismi? «Quando uno tutela una grande azienda all'estero spesso
li può avere. Il problema non è parlare con persone delle istituzioni o fare
brain storn con esperti di settore riguardo eventuali avvenimenti. Fino a prova
contraria credo che sia un reato frequentare latitanti, non appartenenti a forze
istituzionali».
Sa niente del sequestro Abu Omar? «Parliamo d'altro. Diciamo che mi avvalgo
della facoltà di non rispondere».
La sua Global Security a un certo punto prende il posto del gruppo Cipriani nel
lavoro con Telecom, e anche voi schizzate con il fatturato... «La Global non è
una mia ma del mio amico Giampa (Giampaolo Spinelli, ex Cia) che rappresentavo
qui in Italia. Dal momento che Cipriani non poteva più lavorare a seguito di
alcune inchieste, parte dei lavori ci vengono affidati. Telecom come Pirelli si
avvale di circa dieci-quindici agenzie. Noi rileviamo solo una parte degli
incarichi».
Ha parlato di Spinelli, amico di quel Bob Lady, capocentro a Milano, su cui
pende una richiesta d'arresto per il rapimento dell'imam di viale Jenner. «Anche
qui è un'altra gogna. Un conto è essere amici, un conto è frequentare qualcuno,
un altro è essere complici in eventuali illegalità. Se Marco Mancini del Sismi,
e dico se, c'entra col sequestro, non vuol dire che il suo amico Tavaroli è
complice nel sequestro. In Italia si fa spesso due più due, si fanno teoremi e
poi si vanno a cercare le prove che li vadano a suffragare».
Mai avuto rapporti diretti con Tronchetti? «No, mai. Per un periodo facevo da
supervisore alla scorta personale di MTP (Marco Tronchetti Provera, ndr)».
Nello scandalo Brasil Telecom, la società di investigazioni Kroll si disse che
indagava su Afef, la moglie di Tronchetti Provera. Vi siete occupati anche della
signora? «In quel periodo tutte le risorse investigative dell'azienda si
occupavano di questo, d'altronde erano anni che la Kroll cercava di colpire il
gruppo e Giuliano Tavaroli. L'ex capocentro di Milano del Sisde che si occupava
del settore minacce economiche diversificate, è stato anche direttore della
Kroll e so che aveva anche un risentimento personale contro Giuliano e che
mirava a prendere il suo posto ai vertici dell'azienda».
Nell'ordinanza si legge un passaggio del suo interrogatorio nel quale lei parla
di un «ricatto» a Telecom. «È stato riportato sui giornali e in forma distorta.
La storia è questa. Cipriani finisce nei guai, gli vengono congelati gran parte
dei soldi, così lui si rivolge a Telecom e Pirelli giocando sporco: chiede una
somma a fronte di quella che gli era stata “congelata” per non dare la chiave di
decriptazione dei Cd con i dossier da lui mantenuti alla magistratura.
Contestualmente giustifica tale richiesta dicendo che parte dei soldi li aveva
dati a Giuliano, cosa falsa. Scredita Giuliano dichiarando cosa non vera per
vendicarsi del non interesse sull'argomento da parte del suo ormai ex amico che
non aveva voluto appoggiare questa sua iniziativa».
Lei accusa il manager di Telecom, Ghioni, di aver svolto azioni piratesche con
accessi abusivi in sistemi informatici. Accuse gravi. «Su questo c'è un'indagine
in corso e non posso parlare».
È Fabio Ghioni il manager di cui Bove aveva paura? «Non mi risulta che i due
fossero amici. La stessa segretaria di Bove, che poi passa a lavorare con Ghioni,
non aveva un rapporto idilliaco col Adamo. Stando a quanto dichiara ai
magistrati riferisce cose che mi lasciano alquanto perplesso».
Ma voi come facevate a spiare e a intercettare mezza Italia? «Noi monitoravamo
da vicino le persone con il vecchio classico sistema di ocp (osservazione,
controllo, pedinamento, ndr) e raccogliendo informazioni. Noi non abbiamo mai
effettuato intercettazioni telefoniche o di alcun tipo. Noi, e non altri,
indagavamo su persone che si vendevano tabulati e traffici telefonici tramite
call center».
Un'ultima domanda. Perché è stato ascoltato da un magistrato della Direzione
distrettuale antimafia? «Non ne ho la minima idea».
24 Settembre 2006 Milano -
di Sara
Bennewitz
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Ma quanto valgono
oggi le parti di Telecom Italia? La domanda è d’attualità in tutte le case di
investimento europee (e non solo) impegnate, chi più chi meno, a preparare
dossier per eventuali M&A delle entità in via di scorporo (la Rete e Tim).
E dove bisogna pesare in giusta misura le variabili politiche, regolamentari e
(timore sempre più diffuso) anche giudiziarie dell’affaire Telecom. Il finale in
picchiata della scuderia Pirelli-Telecom, nell’ultimo scorcio della settimana, è
la conferma che il nervosismo rischia di far premio sui fondamentali del gruppo
tlc. O di quel che ne resta, perché la storia di questi anni è anche la cronaca
di vendite che lasciano l’amaro in bocca all’azionista del gruppo di tlc.
Ma esiste il rovescio della medaglia: la fortuna che ha accompagnato le tre
principali «costole» dell’impero, dismesse e rilanciate negli ultimi cinque
anni: Seat, Lottomatica e Immsi. Il gruppo degli elenchi telefonici è stato
venduto nel 2003, e da allora ha realizzato una plusvalenza di oltre il 150 per
cento. Immsi è passata sotto la guida di Roberto Colaninno nel 2002 e, dopo aver
cambiato pelle (ovvero oggetto sociale) e rimpolpato le partecipazioni (Piaggio,
soprattutto), ha triplicato la sua capitalizzazione passando da 150 a circa 600
milioni.
Stesso discorso per il 33,9% di Lottomatica, ceduto da Telecom a De Agostini per
circa 390 milioni, e che oggi vale cinque volte tanto. Certo, il dato statistico
può ingannare, se isolato dal contesto. Ma in un momento così incerto si deve,
in primis, prender atto che, a volte, separare le attività invece che
accentrarle è il modo migliore per estrarre valore. Secondo, che le cessioni di
Telecom Italia hanno favorito tre storie diverse, ma con un denominatore comune:
la fortuna di aver incrociato Telecom.
LOTTOMATICA. Tra il 2001 e il 2002 Tyche (veicolo al 100% di De Agostini) lanciò
un’Opa a 6,55 euro per azione (1,17 miliardi in tutto) a cui l’abbinata
Olivetti-Telecom aderì pro-quota (cedendo il 33, 9% e incassando 390 milioni).
Da allora il gruppo dei giochi ha staccato altri 9,67 euro di dividendi in
cinque anni, mentre lo scorso giugno ha lanciato un aumento di capitale da 1,4
miliardi per finanziarie l’acquisto del 100% di GTech, il colosso del gambling
Usa che gestisce due terzi delle lotterie Usa.
Partendo dai valori iniziali dell’Opa di cinque anni fa, e aggiungendo quelli
del diritto dell’ultima ricapitalizzazione, la performance di Lottomatica è
stata del 534 per cento. Il tutto passando attraverso un leverage buy out, che
ha portato la società a distribuire ricchi dividendi. Se si guarda al futuro, la
nuova entità, nata dalla fusione con Gtech, potrà contare su un fatturato
aggregato di circa 1,6 miliardi di euro (ai valori del bilancio 2005), un mol di
720 milioni e si farà carico di 2,7 miliardi di debiti. Tuttavia, grazie alla
forte generazione di cassa (330 milioni all’anno) il gruppo presieduto da
Lorenzo Pelliccioli dovrebbe essere in grado di ripagare il debito e mantenere
generosi dividendi proseguendo in una «politica della leva» che è stato uno dei
segreti del successo.
Dall’integrazione, infatti, si verranno a creare sinergie per 80-100 milioni,
(risparmi sui costi e 50-60 milioni di minori investimenti in conto capitale)
nei prossimi cinque anni. Già il prossimo anno il fatturato dovrebbe sfiorare
quota 2 miliardi, con un mol di 800 milioni e un utile netto di oltre 170. Dallo
split di Lottomatica, insomma, ha preso il via una vera multinazionale dei
giochi, con un giro d’affari al 63% fuori d’Italia, composto da due aziende che
si completano «in modo verticale», senza sovrapposizioni territoriali o di
business; un gruppo che ha i numeri per vincere tutte le prossime gare, tra cui
quella per le lotterie di Ankara. Alla luce dell’acquisizione Citigroup ha
alzato la raccomandazione sul titolo da hold a buy , portando il target da 29,7
a 37,3 euro. Ma anche altri broker sono positivi: per Caboto e Chevreaux le
azioni di GTech Lottomatica sono interessanti fino a 34 euro per azione, mentre
Centrosim individua un target price di 36 euro.
IMMSI. Che ci farà Roberto Colaninno con i quattrini (80 milioni) raccolti con
l’aumento di capitale annunciato in settimana? L’operazione, è la risposta,
serve a pagare quel 5% di Piaggio rilevato in Ipo grazie a un finanziamento
bancario che così verrà estinto. Colaninno, insomma, non cerca nuove avventure.
Ma è stato lui, infatti, il protagonista di una delle grandi storie di
ristrutturazione di questi anni, partita dal rilancio di Immsi, società che nel
novembre 2002, quendo venne ceduta da Telecom alla sua Omnia Partecipazioni,
aveva in pancia solo immobili. Il prezzo concordato allora fu di 68,3 milioni
per il 45% del capitale.
Ma negli ultimi tre anni la società ha cambiato pelle e oggetto sociale, ha
ceduto buona parte degli immobili, diversificando la sua attività principalmente
in Piaggio (di cui ha il 60%). Inoltre, ha lanciato due aumenti di capitale e si
appresta a realizzare, come si è visto, il terzo. Oltre la maggioranza del
gruppo di Pontedera, nella holding sono custoditi una serie di asset che vanno
dalla cantieristica all’immobiliare, tra cui il progetto che riguarda il
complesso Is Molas in Sardegna.
Vediamo nel dettaglio: i cantieri Rodriguez vengono valutati dagli analisti fino
a 60 milioni (0,21 euro per azione); le varie attività immobiliari circa un
centinaio di milioni (0,35 euro per azione); infine, la quota dello 0,4%,
detenuta in Capitalia, ha un valore di altri 70 milioni (0,24 euro per azione).
Il totale di questi asset (sottratti i debiti) ammonta a 230 milioni: 0,80 euro
per azione. La quota di Piaggio, invece, vale da sola altri 2,42 euro, per cui
il fair value del titolo dovrebbe essere di circa 3,22 euro.
Dall’Ipo dello scorso luglio ad oggi Piaggio è salita del 30%, l’Immsi è invece
rimasta al palo, in attesa dei termini dell’aumento, resi noti giovedì 22: tra
il 25 settembre e il 13 ottobre Immsi emetterà fino a un massimo di 57,2 milioni
di nuove azioni (in ragione di una nuova ogni 5 possedute) con un valore
nominale di 0,52 euro e sovrapprezzo unitario di 0,88 euro. Per cui, ogni azione
verrà emessa al prezzo complessivo di 1,40 euro. Colaninno si è già impegnato ad
aderire pro quota (54,9%) mentre gli azionisti avranno l’opzione di aderire o
vendere i diritti. Facciamo, quindi, due conti: al momento il Nav teorico di
Immsi è di 3,22 euro, una volta perferzionata la ricapitalizzazione, il fair
value dovrebbe diluirsi a 2,62 euro per azione. Pertanto, date le attuali
quotazione di Piaggio, la ricapitalizzazione di Immsi sembra interessante sia
rispetto ai valori attuali(circa 2,1 euro) sia rispetto a quelli previsti
dall’aumento (1,4 euro).
SEAT. L’8 agosto 2003 Luca Majocchi assumeva la guida della nuova Seat, società
nata da uno spin off tra le Pagine Gialle e TiMedia. Il prezzo pagato dai fondi
di private equity fu di 0,598 euro per azione (cui seguì un’Opa obbligatoria
allo stesso valore). Poi, nel maggio 2004, Seat distribuì un dividendo
straordinario di 0,43 euro, mentre quest’anno ha staccato una cedola di 0,005
euro. Chi, quindi, avesse tenuto il titolo in portafoglio negli ultimi tre anni,
avrebbe alla fine guadagnato il 162 per cento. Fino ad oggi, dunque, le
performance sono per lo più dovute all’effetto releverage. Ma dal 2007 Majocchi
potrebbe raccogliere i primi frutti di un lungo processo di ristrutturazione,
scandito anche dagli investimenti che hanno condizionato il conto economico: una
perdita nei primi 6 mesi di 69,3 milioni (dal rosso di 46,5 milioni), un mol di
155 milioni (in calo da 213,5 milioni) e ricavi per 573,6 milioni (+3,2%). Ma il
dividendo ci sarà comunque, grazie alla ripresa del mol nel secondo semestre
(tra i 610 e i 615 milioni la previsione per l’intero 2006).
Infine, in virtù del decreto Bersani, che sarà efficace dal gennaio 2007, verrà
inoltre meno il divieto ai professionisti iscritti agli ordini di farsi
pubblicità. Sulla base dei confronti internazionali, Majocchi stima che Seat
avrà un bacino di 300mila liberi professionisti: una cifra che da sola
corrisponde alla metà degli attuali inserzionisti degli elenchi telefonici
italiani (circa 600mila). Il titolo tratta a sconto rispetto alle concorrenti
europee. La scorsa primavera Telefonica ha venduto a Yell le directory di Tpi a
un prezzo superiore a 13,5 volte l’ev/Ebtda 2006, ovvero il 30% in più di quanto
tratta oggi Seat (10 volte l’Ev/Ebitda atteso a fine anno). Per questi motivi
gli analisti sono positivi sul titolo, con target che vanno da 0,40 euro (Ubs) a
0,43 (Credit Suisse).
Scandalo Telecom
e
schema Ferruzzi
26 Settembre 2006 Milano -
di Piero Ostellino
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Il ministro della Giustizia italiano dice di aver mandato
gli ispettori del ministero nella sede di Telecom per «fare pulizia morale». Il
buon Clemente Mastella – che è certamente un buon democratico e non ha commesso
alcun illecito – non sa, però, di aver fatto un’affermazione da «Stato etico»
che persegue il Bene con ogni mezzo, se necessario anche con la violenza.
Compito dello Stato di diritto non è di perseguire il Bene, né di porsi
questioni di natura morale – che attengono alla religione, alla sfera
individuale, alle ideologie, ma non hanno rilevanza giuridica – bensì solo di
applicare la legge.
Io, ad esempio, avrei mandato gli ispettori alla Procura di Milano per chiedere
perché l’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche di Telecom sia saltata
fuori solo adesso, dopo due anni e mezzo e, perciò, come sia possibile che la
Giustizia italiana - che è condannata a affidarsi ai servizi del monopolista
Telecom nella telefonia fissa, nonché gestore di una parte di quella mobile –
non si sia posta il problema dell’affidabilità del fornitore di un servizio
tanto delicato.
Pare, infatti, che alla Giustizia italiana si addica il detto «unire l’utile al
dilettevole». Dove l’«utile» (per il Paese) è la giusta persecuzione dei reati e
il «dilettevole» (per l’ordine giudiziario) è l’improprio utilizzo dell’azione
penale per influenzare gli equilibri politici, economici e sociali.
Preciso. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, questa non è una
difesa della dirigenza Telecom che risponderà a un Tribunale degli eventuali
reati che le fossero addebitati. Inoltre, poiché, nelle scienze sociali
(sociologia e scienza politica) la ripetitività dei comportamenti di un soggetto
crea un «modello», questa è solo l’interpretazione di un comportamento
ripetitivo della Giustizia del mio Paese. Ora, in qualsiasi altro Paese al mondo
le questioni penali che riguardano le singole persone che ne siano coinvolte
sono tenute distinte e separate dalle vicende che riguardino la vita delle
aziende sotto il profilo industriale e finanziario.
In Italia, grazie alla discrezionalità
con la quale l’ordine giudiziario interpreta l’obbligatorietà dell’azione
penale, diventano tutt’uno, influenzandosi a vicenda. Bisogna, infatti, essere
ciechi e sordi per non accorgersi che il «caso Telecom» ripropone il «modello»
degli ultimi vent’anni – lo smantellamento e il passaggio di mano di imperi
industriali per via giudiziaria – e che, per comodità esemplificativa, chiamerò
«schema Ferruzzi» (dalla sorte toccata all’azienda presieduta da Raul Gardini).
Nel «caso Telecom», lo schema-modello
sembra funzionare grosso modo così. Atto primo: la Procura di Milano apre
un’inchiesta sulle intercettazioni illegali di Telecom, ma si tiene i
risultati nel cassetto per oltre due anni e non si sa neppure se e quando li
tirerà fuori. Atto secondo: si apre una
vicenda industriale e finanziaria dell’azienda e scoppia un «caso» politico con
lo scontro fra il suo presidente e quello del Consiglio. Atto terzo: nel
bel mezzo del gran polverone industriale, finanziario e politico, la Procura
tira fuori dal cassetto lo «scandalo» delle intercettazioni e dei conti cifrati
all’estero dei principali dirigenti, e sui media c’è persino chi sollecita
moralisticamente (il solito vizio!) il presidente di Telecom a seguire l’esempio
di Gardini, suicidarsi.
Atto terzo (per ora, in un futuro
ipotizzabile): sotto l’enorme pressione giudiziaria, l’azienda i cui dirigenti
sotto inchiesta sono già usciti di scena o sono stati messi in condizione di
doverne uscire – è trasformata in uno «spezzatino» dagli esperti di turno
(sempre più o meno gli stessi) e i singoli pezzi passano di mano, disegnando
nuovi equilibri di potere nazionali nel mondo industriale, economico,
finanziario e, perché no, anche politico.
A questo punto ciascuno ha avuto il suo tornaconto. Che per una parte del mondo
economico consiste nell’aver proficuamente partecipato al «banchetto di Telecom»;
per quello politico, nell’aver consentito al presidente del Consiglio di andare
a rispondere in Parlamento di non aver mentito sullo scontro con Tronchetti
sulla questione del progetto per la rinazionalizzazione della parte ricca di
Telecom, la rete («vedete con che razza di gente avevo a che fare?»; come se ci
fosse un nesso causale fra ciò che si sono detti, o non detti, e l’inchiesta su
intercettazioni e conti in Svizzera); allo Stato (leggi i partiti e gli uomini
in lotta per il controllo del potere economico) di allungare le mani sull’intero
sistema di distribuzione di servizi indispensabili alla società civile, dalle
telecomunicazioni all’elettricità dal gas alle autostrade e creare le premesse
di un Grande Fratello che farà pagare agli italiani quello che vuole per
riscaldarsi e per usare l’automobile e detterà legge anche sul sistema
televisivo (leggi guai in vista per Berlusconi); infine, per le banche d’affari
e per alcuni professionisti del campo, nel fare un sacco di soldi.
Se lo schema-modello funzionerà fino in
fondo in questo modo, avrà avuto il suo tornaconto anche l’ordine giudiziario,
che si riconfermerà un potere autoreferenziale che interagisce con gli altri
poteri, politici, economici, finanziari, influenzandone e determinandone le
sorti non solo secondo le logiche della giustizia, ma anche di potere.
Ecco, dunque, perché io avrei mandato gli ispettori del ministro alla Procura di
Milano, invece che alla Telecom, che rimane pur sempre (ancora) un’azienda
privata.
Intendiamoci, non per mettere sotto accusa qualcuno – ci mancherebbe – ma solo
per porre una sola domanda. Perché l’indagine sulle intercettazioni telefoniche
illegali di Telecom è uscita solo ora, dopo due anni e mezzo, proprio nel bel
mezzo della bufera industriale, finanziaria e politica col rischio che sia essa,
e non siano invece come sarebbe logico le carenze aziendali, a decidere del
destino della più grande industria italiana?
Temo, però, che a raccontare come siano andate le cose – e a chiedere perché mai
gli italiani debbano vivere in un Paese in cui pare che a decidere le scalate
alle banche e il futuro delle aziende non sia il mercato, ma siano le Procure –
saranno un paio di giornalisti. Condannati a scrivere su giornali di nicchia,
quelli letti solo dalla nomenklatura, che, peraltro, queste stesse cose le sa
benissimo, anzi ci sguazza dentro con i suoi giornali, e non fa niente affinché
non succedano. E tutti, da quel momento, vivranno felici e contenti. Fino alla
prossima puntata. Quando qualcosa cambierà nuovamente – sempre con lo stesso
schema-modello – affinché non cambi nulla.
Fonte - Corriere
del Ticino
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